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Archive for settembre 2011

Presidente Napolitano,
guardi se può: basta poco e vedrà:
http://www.youtube.com/watch?v=PmqeR76i67E&feature=share.
Ecco. Questa è la polizia della Repubblica nata dal sangue degli antifascisti, quella che – lei lo sa – all’articolo primo della Costituzione di cui è garante, si dichiara “fondata sul lavoro”. Non so lei, io sì, io mi indigno e mi vergogno. Mi vergogno e trovo desolante che gente in divisa, pagata coi soldi di chi lavora per tutelare i cittadini e le regole d’un libero Stato, tenga la piazza come fosse milizia di parte, armata e organizzata per negare diritti. Guardi e dica la sua, ché la misura sembra colma e non è tempo di silenzi.

Io no, lei sì, lei ha l’autorità morale e il ruolo istituzionale per chieder conto di comportamenti così ingiusti, pericolosi e illegali. Gli operai domandano solo lavoro, pane e dignità. In loro nome le dirò quello cha a giudici ciechi ebbe a dire in un lontano processo politico nella sua Napoli, Giovanni Bovio, avvocato e libera coscienza di filosofo: “non vi neghiamo i tributi e la difesa, chiediamo però invano che rimuoviate gli ostacoli che fanno il lavoro impossibile e sterile per noi. Questo vi chiediamo. E non ci rispondete coi fucili nelle mani dei nostri figli. I chierici ci fecero dubitare di Dio; non fateci, voi giudici, dubitare della giustizia. Che ci resterebbe? Temiamo di domandarlo a noi stessi, di noi stessi temiamo e ci volgiamo a chi ci chiama fratelli: noi fummo nati al lavoro e, per carità di dio, non fate noi delinquenti e voi giudici!” Non fu ascoltato, Presidente. Parlò a uomini ciechi e sordi, non ebbe risposte e fatalmente ne nacquero tragedie. Taccia se non s’è indignato. Non potrò certo costringerla a parlare, ma lei lo sa meglio di me: ogni tempo viene, anche quello in cui la storia esprime il suo irrevocabile giudizio.

