«Come t’è venuto in mente di rileggerlo?», ti chiedi angosciato, mentre il vecchio libro torna al suo posto nello scaffale della libreria. Il punto di domanda, però, non si ferma in coda alla frase. Cade giù a picco nel mare delle riflessioni e apre cerchi concentrici, come un sasso in uno specchio d’acqua. Non hai voglia di cercare una qualche risposta, ma il diavoletto critico che ti vive dentro da sempre incalza petulante: «Perché l’hai riletto?».
Potresti dirgli che non ricordi e non t’importa di sapere perché, ma quello insisterebbe e perciò gli rispondi, anche se in fondo parli solo a te stesso:
«Non lo so. Forse perché il vecchio Jhon Pilger va raccontando in giro che ormai “1984” passa per un libro d’altri tempi, una storia superata, inoffensiva e a modo suo persino rasserenante. Sì, forse è andata così. E’ stato Pilger».
Non fai in tempo a dirlo, ed ecco che anche Pilger diventa un sasso che cade nel lago profondo dei pensieri e apre cerchi sempre più larghi, uno nell’altro, uno più largo dell’altro. E’ una vertigine oscura che ti confonde: ieri, oggi, insiemi infiniti di punti tutti ugualmente distanti dal sasso che affonda, punto da cui parte il raggio di una circonferenza che si allarga… Piaccia o no, si riflette.
Ora che ci pensi, mentre leggevi, ti sei ricordato che Orwell l’aveva previsto il rischio che le democrazie, svuotate, si chiamassero fuori, riducendosi a forma che banalizza la sostanza. Altro che libro d’altri tempi! In fondo Orwell ci aveva messi sull’avviso: «per essere corrotti dal totalitarismo non occorre vivere in un paese totalitario».
«M’ha fatto bene rileggere, anche se c’è poco da stare allegri», mi dico, mentre il diavoletto critico mi toglie la parola:
«Una democrazia malata, tutta forma e niente sostanza è il brodo di cultura ideale per un nuovo totalitarismo. Non vedi? Più sale la febbre ai Parlamenti, più si parla ossessivamente di crisi, più numerosi sono i sedicenti democratici che insistono sulla panacea di tutti i mali: le loro maledette «riforme». Ci vogliono, dicono, tentando d’essere persuasivi, sono indispensabili, perché, se non si fanno, il capitale straniero non presta soccorso e ci va di mezzo la povera gente».
«Diavolo d’un diavoletto, hai ragione!», esclami, con un senso d’angoscia. «Questa falsa speranza non è la trovata estemporanea di gente che non sa come affrontare la crisi. E’ l’esatto contrario: una pillola di propaganda per sprovveduti, che parte da un principio rivoluzionario, lo rovescia come un guanto e ne fa una verità per fede di un integralismo controrivoluzionario».
«L’hai capito, eh!» ti fa compiaciuto il diavoletto, mentre il sasso allarga i cerchi e ti porta lontano.
«Certo che ho capito, diamine. Una volta tutto questo ce l’avevamo chiaro… Il capitale privato straniero…» cominci a dire, mentre rivive un mondo, ma il diavoletto ti anticipa e ti toglie le parole di bocca. Ora sì, ora è proprio la tua coscienza ritrovata, il tuo lontano passato: un giovane biondo, gli occhi celesti e i riflessi pronti.
«Il capitale straniero non si muove per generosità» mi dice con tono didattico. «Non si muove per un nobile atto di carità, non si muove né si mobilita per il desiderio di arrivare ai popoli. Il capitale privato straniero si mobilita per aiutare se stesso».
Rammenti il corpo senza vita d’un uomo che non morirà ed esclami emozionato: «Guevara, Ernesto Guevara, il Che. Ed è vero, verissimo! Chi l’ha liquidata a colpi di fucile come meritava, gentaglia come questa, ci ha lasciato in eredità la sua lezione. E importa poco se non tutto è andato come voleva. Chi aveva da pagare pagò e la prossima volta andrà meglio».
In realtà, non sei tranquillo come pare: «Scatenare una guerra nei confini dell’impero?», chiedi a te stesso, mentre una domanda sorge insopprimibile: «Chi dice che il momento è buono? E dopo, come se ne esce dopo?».
La risposta è immediata: «Tu lo sai bene che è il momento giusto».
