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Posts Tagged ‘Cota’

Bruciano i bambini rom. Non è fumo di camino, ma razzismo, e le parole del lutto diventano miseria e complicità morale. Gli storici domani documenteranno ciò che oggi fingiamo d’ignorare. Nei libri il capitolo s’aprirà col titolo prevedibile: L’Italia di nuovo razzista. Altro esito politico non poteva avere la serie di menzogne che i moderati chiamano revisionismo storico e non è una polemica tra studiosi, ma un crimine compiuto in nome del profitto.

C’è da aspettarselo. Molti storceranno il naso, altri si fingeranno scandalizzati, qualcuno protesterà, ma diciamolo: questi morti hanno mandanti morali. Li hanno uccisi anzitutto i tanti storici che hanno taciuto o disertato, se gli italiani sono ancora “brava gente”. Tanti storici e, di conseguenza, la storia male appresa e peggio insegnata per decenni nelle scuole e nelle università della repubblica. E qui sì, qui, ben più che in matematica e scienze, il sistema formativo ha fatto i suoi danni, perché, occorrerà pur dirselo, là si sono formati Gelmini, Carfagna, Brambilla, Maroni e compagnia cantante.
Molti protesteranno scandalizzati, ma è così. Li ha uccisi una consapevole manomissione della verità storica a fini di eversione politica. Li hanno uccisi – e altri ne uccideranno – le “verità” ingigantite o mai provate, versate come ondate di fango sulla Resistenza, il “sangue dei vinti” che non fu nemmeno goccia nell’oceano dimenticato di quello versato dai 60.000 milioni di morti causati dagli aggressori nazifascisti. Li hanno uccisi i giorni della memoria falsificata e la volontà politica di ingigantire mediaticamente la tragedia delle foibe per rivalutare il vecchio nazionalismo fascista, col suo corteo impunito di leggi sulla razza e collaborazione con le SS. Il mandante morale è il neofascismo dilagante, con le sue guerre tra poveri, le sue nuove camicie e le sue rinnovate leggi razziali.

Il fanatismo etnico, come quello religioso, è stato e sarà sempre l’arma segreta dello sfruttamento. “Divide et impera“. E’ antica scienza politica, la stessa che oggi produce Rosarno, i rastrellamenti romani, gli affondamenti mediterranei. Oggi come ieri, ha taciuto o fa poco la scuola annichilita, là dove dovrebbe levare gli scudi, rompere i patti concertativi dei sindacati, denunciare la regolamentazione dello sciopero e aprire uno scontro senza quartiere con un Ministero che s’è fatto e si fa paladino di feroci discriminazioni: il “tetto” del 30 % per gli immigrati, le graduatorie regionali per i docenti, la corsia privilegiata per gli studenti “indigeni” nell’accesso alle borse di studio. La scuola invece tace e si acconcia al tempo nuovo, dopo avere abbandonato al suo destino i precari. Una sola battaglia prende a cuore, quella sulla valutazione, sacrosanta quanto si vuole, ma ricca d’ombre corporative.

Bruciano i bambini rom, nella memoria corta di un Paese di “senzastoria“, in un’Italia tutta escort e Pil, Mibtel e veline, shopping e consumi, Un’Italia di nuovo razzista.
Sono morti che pesano sulla coscienza di tutti“, sento dire. E’ un ritornello. Lo ripetono in tanti e mi ribello. Ognuno si prenda quel che gli compete e smettiamola con questa notte indistinta, in cui le vacche sono solo scure. Non è così. Non è colpa di tutti e anche questo va detto.
Chi ce l’ha messi, chi è che ancora li difende, i Cota alle Regioni, i Borghezio in Europa, i Gasparri e i Quagliariello in Parlamento, i Bossi e i Larussa a governare? Chi l’ha portato Alemanno al governo della capitale? Chi è stato?
Non siamo stati tutti.

Con questa gente non ho nulla a che spartire. Ho protestato, ho scritto parole di fuoco, quando Veltroni ha chiesto l’espulsione di tutti i rom solo perché un rumeno aveva stuprato un’italiana. Non li votati io, questi campioni della democrazia che hanno fatto a gara con la destra nella caccia all’uomo, nelle scelte forcaiole, nelle politiche di discriminazione razziale. Non c’entro nulla con questa gente che, pur di governare, ha fatto causa comune col razzismo leghista.

Da tempo faccio parte per me stesso, e anche in questi mesi, mentre si faceva filosofia morale sulla violenza romana degli studenti, sulle pratiche della lotta e su tutti i distinguo che mettono in pace la coscienza, anche in questi mesi c’era chi stava con gli studenti. E ci sto ancora. Sto con le loro mille ragioni, con la loro rabbia, coi loro diritti, coi loro tentativi di saldare le lotte, con la loro sacrosanta voglia di ribellarsi. Perché non altro resta. Ribellarsi.

Lasciatemelo dire. No, davvero non c’entro nulla con questi poveri morti.

Uscito su “Fuoriregistro” l’8 febbraio 2011.  

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Le commemorazioni non guardano indietro, però – sembra fatale – diventano una sorta di “memoria a scadenza fissa”, il “gesso” che immobilizza fratture scomposte tra un mitico “passato” e un infelice “presente”. Per un giorno inni bandiere al vento e valori universali, poi il limbo d’un realismo rinunciatario, che è quasi sempre rassegnazione o, se si vuole, identità annacquata in cerca di consensi. D’accordo, anche questo è politica, ma dirlo onestamente non ci farà male: esistono due “memorie”. Una, ufficiale e condivisa, non lascia segni, non fa domande. E’ Narciso allo specchio: guarda se stessa e ignora il presente. L’altra, sempre più rara, indaga il passato per capire il presente. E’ la storia “maestra di vita”, che racconta la verità nuda e cruda, parla alle coscienze, ma non trova ascolto, non insegna più niente a nessuno e dà fastidio, perché ci mette davanti noi stessi, così come siamo davvero. E non è un bel vedere.
Me lo chiedono spesso: “Ci dici delle Quattro Giornate?”. Da me si attendono retorica e poesia: “o campana, campana, campana, / la mia favola breve è finita / la breve mia favola vana”. Io, invece, tiro fuori il presente. Il primo pensiero non è per ciò ch’è stato, m’importa quel che accade e, più che raccontare, faccio domande. Perché, mi chiedo, qui a Napoli, superato il liceo Vico, alla Cesarea, la vecchia sede del PCI ospita ancora un partito antifascista, ma non porta più il nome di Maddalena Cerasuolo? Sono avvenute cose che non so? Non è più decorata al valor militare, non è la donna che “trattò ” al Vico delle Trone coi tedeschi? Non fu lei che lottò come un veterano assieme ai partigiani di Materdei e della Stella, salvando dalla distruzione il Ponte della Sanità e consentendo agli Alleati di avanzare verso quel Nord nel quale oggi Bossi resuscita il razzismo?
Risposte non ne ho e quindi insisto. Perché non ricordiamo più ciò che a Longo sembrò decisivo: “dopo Napoli la parola d’ordine dell’insurrezione finale acquistò un senso e un valore e fu allora la direttiva di marcia per la parte più audace della Resistenza italiana“? Cos’è cambiato? Guastiamo la festa a Brunetta, che ci accusa d’essere un “cancro“? Ma che sanno Brunetta e Bossi dell’Italia, del Sud e dell’antifascismo? Qualcuno glielo spieghi, per favore, chi era Ezio Murolo che, a Poggioreale, con Tito, il fratello anarchico, organizzò e guidò gli insorti contro i nazisti, in una battaglia che, come molti esponenti di questa maggioranza, li avrebbe visti assenti o, peggio, dall’altra parte della barricata. “Ardito” nella Grande Guerra, dannunziano a Fiume, poi giornalista al “Mondo” di Giovanni Amendola, infine coinvolto “nei maneggi sovversivi” ai tempi della guerra di Spagna e spedito al confino, Ezio Murolo fu “guastatore paracadutista” dietro le linee naziste e si batté per liberare il Nord, la Padania di Bossi, dopo aver meritato qui a Napoli una medaglia d’oro. Non possiamo dirlo perché oggi i partigiani passano spesso per “terroristi”? Io lo racconto, checché ne pensino l’elettorato più o meno moderato a centro ed a sinistra e Cota a destra: Murolo contribuì a liberare il Nord. Erano i giorni in cui, a dar retta a Galli Della Loggia e gli storici della destra fascio-leghista, la “Patria” moriva. Quale Patria? Quella fascista, che un pugno di inqualificabili nostalgici prova a rivalutare? La patria razzista, resuscitata dalle leggi sui clandestini? Qualcuno glielo spieghi che, prima ancora di Rosselli e di Altiero Spinelli, prima di quel miracolo di passione politica che fu il Manifesto di Ventotene, Antonio Ottaviano, uno dei tanti combattenti delle Quattro Giornate, s’era già fatto processare dal Tribunale Speciale, per aver provato a dar vita a una federazione di Stati europei, “L’Europa Unita”, come baluardo contro il pericolo nazifascista. Ben altra Europa che quella di Bossi, Brunetta, Berlusconi e Marchionne, nella quale si negano i diritti dei lavoratori, torna il razzismo, contano solo le banche e i banchieri, si riduce a merce il sapere, si precarizzano i docenti e si attacca la scuola pubblica, di cui nessuno più ricorda il ruolo nella Resistenza. Se ne trova traccia in un prezioso e sconosciuto “numero unico” del “Comitato di Liberazione Nazionale”, che ricorda i nomi dei suoi martiri e militanti; gente di ogni parte del Paese, checché ne pensi la Lega: Quintino Vona, vice preside “in una Scuola Media di Milano, caduto sotto il piombo di sgherri della ‘Muti’ il pomeriggio del 7 settembre”; Salvatore Principato, siciliano di Piazza Armerino, che, massacrato a Piazzale Loreto con 14 compagni “dopo essere stato torturato nelle carceri fasciste” aveva saputo “incoraggiare, nel momento estremo, le povere vittime, allargando le braccia: coraggio, è questione di pochi istanti”. Bisognerebbe tornarci su, ricordarla, la scuola delle maestre napoletane Giovanna Annunziata e Anna Bonagura, “arrestate e denunziate per reato di istigazione e oltraggio alla persona di S. E. il capo dello Stato” perché i loro studenti “hanno strappato dai libri di testo una effige del Duce” e uno addirittura “la ridusse in due parti e la lanciò dal balcone“. Si capirebbe perché si vuole distruggere la scuola, sarebbe chiaro che essa è stata e può essere presidio della democrazia. Si capirebbe che forse non è un caso se i precari della scuola stiano dando oggi luogo a una lotta che sa di Resistenza. Scuola e politica, nel senso alto e nobile della parola, nel senso di pensiero critico e non di puro e semplice addestramento al lavoro dipendente o alle professioni. La scuola di Lina Merlin, che non fu solo la socialista delle “case chiuse”, la partigiana e la deputata alla Costituente, ma la giovanissima maestra antifascista che si lasciò licenziare per non giurare fedeltà al regime. Occorrerà che qualcuno lo dica al leghista Maroni e lo ricordi ai nostri studenti: quando gli “scienziati” fascisti scoprirono la tragica purezza “ariana” del nostro popolo, che è stato e sarà sempre un’inestricabile e meravigliosa fusione di geni e culture, studenti come Teresa Mattei rifiutarono di assistere alle tragicomiche lezioni sulla razza e furono espulsi da tutte le scuole d’Italia. E pazienza se anni dopo, ormai deputata e dirigente del PCI e dell’Unione Donne Democratiche, l’ex comandante di compagnia di una “Brigata Garibaldi”, entrò in rotta di collisione con Togliatti e conobbe l’onta di una nuova espulsione.
Il passato non cambia e non si cancella. Arfè non sbagliava. Per le forze politiche di radice antifascista, la Resistenza non è più un riferimento e la globalizzazione ha sconvolto rapporti e modi di produzione, sistemi di valori, prassi politica, ideologie, mentalità, costumi e rapporti sociali. Questa, tuttavia, è la storia, queste le profonde radici politiche delle Quattro Giornate, rivolta di popolo da cui ricevono linfa vitale la guerra di Liberazione e quella Costituzione che, non a caso, è nel mirino di un Parlamento di “nominati” e di un governo sostenuto da forze politiche che non hanno tradizione e cultura antifascista. Di questo si tratta. Non di altro. Di riaffermare e, se occorre, difendere i principi della democrazia. Costi quel che costi. Non solo Napoli, ancora “milionaria“, come amaramente la definì Eduardo De Filippo, ma l’intero Paese, tornato povero, privato della cultura, della scuola e del lavoro, ridotto a terra di razzismo e malaffare, di pennivendoli, guitti e velinari, l’intero Paese ha bisogno di ricordare. Senza memoria non si ricomincia.