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Organici inchiodati alla consistenza del 2011-2012, senza tener conto dell’aumento degli alunni, obbligo eluso di fatto da percorsi di istruzione e formazione professionale che sono lavoro a tutti gli effetti, docenti inidonei all’insegnamento per motivi di salute costretti a soffiar posti ATA a precari destinati al licenziamento, docenti non specializzati dirottati sui posti di sostegno, con grave danno per l’integrazione degli alunni disabili, istituti comprensivi che aggregano scuole secondarie e primarie private dell’autonomia se non hanno almeno 1.000 alunni o 500 nelle zone disagiate: lo sfascio, desolante e per molti versi irrimediabile, è sotto gli occhi di tutti. Non c’è ordine e grado di scuola statale a cui l’avvocato Gelmini non chieda ulteriori sacrifici, a cui non riduca il già risicato fondo d’istituto, rendendo sempre più difficile finanziare visite culturali, corsi di recupero e ogni attività progettuale extra-didattica. Le conseguenze organizzative e occupazionali, l’ingovernabilità di migliaia di scuole, prive di una stabile dirigenza e di una reale forza formativa, lasciate sole ad affrontare situazioni di crescente difficoltà pedagogica e didattica, possono trovare un rimedio solo nell’impegno dei docenti le cui retribuzioni, tuttavia, inferiori del 40% a quelle dei colleghi dell’area Ocse, sono scese di un punto, mentre l’aumento medio nell’Unione Europea si attesta attorno al 7% nel decennio 2000-2009.
Sul disastrato Mezzogiorno, lo scempio pesa naturalmente di più. In provincia di Ragusa, a Modica, per fare un esempio, c’è un Liceo Scientifico che ha una terza con 54 alunni; su 10.500 scuole elementari accorpate, 900 sono meridionali e, a conti fatti, ne deriverà una riduzione di organico pari al 30% per i dirigenti scolastici, all’11% per i direttori amministrativi e a non meno di 1.100 posti di assistente amministrativo cancellati. Rimane in piedi, e qui c’è il segno di un degrado soprattutto morale che supera i confini della crisi europea e si fa tutto italiano, la politica di discriminazione razziale che fissa al 30% la percentuale massima di alunni stranieri presenti in una classe.
Una tragedia di queste proporzioni non si spiega più coi limiti del centralismo e la miseria morale degli egoismi neofederalisti. Occorre prenderne atto: la questione non è di natura locale e la pessima qualità della nostra classe dirigente non spiega da sola il fenomeno. Da tempo, ormai, sulle politiche economiche dell’Unione Europea l’ultima parola la dicono gli usurai che la governano ed è tempo di cogliere il significato profondo di un dato di fatto che incute timore: è il mercato a governare la politica e siamo ormai in balia di un regime politico autoritario che non ha precedenti nella storia contemporanea. Un regime che, forte di caratteri sovranazionali e fuori da ogni controllo di organi elettivi, decide del nostro futuro.
Se in questo contesto, per guardare in casa nostra, la scuola del Sud paga a prezzo più salato i costi della crisi, non c’è da stupirsi e non deve spingerci ad aprire un fronte di guerra tra poveri che potrebbe solo indebolirci. Ogni microarea, ormai, riproduce nella sua dimensione le condizioni di disparità che caratterizzano i “teatri” più vasti della vicenda politica europea. Non c’è dubbio, un “fallimento” della Grecia trascinerebbe in una maggior rovina il nostro paese, ma questo non può e non deve voler dire che i greci sono nostri nemici. I lavoratori greci e quelli italiani, al contrario, hanno in comune un nemico feroce, contro il quale devono battersi insieme. Qualcosa, in questo senso, comincia però a muoversi ed è bene che le notizie circolino. L’idea di non pagare il debito pubblico, la proposta di una fuoriuscita dall’Eurozona, che non sia al momento uscita della Unione Europea, non appare più la velleitaria proposta delle solite “frange alternative”. Di fallimento pilotato dell’Italia parla un’economista “democratica” del calibro di Loretta Napoleoni e Andrea Fumagalli, docente di Economia Politica all’Università di Pavia, apertamente si schiera col “diritto all’insolvenza“. S’affaccia da più parti ormai la proposta di chi delimita un’area dell’Unione Europea – i paesi Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna) – e indica le possibili vie da imboccare; occorre evitare l’annichilimento e la macelleria sociale messi in atto, con sperimentato cinismo, dalla Banca Centrale Europea e da istituti economici – veri e propri poteri politici – che non chiedono voti, non temono il giudizio dei popoli e, in nome del libero mercato, sono pronti a sacrificare il destino dei lavoratori, dei giovani, dei disoccupati e dei pensionati nel nostro e negli altri paesi europei.
Circola in rete un documento. E’ frutto del lavoro di intellettuali, scrittori, docenti universitari, sindacati di base, Fiom, ambientalisti e movimento No Tav e definisce una posizione alternativa e democratica, si fa cuore pulsante di una nuova politica economica sociale, che segni una svolta rispetto alle logiche neoliberiste e autoritarie dei governi di centrodestra e di centrosinistra, apertamente servi degli interessi del capitale finanziario. Pochi punti, ma una scelta netta per battere le logiche che, assieme allo stato sociale e al mondo del lavoro, stanno distruggendo anche la scuola. Occorre coalizzarsi contro il “governo totalitario” delle banche, presidio autoritario ed espressione economica e politica del pensiero unico annunciato da Marcuse. Non siamo di fronte all’incubo metafisico e letterario di un tardivo “1984”. Ci minaccia un progetto politico che ha la concretezza della realtà storica. Contro questa minaccia prendono corpo un progetto alternativo e la possibilità di una svolta radicale. Non sarà facile, ma non c’è altra via. Il prossimo appuntamento è a Roma, per un’assemblea che si terrà venerdì 23 settembre dalle 18.30 alle 21.00 alla Casa del Popolo, a Torpignattara, in via Benedetto Bordoni 50; subito dopo, il 15 ottobre, appuntamento in piazza, a Roma, per per una grande manifestazione lanciata dagli Indignados spagnoli contro le politiche di austerity della UE.
E’ un appuntamento al quale gli insegnanti non possono mancare.

Uscito su “Fuoriregistro” il 20 settembre 2011.