Chi è che parla ora? Tu o il diavoletto che ti ha indotto a ragionare con te stesso? Chiunque sia, ancora una volta ti torna in mente il Che:
«Quando le condizioni pacifiche di lotta si esauriscono, quando i poteri ancora una volta tradiscono il popolo, non soltanto si può, ma si deve inalberare la bandiera della rivoluzione».
E’ il diavoletto, coscienza critica e angelo custode, che parla alla tua titubanza:
«Non sai come si fa a scatenare una guerra nei confini dell’impero? Davvero non lo sai? Guardati attorno. Non vedi? Ci sono armi a volontà, basta volerle. Cura di farti capire e non tentare la via individuale, perché gli ideali nobili hanno bisogno di molte braccia e liberi consensi. Gli uomini non mancano, come non mancano le ragioni politiche e morali. Si vive come servi in fazzoletti di terra espropriata e inzuppata di rabbia, ma la rabbia è benzina. Un cerino, uno solo e i pifferai la pianteranno. Sfruttamento, bambini massacrati, l’immancabile guerra umanitaria al “barbaro” di turno. Basta. Gli incendi scoppieranno facilmente. Difficile sarà domarli; quando sei alle prese col fuoco e alle spalle ti scoppia un nuovo incendio, tutto si complica e il terzo diventa devastante. Quanti macellai in armi girano il mondo per conto dell’impero? Dovranno richiamarli a tutta velocità e non basteranno. Si tratta solo di decidersi e organizzarsi…».
Ora ti pare di vederli il fumo che si leva e il fuoco che avvampa, acre e liberatorio. Nel fumo, l’antica lezione:
«Il guerrigliero è, fondamentalmente e prima di tutto, un rivoluzionario. Il guerrigliero è un riformatore sociale. Il guerrigliero impugna le armi come protesta adirata del popolo contro i suoi oppressori e lotta per cambiare il regime sociale che tiene tutti i suoi fratelli disarmati nell’obbrobrio della miseria».
Non basta condannare la violenza, se un potere violento esaurisce ogni condizione pacifica di lotta. E mentre parli a te stesso, uno dentro l’altro, uno più largo dell’altro, mille cerchi si vanno allargando.
Archive for agosto 2014
Il diavoletto di Orwell
Posted in Racconti, tagged "1984", democrazia, Ernesto Che Guevara, George Orwell, guerrigliero, Jhon Pilger, Parlamenti, totalitarismo on 28/08/2014| 2 Comments »
Il ribrezzo del prof. Giannuli
Posted in Interventi e riflessioni, tagged Agoravox, Aldo Giannuli, crimini di guerra, genocidio, Hamas, Israele, Palestina, pulizia etnica, ribrezzo, strage on 21/08/2014| 8 Comments »
E’ la seconda volta in pochi giorni che dalle pagine virtuali di Agoravox, il professor Giannuli ci fa la lezione su Israele che macella carne umana in Palestina ma per questioni di numero non giunge al genocidio. Nulla da dire se, dopo i commenti sfavorevoli, Giannuli si fosse limitato a un corso di recupero per lettori che ritiene impreparati; per fortuna c’è ancora libertà d’insegnamento. Le cose però non stanno così. Senza rivolgersi direttamente a chi lo contesta, il noto ricercatore ha sparato nel mucchio e s’è lasciato andare a pesanti giudizi su chi dubita della sua scienza e non accetta la lezione; chi l’ha criticato e non ha ricevuto risposta non saprà mai se collocarsi tra quanti fanno chiacchiere «da bar dello sport», per citare le sprezzanti parole dello storico, o è stato inserito d’ufficio in una lista segreta di «piccoli confusionari irresponsabili, che non si rendono conto dei danni che fanno».
Sommessamente e col rispetto che si deve a chi esprime un’opinione, questa non è democrazia partecipativa e mal si concilia con gli obiettivi di un sito tra i migliori nel suo genere. Trasferendo in un articolo la discussione sul suo intervento, Giannuli, infatti, ignora lo spazio dei commenti, dedicato al confronto e snatura la bella struttura di Agoravox, che non è un blog personale, in cui ognuno si dà le regole che vuole. Rispondere ai commenti significa, infatti, aprire una discussione con un lettore e fare i conti con le sue eventuali obiezioni. Un autore può scegliere legittimamente di ignorare eventuali provocatori, ma quando se la prende genericamente con tutti e nessuno, impedisce la replica e trasforma la discussione in un processo in cui c’è l’accusa, ma manca la difesa.