Articolo uscito, con qualche ritaglio, sull’edizione napoletana di “Repubblica” il 28 settembre 2010 e, nella sua  versione originale, Su “Fuoriregistro

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In una logica di mercato e profitto, Marchionne ha perfettamente ragione. Fa il suo mestiere: garantisce l’azienda e non gl’importa nulla se, coi soldi nostri, s’è tenuto a galla quando stava affondando. E storia antica: dallo Stato, la Fiat prende e non paga interessi.
Vent’anni fa, per difendere i margini di profitto degli azionisti d’una “grande azienda“, il cosiddetto “top manager” avrebbe fatto di Mirafiori un punto di forza della progettazione, del lavoro sui prototipi e sul loro sviluppo e si sarebbe affrettato a “delocalizzare” al Sud, nelle colonie meridionali. Uno Stato pronto a rimettere in sesto l’azienda coi soldi della collettività gli avrebbe assicurato elogi e quattrini.
Vent’anni fa il Sud era la Serbia di Callieri, Romiti e compagnia cantante e al sindacato giungevano le sollecitazioni che oggi ripete ineffabile Sacconi, recitando da guitto l’antico copione: “Occorrono relazioni sindacali cooperative. Il compito della Cgil, se vuole davvero rappresentare i lavoratori è quello di favorire la produzione.
Vent’anni fa, di proprietà e di furto, dei misteri dell’accumulazione primaria, dei fiumi di sangue versato versati dalla povera gente in due guerre mondiali per soddisfare i bisogni del padronato e la “baracca Agnelli” si smise di parlare. E oggi, se qualcuno s’azzarda a far cenno ai costi umani e sociali della ristrutturazione, la risposta è una e arrogante: “il sacrificio è quando ci metto di tasca mia!
Come e perché poche tasche siano così piene da poter fare “sacrifici” e tantissime così vuote, che il solo sacrificio possibile sia la vita da mandare al macello, non è più tema di discussione.

E’ accaduto tutto negli stessi anni. Le bombe del “terrorismo borghese“, di cui oggi qualcosa si comincia a capire, i giudici “pericolosi” – Falcone, Borsellino, gli antenati delle “toghe rosse” – fatti a pezzi uno dietro l’altro da “pezzi di Stato deviati“, la Caporetto sindacale passata alla storia col nome di “concertazione” e, dulcis in fundo, il governo D’Alema e le sue “bombe pacifiste” sulla Serbia ridotta a colonia.
Se si mettono insieme i fatti correttamente, questa è la storia e occorre dirlo: quando è servito, la “sinistra di governo” ha saputo far bene il gran lavoro sporco.

Senza tutto questo, Marchionne non sarebbe mai nato, la Lega di Bossi sarebbe ancora quel che era – un fenomeno da baraccone – e Cota e Chiamparino , d’accordo infine su un’idea razzista della politica , non avrebbero messo le tende in una Torino che difenderà “in tutti i modi il diritto dei torinesi a vedere rispettati gli impegni della Fiat sul futuro della città“, perché, si sa, “Mirafiori non è Pomigliano“. In altre parole: se ne avete bisogno, colpite pure a Sud, ma lasciateci in pace.
Senza tutto questo, nessuno si sarebbe azzardato a chiedere al sindacato di “cambiare cultura“, perché la Crysler si sta salvando affamando il lavoratori. Tutto questo però è accaduto e non c’è da stupirsi: la colonia serba bacia le mani al padrone che l’ha resa schiava, a Krakujevac dei cialtroni chiamati “management” esultano perché hanno dimostrato le loro miserabili capacità: gli operai affamati accettano ogni condizione imposta dal partner italiano e chi si azzarda a ricordare che un pugno di sedicenti imprenditori e finanzieri ha precipitato il pianeta in una crisi che li sta arricchendo a speso delle masse è un “vetero-comunsta attestato su posizioni ideologiche“.

C’è chi continua a sostenere che questa infinita vergogna si chiama globalizzazione e finge di non saperlo: è solo sfruttamento. E’ vero, la lezione è antica. E, tuttavia, nessuno la vuole imparare: chi semina vento, raccoglie tempesta.

Uscito su “Fuoriregistro” il 24 luglio 2010.

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Sono anni che Bossi prende soldi a palate per governare l’Italia che intende affondare. A Roma fa il ministro della repubblica, a Pontida, il “padre della patria” d’una barzelletta che chiama Padania e smania, minaccia sfracelli e promette macelli. Come la gru di Chichibbio sta in equilibrio precario: nessuno sa se ha due zampe o una sola. In quanto alla testa è piuttosto modesta. A Pontida protesta ma a Roma è ortodosso, si veste da fesso e domanda perdono se la spara più grossa. Ce l’ha duro a Milano e s’ammoscia per lo scirocco romano. A Pontida è guerriero feroce, A Roma si tace, a Bergamo pare Brighella, sui colli fatali è un gran Pulcinella, a Strasburgo domanda insistente un brevetto per l’inesistente. E’ un delirio che prende i padani, la repubblica dei ciarlatani a spese dei contribuenti italiani. Ogni giorno fa guerra il carroccio, ma in pace, da vero fantoccio, si tace rapace quando mette i piedi e le mani nei salotti e gli affari romani.

In un Paese normale Bossi e compagni sarebbero il paranormale, un fenomeno da baraccone, la rissa d’un ubriacone. Qui da noi governano l’Italia per conto della Padania, con un grande programma nazionale: la graduatoria regionale dei docenti, non importa se deficienti, bambini neri affamati nella scuola privatizzata, un ghetto per alunni stranieri in una scuola specializzata in negrieri, sputi alla bandiera, campi di concentramento e l’obbligo d’insegnamento della lingua di Cassano Magnago, Verona, Pastrengo e Legnago. Il programma è centrato sui discorsi politici di Bossi, sul federalismo targato Cota, sulla musica e il folclore di Zaia governatore, sulla politica delle integrazioni pensata dal geniale Maroni.

Ameana puella defututa
Tota milia me decem poposcit,
[…] Propinqui, quibus est puella curae,
amicos medicosque convocate:
non est sana puella…

Amici e voi che avete la ragazza in cura, i medici convocate! E’ malata, si vede, non è sana, è impazzita davvero la fanciulla.

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Mentre il sogno dell’Europa dei popoli immaginata da Altiero Spinelli, degenera in un incubo fatto di banche, banchieri, borse e capitali e c’è da chiedersi perché un greco dovrebbe sentirsi cittadino europeo, una lucidissima legge di Darwin può aiutarci a capire di dove nasca la barbarie che ci cresce in casa.
Nella lotta per l’esistenza, un elemento comune associa specie tra loro lontane, sicché l’erba è vitale per la locusta quanto per i cavalli. Nella ferocia dello scontro, tuttavia, nulla è più raggelante d’una dipendenza che riguardi specie appartenenti allo stesso genere. Tra diverse qualità di frumento sapientemente affidate ai solchi d’uno stesso terreno, una sola produrrà col passare degli anni le sue pannocchie. Il clima, la fecondità, la capacità di adattamento garantiranno la procreazione a una sola qualità di frumento e condanneranno le altre all’estinzione. A mettere assieme varietà diverse di parassiti della stessa specie, come le sanguisughe officinali, ne nasce una lotta disperata per la vita e la morte e una sola alla fine risulta padrona del campo. Le altre sono uccise e talvolta la separazione è il solo elemento di salvezza. Il buon contadino sa che un gruppo misto di varietà anche profondamente affini, come piselli di ogni colore, richiede raccolti separati e semi mescolati in proporzioni equlibrate.
Nella lotta per l’esistenza, più vicine sono le specie, più comune è il genere di provenienza, più si somigliano le abitudini e la struttura, più aspra è la lotta. Benché vi assuma i connotati più barbari e più lontani dalle leggi della selezione naturale, la lotta per l’esistenza tra le specie umane non è causata da profonde differenze di genere, di etnie o di modelli culturali, come ci si vuol far credere da un po’, tornando a concezioni irrazionalistiche delle scienze naturali e di quelle umane. Diversamente da ogni altra specie, l’uomo non si contenta di possedere cibo e spazio vitale, ma tende a sottrarre l’uno e l’altro a ogni varietà della sua specie. Unendosi, per sancire separazioni decise dalla prepotenza e garantirsi la sopravvivenza, gli uomini costituiscono gruppi minoritari che si impadroniscono delle risorse e dei mezzi di produzione e formano così classi privilegiate che tendono a instaurare rapporti parassitari nei confronti di vasti gruppi “parassitati“.
Fin quando è possibile, le classi dominanti impongono il proprio dominio ed esercitano una vera e propria “selezione della specie“, attraverso il controllo del potere politico e l’espressione di una cultura dominante che richiede il possesso pieno delle istituzioni educative e la soppressione della libertà intellettuale. Se le classi “parassitate” rivendicano diritti, quelle “parassite” che detengono il potere politico scatenano un violentissimo apparato repressivo, legittimato dalla legalizzazione della “legge del più forte“. La teoria del libero mercato, l’espressione più compiuta del meccanismo parassitario, garantisce il dominio di classe e sostituisce alla selezione naturale “sana” della lotta per la sopravvivenza la ferocia ingiustificata del controllo dei processi economici. Il licenziamento e la disoccupazione sono gli strumenti “pacifici” con cui i ceti parassiti si impongono a quelli parassitati non per distruggerli, ché da soli non potrebbero vivere, ma per ridurli a “riserva alimentare”, come una vera e propria tenia sociale. Quando questi strumenti non bastano, ci sono le forze armate e la cancellazione delle libertà, prima tra tutte quella d’insegnamento,
Dietro la cosiddetta “riforma Gelmini“, col suo naturale codiclllo di guerra tra poveri e intolleranza razziale, col suo “tetto” di alunni stranieri e miracolose “graduatorie regionali“, dietro i bambini messi a pane e acqua e il separatismo travestito da federalismo propugnato da Cota, Bricolo e Berlusconi, non c’è altro che questo: la volontà d’imporre un rinnovato dominio di classe. Per noi lavoratori intellettuali, valgono ancora, anzi, hanno oggi più valore di ieri, le parole di Albert Einstein: “Facciamo dunque tutti appello alle nostre forze. Non stanchiamoci di restare costantemente in guardia, affinché in seguito non si possa dire della cerchia degli intellettuali di questo paese: hanno ceduto pavidamente e senza lottare l’eredità che avevano ricevuto dai loro predecessori, un’eredità di cui non si sono rivelati degni“.
Teniamole presenti, queste parole, e ricordiamo: se è vero che il parassita ha un bisogno vitale del “parassitato“, non è vero il contrario. Forse non accadrà, forse c’è spazio ancora per la mediazione di quel “saggio contadino” che chiamiamo politica, forse Lombroso non ha già sostituito Darwin negli strumenti della disinformazione di massa e non arriveremo al “muro contro muro” come il dramma greco e la dilagante barbarie leghista fanno temere. Dovesse accadere, è bene pensarci per tempo, perché Lenin ha ragione, “senza teoria rivoluzionaria non esiste movimento rivoluzionario“, ma i lavoratori della formazione sanno che l’insegnamento nella scuola statale è, per sua natura, rivoluzionario e lo sa benissimo la Gelmini che, non a caso, contro la scuola scatena la pesantissima offensiva del governo. Il lavoro della scuola non produce, come vorrebbero Gelmini e soci, una “standardizzazione” della volontà collettiva, non è riduzione dell’autonomia critica delle masse alle leggi del pensiero unico. La scuola, per usare le parole con cui Che Guevara defini la rivoluzione, “è esattamente tutto il contrario, è liberatrice della capacità individuale dell’uomo“.
In quanto tale, scuola è rivoluzione ed è naturale che la reazione ormai ci spari addosso. Il fatto è che non ci sono fucili che ammazzano le idee.

Uscito su “Fuoriregistro” il 6 maggio 2010

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Nelle banche, sulle quali marciano – per ora, si direbbe, disarmate – le bande in divisa verde guidate da Bossi e Cota, vige la regola aurea del “contributo spese” che – ignobile scialacquo! – consente all’impiegato di trovar casa senza svenarsi per tener dietro al principio dell’efficienza. Mai nessuno, per ora, in nome della “qualità“, s’è mai sognato di lasciare a casa chi abbia esperienza e “numeri” professionali in omaggio alla colta dottrina leghista che, detta così, alla buona, nell’Europa senza confini, si riduce paradossalmente al classico e un po’ demodémogli e buoi dei paesi tuoi“.
Principessa del merito“, l’efficientista Gelmini, avvocato padano targato Calabria, per ottenere la “qualità” nelle scuole della Repubblica, ha invertito il principio: a decidere del merito, in tema di formazione, non è più il valore del lavoratore ma, incredibile a dirsi, la sua residenza! Lo scopo è chiaro. Poiché è dal Sud che si sale a Nord in cerca di lavoro, a partire dal 2011, un mediocre indigeno leghista” avrà precedenza assoluta sul migliore dei docenti delle colonie meridionali, col risultato che la celtica Padania realizza l’evangelico principio per cui “gli ultimi saranno i primi“. E, vivaddio, beati i poveri di spirito.

Se l’opposizione continua a dormire non c’è più a che santo votarsi e il “miracolo”, se così può chiamarsi, può venire solo dal campo del “nemico”. Può darsi che sia vero. Il “comunista” Fini, cha ha mille colpe e infinite resposabilità, non fa una battaglia puramente personale e, in ogni caso, agli ex camerati glielo spiega da tempo con la chiarezza dell’abbeccedario: a tutto c’è un limite. Il paragone sembrerà azzardato, ma ha un suo fondamento. Passato nel campo liberale, l’ex delfino di Giorgio Almirante ragiona come Giolitti faceva con Crispi, Pelluox e Rudinì: se la politica non sa far altro che scatenare guerre tra i poveri e utilizzare la forza dello Stato a difesa esclusiva dei privilegi d’una minoranza contro i diritti della stragrande maggioranza dei lavoratori, non si va lontano. Ed è facile capirlo, sembra dire: dietro la crisi economica c’è lo spettro di quella istituzionale e, peggio ancora, di uno scontro sociale dalle dimensioni e dagli esiti imprevedibili. Sia come sia, checché pensi Fini, la politica muore di tatticismo se un miliardario che governa e può comprare tutto facilmente, trova immediatamente chi si vende; la politica muore se milioni di cittadini si riducono a stupidi serpentelli intorpiditi da un pifferaio e il paese naviga nella burrasca, macchine avanti tutta, la prua verso gli scogli.