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Il 15 ottobre. Ovunque lo stesso appuntamento. Il 15 ottobre. E poi? Il 16 che si fa, si torna al tran tran dei salotti televisivi e delle quotidiane prepotenze? Dal 15 ottobre. Non l’articolo occorre, ma la preposizione, non un tempo che inizi e finisca, ma quello che da solo è un programma: indeterminato. Ecco, così mi pare chiaro. Ci dicono con aria di sufficienza che se manca il pane ci sono le brioches, e va bene: la Sala della Pallacorda è a portata di mano. Se è così va bene e ci sto: non il 15, no. Dal 15!

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Immagino che la sera spegnerebbe il televisore con un moto di ripulsa sconfortata, subito dopo i titoli del Tg3, nella penombra del suo studio che non ho più rivisto. La sera ci sorprendeva inattesa, come accade di questi tempi, quando il sole d’un tratto si inclina veloce all’orizzonte, per sparire in un preludio di autunno che il caldo micidiale non potrà fermare. Non so che direbbe e, per quanto profonda, non c’è amicizia che consenta di dare la parola a chi non c’è più. Di “libera stampa“, Arfè s’intendeva come pochi e di cialtroni che vendono fumo la sera tra pubblico e privato non si stupiva più. E’ singolare, diceva, l’ambigua passione per i dettagli e il disinteresse voluto per i problemi concreti. E come dargli torto, se in questo disastrato settembre di borse crollate e di vite tagliate, la prima pagina, parlando di scuola, è toccata all’abbraccio tra Lupi e Gelmini? Vera o presunta, la “storica pace”, dopo gli scontri estivi, ha tenuto il campo e “fatto ombra” all’agonia reale della scuola. Il problema di chi ci governa non è, come sarebbe lecito aspettarsi, il crollo verticale degli investimenti che si somma al taglio indiscriminato di risorse per l’ordinario e ai milioni di euro dirottati dal pubblico al privato. Lupi, portavoce degli interessi oscuri di Comunione e Liberazione ce l’ha con Gelmini non perché ha falcidiato gli organici e licenziato persino banchi, lavagne e cattedre. Ce l’ha, perché assume 66 mila precari. La smorfia disgustata di Arfè la conosco così bene, che mi pare di vederla e mi torna in mente chiaro il suo richiamo alla Costituzione. Il dio dei socialisti onesti l’ha risparmiato, chiamandolo a far compagnia al suo Turati, mentre il diritto al lavoro, garantito dalla Costituzione, tocca nervi scoperti dei ciellini e, a dar retta a Lupi e compagni, in futuro sarà difficile diventare docente per chi oggi comincia l’ università. Chi abbia torto o ragione tra i due ras lombardi, per la povera gente, non conta un bel nulla. Tutto quello che c’è dietro gli attacchi violenti, le liti, gli abbracci e i patti di pacificazione è che ormai si governa così, tra guerre per bande che mettono diritto contro diritto, generazione contro generazione, bianco contro nero, lavoratore contro disoccupato. Il Paese si sfascia, la casa crolla e la Costituzione è cartastraccia, con buona pace di Napolitano che si occupa di guerre e manovre finanziarie, qui ammonendo, là invadendo il campo, sempre, ovunque e comunque, ignorando il Parlamento e la sofferenza della povera gente.