Giannuli ha ragione: le «parole sono pietre». Purtroppo però, dopo averlo detto, se ne dimentica e tira sassi su chi lo critica. Basta leggere la conclusione dell’articolo per rendersene conto. Ai “cari amici” dissenzienti, infatti, il ricercatore rivolge una domanda a dir poco oltraggiosa: «posso dirvi che moralmente mi fate un po’ ribrezzo per la vostra irresponsabilità?».
Da oggi in poi, chi vorrà evitarsi le sassaiole del professore, parlando della politica di Israele scelga, per favore, tra pulizia etnica, crimini di guerra o strage e si mostri in linea col Giannuli-pensiero, insinuando ciò che insinua Giannuli: se potesse, Hamas «perseguirebbe obbiettivi di pulizia etnica a parti scambiate». Quando diremo ciò che dice il professore, non faremo ribrezzo e ci riabiliterà.
Non c’è dubbio, se la redazione consente, ognuno ha diritto di scrivere ciò che crede, però lasciatemi dire senza intenti polemici che a me fa ribrezzo la parola ribrezzo rivolta a chi dissente. Fanno ribrezzo i criminali di guerra, gli autori di stragi e chi fa pulizia etnica. Da un punto di vista morale, mi fa ribrezzo l’insinuazione che riguarda Hamas, perché è tutta da dimostrare e potrebbe anche essere campata per aria, intanto, però, infanga la resistenza palestinese e mette sullo stesso piano truppe di occupazione impegnate in stragi criminali e combattenti di un popolo oppresso che lotta per la libertà.
Francesco Misiano: pillole di memoria o memoria in pillole?
Posted in Storia, tagged Armido Abbate, Enrico Russo, Franca Pieroni Bortolotti, Francesco Misiano, Giancarlo Bocchi, Giovanni Spagnoletti, Giuseppe Berti, Hollywood rossa, Maria Conti, Michaela Bohmig, Michele Fatica, Oreste Abbate, Paolo Spriano, Pci, Togliatti, Walter Misiano on 20/08/2014| 2 Comments »
Il 17 agosto scorso, in un articolo dal titolo accattivante – «L’italiano della Potemkin. Francesco Misiano, l’uomo che inventò la Hollywood rossa» Giancarlo Bocchi ripercorre la vita avventurosa e appassionante di Francesco Misiano, rivoluzionario calabrese che – scrive giustamente – «è indissolubilmente legata alla storia del cinema e in particolare all’”età dell’oro” del cinema russo. Capolavori come La Corazzata Potemkin non sarebbero mai arrivati ad un successo internazionale e epocale senza il suo intuito. Inventore della cosiddetta “Hollywood rossa”. Misiano fu in sostanza il più grande produttore cinematografico dell’Unione sovietica. Riuscì a realizzare quattrocento tra film e documentari». Chissà, forse per aggiungere un alone di maggior mistero alla sua bella storia, Bocchi sostiene che nel dopoguerra Misiano fu cancellato dalla memoria collettiva. Ormai, quando si tratta di tirare calci al Pci, nessuno perde l’occasione e la gratuita pesantezza degli attacchi induce a schierasi per il partito che fu di Bordiga e Gramsci anche chi nella sua giovinezza lo ha lungamente combattuto.
Non è vero che Misiano fu cancellato. Giuseppe Berti lo ricordò in occasione della morte in un efficace ritratto del 1937 e nella sua Storia del PCI Paolo Spriano lo ricorda numerosissime volte. Di lui parla a lungo, in termini critici, Michele Fatica in un saggio del 1971 intitolato Le Origini del Fascismo e del Comunismo a Napoli; solo un anno dopo, nel 1972, Franca Pieroni Bortolotti ha firmato il suo Francesco Misiano: vita di un internazionalista. Nel 1997, poi, Giovanni Spagnoletti, in collaborazione con Michaela Bohmig, ha curato il volume Francesco Misiano o l’avventura del cinema privato nel paese dei bolscevichi, un libro che anticipa buona parte delle «rivelazioni» di Bocchi, il quale – come capita sempre più spesso ai giornalisti – non mostra un gran rispetto per il lavoro altrui.