La scuola che la Gelmini costruisce è quella di Adro: abbandona al suo destino i bambini poveri di ogni sud, marocchini e sudici terroni, e chiarisce il principio etico cui s’ispira l’avvocato più o meno calabrese, eseguendo ordini di cui non ha i mezzi per cogliere l’obiettivo: “divide et impera“. E’ in nome di questo ethos che si tagliano al Sud il doppio dei posti di lavoro del nord e del centro messi assieme e, con la crescente miseria prodotta nel Mezzogiorno, si pensa di affrontare la crisi del “miracolo padano“. scatenando un’ennesima guerra tra i poveri. Ma c’è di più. C’è un assaggio di “federalismo” e si capisce bene ciò che accade: da minaccia armata, il secessionismo diventa rapina legalizzata.
Chi ha memoria ricorda: barbari di questa pasta ci condussero al 25 aprile.

Da “Fuoriregistro“, 24 aprile 2010

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Non lo dice nessuno, ma si sa: Cota è notoriamente abortista. Non si tratta di sfatare un mito e non c’entra nemmeno il Garibaldi frà massone, pirata e faccendiere dei sussidiari sfascisti su cui si forma la gioventù leghista. In discussione, se ma, c’è il modello “culturale” – si fa per dire – che Cota, Maroni e Goisis rappresentano al meglio. Lo ha ripetuto a lettere chiare persino Napolitano, che di solito, ama collocarsi “fuori della mischia”: la criminalità organizzata “meridionale” fa affari d’oro con le complici regioni del Nord. La “questione settentrionale” del Nord leghista, perciò, non passa certamente, come piacerebbe a Cota, l’ineffabile ex secessionista, per la “pillola abortiva”, ma un problema di aborto in casa leghista esiste certamente e riguarda la scelta di interrompere lo sviluppo di un popolo civile. In questo senso, non c’è pillola più abortiva della legge elettorale di Calderoli e, da Pontida a Lampedusa, la tragedia che incombe non sono gli immigrati che ci “islamizzano“, ma le leggi sull’immigrazione che ci imbarbariscono, la scuola e la ricerca sfasciate che sopprimono la ragione critica e fanno dell’egoismo individualista italiota la base “culturale” del fanatismo scatenato dalla Lega padana.
Saviano, che il Sillabo leghista metterebbe volentieri all’indice assieme al Corano, l’ha dimostrato senza possibilità di dubbio: il sistema economico “legale”, che il Carroccio si vanta di rappresentare, non sta a galla senza quello illegale. E qui la geografia politica non c’entra; non ci sono un Sud “mafioso” e un Nord “virtuoso“. Esistono cittadini onesti – e sono italiani – e ci sono delinquenti che non hanno patria e cittadinanza, ma riferimenti politici in ogni parte del Paese. Dal mondo dell’alta moda alle sempre più malconce fabbriche del nord-est, sono in tanti a smaltire, in accordo con le ecomafie, rifiuti a basso costo in barba alle norme sull’inquinamento. In quanto alla buffonata del sedicente “federalismo fiscale”, nessuno si fa illusioni: Cota non ha mai letto gli studi di Nitti sul bilancio dello Stato. Gli farebbe bene, ma a lui basta Bossi. Dopo cinquant’anni di cieca “piemontesizzazione”, dopo vent’anni di fascismo nato e prosperato soprattutto in terre padane, dopo il craxismo che, spiace dirlo, ebbe la sua culla nella patria di Turati, “marca padana” hanno anche berlusconismo e leghismo e, non bastasse, lo spostamento di risorse dal Sud al Nord è stato tale che solo una banda di incoscienti si lascerebbe tentare dall’impresa. Si dice, mentendo, che il Sud pesi sul Nord. Basterebbe saper contare fino a dieci e usare almeno un pallottoliere per capire che non è così. Il reddito del Nord – il dato è del 2003 e oggi sarebbe ulteriormente sbilanciato – ammonta al 53 % del totale nazionale mentre al Sud è solo il 26.3 %, e non è tutto. Il 54.3 % del reddito da lavoro dipendente – vale a dire salari, stipendi, pensioni, ammortizzatori sociali e compagnia cantante – un settore in cui l’evasione è pari a zero in tutto il Paese – si colloca al Nord, mentre il sud non giunge al 25 %. La metà. Ciò significa, ad esempio, che per ogni pensione pagata al Sud, la previdenza ne paga due al Nord. In quanto ai redditi da capitale, le percentuali sono del 57,3 % al Nord e del 21,4 % al Sud. Anche qui, il doppio o la metà, a secondo dei punti di vista. Un dato per certi versi sconvolgente. Se fosse vero, ma è molto improbabile, che nel Piemonte di Cota l’evasione Irap supera di poco il 30,53 %, appare chiaro: anche se l’evasione calabrese fosse totale, il Piemonte di Cota sottrarrebbe molto più che la Calabria. Rimane il sommerso, la terra senza nome in cui miseria del Sud e ricchezza del Nord si incontrano fatalmente sul terreno degli affari sporchi. Bene, solo tre anni fa i dati relativi al lavoro nero o irregolare vedevano al primo posto assoluto con l’88,1 % la provincia di Bolzano. A livello regionale, il Piemonte di Cota col 64,4 % era di poco più virtuoso della Calabria, ma registrava dati negativi rispetto a tutte le altre aree del Mezzogiorno.
In questo quadro, non ci sono dubbi, Cota, Maroni e Calderoli sostengono il più pericoloso e immorale degli aborti: quello che nega la vita alla solidarietà. Mettano in campo, se li hanno, i minacciati 400.000 fucili, gli sfascisti in verde, ma ricordino: giocando coi numeri e le armi, Benito Mussolini mise in campo otto milioni di baionette. Non salvarono il Paese dalla disgregazione e non gli evitarono Piazzale Loreto.

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Perbenino nel vestito a la page, elegante addirittura, se il verde nel taschino non guastasse la festa, il padano Cota “studia a memoria” e si spegne, ripetendo acriticamente concetti che hanno radici nella notte dei tempi, in un italiano che ancora attende un buon “risciacquo in Arno Il mondo di Cota, fiumi compresi, parte da Pian del Re e si ferma alla foce del Po. L’Arno è in terre sconosciute. Il razzismo è molto più vecchio di Cota e, per non andar lontano, basta ricordare il recente fascismo: Giacomo Acerbo, Giuseppe Bottai, Guido Buffarini Guidi, Galeazzo Ciano, Julius Evola, Giovanni Gentile, Paolo Orano, Giovanni Preziosi, Nicola Pende e Benito Mussolini. Sarebbero tutti d’accordo con l’avvocato Gelmini che, in un nota inviata alle scuole, ha comandato: per il prossimo anno scolastico le prime classi di elementari, medie e superiori avranno un tetto del 30% per gli alunni stranieri, che potrà essere innalzato o ridotto a seconda di come i ragazzi parlano già l’italiano. Cota non sa che un bambino impara in un mese quello che un leghista adulto non apprenderà mai più e non ha dubbi: “Il Ministro Gelmini ha sostanzialmente tradotto in pratica una delle due disposizioni contenute nella nostra mozione approvata alla Camera“. E quando dice nostra si riferisce alla “Lega Nord“, il partito dei filosofi del “ce l’ho duro“.
Tutto si tiene, quindi, e il principio da cui parte la Gelmini si integra alla perfezione con la crociata del cattolicissimo Roberto Maroni per l’approvazione del “reato di clandestinità” e la reclusione coatta degli immigrati in campo di concentramento. ”Se in una classe c’è una percentuale troppo alta di stranieri – spiega Cota – l’integrazione non si può realizzare, si crea il ghetto, con la conseguenza che i nostri alunni non riescono ad apprendere e così anche gli alunni stranieri, ne sanno qualcosa gli studenti e le famiglie di alcune città dove la situazione nelle classi si è fatta difficilissima”. A sentir Cota, Gelmini e Maroni, quindi, la disperazione della nostra scuola non nasce dai tagli dissennati del governo, ma dai figli degli immigrati seduti a scuola con quelli italiani. Un ghetto, perciò, non è più un luogo in cui una maggioranza barbara e incivile chiude le minoranze, ma, con ardita innovazione leghista, diventa precisamente il contrario: “dicesi ghetto la classe d’una scuola in cui una minoranza straniera convive civilmente con una maggioranza indigena“.
La “scuola italiana – afferma l’avvocato Gelmini – deve mantenere con orgoglio le proprie tradizioni storiche e insegnare la cultura del nostro Paese” e non sono concetti originali. In Germania, anni fa, c’è stato chi ha chiesto “uno Stato che riconosca sua mansione suprema la conservazione […] delle caratteristiche migliori, rimaste incontaminate, della nostra nazione” e ha sostenuto che “non si impara la storia solo per conoscere gli avvenimenti, ma per trarne insegnamento per il futuro e la conservazione del popolo” [1]. Si chiamava Adolfo Hitler e, per salvaguardare la cultura e la morale tedesca, chiuse nei suoi campi di concentramento testimoni di Geova, Rom, omosessuali e internazionalisti. Se a questo siamo, occorre far presto. I fatti di Rosarno sono un campanello d’allarme: le razze inferiori, potrebbero ribellarsi.

1] Adolf Hitler, Mein Kampf, La Lucciola Editrice, Albairate, pp. 24 e 45.

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Non mi dilungo sul tema dell’egemonia culturale. A che servirebbe? Mi limito ad osservare che l’eccesso di attenzione dedicata alla ditta “Noemi e associate” e, per legge di contrappasso, alla spazzatura messa in circolo quotidianamente dal pennivendolo di turno, fa il gioco dei “padroni del vapore”, quale che ne sia la parte politica, se di politica a questo punto si può ancora parlare. Dopo il “vuoto a perdere” del sedicente federalismo fiscale, dopo gli esempi di pochezza politica, indigenza culturale e miseria morale, confezionati, impacchettati e messi in vendita sotto l’etichetta di quel lucido delirio chiamato “emergenza sicurezza”, la “riscoperta” delle “gabbie salariali”, non è una stravagante “trovata” della Lega Nord, alla quale quel genio di Sacconi copre prontamente le spalle con la formula del salario differenziato. Quella che ognuno di noi che sa “leggere, scrivere e far di conto” si trova ormai di fronte va ben oltre la volontà e la consapevolezza che appartengono anche a chi è fazioso, egoista e ferocemente razzista. Dietro la cosiddetta “Questione settentrionale“, così come la pongono Cota, Bricolo e Calderoli, c’è, deformato, il problema del “dualismo“: è l’alfabeto della vicenda storica e della vita economica e politica del Paese. Il tono del dibattito, la debolezza dell’analisi, l’insufficienza delle soluzioni, persino le timide e parziali risposte che provengono dal campo sedicente “democratico” dimostrano ampiamente che di questo si tratta: alfabeto. Manca, s’è perso, se n’è andato via assieme alla memoria storica e ci ha ridotti, come temeva Arfè, a un popolo di “senzastoria”. Il testo che qui ripropongo, con sincera umiltà, uscì sulla rivista “Prospettiva Settanta”, diretta da uno studioso di grande valore come Giuseppe Galasso, alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, è perciò certamente “datato” – e non ha altra pretesa se non quella di tornare al tema centrale e irrisolto della nostra vita nazionale: la “questione meridionale”. Per Cota e compagni potrebbe essere un primo strumento per porre rimedio a quello che appare un evidente e pericoloso “analfabetismo di ritorno”.