Non ho dubbi. Uno storico del valore di Arfè lo vedrebbe lucidamente: sono vere tutt’e due le cose. E’ vero che i precari hanno diritto al lavoro, non meno vero è che ai giovani spetta un futuro. E’ vero e nessuno dovrebbe poter scegliere tra diritti contrapposti. I diritti sono vita per le democrazie. Negarne uno, in nome di un altro, significa ferire a morte la civile convivenza e la giustizia sociale. Nessuno potrebbe, ma lo fanno e non si trova una via per poterli fermare. Tutto questo accade perché dopo la bancarotta del socialismo, il delirio neoliberista che ha causato il disastro, fa la diagnosi e suggerisce le cure velenose che intossicano sempre più un Paese sofferente e sconcertato. La scuola, quella vera e concreta, quella che Arfè amava e ch’era stata la vita di suo padre, la scuola fatta di ragazzi, famiglie, personale docente e non docente, già prima di Gelmini e Tremonti, con Berlinguer, Moratti e Fioroni, ha vissuto di stenti. Quando è arrivata Gelmini a fare da curatore fallimentare, una scuola su due risultava costruita in zone a rischio sismico e fuori norma, un numero impressionante di edifici scolastici era privo di agibilità statica e spesso anche di documentazione igienico-sanitaria; introvabili risultavano gli attestati di prevenzione incendi. Sono poi venuti a mancare gesso per lavagne, sapone nei bagni, asciugamani usa e getta e carta igienica, difficile s’è fatto l’accesso alle cassette per il pronto soccorso e non serve proseguire. Ce n’era quanto bastava per temere il collasso che i dati Inail sugli incidenti del 2008 mostravano incombente: 92.060 infortuni occorsi ai ragazzi (+1,6% rispetto al 2007) e 13.879 ai docenti (+1,8 per cento).
Qui più o meno si fermava la conoscenza diretta del problema quando Arfè se n’è andato. Su questo mare di guai, cancellato ogni principio didattico per far spazio ai conti della spesa, si inseriscono le classi pollaio, in spregio di ogni legale rapporto tra aule e alunni e il sacrificio degli insegnanti precari grida invano vendetta. Mentre i ragazzi iniziano tra le proteste, Lupi e Gelmini non trovano di meglio che puntare all’ennesima guerra tra poveri, per vincere scontri di potere che con la scuola non c’entrano nulla. La Costituzione, diceva Arfè, sarebbe un baluardo, ma più il tempo passa, più si indebolisce. Di mio, ci aggiungo solo che forse basterebbe organizzarsi dal basso e cominciare a dire dei no. No, noi questo non lo faremo. Ripugna alla coscienza e non è legale. Quante volte, a lezione da grandi storici, ho ascoltata l’amara considerazione: questo è un Paese in cui, durante il fascismo, dell’intero corpo docente, all’università, solo in dodici rifiutarono di giurare per Mussolini. “Fortunato quel paese che non ha bisogno di eroi, ha scritto Brecht. Gaetano Arfè, maestro d’altri tempi che se n’è andato il 13 settembre di quattro anni fa, intuendo dove andavamo a parare e guardandomi con disperata compassione, lucidamente corresse: “Io direi: fortunato quel paese che quando ha avuto bisogno di eroi li ha trovati, sventurato il paese che non sappia mantenersene degno“.