La parte meno nota della vita di Misiano è certamente quella che riguarda la sua fine. L’articolo di Bocchi, del resto, bello sì, ma troppo «sensazionalistico» per tentare la via del rigore, tace su molte pagine significative della vita di Misiano e si guarda bene dal dire che fu iscritto alla Massoneria. In realtà, Misiano fu un noto dirigente della sezione napoletana del Sindacato Ferrovieri prima della “Grande Guerra” e nel dopoguerra divenne segretario della Camera Confederale del Lavoro di Napoli. Nella storia narrata da Bocchi spariscono le relazioni che intrattenne fino all’ultimo con i compagni campani, in primo luogo con Oreste Abbate, ferroviere napoletano, anarchico e poi bolscevico, rivoluzionario, antimilitarista e disertore, come lui, che con Misiano aveva partecipato a Berlino ai moti spartachisti. Condannato a morte dai tedeschi e sfuggito all’esecuzione, anni dopo aveva raggiunto in Russia il compagno, aveva criticato aspramente il regime instaurato da Stalin e dopo la morte dell’amico si era rifugiato in Francia. In ombra resta soprattutto la figura della moglie di Misiano, Maria Conti, e non trova risposta una domanda che non è priva di significato: com’è che dopo la fine del marito e la persecuzione che si sarebbe scatenata contro di lei, la donna non solo rimase a Mosca, ma tra il 1937 nel 1938 si adoperò perché il figlio Walter, «minorato fisico», lasciasse Napoli, dove viveva con lo zio Mario Conti, e la raggiungesse a Mosca? La risposta ci aiuterebbe a capire meglio che accadde davvero a Misiano.
Il viaggio di Walter, di cui il regime fascista era perfettamente a conoscenza, fu organizzato tra la Francia e Napoli da Oreste Abbate, il vecchio compagno che aveva combattuto con Misiano mille battaglie, e dal fratello di Oreste, Armido, anarchico napoletano e perseguitato politico, che conosceva Misiano dai tempi del Sindacato ferrovieri, di cui era stato a Napoli il Segretario provinciale. Non è una domanda banale, così come non è banale ricordare che ben altri silenzi sono a poco a poco caduti sui protagonisti di questa complessa vicenda politica. Del tutto sconosciuto, infatti, è Oreste Abbate, che nel 1948 viveva ancora in Francia e probabilmente non tornò mai più in Italia; ignorato è stato Armido, di cui solo agli inizi di questo secolo una mia breve biografia ha ricordato la figura di antifascista che fu poi combattente delle Quattro Giornate, ma non figura nemmeno nell’elenco dei partigiani riconosciuti. Era stato critico feroce del Patto di Roma, l’accordo tra DC, PCI e PSI, che soffocò nella culla la CGL ricostituita da un altro grande «dimenticato»: Enrico Russo, segretario regionale della Fiom, combattente di Spagna e avversario di Togliatti, di cui contestò le scelte dopo l’armistizio. Se Misiano finì i suoi giorni in un sanatorio. Enrico Russo, letteralmente cancellato dalla storia, morì solo e dimenticato in un ospizio per i poveri. Aveva rifiutato l’incarico di Ministro del Lavoro che gli era stato offerto da Togliatti per addomesticarne l’opposizione.
Bocchi non lo sa, ma il silenzio, quello vero, che pesa e che ha un profondo significato politico, non nasce dai dissensi e dagli scontri dolorosi che caratterizzano la storia della sinistra. Il silenzio più terribile è quello di una storiografia che, pronta a salire sul carro dei nuovi padroni, ha lasciato da tempo la storia del movimento operaio e socialista in mano a giornalisti a caccia di scoop.
Di Battista ha ragione, il capitalismo è il vero terrorista
Posted in Carta stampata e giornali on line, tagged Afganistan, CIA, Di Battista, ENI, fondamentalismo, golpe, Guantanamo, Iraq, ISIS, Libia, Mattei, Obama, profitto, terrorismo, USA on 18/08/2014| 2 Comments »
I confini dell’Iraq sono figli legittimi del capitalismo. Un reato e un dito puntato su moralisti e finti pacifisti che predicano guerre “umanitarie”, come un tempo la rassegnazione per i bambini schiavi nelle zolfare in attesa della provvidenza. Linee tracciate con la riga, una gabbia e dentro molte minoranze e genti inconciliabili tra loro: sciiti, curdi e i sunniti. Chi prega per la tragedia irachena chiama in causa un Dio che non c’entra. Il fondamentalismo responsabile del dramma si chiama capitalismo: ha il feticcio del mercato sull’altare e il suo corano è la legge del profitto. La vicenda dell’Iraq, metafora del nostro tempo, ha due volti: in scena istanze autonomiste, colpi di Stato, ripetuti macelli, resistenze e attentati. Dietro le quinte l’Occidente che mira al petrolio.