Il «risorgimento» industriale di Napoli a inizio secolo

Un corretto inserimento nella storia dello sviluppo economico italiano della legge 8 luglio 1904 per il ‘risorgimento’ industriale di Napoli non può prescindere dalla definizione degli obiettivi politici complessivi in cui la scelta industriale per Napoli certamente rientrò (1).
In tal senso, una ricerca a carattere locale sarebbe fine a se stessa. Se ad inizio secolo, infatti, Napoli non era più la capitale di uno Stato, era certa­mente capitale della più ampia area d’arretratezza economica del Regno d’Italia. È evidente, quindi, che solo una corretta individuazione delle linee di tendenza e delle scelte di fondo che caratterizzarono lo sviluppo economico italiano dai primi anni dell’unità all’età di Giolitti può servire a comprendere la funzione reale che, in quello sviluppo, era chiamato ad assumere il tardivo processo d’industrializzazione avviato nel Napoletano (2).
Questi brevi appunti, utili, all’eventuale elaborazione di un discorso più articolato sulla storia dell’industria in Campania, intendono solo mettere a fuoco alcuni aspetti della questione. In tal senso appare necessario accennare, anzitutto, a quella linea di tendenza della ricerca storiografica, che addebita lo sviluppo dualistico dell’economia italiana alla mancata attuazione nel Sud del Paese di grandi opere di bonifica, alla sopravvivenza del latifondo e del sistema feudale, ad una borghesia riluttante ad incrementare gli investimenti e a modificare i contratti agrari, proclive ad attività industriali dai caratteri meramente speculativi. In altri termini, alla condizione di debolezza e di rista­gno in cui versava l’economia meridionale nel 1860.
Su questa linea si muovono quegli studiosi che non assumono l’entità del divario economico tra le regioni italiane nel 1861 come parametro attraverso cui valutare la complessiva crescita economica del Regno d’Italia, ma subordinano a quella disparità iniziale l’accentuarsi sempre più marcato del dualismo e, quindi, l’esistenza delle cosiddette ‘due Italie’.
Gino Luzzatto, ad esempio, uno dei più autorevoli esponenti di questo indi­rizzo storiografico, rilevando come, in un Paese che nel 1861 versava in condi­zioni di arretratezza secolare (3), già negli anni successivi alla crisi del 1873-74 fosse nata un’industria concentrata quasi esclusivamente nelle regioni nord­occidentali, prima è indotto a sopravvalutare i progressi compiuti poco prima dell’unità da alcune regioni, poi, per giustificare gli errori della Destra Storica, ricorda la necessità di « riparare all’inerzia dei passati governi» (4).
Seguendo questa linea, egli giunge così a giustificare una politica che, dal 1861 al 1875, aveva sì portato la ferrovia da Bologna ad Otranto e la rete ferroviaria del Sud dal 7,25 % al 32 % del totale nazionale, ma aveva anche espropriato in soli sei anni, dal 1873 al 1878, ben 29.554 agricoltori meridionali (1’88 % degli espropriati del Regno) per l’irrisorio debito complessivo d’imposte di £. 2.948.110, pari ad una media di £. 99,75 per ogni espropriato (5).
Persino la ripartizione territoriale della spesa sostenuta dal 1870 al 1876 per l’acquisto di macchine agricole (77% al nord, 12 % al centro 11 % al sud) sembra giustificata al Luzzatto

«dalla mancanza, nell’area centro meridionale, di vaste pianure, dalla maggior dif­fusione delle colture arboree, distribuite spesso a breve distanza dei campi seminativi, !’impiego di aratri, specialmente adatti a scavi profondi », insomma da motivi di ordine tecnico per cui «l’impiego di aratri […] di seminatrici e di falciatrici risulta – il più delle volte – inopportuno» (6).

Soffermarsi sulle contraddizioni di uno studio per tanti aspetti fecondo di positive indicazioni sarebbe, però, solo sterile esercizio polemico. Più utile mi pare notare come ognuna di esse, in fondo, sia determinata dal fatto che altro è rilevare come, nel 1860, il Sud versasse in condizioni di maggiore arre­tratezza economica nei confronti del Nord, altro che la disparità fosse tale che al Nord esistessero già le premesse dello sviluppo che vi si è realizzato, mentre il Sud fosse condannato sin da allora al sottosviluppo.
Ciò è difficile da accettare, perché equivale a dire che la maniera in cui avvenne l’unificazione nazionale e la politica dei governi postunitari non abbiano influito sulla vicenda economica dell’Italia o, peggio ancora, come afferma il Morandi, che lo sconcerto economico e lo squilibrio erano fatali (7).
Questo significa, in pratica, che ad un’Italia politicamente unita dovevano, per forza di cose, corrispondere ‘due Italie’ economicamente separate dalla diversità del loro sviluppo.
In verità, io non credo alla fatalità della Storia. Mi pare inoltre che, pur giungendo a spiegazioni diverse del dualismo, gli studiosi che rilevino dispa­rità tra le strutture economiche del Nord e del Sud, esprimano tutti serie per­plessità sulle prospettive complessive di sviluppo dell’Italia del 1861 (8).
Morandi stesso, del resto, scrive che il dominio austriaco sulla Lombardia era stato durissimo e che il Piemonte e la Liguria avevano languito sotto i Savoia. Insomma che l’Italia era fuori della partita che metteva in gara i paesi del continente

«nel dare impulso all’industria come fattore principale di innovazione del vecchio sistema della produzione e degli scambi» (9).

Escludendo un raffronto tra l’entità della produzione e del patrimonio indu­striale, egli afferma che un altro distacco

«che si accentuerà tanto più rapidamente in pochi decenni, è invece già segnato molto nettamente nel processo capitalistico che ha avuto l’avvio nel Nord e che va incatenando cospicue masse della popolazione rurale. Il mercante imprenditore è ormai sulla soglia di trasformarsi in industriale» (10).

Morandi individua così una figura sociale che al Sud era lontana dal configurarsi e che fece sentire il suo peso nello sviluppo successivo del Paese; una figura che non poteva, tuttavia, avere da sola la forza: di imprimere al Nord la spinta che condusse alla formazione di un’industria moderna e proiettò «la sua ombra cupa nella involuzione parallela del Sud» (11).
Resta infatti da chiarire come il mercante-imprenditore abbia potuto tra­sformarsi in capitalista e mutare in industriale un’economia. la cui base agri­cola era così prevalente pochi anni prima, da riflettere i suoi caratteri anche su quel settore tessile, che solo pare al Morandi degno di menzione (12).
Come che stiano le cose, appare evidente che le contraddizioni sin qui rile­vate derivano da analisi diverse, ma tutte fondate su un comune, errato presup­posto. Intendo dire che, non solo è inesatto addebitare l’origine del duali­smo al divario esistente fra gli Stati italiani al momento dell’unità, ma addi­rittura che, avviata in tal senso, una ricerca si muova su un terreno imprati­cabile. La consistenza di materiali informativi sulle singole economie regionali, infatti, è eterogenea, offre dati disparati e scarse possibilità di raffronti tra lo stato dei vari settori industriali e le condizioni dell’agricoltura tra una zona e l’altra del Paese, ad una data più o meno precisa o in un arco di tempo ampio abbastanza per esser valutato (13).
È qui, nello iato tra l’inconsistenza dei dati a disposizione eterogenei e dif­ficili da compararsi, e l’entità dei problemi cui si vorrebbe dar risposta, che esiste probabilmente il difetto di analisi: nel vedere all’origine delle ‘due Italie’ quel dualismo preesistente all’unità, del quale non è poi possibile valutare con esattezza l’entità.
A me pare che il problema vada ribaltato e che non da un dualismo ‘in nuce’ occorra partire, ma da ciò che dopo l’unità fu fatto perché esso, anziché aumentare a dismisura, diminuisse.
Partire dall’assunto che l’economia italiana nel suo complesso, al momento dell’unità, offriva ben poche prospettive di sviluppo industriale, e poi argo­mentare sulla maggiore o minore arretratezza di singole realtà territorialmente limitate è, in sostanza, fuorviante, perché realtà tali da presentare compiuta­mente i caratteri di un’economia in grado di produrre un autonomo sviluppo di tipo industriale sono, in fin dei conti, escluse proprio dalla considerazione iniziale.
Inoltre, riferirsi ad esperienze e possibilità economiche realizzate in alcune regioni a metà Ottocento, significa introdurre nell’analisi una variabile dai caratteri indefiniti, già difficile da valutare in relazione a un ristretto ambito territoriale e in un quadro politico definito, impossibile da determinare in una realtà territoriale diversa e più ampia, in un quadro politico del tutto mutato e in fase di stabilizzazione, in una situazione assai carente di prospettive di sviluppo industriale.
Anche a voler condividere, infine, i giudizi positivi espressi sulla politica seguita nel Regno di Sardegna prima del 1860, va notato che la stessa politica produsse nel Regno d’Italia più guasti che sviluppo. Ma ciò non meraviglia: la politica degli Stati regionali mal s’adattava ad uno Stato più vasto e dalla realtà ben più complessa, qual era quello italiano.
Quando osserva che, dopo l’unità, i provvedimenti presi dal governo aggra­varono gli squilibri tra il Nord e il Sud (14), non ad un preesistente dualismo il Candeloro imputa il carattere territorialmente parziale dell’industrializzazione italiana, ma alla persistente crisi agricola del Sud (15). Sia stata o meno questa la causa prima della limitatezza territoriale della base industriale italiana e della sua incapacità di estendersi al Sud, egli scinde correttamente la realtà degli Stati regionali da quella dello Stato unitario e pone l’accento sulle scelte della classe governante italiana.
In questa ottica si può ritenere che la causa storica del dualismo sia nella maggior precocità della rottura col sistema feudale registratasi nel Nord del Paese (16). Storica, in quanto ereditata dallo Stato unitario, e, come tale, destinata a essere eliminata dal nuovo Regno.
Quando i primi governi italiani, con scelte conservatrici della struttura agraria e con il salvataggio del latifondo meridionale, impedirono che la rot­tura col sistema feudale avvenisse anche al Sud, quando le disparità tra Stati regionali furono ereditate da uno Stato unitario che non operò per equilibrare il quadro economico, allora quelle che erano solo diverse potenzialità si muta­rono in elementi portanti di ciò che definiamo ‘sviluppo dualistico’. Prima no. Prima le realtà regionali erano entità a sé, che nulla avevano a che dividere con la successiva realtà del Paese. Costituivano, questo sì, uno dei nodi che la classe dirigente italiana doveva sciogliere, ma non sono l’origine del problema centrale della nostra storia nazionale.
Non al malgoverno borbonico o alla politica degli Asburgo occorre, quindi, risalire, e nemmeno alla lungimiranza di Cavour (17), ma ai programmi economici dei primi governi italiani e alla concezione dello Stato che guidò i successori di Cavour. A quei Ministeri, insomma, che posero in sincronia la politica econo­mica con gli interessi di proprietari fondiari e ceti professionali emergenti, la politica estera con le ambizioni dei Savoia, cercando sostegno diplomatico in Inghilterra e Francia ed estendendo l’indirizzo liberista piemontese ai territori annessi.
Naturalmente il liberismo garantì alle aree più equilibrate e moderne nella suddivisione e conduzione della terra un primo accumulo di capitali, maggior occupazione e circolazione di manodopera, crescita e consolidamento di ceti sociali più attivi sul piano economico. Colpì duramente, invece, le regioni in cui latifondo, arretratezza nella gestione delle terre e immobilismo fondiario impedivano di profittare di nuove opportunità commerciali e richiedevano ben altri interventi legislativi (18).
Ristrutturare i catasti, intaccando il latifondo senza generare una polve­rizzazione della proprietà fondiaria, e ridistribuire gli oneri sociali, avrebbe potuto favorire un aumento di produttività agricola e colpire lo strapotere di baroni e, ‘galantuomini’. Sarebbe stato possibile avviare opere di bonifica, incoraggiare investimenti produttivi, favorire il credito agricolo. Nulla di ciò fu fatto.
Mentre l’artigiano era proletarizzato e il piccolo proprietario espropriato, l’agricoltura del Sud non tornava utile nemmeno all’attività manifatturiera e commerciale legata alla produzione rurale; di conseguenza,

«con il crollo improvviso delle vecchie bardature protezioniste si riducevano le potenzialità dell’industria napoletana» quando «al Nord numerosi erano gli stabili­menti sorti negli ultimi anni con grande dispendio di mezzi e di capitali» (19).

Che ciò sia poi accaduto perché a governare erano

«reduci dalle lotte per l’unità nazionale che, proprio per l’importanza” assegnata “alla causa dell’indipendenza politica, ritenevano pressoché concluso il loro compito» (20),

ha scarso rilievo, perché, più che mediocre statura politica, mi pare che quei ‘reduci’ dimostrarono la volontà egemonica della classe sociale minoritaria di cui furono espressione. Talune scelte economiche sembrano così poco chiare, da indurre il Luzzatto a scrivere che sarebbe assai utile

«spingere l’occhio molto più addentro in alcune vicende» per «scoprirne la vera natura, su cui gli atti ufficiali ci lasciano sovente all’oscuro» (21).

Come che sia, non v’è dubbio che, individuando due realtà distinte della società italiana al momento dell’unità, due logiche evolutive diverse e poco comunicative tra loro, e inserendole in un ‘fenomeno’ duali­stico verificabile in ogni Paese in cui un processo di sviluppo sia avviato in condizioni di partenza caratterizzate da separazione originaria e fortemente ineguali quanto a livello (22), si è compiuto l’errore di negare il nesso di causa ­effetto che è insito nel maggior sviluppo di una sezione in rapporto al minore sviluppo dell’altra.
In effetti, senza inserire nel modello adottato una variabile ad esso estra­nea, e cioè il legame organico che l’azione politica determina tra lo sviluppo del Nord e quello del Sud, una simile operazione restringe solo in una astratta staticità un fenomeno del tutto dinamico. Se è vero infatti che al momento dell’unità

«la questione fondamentale per le regioni del Nord era di trasformarsi, da una sezione per tanti versi periferica e subalterna, in un’area autonoma di sviluppo; altrove invece, nel resto del Paese, il problema essenziale era ancora il riscatto da condizioni mortificanti di miseria endemica e di secolare arretratezza» (23),