Uscito su “Fuoriregistro” il 13 settembre 2011

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Luci e ombre

Questa tua mania di attaccarti alle parole come fossero vita, sangue, muscoli e nervi della realtà non è semplicemente puerile. E’ patologica come un’ossessione e mi mette a disagio…
Dietro il tono pacato di Lucia, s’intuiva una rabbia rancorosa. Sono anni ormai che stai lì a imputarti sui tuoi sogni, i tuoi principi, le tue impossibili storie, ma la vita vera non è quella dei tuoi militanti martiri e santi, pareva dire coi suoi occhi grandi, neri ed espressivi, che si facevano impenetrabili. O forse, forse c’era compatimento nel ripetuto ma impercettibile no della testa tutta ricci abilmente tinti di nero corvino che incorniciavano la fronte in guerra perenne con le rughe. Una sorta di compassione che a stento affiorava sul velluto innaturale del viso, dietro il trucco lieve ma incredibilmente efficace che, Dio solo sa come, cancellava pallori e rossori, esaltando il disegno delle labbra misteriosamente innocenti e sensuali.
Ognuno vede se stesso e gli altri con la luce che gli viene dalle cose in cui crede e per le quali vive. Luci di dentro. Accendono e spengono un mondo che non vediamo com’è, ma come ci appare in un eterno gioco di chiaroscuri che inconsciamente disegniamo.
Alessandro si portava dentro i sogni d’una giovinezza lontana, semplicistici, forse. “Utopie senza futuro“, come da tempo sosteneva Lucia, senza nemmeno provare a dissimulare un dispettoso fastidio che talora pareva disprezzo. “Sogni egualitari con i quali volevamo combattere le fatidiche ‘grandi ingiustizie’ e n’è venuto fuori questo letamaio!
Se la luce di Alessandro si fermava sulla disperazione che sbucava da ogni parte e diventava rivolta, il buio che Lucia portava dentro, pragmatico e cupo, figlio naturale della delusione, ricopriva la disperazione fino a farla sparire. Lei vedeva luci che ad Alessandro parevano ombre: l’abitino griffato che “si porta molto, ma vedi? E’ senza prezzo… Un amore, sì, ma occorre vedere addosso come scende“.
Luci ed ombre.
Il conflitto è nelle cose. Da Eraclito a Marx: acqua e fuoco, ricco e povero, operaio e padrone – ripeteva a se stesso Alessandro che, per Lucia, avrebbe fatto meglio a occuparsi più spesso della barba e dei capelli che l’invecchiavano troppo.
Ed è un peccato, osservava la donna, perché la tua, tu, potresti dirla ancora e non lo vedi…
Come tu dici la tua, certo…
Alessandro, in verità, la sua la diceva, ma sceglieva un terreno diverso: riunioni, appelli in piazza, manifestazioni e, se capitava la manganellata, pazienza. Come un disco incantato, qualcuno allora ripeteva: Alessandro? Su lui sì, su lui si può contare.
Alla fine, ognuno diceva la sua dove gli pareva che ci fosse da dirla. Così, se per Lucia cortei e proteste erano “quanto di più patetico si possa vedere in città al giorno d’oggi“, i periodici “saldi al 30 % da ‘Camomilla’, che poi ti frega e ricicla il museo degli orrori” erano per Alessandro “la prova più evidente dell’inizio della fine“.
Come accade assai spesso nella vita, tra le luci e il buio c’era probabilmente una terra di nessuno in cui si confondevano albe e tramonti, aurore e crepuscoli e l’intera gamma delle tonalità di grigio pronta a miscelarsi a un qualche sconosciuto colore. C’era, impercettibile ancora, ma pronto a germogliare, il mondo nuovo. Più giusto o più ingiusto si sarebbe capito dopo, ma a domandarglielo, Lucia t’avrebbe detto che “tutto rimane in fondo sempre uguale a se stesso” e Alessandro l’avrebbe punzecchiata: “Tu no, tu sei certamente cambiata“. Dentro però, lui continuava a crederci: altri avrebbero provato a cambiare le cose, uno per passione o per ossessione, un altro per compassione di se stesso e degli altri, ci avrebbero provato ancora. E ne sarebbero nati grandi amori, forti passioni, tremende delusioni. Uno avrebbe pensato dell’altro che era patetico e quello l’avrebbe guardato con compatimento. E se l’angoscia lo prendeva e una malinconia invincibile pareva averla vinta, lo sollevava improvvisa una speranza insensata, irrazionale eppure lucida e puntuale.
E’ questo, si domandava, solo questo che resta di quanto abbiamo cercato? Questo resta di noi e degli altri, questo fiume melmoso d’anime, di pensieri e di lamenti? E quand’è che abbiamo sbagliato? Quando c’è parso giusto ribellarci assieme, oppure oggi, che ognuno fa la sua strada e tutti siamo soli?
Lucia stringeva le belle labbra in una smorfia fino a farsi male e replicava:
Non c’è mai stato un tempo della ragione e uno dei torti. C’è la vita che scorre e ci cambia.
Ci cambia quando rinunciamo a cambiarla, brontolava Alessandro, mentre irrimediabilmente la luce sua da dentro oscurava il buio di Lucia.
Luci ed ombre.
Dov’è mai la ragione, se una ragione c’è nell’intrico delle nostre cose? L’improvviso e devastante fragore dei tre cacciabombardieri che a quell’ora partivano puntuali dalla vicina base li schiacciava al suolo come fossero due insetti. Portavano con sé, nei modernissimi motori, un mondo che voleva essere nuovo ma pareva antichissimo. Un mondo che chiamava pace la guerra e divorava in mille modi la vita: i fuggiaschi lasciati a morire nel Mediterraneo, i giovani senza futuro, i vecchi senza pensione, gli operai sempre più servi della produzione. In quell’arroganza senza limiti, luci e ombre si fondevano in un sentimento di rabbia indistinta che risvegliava pensieri politici e sogni del passato. Era come la terra tremasse; Lucia e Alessandro ora lo sentivano bene senza bisogno di parlare: c’era nell’aria tutta l’elettricità d’un fulmine improvviso che nella notte, col rombo cupo del tuono, annuncia la burrasca.

Uscito l’1 settembre su “Fuoriregistro

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