Senza andar troppo indietro, la successione di eventi nel secondo dopoguerra raggela. Nel 1956, con la crisi di Suez, Baghdad diventa importante base inglese e nel 1958 c’è l’Occidente dietro la caduta della monarchia. Nel 1961 gli inglesi dichiarano indipendente quel Kuwait, che Baghdad ritiene terra irachena. Karim Qãsim, primo ministro, apre trattative con partner diversi da quelli angloamericani, tra cui l’ENI di Mattei. Risultato? A ottobre del 1962 l’aereo di Mattei esplode in volo; tre mesi dopo, nel febbraio 1963, la CIA favorisce un golpe e Qãsim, che ha proibito di assegnare nuove concessioni petrolifere alle multinazionali straniere, fa la stessa fine di Mattei. La stampa si guarda bene dal dirlo, ma Tommaso Buscetta, riferì a Falcone che Mattei fu ucciso da “Cosa Nostra” su richiesta di agenti stranieri, com’era accaduto con Mauro De Mauro, il giornalista che sapeva troppo sul caso Mattei.
Si può essere ostili al movimento di Grillo – è peggiore di Forza Italia? – ma se Di Battista scrive che il caso Iraq ripete ciò che s’è già visto più volte, non sbaglia. in Irak, gli occidentali hanno prodotto presidenti fantoccio, guerra civile e miseria. Saddam Hussein, alleato di ferro degli Usa, utilizzato in funzione antiraniana e rifornito di gas tossici, li usò prima nella guerra con l’Irak , poi contro i curdi; a partire dall’11 settembre del 2001, con l’attentato alle Torri Gemelle, in Iraq non c’è stata più pace. Gli Usa e i loro alleati hanno sulla coscienza non solo il milione di morti causati dal conflitto iraniano, ma le guerre civili e gli innumerevoli golpe che hanno travagliato il pianeta. Basterebbe ricordare che nel 1954 fu la CIA ad armare mercenari dell’Honduras contro Arbenz, Presidente del Guatemala eletto legalmente, che aveva espropriato terre incolte della statunitense United Fruit Company. Stesso copione con Allende in Cile. Fanno parte della storia, per tornare all’Irak, Colin Powell e le menzogne narrate all’ONU per aggredire Saddam Hussein, inventandosi inesistenti armi di distruzione di massa. La guerra costò innumerevoli vittime civili. Noi ci scandalizziamo per le vittime dell’ISIS, ma quali sono le responsabilità dell’Occidente? Perché compriamo gli F35, che sono pane tolto di bocca ai figli dei lavoratori massacrati? Non serviranno ancora una volta per colpire “terroristi” e massacrare civili? E’ ora di finirla con scelte criminali, che hanno un’unica origine: la sottomissione della politica all’economia e la subalternità dell’Italia agli USA.
Di Battista fa scandalo? Scandalosi sono l’ipocrisia e il conformismo imperanti. Se feroce è infatti la violenza dell’ISIS, criminale e disumana fu la menzogna propinata dal Segretario di Stato USA all’ONU. “Mi chiedo per quale razza di motivo si provi orrore per il terrorismo islamico e non per i colpi di stato promossi dalla CIA”, scrive Di Battista. Bestemmia? E allora bestemmierò anch’io. Mandare gambe all’aria un governo legalmente eletto per oscene questioni di profitto, mettendo nel conto la guerra civile e le vittime che produrrà, non è forse un disegno criminale?