è altrettanto vero che, solo venticinque anni dopo, al Nord il problema era di difendere e potenziare lo sviluppo economico che la politica liberista vi aveva determinato, mentre al Sud era quello del sottosviluppo che si era aggravato.
Sulle condizioni dell’industria meridionale al momento dell’unità si è discusso spesso con l’intento di dimostrare che gli scrittori meridionali ne sopravvalutarono l’entità (24). I problemi in effetti sono due: le possibilità di sopravvivenza di una parte dell’industria borbonica e la distribuzione delle commesse dello Stato dopo l’unità.
Dalla vicenda della Wenner, un’industria tessile costituita da un complesso di opifici ubicati tra Napoli e Salerno e che fu prospera fino al 1860, narrata dal suo proprietario, si ricava che essa si salvò dal disastro che colpì l’industria meridionale dopo l’unità grazie alla disponibilità di forti capitali, che permisero una rapida ristrutturazione (25).
Il successo del cotonificio, contemporaneo a quello di altri della zona e rea­lizzato nel corso di una profonda crisi internazionale del settore (26), è partico­larmente significativo, perché lascia supporre, infatti, che, se al Sud fossero stati reperibili quei capitali che, come ammette l’Einaudi. furono trasferiti al Nord, alcuni opifici meridionali avrebbero potuto sopravvivere e riprendersi. Su una tale ipotesi, cui fa cenno anche Luzzatto, non sarebbe forse inutile tornare a riflettere (27).
Alcuni indizi sembrano indicare che anche il disastro toccato all’industria bellica meridionale, che certamente risentiva poco della concorrenza straniera, non fu determinato solo da congenita debolezza ma anche da pregiudicanti scelte politiche.
Nel 1861, ad esempio, lo Stato italiano ereditò il complesso che sfruttava il minerale estratto dalle miniere di Stilo in Calabria, lo fondeva nel vicino stabilimento di Mongiana e riforniva l’Arsenale di Napoli. La sua produzione di ghisa costituì in quell’anno circa 1/10 di quella nazionale (28). Nel 1866 il complesso passò in appalto gratuito a un privato; condizione unica, l’esauri­mento delle giacenze di magazzino. Scaduto il contratto, l’azienda fu vendute ad azionisti francesi, inglesi e torinesi che facevano capo al Credito Mobiliare (29). L’officina meccanica di Pietrarsa a Napoli, nata dalla fusione con una fabbrica dei Granili, tra le migliori d’Italia e attrezzata per produrre rotaie, non ebbe miglior sorte: ricevette commesse solo per un sesto delle locomotive previste dal piano d’incremento della rete ferroviaria del Sud e negli anni ‘80 era già in crisi (30). È almeno naturale chiedersi, a questo punto, se tra l’esiguità delle commesse e la cessione dell’Officina a un gruppo finanziario napole­tano nel 1863, non corra più d’un legame.
La sorte dei cantieri navali non è più chiara. In Italia, è vero, l’industria cantieristica per costruzioni in ferro non

«avrebbe potuto sorgere […] grazie alle commesse […] della Marina, perché lo Stato da anni costruiva nei propri arsenali tutto il materiale necessario alla flotta» (31).

Ma quale Stato, quali arsenali? Prima dell’unità, i cantieri liguri lavora­vano per i Savoia, quelli campani per i Borboni. Chi costruì per la Marina da guerra italiana?
I cantieri navali di Castellammare di Stabia, che, proseguendo un lavoro iniziato per i Borboni, dopo l’unità, vararono per la Marina la prima coraz­zata (32) e, dal 1864 al 1881, la fregata ‘Messina’ e le corazzate ‘Duilio’ e, ‘Italia’ non erano certo inferiori a quelli liguri per efficienze e potenzialità (33).
Nel 1884, però, in vista d’un riarmo navale a sostegno di ambizioni espan­sionistiche in Africa, il governo italiano invitò la società inglese Armstrong ad aprire un cantiere navale a Pozzuoli, presso Napoli (34). Perché si scelse la Campania e non la Liguria non è dato sapere, ma è fin troppo chiaro che l’Armstrong col tempo avrebbe sottratto commesse ai suoi ‘vicini’. Alla scelta, poi, non fu certo estranea la considerazione che, come vedremo, al Sud ,la forza-lavoro era molto meno cara che al Nord (35).
I dati che possediamo sulle fabbriche d’armi sono scarsi, ma sono anche i meno utili: il Regno dei Borboni non dipendeva dall’estero per fucili e baionette più che gli altri Stati italiani. Se pochi anni dopo l’unità le sole industrie di armi degne di esser menzionate erano quelle bresciane (36), ciò può significare solo che, anche in questo settore, le commesse statali al Sud vennero a mancare.
Troppo frettolosamente, mi pare, si è giunti alla conclusione che l’industria meridionale non possedeva in sé forza vitale né radici (37). È probabile, invece, che là dove radici esistevano o potevano esser messe, la politica economica dei primi governi italiani provvide a reciderle.
Quando, a inizio secolo. il capitale settentrionale scese al Sud (di dove in qualche misura probabilmente proveniva), il campo era sgombro. Come per un lapsus freudiano non si parlò però di far sorgere, ma ‘risorgere’ l’industria a Napoli. Un risorgimento che non sarebbe stato nemmeno tentato se liberismo prima, protezionismo poi, non ne avessero determinato i presupposti e la legge speciale non avesse garantito materie prime a buon prezzo e decennali esen­zioni fiscali.
In effetti, la politica di protezione doganale non mirava a correggere errori del passato, ma a sostituire quella liberista che aveva esaurito la sua funzione. Essa fu adottata, del resto, solo quando gli agrari, pressati dal crollo dei prezzi, dalla crisi di produzione agricola e zootecnica e dall’abolizione del corso forzoso, invocarono dallo Stato una ‘protezione’ che già gli ambienti industriali ritenevano indispensabile per sostenere una concorrenza straniera che metteva a nudo la debolezza dell’economia nazionale.
Frutto di un’equivoca comunanza d’interessi, che ben s’accordava, del resto, con le ambizioni di casa Savoia e dei nazionalisti, ormai pronti per l’avventura coloniale, la nuova politica doganale servì a meraviglia a tacitare gli agrari, a soddisfare gli industriali e a potenziare una debole industria pesante, chiamata a rafforzare la Marina militare.
Dall’unità non erano trascorsi più di trent’anni. Non era chiaro, ma si delineava in quell’ambigua fusione d’interessi, il progetto egemonico dell’ala più avanzata della borghesia nazionale che, in nome del prestigio e della sicurezza del Paese, mirava alla totale subordinazione degli interessi pubblici a quelli privati, del potere politico a quello economico.
In realtà, l’allineamento della componente più dinamica della borghesia sulle posizioni tenute da radicali e socialisti durante la crisi di fine secolo, il favore stesso con cui fu accolta la mediazione giolittiana, furono scelte tattiche consapevoli nel quadro d’una strategia già sperimentata anni prima, quando il protezionismo era stato ottenuto mediante un compromesso con gli agrari che, alla fine, aveva indebolito proprio la posizione politica di questi ultimi (38).
Anche la crisi di fine secolo si risolse con un compromesso, quello liberal-­socialista attuato da Giolitti e Turati, che consentì all’economia italiana di pro­seguire nel suo sviluppo, anzi di assumere i suoi caratteri definitivi. In quegli anni, infatti, inserendosi sempre più profondamente nei gangli dell’or­ganizzazione statale, il potere economico (alta finanza e grossa industria al Nord e, in posizione sempre più subalterna, gli agrari del Sud) prese a spin­gere a senso unico lo. politica italiana (39). Questo non sarebbe accaduto senza un avvenimento dalla portata ben più ‘rivoluzionaria’ dell’avvento della Sinistra al potere: l’appoggio socialista alla politica di Giolitti, che significò il passaggio da una opposizione dura e di principio del gruppo parlamentare socialista, a un atteggiamento di confronto più costruttivo.
Una delle conseguenze della politica di Giolitti fu la totale emarginazione del Sud dal processo di sviluppo economico del Paese. Un’emarginazione che, a lungo andare, indebolì le potenzialità complessive del Paese e ne rallentò lo sviluppo democratico e civile. Essa però fu determinata, non meno che dalla politica di Giolitti, dalla incapacità dei socialisti di valutare il senso del « rifor­mismo» giolittiano e di elaborare un progetto politico alternativo a quello borghese.
Persino i sindacalisti rivoluzionari, che si opponevano ad ogni compro­messo con la borghesia, nel dibattito sull’intervento speciale per il Sud, furono decisi assertori d’una opzione industriale che, senza effettive contro­partite per il proletariato meridionale, offriva a imprenditori e finanzieri l’op­portunità di investire capitali garantiti dalla più ampia esenzione fiscale, di accedere a mercati poveri, ma utili come riserva, e di sfruttare una manodopera tanto più economica quanto più abbondante, dequalificata e poco organizzata a livello sindacale (40).
Pur tenendo conto della perdurante debolezza del movimento operaio nazionale negli anni immediatamente precedenti il varo della legge speciale per Napoli, il 1898 appare particolarmente adatto per tentare un confronto tra le capacità organizzative e combattive del proletariato nelle diverse aree del Paese. In quell’anno, 256 scioperi scossero il Paese da un capo all’altro, scate­nando la dura reazione governativa e preparando il terreno a quella svolta desti­nata a identificarsi col nome e la politica di Giolitti (41).
Benché le organizzazioni politiche e sindacali, più presenti nell’area centro­settentrionale del Paese, fossero state sciolte, al Nord si registrò il 56 % degli scioperi del settore industriale, con il 61 % degli scioperanti e il 67% delle giornate di sciopero. Nell’Italia centrale gli scioperi furono il 29 % del totale nazionale con il 22 % degli scioperanti e il 18 % delle giornate di sciopero; in quella meridionale invece gli scioperi attuati furono solo il 15 % del totale con il 17 % dei partecipanti e il 15 % delle giornate lavorative perdute (42).
Anche la durata degli scioperi separa nettamente le tre aree del Regno. Infatti 6 sono al Nord e 5 al Centro gli scioperi che superano la durata di un mese, solo 2 (entrambi attuati in Sicilia) quelli registrati al Sud. Ancora all’Italia del Nord tocca il primato per gli scioperi durati dai 10 ai 30 giorni 43, per quelli durati da 4 a 10 giorni (44) e quelli vhe non andarono oltre i 3 giorni (45).
Il diverso esito delle agitazioni conferma le disparità sin qui rilevate. La percentuale degli scioperi terminati al Sud con esito completamente o parzial­mente favorevole, il 46 %, è inferiore sia a quella dell’Italia centrale [62 %], che settentrionale [52 %].
Al contrario, la percentuale degli scioperi terminati con esito sfavorevole agli operai è di gran lunga più alta al Sud che non al centro e al Nord: 54 % contro 38 % e 48% (46).
Per quanto concerne i motivi che li determinano, gli scioperi si possono dividere in rivendicativi (richieste di aumenti di salario e di riduzione di lavoro), difensivi (resistenza contro la riduzione del salario o 1’aumento delle ore di lavoro) e, infine, di carattere indefinito, determinati da cause diverse dalle precedenti (47). Anche in questo caso, la situazione di debolezza del Sud appare evidente. Al Nord si hanno infatti il 48 % degli scioperi rivendicativi, il 56 % di quelli difensivi e il 75 % di quelli determinati da altre cause. Le percentuali al centro sono rispettivamente del 33 %, del 23 % e del 16 %; al Sud, infine, del 19 %, dell’8 % e del 9 % (48).
È evidente che quello meridionale rappresentava, in un proletariato già disgregato come quello italiano, l’elemento più debole, più disposto, cioè, a produrre di più e a più basso costo, il parametro inferiore, la variabile su cui contare per gestire sia l’asfittico processo di sviluppo che la legge speciale per Napoli innescava sia le inevitabili crisi cui esso conduceva.
Sulle disparità salariali tra le diverse aree del Regno e all’interno dei me­desimi comparti industriali mancano dati precisi, ma alcuni confronti confer­mano !’ipotesi d’una netta sperequazione tra Nord e Sud (49).
Fino al 1877 il salario medio risulta in Campania inferiore a quello di Lombardia, Liguria e Piemonte. Le differenze variano per gli uomini da un minimo di £. 0,28 ad un massimo di £. 1,25; per le donne dai 15 ai 30 centesimi; per i ragazzi dai 16 ai 28 centesimi. È un dato generico, ma non insignificante (50).
Per gli anni successivi sono possibili confronti più attendibili. Nel 1891, ad esempio, alla Keller, uno stabilimento tessile di Villanovetta, in provincia di Cuneo, 13 operai di diversa specializzazione percepivano assieme, per un giorno di lavoro, £. 10,74. Se avessero lavorato in una fabbrica tessile di San Leucio, in provincia di Caserta, avrebbero percepito £. 2,49 in meno. In pratica, pagando i salari corrisposti al Sud, la Keller avrebbe risparmiato il costo dell’intero reparto delle incannatrici (51).
Paragonato a quello di una fabbrica di Forlì, la Brassini, il salario degli operai di San Leucio era ancora più basso: assieme, nove operai casertani ricevevano infatti in una giornata £. 2,60 in meno di nove operai della Brassini con identica specializzazione. Coi salari di San Leucio la Brassini avrebbe risparmiato il costo di cernitrici, strusere e mazzanti (52).
Disparità non meno chiare emergono dal settore meccanico. Nel 1893, all’Ansaldo di Sampierdarena, il lavoro di ventuno operai, divisi in sette specia­lizzazioni con tre livelli salariali ciascuno, più quello di cinque capi laboratorio costava £. 150,50, cioè £. 7,69 in meno che alla Hawthorn & Guppj di Napoli (53). Sommando la retribuzione media delle sei specializzazioni che, nel 1898, costituivano l’organigramma operaio delle due aziende, si ricava che, alla Hawthorn & Guppj si risparmiavano, in media, £ 2,60 al giorno per ogni sei operai (54).
Più indicativi sono i dati sulla Società Strade Ferrate del Mediterraneo, con sede a Milano e opifici a Torino, Genova, Milano e Napoli, perché con­sentono di confrontare salari di operai di uguale mansione occupati in sedi diverse d’una medesima azienda. Nel 1899 la giornata di trenta operai era pagata a Torino con £. 110,90, a Milano con £. 109,38 e a Napoli con £. 103,79: una differenza di £. 7,1I in più rispetto a Torino e 5,29 rispetto a Milano. L’officina napoletana era quella di Pietrarsa (55).
Il basso costo della forza lavoro non giovava molto al capitale meridionale, praticamente inesistente (56). Su di esso, al contrario, poteva ben contare chi, senza molto temere da un proletariato disgregato, s’accingeva a ‘industrializ­zare’ il Napoletano, allettato da protezioni ed esenzioni fiscali e rassicurato per­sino dai socialisti, i quali, ricordando che

«la prudenza e la moderazione è una necessità per ogni specie di movimento operaio, ma in modo particolare in un ambiente che soffre appunto per difetto d’industrie» (57),

assicuravano:

«a Napoli […] scongiuriamo quasi sempre lo sciopero e lo consigliamo solo nei mo­menti di assoluta legittima difesa» (58).