Invece di fare classifiche tra terroristi, chiediamoci dove ci condurrà la scelta di seguire ancora gli USA che hanno causato fame, miseria, disperazione e morte. A Roma, nel 2003, scrive Di Battista, contro l’intervento militare italiano in Iraq, dicevamo: “se uccidi un terrorista ne nascono altri 100”. Come negare che siamo stati facili profeti? Come pensare di armare i curdi sapendo che alla prima occasione useranno le armi come vorranno? Esistono vie diverse da quelle che calpestano sistematicamente il diritto internazionale. Da tempo gli USA si proclamano poliziotti del mondo e noi gli andiamo dietro, ingannando noi stessi. Che poliziotti potranno mai essere coloro che hanno sostenuto golpe in tutto il pianeta, venduto armi a tutti i dittatori fedeli e affamato mezzo mondo, pur di sfruttare la più gran parte delle risorse mondiali? Che credito può avere chi, con la scusa del terrorismo, ha invaso l’Iraq e l’Afghanistan e ha lasciato mano libera ai criminali sionisti? Come si fa a ignorare che con i loro bombardamenti terroristici gli USA hanno moltiplicato gli attentati? Di Battista ha ragione: in Irak non si è esportata la democrazia, ma “25.000 contractors […], uomini e donne armati di 24ore che lavorano in tutti i campi, dalle armi al petrolio passando per la vendita di ambulanze. La guerra è davvero una meraviglia per le tasche di qualcuno”.
Non si tratta coi terroristi, si dice. Ma dov’è scritto e chi appioppa questa terribile etichetta? Gli Usa di Hiroshima e Guantanamo? Apriamo un tavolo in cui parlare di pace in Medio Oriente; ci si seggano tutti, l‘Europa, l’Iran, la Lega Araba, il gruppo dell’ALBA, la Russia, criminalizzata senza mai esibire una prova, mentre è provato che a Kiev governano i nazisti. Pace, non subordinazione a Obama, al quale va detto che Guantanamo è un crimine atroce e Powell ha reso inaffidabili gli Usa. Niente armi, per cominciare, né ai curdi, né ad altri. Non parli di pace mentre vendi armi a chi ti pare e ti arricchisci creando povertà, immigrazione e guerra. Di Battista ricorda che nel “2012 la Lokeed , quella degli F35, ha incassato 44,8 miliardi di dollari, più del PIL dell’Etiopia, del Libano, del Kenya, del Ghana o della Tunisia”. Chi si scandalizza per i crimini dell’ISIS, quindi, è lo stesso che gli ha messo in mano le armi. “Armiamo i curdi”, si dice. Ma chi può escludere che, vinta la guerra non volgeranno le armi su altri? Non è stato così con Saddam, in Afghanistan e in Libia “dove la geniale linea franco-americana che l’Italia ha colpevolmente assecondato, ha eliminato dalla scena Gheddafi facendo cadere il Paese in un caos totale? L’Italia dovrebbe trattare il terrorismo come il cancro […] eliminandone le cause, non occupandosi esclusivamente degli effetti”, afferma Di Battista. Come dargli torto? Come negare che chi condanna Boko Aram in Nigeria, tace sull’ENI che, impoverendo i nigeriani, agevola i fondamentalisti? Perché ignorarlo? Se un drone ti bombarda la casa e ti uccide i figl, se non hai droni e non hai soldi per comprarne, fai di te stesso un’arma. Autobomba o drone, l’esito è uno: uccidi innocenti. Chi lo dice giustifica i terroristi? No. Usa la testa e fa politica, riconoscendo errori che hanno fatto crescere la violenza e provando a capire come uscirne.
Isolare i disperati vuol dire moltiplicarli. Cominciamo col riconoscere i nostri integralismi e basta con l’ipocrisia: una bomba tirata su una scuola dell’Onu piena di rifugiati è un atto terroristico. Lo è soprattutto quando l’ONU, testimone neutrale dichiara: “avevamo avvisato chi bombardava. Qui ci sono solo persone inermi, niente armi, né armati”. Cominciamo da qui, invece di scandalizzarci per parole che condannano i bombardamenti terroristici sulle città. Cominciamo col dire no agli F35, che useremo per compiere azioni terroristiche e scatenare risposte terroristiche. Sono scelte che possono fare Renzi e l’Europa delle banche? No. E allora lottiamo per liquidare Renzi e chiudere i conti con una Europa unita che non ha nulla da spartire con quella degli antifascisti che la progettarono.
Uscito il 18 agosto 2014 su Agoravox.
Il mestiere di storico
Posted in Dicono di me, tagged Antifascismo popolare, Croce e Fortunato, fascismo, guerra civile, Luigi Ganapini, Napoli, Quattro Giornate, recensione, Spagna on 16/08/2014| 5 Comments »
Dedicato a Marco
Il Mestiere di Storico, 
anno 2010, n. 2, p. 138
Luigi Ganapini,
recensione a
Giuseppe Aragno, Antifascismo popolare. I volti e le storie, Roma, Manifestolibri, 2009, 192 pp.