Enrico Leone trascinava addirittura i sindacalisti rivoluzionari sulle posi­zioni duramente contestate ai riformisti, invitandoli a favorire la formazione del capitale (59). Paradossalmente, il patto di tregua sociale che legava Turati a Giolitti trovava garanti al Sud proprio in Labriola e Leone, nei suoi critici cioè più severi. Ecco dunque che, proprio negli anni in cui la borghesia italiana perse­guiva obiettivi ormai abbastanza definiti e, movendosi su  una linea strate­gica sperimentata, finalizzava gli indirizzi politici a quelli economici, il dibattito nel P.S.I. si faceva più lacerante, la sua strategia più confusa, più incerti gli strumenti per realizzarla.
Quando iniziò l’esperienza liberal-riformista, il P.S.I., impegnato a conci­liare una dottrina rivoluzionaria con una prassi parlamentare riformista, si trovò subito costretto a contentarsi di piccoli e mai determinanti successi e ad offrire il fianco all’azione di logoramento che la borghesia andava compiendo, utilizzando l’innegabile perizia tattica di Giolitti.
Nell’attesa messianica che vi si compisse ad opera della borghesia la ‘rivo­luzione democratica’, il Sud rimaneva intanto del tutto estraneo al progetto riformista di Turati (60), che, attrezzato il partito per una navigazione di cabotaggio lungo la rotta liberaI-socialista, contribuì non poco a consolidare l’anomalo meccani­smo di sviluppo del Paese e agevolò, in ultima analisi, l’affermazione non solo economica, ma anzitutto politica del grosso capitale (61).
Non a caso, quando Turati volle sintetizzare il programma meridionalista del P.S.I., parlò di egemonia

«della parte più avanzata del Paese sulla più arretrata, non per opprimerla anzi per emanciparla e sollevarla» (62).

Era una formula inaccettabile, che codificava l’esistenza delle ‘due Italie’, quella progredita e in progresso al Nord, quella arretrata e da emancipare al Sud. In pratica riduceva il Sud a soggetto passivo dello sviluppo del Paese e ne relegava il proletariato in posizioni subalterne rispetto a quello del Nord. Sbandierando i vessilli della socializzazione delle terre e della conquista del Parlamento, Turati abbandonava il Sud al trasformismo (63).
Se alla fine dell’Ottocento la pratica trasformista, offrendo favori e spazio politico agli agrari, aveva consentito di far passare senza proteste le numerose protezioni e i sussidi concessi all’industria settentrionale (64), negli anni del ‘boom industriale’ quel sistema di forzature divenne pienamente operante: ciò avvenne, in pratica, quando Giolitti, approfittando della crisi d’identità del P.S.I., portò a perfezione quel meccanismo per il quale sin dall’Unità le zone depresse del Paese si erano trasformate in aree di sfruttamento e il sottosvi­luppo del Sud era sempre più diventato funzionale allo sviluppo del Nord.
C’è chi tende a far passare per fisiologico l’instaurarsi d’un tale rapporto, come se avesse generato un meccanismo di sviluppo in grado di funzionare autonomamente. Al contrario, il meccanismo non avrebbe funzionato senza che, a Nord e Sud territorialmente intesi, non avessero fatto da complemento un Nord e un Sud della classe lavoratrice, senza che il compromesso liberal-socialista non avesse fatto da contraltare al trasformismo, conferendo all’ala riformista del P.S.I. la funzione che, nella prassi parlamentare, era stata assolta dai 1atifondisti.
Non fisiologico, ma patologico fu, a ben vedere, quel rapporto. Da esso non poteva nascere che uno sviluppo economico ma1certo, limitato a un’area del Paese e garantito dalla miseria di quelle rimanenti; uno sviluppo in cui la povertà d’una classe sociale fu istituzionalizzata e resa funzionale alla prospe­rità di un’altra, quanto il sottosviluppo del Sud lo fu allo sviluppo del Nord.
È in questa ottica che si inserì la legge per Napoli, una legge altrimenti inspiegabile per la sua estraneità al contesto sociale ed economico cui si appli­cava, tanto discordante nei presupposti e negli obiettivi che Savarese, pur ritenendo che senza di essa l’industria a Napoli avrebbe rischiato di sparire, non può evitare di precisare che questa constatazione non ne contraddice altre,

«altrettanto fondate, sull’esito deludente dei programmi di rapida preindustrializ­zazione» (65).

Ma quell’esito deludente, più che indurre a ripensare criticamente gli indi­rizzi meridionalisti intorno alle specializzazioni concretamente incentivabili, nel quadro unitario dei meccanismi di produzione operanti, che non sono poi così generici come sembrano al Savarese (66), dovrebbe proporre interrogativi sulla volontà politica di elaborare un progetto di sviluppo economico del Sud. A me pare addirittura che non si possa parlare dell’esito deludente della legge spe­ciale per Napoli come di un non riuscito aggancio delle regioni del Sud alla crescita della società italiana (67). Non si può, perché quell’aggancio non fu nemmeno tentato. In realtà, la legge del 1904 non si inquadra in una ‘politica per il Sud’ nel senso stretto della parola, perché elude i motivi di fondo della tematica del Nitti, che sembra ispirarla, e si modella sullo stereotipo dello sviluppo della borghesia nazionale, a cui risulta, in definitiva, funzionale. È per questo che riesce difficile condividere l’opinione di chi ritiene la linea politico-economica seguita dopo l’unità pienamente rispon­dente all’interesse della collettività e il sacrificio di interi settori economici e di gran parte della classe lavoratrice necessari e reversibili (68).
Di recente Savarese ha provato a fondare su basi diverse l’analisi del dualismo dell’economia italiana e, pur sopravvalutando probabilmente la comprensione del problema del Sud da parte dei fautori del ‘filone industriale’, ha colto importanti contraddizioni nell’abusata prassi delle leggi speciali, osservando come, con l’epilogo del decollo industriale del periodo giolittiano,

«il patrimonio produttivo meridionale ha aumentato la sua incapacità a far fronte persino alle più elementari necessità delle popolazioni locali», che la Campania, la zona più industrializzata, ha assunto «una funzione trainante anche nei processi di sottosviluppo»

e che Napoli, infine, ha subito

«paradossalmente tanto la solidità ben superiore della struttura produttiva del Nord, che la desolante miseria dell’area eco­nomica in cui è inserita» (69).

Anche Giovanni Aliberti, del resto, osserva giustamente che qualsiasi tentativo di sviluppo economico della Campania, incapace di

«cogliere il nesso che legava l’eventuale crescita dell’industria urbana alla trasforma­zione economica del retroterra regionale mediante l’ammodernamento dell’impresa agraria e il rinnovamento della vita sociale nelle campagne» (70),

era destinato a fallire. Egli, come altri studiosi, addebita tale incapacità e, quindi, il fallimento della politica d’intervento speciale agli imprenditori (71). A noi pare, invece, che abbia ragione il Galasso, quando invita a non sottovalutare o deformare il ruolo e la figura dell’imprenditore campano, estromettendolo dalla struttura economica e sociale in cui si forma e opera (72). Ciò, aggiungerei, anche per evitare all’imprenditore la sorte dell’operaio campano, troppo spesso valutato nel suo comportamento sull’astratto metro della ‘coscienza rivoluzionaria’ maturata, più che in relazione alle concrete modificazioni economiche e sociali in atto. Non mi pare esatto, del resto addossare alla classe dirigente industriale del Sud un ruolo più che marginale nel fallimento della politica di legislazione speciale, almeno ad inizio secolo. E non è nemmeno del tutto esatto, a ben vedere, parlare di fallimento, perché la legge per Napoli produsse quanto si attendeva il legislatore. Se poi già nel 1908 i sindacalisti rivoluzionari scoprono di aver sbagliato ad associarsi

«all’inno degli arditi industriali settentrionali », perché «gli avvenimenti successivi han chiarito […] l’inganno di Napoli industriale» (73),

ciò non serve ad altro che a meglio inserire la vicenda economica della Campania e, in pratica, del Sud in quella complessiva del Paese. In quegli anni, in effetti, l’Italia s’avviava a pagare il prezzo della sconfitta patita da un partito operaio ancora incerto e immaturo, incapace quindi di contrastare effi­cacemente una strategia di sviluppo della borghesia che si fondava sullo sfrut­tamento e che affondava le sue radici nei rapporti di forza determinatisi già all’indomani dell’unificazione nazionale.
Nel periodo di Giolitti, e mi pare di poter così concludere le mie note, quel progetto economico divenne sempre più esplicitamente progetto politico. In tal senso va vista l’equivoca funzione della Banca, legata ormai a filo doppio alle Istituzioni e il ruolo determinante da essa assunto nella drastica mobilita­zione del risparmio. Privilegiando gli impieghi industriali del risparmio, la Banca risolse infatti il problema di un’industria che si sviluppava in un Paese dove né l’agricoltura né il commercio avevano dato luogo alla formazione di grossi capitali privati, né tanto meno il piccolo risparmiatore investiva in titoli industriali (74). In una simile situazione, assai più grave al Sud (75), un sistema di rigorosa distinzione tra banca commerciale e società di investimenti finanziari non poteva sopperire alla cronica deficienza di capitali. Di qui l’introduzione di un organismo capace di mediare le due funzioni: le cosiddette ‘banche miste’, che completarono il progetto economico della borghesia italiana.
La simbiosi tra Banca e Industria e il legame con le Istituzioni dello Stato, che si faceva garante di una settoriale politica d’investimenti, finirono per costi­tuire l’asse portante d’un sistema economico e politico che sacrificava, in pratica, le ragioni e gli interessi d’un sano sviluppo economico a quelli dei grossi gruppi finanziari, favorendo processi di crescita industriale e facendo sì che la nostra industria, tecnicamente deficiente e complessivamente arretrata, cre­scendo all’ombra dell’apparato di garanzie offerto dal sistema di protezioni, si trasformasse in un organismo parassitario.
La crisi del 1907, spingendo il mercato azionario a preferire ai titoli indu­striali i depositi bancari e le obbligazioni di Stato, indusse l’industria a ricor­rere sempre più al sostegno dello Stato e determinò fenomeni di accentramento di sempre più vasta mole, acuendo i fattori di squilibrio insiti nel sistema (76).
L’intreccio di partecipazioni e di interessi che si andava sempre più conso­lidando intorno al nucleo d’una industria pesante ch’era il settore più malato della nostra industria, anziché quello trainante, contribuiva d’altro canto alla radicalizzazione delle posizioni politiche, mentre i problemi di sovrapproduzione da cui era afflitta gran parte dell’industria italiana sembravano poter esser risolti solo da una intensificata domanda da parte delle Amministrazioni militari (77).
Ormai la mediazione giolittiana non tornava più utile e Giolitti fu allontanato dal centro della scena parlamentare. Quando vi fece ritorno, l’asse politico s’era spostato a destra e i bilanci non permettevano più di conciliare una politica di spese militari con una di riforme. Le forze che all’aprirsi del secolo avevano giudicato Giolitti l’uomo adatto al momento erano le stesse che, quindici anni dopo, lo mettevano in disparte, sostituendo ad ogni altra possibile prospettiva per l’economia italiana quella della guerra.
Che la guerra non sia una conseguenza ineluttabile di una crisi del capitale è opinione da condividere (78). È innegabile però che dall’inizio del secolo le guerre del Regno d’Italia furono combattute tutte nell’illusione di risolvere una crisi e tutte ne generarono un’altra di dimensioni più gravi. Si dirà che è difficile dimostrare che esiste un nesso tra le crisi economiche del Regno d’Italia e le sue guerre, e può essere vero; altrettanto difficile, tuttavia è negare che tra crisi e conflitto esiste un nesso che non si può definire congiunturale, a meno di volerle ritenere tutte accidenti casuali (79). In realtà il nesso esiste e va cercato nell’identificazione tra classe dirigente economica e politica. Sintetizzando, si può dire che, in effetti, la prima produceva la seconda sicché, quando la classe economica era di fronte alla crisi, quella politica la soccorreva con la guerra.
Questo discorso, però, condurrebbe lontano. A me basta osser­vare che a ogni guerra si registrava un ampliamento dei settori dell’industria pesante più presenti al Nord che al Sud, che c’erano secche perdite di capitale monetario colmate dallo Stato mediante la tassazione indiscriminata, che a ogni guerra, infine, diminuiva o si bloccava l’emigrazione. In altre parole, ogni guerra aggravò lo squilibrio economico del Paese, sicché paradossalmente si può dire che ognuna fu combattuta da ‘due Italie’ delle quali una, quella del sottosviluppo, il Sud, uscì sempre e comunque sconfitta.

Note

1) Sulla legge speciale per Napoli del 1904, cfr. Marcella Marmo, L’economia napoletana alla volta dell’Inchiesta Saredo e la legge dell’8 luglio 1904 per l’incremento industriale di Napoli, in «Rivista Storica Italiana », 1964, IV, pp. 954-1023; Francesco Barbagallo, Stato e lotte politico-sociali nel Mezzogiorno, Arte Topografica, Napoli 1976; Alfonso Scirocco, Politica e Amministrazione a Napoli nella vita unitaria, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1972; Ferdinando Del Carretto, La legge del 1904 per Napoli e la sua applicazione, Napoli 1908; Giuseppe Russo (a cura di), L’avvenire industriale di Napoli negli scritti del primo Novecento, Unione Industriali, Napoli, 1963.
2) Per gli studi più significativi sui problemi dell’industrializzazione della Campania e sullo sviluppo economico del Napoletano, si veda Giovanni Brancaccio, La Campania industriale. Bilancio storiografico, in «Prospettive settanta », n. s. VIII (I986), n. 2-3, pp. 213-231.
3) Cfr. Gino Luzzatto, L’economia italiana dal 1861 al 1894, Einaudi, Torino 1968, p. 15.
4) Ivi, p. 19.
5) Ibidem, p. 41. Le elaborazioni sono mie. Pro­seguendo nella sua politica, il fisco espropriò, dal 1885 al 1897, altri 89.347 proprietari meridionali (1’82 % del totale nazionale), trascinando cosi nella rovina anche fittavoli e mezzadri e producendo effetti devastanti su piccola e media proprietà terriera del Sud. Il rapporto medio tra espropri ed abitanti (uno su 6.154 a livello nazionale, uno su 18.357 al Nord e uno su 2.835 nell’Italia centrale) fu al Sud di un abitante su 374. I dati riportati sono in Italo Giglioli, Malessere agrario ed alimentare in Italia. Relazione di un giurato italiano all’Esposizione universale di Parigi, nel 1900, sulle condizioni dell’agricoltura in Italia, in paragone colle condizioni all’estero, Stabilimento Tipografico Vesuviano, Portici 1903. Le elaborazioni sono mie.
6) Per i dati e la citazione, cfr. Gino Luzzatto, L’economia italiana…,cit., p. 113. Le percentuali sono mie. Il Candeloro, al contrario, scrive che dopo il 1871 si evidenziarono problemi nati dal modo in cui fu attuata l’unità, dal tipo di Stato costruito e dalla politica economica seguita nel primo decennio unitario e coglie il nesso tra crisi agraria, malgoverno e dualismo, affermando «che la crisi agraria degli anni ‘80 e i provvedimenti presi dal governo aggravarono gli squilibri esistenti […] tra il Nord e il Sud ». Cfr. Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, Feltrinelli, Milano, 1970, VI, pp. I4 e 2I6.
7) Cfr. Rodolfo Morandi, Storia della grande industria in Italia, Einaudi, Torino, I959, p. 279. Forse gli scrittori meridionali sbagliano «a rappresentare quasi una parità di livello tra il Nord e il Sud al momento dell’unificazione e ad attribuire quasi esclusivamente alla legislazione dello Stato Unitario la disparità che si stabilirà e si accrescerà di decennio in decennio ». Non è meno errato però sostenere che a tale disparità fu estranea una legislazione che fu «chiara espressione della totale impreparazione e della vacuità letteraria di una classe diri­gente disarticolata all’estremo e impregnata di un infantile provincialismo ». Ivi, pp. 278-279.
8 ) Con Luzzatto, anche Castronovo, come vedremo, esprime dubbi in tal senso. Grifone, poi, afferma che l’Italia nel I86I soffriva di «penuria di capitali […], scarsezza di materie prime, assenza di un grande mercato […] » e che «l’unità di per sé sola non crea il mercato, ma soltanto una delle condizioni essenziali perché un grande mercato sorga. Perché il paese offra possibilità d’investimento, di smercio, occorre attrez­zarlo». Cfr. Pietro Grifone, Il capitale industriale in Italia, Einaudi, Torino, I971, p. 5. Cafagna, a sua volta, scrive che alla data dell’unità, la condizione economica dell’Italia non consente di parlare minimamente di base industriale. Cfr. Luciano Cafagna, La formazione di una base industriale fra il I869 e il I9I4, in «Studi Storici », II, nn. 2-3 luglio-dicembre I961. p. 290. Per una critica alla tesi di chi vede il Sud, già prima dell’unità, in posizione irrimediabilmente compromessa e per un’efficace analisi delle cause del dualismo, cfr. Renato Zangheri, Dualismo economico e formazione dell’Italia moderna, in La formazione dell’Italia industriale, a cura di Alberto Caracciolo, Roma-Bari, 1969, pp. 285-296.
9) Cfr. Rodolfo Morandi, Storia della grande industria … , cit., p. 274.
10) Ivi, p. 276.
11) Ibidem, p.281.
12) Ibidem, p. 276.
13) L’Eckens ha provato a cercare un metodo di comparazione tra le fonti, ottenendo però esiti tanto inferiori alle intenzioni, che meglio sarebbe stato dire a conclusione del saggio, quanto, in tutta onestà è scritto all’inizio. «I dati […] sulle relative situazioni economiche del Nord e del Sud all’epoca dell’unificazione -egli osserva – non consentono un giudizio immune da […] interpretazione soggettiva. Non è infatti possibile sommare i dati regionali e confrontarli fra loro sulla base di un calcolo ‘pro capite’ ma è necessario confrontare alla meno peggio tipi di dati tra loro disparati». Cfr. Richard. S. Eckens, Il divario Nord-Sud nei primi decenni dell’Unità, in La formazione dell’Italia …, cit., p. 223.
14) Cfr. Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia … , cit., VI, p. 216.
15)  Ivi, p.231.
16) Ibidem, p. 231.
17) Per spiegare i Fasci Siciliani, ad esempio, il Luzzatto risale alla sfiducia della Sicilia nel potere centrale e periferico, accenna ai Vespri, alle illusioni sorte con la spedizione dei Mille, all’azione politica della dittatura garibaldina e, finalmente, alla divisione dei beni demaniali, all’alienazione di quelli ecclesiastici e al malcontento suscitato dall’iniqua distri­buzione degli oneri fiscali. Cfr. Gino Luzzatto, L’economia italiana … , cit., pp. 207-208.
18) Per il Morandi, il liberismo è una ‘mazzata’ calata su quel poco d’industria cre­sciuta al Nord.. È un’opinione difficile da condividere. Al Nord non c’erano ancora né industria né industriali. C’era, come scrisse lui stesso, una figura di mercante-imprenditore che governava con gli agrari e cercava una politica che, tacitando questi ultimi, consentisse la sua trasformazione in capitalista. Cfr. Rodolfo Morandi, Storia della grande industria … , cit., p. 279.
19) Cfr. Valerio Castronovo, L’industria italiana dall’Ottocento a oggi, Mondatori, Milano, 1980, p. 27. Al Castronovo, in verità, pare sfuggire che nuove ‘bardature’, avrebbero di lì a poco tute­lato i «numerosi stabilimenti» sorti al Nord. In quanto al ‘dispendio’ di capitali, persino l’Einaudi ammise che, con la vendita di beni ecclesiastici e del demanio e coi prestiti pub­blici, molta ricchezza del Sud fu trasferita al Nord, dove si contribuì di meno e si approfittò di più delle spese fatte dallo Stato, ottenendo la maggior parte dei pubblici appalti. Cfr. in proposito Renato Zangheri, Dualismo economico … , cit., p. 286.
20) Cfr. Valerio Castronovo, L’economia italiana … , cit., p. 24.
21) Cfr. Gino Luzzatto, L’industria italiana … , cit., p. 5.
22) Cfr. Il Nord nella Storia d’Italia. Antologia politica dell’Italia industriale, a cura di Luciano Cafagna, Laterza, Bari 1962, p. V.
23) Cfr. Valerio Castronovo, L’industria italiana … ,cit., p. 22.
24) Una ricostruzione completa della realtà economica meridionale al momento dell’unità non esiste, per quanto non manchino lavori anche pregevoli su suoi aspetti particolari e determinate realtà settoriali o locali, per i quali rimandiamo a Giovanni Brancaccio, La Campania industriale. Bilancio…, cit.
25) Cfr. Giovanni Wenner, L’industria tessile salernitana dal I824 al I918, s.l. e s.n., 1953. Del lavoro esiste una ristampa della Società Editrice Napoletana, (Napoli 1983) con un’Appendice curata da Ugo Di Pace.
26) La ristrutturazione fu avviata quando si avvertivano ancora le ripercussioni della guerra di secessione americana e ben prima dell’entrata in vigore del protezionismo doganale.
27) Cfr. Gino Luzzatto, L’economia italiana … , cit., pp. 24-25.
28) Nel 1861 la produzione nazionale di ghisa fu di 26.000 ton. Ivi, p. 121.
29) Ibidemi, p. 133. Si tratta di operazioni da cui il Sud non trae in verità vantaggio alcuno.
30) Per una storia dell’Opificio di Pietrarsa, si vedano gli Atti della Commissione di Inchiesta sull’esercizio delle Ferrovie, Roma 1881, parte II, voI. I, p. 449 e ss.
31) Cfr. Gino Luzzatto, L’economia italiana … , cit., p. 125.
32) Cfr. Angelo Mangone, L’industria nel Regno di Napoli, Fiorentino, Napoli, 1976, pp. 50-51.
33) Cfr. Giorgo Candeloro, Storia dell’Italia … , cit., VI, p. 245.
34) Cfr. Valerio Castronovo, L’industria italiana … , cit., p. 44. Un invito a dir poco incoerente, dopo che s’era fatto di tutto per smantellare gli stabilimenti militari del Napoletano, allo scopo – si disse – di evitare a Napoli, «troppo bella città », il pericolo d’un bombarda­mento! Cfr. Francesco Saverio Nitti, Il bilancio dello stato dal 1862 al 1896-97. Prime linee di una inchiesta sulla ripartizione territoriale delle entrate e delle spese pubbliche in Italia, ora in Scritti sulla questione meridionale, Laterza, Bari 1958, p. 214. In realtà i cantieri non furono poi mai aperti.
35) Cannoni e proiettili di ogni arma si producevano a Pietrarsa, alla Guppj, alla Fon­deria Reale e all’Arsenale di Napoli. Il Mangone cita anche, ma non specifica la fonte, fabbriche di armi di Torre Annunziata, Napoli e Lancusi. Cfr. Angelo Mangone, L’industria nel Regno … , cit., pp. 52-53.
36) Cfr. Gino Luzzatto, L’economia italiana … , cit., p. 123.
37) Cfr. Rodolfo Morandi, Storia della grande industria … , cit., p. 278.
38) È stato giustamente osservato che a fine secolo il Paese non era in grado di sostenere il peso d’una politica d’espansione che, inoltre era estranea agli interessi dei gruppi più accorti dell’alta borghesia. Cfr. Valerio Castronovo, L’industria italiana … , cit., p. 69. Appena gli agrari imboccarono la via del colpo di Stato, l’al1eanza fu rotta.
39) Il giudizio più penetrante sul ‘sistema’ di Giolitti resta ancora quello del Carocci, che lucidamente ha avvertito come «la democrazia giolittiana trapassava verso una oligarchia plutocratica nella misura in cui l’industria si avviava verso forme sempre più concen­trate e potenti ». Cfr. Giampiero Carocci, Giolitti e l’età giolittiana, Einaudi, Torino 1971, p. 53.
40) Sulle contraddizioni della campagna socialista per l’industrializzazione di Napoli, cfr. Giuseppe Aragno, Socialismo e sindacalismo rivoluzionario a Napoli in età giolittiana, Bulzoni, Roma 1980.
41) Il numero degli scioperi fu il più alto fatto registrare fino a quell’anno; gli scioperi terminati con la vittoria totale o parziale dei lavoratori furono il 54%. I dati sono in Ministero Agricoltura,.Industria e Commercio (MAIC), «Annuario Statistico Italiano. Statistica degli scioperi », Roma 1900, Tav. I, Rie­pilogo, p. 527. Le elaborazioni sono mie.
42) Ivi, p. 325, elaborazioni mie.
43) 22 scioperi contro i 7 del centro e i 4 del Sud. Cfr. «Annuario », cit., p. 527.
44) 37 contro i 10 del centro e del Sud. Ivi.
45).79 contro i 51 del centro e i 23 del Sud. Ibidem.
46) La Campania è al nono posto per numero di scioperi (superando Umbria, Puglia, Sardegna, Liguria e Calabria), al decimo per numero di scioperanti e giornate di sciopero (superando Puglia, Sardegna, Liguria e Calabria). Ibidemi, p. 325. Nessuno sciopero vi dura più di 30 giorni, uno se ne registra tra quelli di durata 10-30 giorni, due tra quelli di 4-10 giorni. Persino per gli scioperi di durata non superiore ai tre giorni, la Campania è superata da Lombardia, Piemonte, Emilia, Sicilia, Toscana, Veneto, Lazio e Marche. Ibidem.
47) Cfr. «Annuario … », cit., p. 526.
48) Ivi, pp. 526-527. Elaborazioni mie. In Campania gli scioperi rivendicativi sono solo 3 e impegnano 48 operai in 68 giornate di lotta. Altrettanti gli scioperi difensivi, con 197 scioperanti e 1.574 giornate lavorative perdute. Un solo sciopero, infine si registra per cause diverse dalle precedenti con 60 scioperanti e 780 giornate perdute. Ibidem.
49) Sulla storia del salario industriale in Italia cfr. Stefano Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale, La Nuova Italia,Firenze 1972, pp. 373-457, che si occupa, però, del salario in relazione al rapporto tra proletariato operaio e sviluppo del capitalismo italiano. In effetti, dai dati a disposizione, scarsi e spesso alterati dagli imprenditori, è impossibile ricavare un esatto quadro salariale. Io ho confrontato situazioni del Nord con realtà campane, ma le osservazioni sono senza dubbio valide per il Sud nel suo complesso.
50) Le medie erano le seguenti: in Campania £. 1,60 (uomini), £. 0,85 (donne), £. 0,65 (fanciulli); in Lombardia rispettivamente £. 1,88, £. 1, £. 0,53; in Piemonte £. 2,25, £. 1,15, £. 0,65; in Liguria £. 2,75, £. 1,15, £. 0,55. Cfr. MAIC, Direzione. Generale della Statistica, Ricerche sopra la condizione degli operai nelle fabbriche, Roma 1877, pp. 85 e 107 per la Campania, pp. 12, 41 e 62 per la Lombardia, pp. 112 e 77 per il Piemonte, p. 70 per la Liguria.
51) I dati sono in Stefano Merli, Proletariato di fabbrica … , cit., pp. 400-401. Le elaborazioni sono mi3.
52) Ivi, pp. 400-401. Le elaborazioni sono mie. Su 26 operai che svolgevano la medesima mansione, 26 percepivano a Genova un salario più alto.
53) Cfr. M.A.I.C, «Annuario Statistico Italiano », Mercedi agli operai, Roma 1900, cit., p. 504. Le elaborazioni sono mie.
54) II risparmio, che ben ripagava i 50 centesimi dati in più ad ogni fabbro era di £. 1,30 per calderaio, 20 centesimi per congegnatore, 30 per fonditore, 40, per operaio generico e 90 per addetto alla trazione. Ivi, p. 505. Le elaborazioni sono mie.
55) A Napoli 10 salari su 15 erano inferiori a quelli di Torino e 11 a quelli di Milano.
Abbiamo escluso i dati di Genova perché incompleti. Cfr. «Annuario … », cit., p. 505. Le elaborazioni sono mie.
56) Nel 1901, il capitale locale a Napoli era pressoché inesistente nell’industria e le azioni appartenevano tutte a stranieri o settentrionali. Cfr. Ernest Lémonon, Naples. Notes historques et sociales, Mayenne e Colin, Plon-Nourrit, Parigi 1912, p. 199. La legge speciale non mutò, in sostanza, la situazione. Ancora nel 1913 in Campania era collocato il 22% del capitale straniero inve­stito in Italia. In Liguria la percentuale era del 16 % e in Lombardia e Piemonte del 12. Cfr. Francesco Saverio Nitti, Il capitale straniero in Italia, Stab. Tipogr. Federico Sangiovanni, Napoli, 1915, pp. 42-43 e 94-123. Le elabora­zioni sono mie.
57) Cfr. «Avanti! », 13-2-1902, art. Bizantinismo, firmato A. Lucci.
58) Ivi, 11-2-1902, Artuto Labriola, Lo sciopero della Pattison: il movimento operaio napoletano. Ci pare che di rado si sia gettato lo sguardo su un panorama così vasto. A Napoli, infatti, è possibile verificare come l’industria italiana si trovò in condizioni ambientali e legislative che le permisero uno sviluppo privilegiato in un mercato quasi ine­sauribile di manodopera e mostrò, nonostante ritardi storici e tecnologici, un dinamismo legato alle capacità di domare e sfruttare la classe operaia, in cui sono da vedere i primi passi della grande industria italiana. Cfr. Stefano Merli, Proletariato di fabbrica … , cit., p. 39. Ancor più evidente risulta come quei ‘primi passi’ non avrebbero condotto lontano, se non fossero stati accompagnati, per così dire, da una strategia socialista confusa e perdente.
59) Cfr. «La Strada », 1-5-1903, art. La nuova fase del partito socialista a Napoli.
60) Probabilmente l’appoggio all’industrializzazione del Sud fu determinato dall’illusione di vedervi nascere una borghesia capace di porsi a capo d’una tale rivoluzione, borghesia della quale pochi anni prima s’era riconosciuta la mancanza in due terzi deI Paese. Cfr. Lettera di Anna Kulisciov ad Engels, in Marx ed Engels. Scritti italiani, a cura di Gianni Bosio, s.n., Milano 1955, p. 164.
61) Invano Antonio Labriola intravedeva il ‘socialismo’ nelle lotte dei contadini del Sud, cui mancava una direzione capace di dettare parole d’ordine unificanti e d’indicare obiettivi graduali, finalizzati alla disgregazione deI blocco agrario. Non era lontano dal vero il Labriola quando paventava la degenerazione del partito in strumento di requisizione del ‘bestiame votante’ e l’appiattimento su di una linea politica da cui «nasce, e vegeta poi, la setta, la consorteria, la combriccola, ma non sorge e vive il Partito ». Cfr. lettera di Antonio Labriola a Bosco Garibaldi in Arturo Labriola, Democrazia Socialismo in Italia, a cura di Luciano Cafagna, Universale Economica, Mi­lano 1954, p. 78.
62) Cfr. « Critica Sociale », 16-6-19°0, art. A proposito di Nord e Sud; per fatto personale.
63) La prassi dell’alleanza con forze ‘affini’ identificate nella comunanza d’interessi momentanei, produsse fatalmente, quando non vero e proprie collusioni, un’ambigua fusione tra maggioranze e opposizioni, governanti e governati, che aggravò le condizioni del Paese in generale, del Sud in particolare. E su questo dato, a nostro avviso, dovrebbero meditare seriamente i politici, più che gli storici.
64) Le tariffe doganali del 1887 garantivano un mercato interno riservato a produttori d’acciaio, manifatture tessili, coltivatori di barbabietola da zucchero, raffinatori e produttori di frumento, mentre emarginavano gli interessi di piccoli coltivatori ed esportatori di colture specializzate. Cfr. R. Webster, L’imperialismo italiano, Torino 1974, p. 31.
65) Cfr. Guido Savarese, L’industria in Campania (I9II-I940), Guida, Napoli 1980, p. 28.
66) Ivi.
67) Ibidem, p. 29.
68) Cfr. Rosario Romeo, Breve storia della grande industria in Italia, Cappelli, Bologna 1961. Per una critica alle tesi del Romeo cfr. Alexander Gersghenkron, Rosari Romeo, Consensi, dissensi, ipotesi in un dibattito, e Luigi Dal Pane, Alcuni studi recenti e la teoria di Marx, in Alberto Caracciolo, La formazione dell’Italia … , cit., pp. 53-81 e 83-92.
69) Cfr. Guido Savarese, L’industria … , cit., passim. Sulla politica ‘speciale’ per il Sud, interessanti risultano le osservazioni di De Marco e quelle più recenti di Galasso. Cfr. Paolo De Marco, L’industria italiana dal fascismo alla ricostruzione, in «Archivio Storico delle Province Napoletane », 1974, pp. 154-171 e Giuseppe Galasso, Il Mezzogiorno: ancora politica spe­ciale’?, in «Prospettive Settanta », n.s. VIII (1986), n. 2-3, pp. 232-239.
70) Cfr. Giovanni Aliberti, Struttura industriale e organizzazione del territorio nell’Ottocento, in Storia della Campania, a cura di Francesco Barbagallo, Guida, Napoli 1978, II, p. 380.
71) Cfr. Marcella Marmo, Il proletariato industriale a Napoli in età liberale, Guida, Napoli 1978; S. Sciarelli, P. Stampacchia, Imprenditore locale e sviluppo industriale. Il caso della Cam­pania, Isfa, Salerno 1978; Augusto Graziani, Radiografia del sistema industriale, in AA.VV., Napoli dopo un secolo, Napoli 1961.
72) Cfr. Giuseppe Galasso, L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Ita­lia, Mondatori, Milano 1982, pp. 191-216.
73) Cfr. «La Propaganda», 20-10-1908.
74) Al 30-6-1900 i depositi delle 184 Casse di Risparmio ordinarie del Regno ammon­tavano a £ 499.410.060. Di tali depositi, il 59 % era in banche del Nord, il 34 % in quello dell’Italia centrale e il 7% in quelle del Sud, il cui patrimonio collettivo costituiva peraltro solo il 4 % di quello complessivo delle Casse italiane. Cfr. M.A.I.C., «Divisione Credito e Previdenza», Bollettino sul Credito e sulla Previdenza, Roma 1901, II, pp. 218-219. Le elabo­razioni sono nostre.
75) Nel 1901 il capitale delle Società per azioni industriali costituiva a Napoli il 4% del totale nazionale, mentre quello di Genova, Torino e Milano rappresentavano rispetti­vamente il 10,34 il 10,35 e il 26,39 %, In pratica il capitale del nascente ‘triangolo industriale’ costituiva da solo il 47,09% del capitale azionario industriale del Paese. I dati sono ricavati da Ferdinando Piccinelli, Le società industriali italiane per azioni, Hoepli, Milano 1902; le elaborazioni sono mie. Ancora nel 1916, le poche società per azioni esistenti in Italia erano così suddivise: 66,35% delle società con il 63.69% dei capitali al Nord; 17,92 % con il 28,98 al Centro; il 15,73 % con il 7,33 % al Sud. Queste percentuali sono in Guido Savarese, L’industria … , cit., Tab. XI, p. 186. Le successive elaborazioni sono mie. La percentuale media del capitale investito, rispetto a quella delle Società esistenti, pur nel­l’estrema genericità del dato, offre forse l’elemento più significativo per una rilevazione il più possibile vicina alla realtà. Al nord la media è dello 0,9 %, al Centro dell’1,6 % e al Sud dello 0,4 %. La percentuale campana, 0,6 % supera quella dell’intero Sud e del Sud continentale, 0,4 % in entrambi, e quella delle Isole, 0,3 %, ma è inferiore a quella del Nord e del Centro. Questi dati mostrano come, nei primi 15 anni del secolo, il Sud veda aumentare il suo distacco dal Nord, si conferma il ‘sottosviluppo’ della Campania in rap­porto alle altre aree del Regno.
76) Le nuove emissioni di azioni, giunte a superare i 500 milioni annui, si ridussero negli anni 1910-13 ad una media di 361 milioni, scendendo, alla vigilia del conflitto mon­diale, a 342 milioni. Cfr. Francesco Saverio Nitti, Il capitale straniero … , cit., p. 19.
77) Le spesse militari, che nel biennio 1906-1907 costituivano il 16,5 % di quelle complessive dello Stato, nel 1913-14 salirono al 30 %. Cfr. Richard. Webster, L’imperialismo industriale italiano, einaudi, Torino 1974, p. 106.
78) Cfr. Guido Savarese, L’industria…, cit., p. 31,
79) Ivi., p. 32.