Con bel piglio narrativo Aragno racconta le storie dell’opposizione al fascismo. Storie di singoli, donne e uomini, seguiti nei percorsi di persecuzione, d’esilio, o di carcere o di confino. Le ha raccolte negli incartamenti della polizia politica e di qui poi ha cercato integrazioni nelle memorie, nella stampa dell’epoca e infine nelle biografie edite. Il suo, dichiara, è un viaggio in treno che parte da Napoli nel 1937: e in quel viaggio metaforico, messi da parte l’ordine cronologico e i nessi causali, si ferma a guardare e a descrivere i personaggi che va incrociando, a partire da quelli che, in drappello, la polizia sta scortando verso il carcere proprio mentre lui – Aragno – sta scendendo dal treno. Deve essere per forza una storia che non dà peso determinante a temi e a scansioni e a moduli interpretativi canonici: l’antifascismo che lui vuol rappresentare non obbedisce ai canoni di una storiografia che mette al centro l’epopea del Partito comunista clandestino; è piuttosto l’epopea dell’antifascismo «popolare», se con tale termine si intende un antifascismo diffuso che copre un arco amplissimo, che va dall’anarchico al liberale. Con ciò non esclude i militanti del Pci; il suo cuore batte là dove emerge la protesta morale, la fedeltà alle grandi idee liberali e libertarie. La storia dell’Italia nel fascismo non è solo «storia della lotta al fascismo»; ma «sarebbe impossibile ricostruirla senza tener conto del ruolo che l’antifascismo vi svolse. Un antifascismo dai mille volti, complesso e articolato, contro il quale un regime odioso e tracotante urta costantemente, nonostante la durezza della repressione» (p. 49). Storie dunque complesse, che ci conducono fino alla Spagna della guerra civile, mentre fanno emergere il profilo dell’antifascismo borghese e liberale, l’antifascismo colto che ha come riferimento personalità quali Croce e Fortunato, dietro i quali «si mantengono attive coscienze critiche in grado di aprire piccole ferite nel fianco del regime» (p. 69). Napoli è lo scenario donde scaturiscono tutte queste storie, che suggeriscono anche – mi pare – un sottile intento polemico verso la storiografia che ha individuato nel Nord industriale e operaio il nucleo decisivo dell’opposizione al fascismo. Tanto più che il capolinea di gran parte delle storie è rappresentato proprio dalle quattro giornate di Napoli: non più moto popolare indistinto, luogo dell’emozione antitedesca, ma frutto della lunga tenace opera di un antifascismo diffuso, radicato profondamente in una Italia ben lontana dall’essere integralmente prona ai voleri del duce e alle sue arti incantatrici. È comunque difficile da sintetizzare: «l’antifascismo, così come lo vado conoscendo in questo mio viaggio, ha molte anime» (p. 123). E proprio per questa capacità di far vivere tante storie differenti in quadro unitario, questo libro si presenta come un bell’esempio di ricerca storica, di scrittura accattivante e appassionata, da cui molti avrebbero da imparare. Due soli appunti, non all’a. ma all’editore. In un libro del genere un indice dei nomi è strumento essenziale; e magari anche lo scioglimento delle sigle archivistiche potrebbe tornare gradito a qualche pignolo.
I servizi smentiscono Obama: l’aereo l’ha abbattuto Kiev!
Posted in Carta stampata e giornali on line, tagged Berdn Biederman, Gaza, Haris Hussain, Israele, Kiev, La Stampa, Maria Grazia Bruzzone, Mogherini, News Straits Times, Obama, Putin, Robert Parry, Russia, separatisti russi, Ucraina on 15/08/2014| Leave a Comment »
I servizi segreti mollano il Nobel per la pace più guerrafondaio che la storia ricordi? Si direbbe di sì. In Italia pennivendoli e velinari si guardano bene dal riprendere la notizia, ma esistono ancora giornalisti che badano al buon nome. Sulla Stampa, che non è certo filo Putin, il 12 agosto Maria Grazia Bruzzone, nei modi più adatti alla digestione degli Agnelli e del gruppo Fiat–Chrysler, la notizia l’ha data con ferma prudenza e – ciò che più conta – citando fonti che in gergo si definiscono «bene informate». A raccontare che lo sventurato MH17 malese l’ha buttato giù un aereo è stato, infatti, Haris Hussain il 7 agosto sul News Straits Times Online, che esce in Malaysia e non è il solito blog alternativo, ma il più importante giornale inglese del Sudest asiatico. Una voce, insomma, che non avremmo ascoltato senza il preventivo controllo del governo malese. Sarà stata poi una coincidenza, ma, guarda caso, proprio il 7 agosto il governo della Malaysia ha annunciato ufficialmente che presta sarà di pubblico dominio un primo rapporto sul disastro del 17 luglio scorso.