Da “Prospettive Settanta”, Nuova Serie, anno X, n. s. x (1988), n. 2-3-4, pp. 513-534.

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Uocchie ca nun vede, core ca nun sente“, sostiene con ragione una saggezza tutta meridionale. E non traduco: Cota, Bricolo e Calderoli sanno perfettamente di che parlo e se davvero non sanno, studino lingue e leggano vangeli.
Un mistero glorioso. Ormai non sbarcava davvero più nessuno, ma lo sanno tutti: prima di fermarsi a Eboli, Cristo è passato per la cattolicissima Padania.

E’ un po’ che i direttori d’orchestra del circo mediatico stanno costruendo un paese cieco e sordo – altrimenti perché pagarli profumatamente? – e i nostri cuori accecati s’agitano solo per le quotidiane capriole del mibtel, per le urne lontane dei brogli afgani, per l’imprenditore poverino che non conosce al mattino il destino serale del suo borsellino, per le banche malate che vanno curate coi quattrini tassati ai contribuenti, per quei mariuoli dei pensionati che si ostinano a campare e non basta riformare e, dulcis in fundo, per il destino cruciale di Villa Certosa.

Gli sbarchi s’erano fermati per un mistero miracoloso, ma bastava cercare e sulla rete scoprivi che il mare ogni tanto restituisce corpi suicidati. Maroni e soci, che lo sanno benissimo, si segnano con la croce, perché sono credenti, e tirano avanti tranquilli e contenti: i pesci sono muti e chi ne ha voglia li chiami a testimoni.

Gli sbarchi s’erano fermanti, ma un incidente può sempre capitare e il vento esiste. Non c’è Lega che tenga: benché sia certamente clandestino, il vento non lo ferma un questurino, non lo blocca un ministro, nemmeno il più destro per quanto sinistro, il vento non l’acchiappa una ronda, non lo chiudi in un campo per sei mesi, non c’è galera attrezzata che lo metta a tacere. Il vento – come il pensiero e gli ideali – esiste e non lo puoi ammazzare.

E’ stato il vento a portare a terra l’eco d’un urlo disperato, sicché, sfuggiti a un’atroce condanna a morte – anche questo è un miracolo – cinque sventurati son diventati per caso cinque capi d’accusa: eravamo in tanti…

Il ministro Maroni, notissimo esportatore di democrazia, che al vento non può chiedere conto, ha domandato perciò prontamente un’inchiesta: i fantasmi che gli si sono parati davanti sono un incubo che fa paura, e lui, l’arruolatore di ronde padane, verde, come sa esserlo solo un leghista, s’è difeso: l’incubo sta mentendo.
E tuttavia lo sa. Se i pesci potessero parlare, per ogni morto ci sarebbe un assassino.

Uscito su “Fuoriregistro” il 21 agosto 2009

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