Perché La Stampa parli e gli altri stiano zitti è un mistero italiano, ma la notizia è a dir poco imbarazzante per Obama e i suoi untorelli e spiega perché della «scatola nera» non si parli più. Gli «analisti dell’intelligence degli Stati Uniti» – riferisce infatti la giornalista – «hanno già concluso che il volo MH17 è stato abbattuto da un missile aria-aria e che il governo ucraino ha a che vedere con la faccenda. Ciò corrobora la teoria che va emergendo tra gli investigatori locali secondo la quale il Boeing 777-200 è stato colpito da un missile aria-aria e poi finito con il cannone di bordo di un caccia che gli stava dietro”. A completare l’opera, aggiunge la giornalista, «l’esercito russo ha presentato immagini e dati dettagliati che mostrano un caccia Sukhoi-25 in coda al Boeing MH 17 prima del crash. Il regime di Kiev tuttavia nega che vi fossero caccia in volo».
L’’accusa è così precisa, che le scelte dell’amministrazione Obama, cui si è subito allineata l’UE, appaiono campate per aria, strumentali e stupidamente minacciose. Per non dire del governo italiano e della Mogherini, che Renzi vorrebbe imporre come titolare della sia pure inesistente politica estera dell’Unione. Ci sarebbe da ridere, se la vicenda non fosse tragica e non emergesse lo scellerato l’intento di colpire la Russia, inventandosi un missile terra-aria lanciato dai separatisti dell’Ucraina e accusando in malafede Putin, che invano chiedeva un’inchiesta internazionale condotta con rigore e neutralità. Eppure, ricorda la Bruzzone, sin dal 21 luglio, i russi «mostravano immagini satellitari e tracciati radar che provano la presenza di almeno un caccia ucraino Sukhoi-25 in volo a 3-5 km di distanza dal MH17. Presenza che», ripetevano, «può essere confermata dai video del centro di controllo di Rostov».
Ora, a sostegno dei russi, compaiono altre prove. C’è un monitor dell’OSCE canadese-ucraino, che ha filmato i rottami poco dopo l’abbattimento. Una testimonianza sconcertante, anche perché fa riferimento a un filmato trasmesso il 29 luglio da una televisione canadese di cui il giornale riporta il link. Un testimone afferma che «c’erano due o tre pezzi di fusoliera letteralmente crivellati da quel che sembra essere il fuoco di una mitragliatrice». Non bastasse, il tedesco Peter Haisenko, pilota in pensione della Lufthansa, dopo un’analisi molto accurata delle foto del relitto comparse sul web subito dopo l’abbattimento-e soprattutto i fori di entrata e uscita visibili su entrambi i lati del velivolo – è pronto a giurare che non c’è stato nessun missile sparato dal basso: la cabina del pilota, infatti, è stata trapassata da colpi di mitra provenienti dall’esterno, sia da destra che da sinistra.
Berdn Biederman, poi, originario della Germania dell’Est, un altro colonnello che conosce come le sue tasche la tecnologia missilistica sovietica e russa, afferma che «il boeing non può essere stato abbattuto da un missile terra-aria». Perché? Semplice e a quanto pare inconfutabile: sarebbe andato subito in fiamme grazie alla gran quantità di energia cinetica contenuta da quel tipo di missile. L’aereo malese, invece, s’è incendiato solo in seguito all’impatto tra suolo e carburante. Il News Straits Times Online, infine, a questo punto davvero credibile, accenna ai numerosi articoli usciti sul web, che fanno aperto riferimento a una Germania stanca e irritata dalla violenta campagna americana e al malumore tedesco per l’incessante propaganda Usa nei confronti dei programmi energetici della Merkel, che starebbe pensando alla creazione di «un blocco alternativo a quello americano». A parte i dettagli tecnici sulla compatibilità dei fori e sui proiettili delle armi montate sui caccia ucraini, decisamente inquietante è il caso di un controllore di volo spagnolo, che lavora a Kiev ed è stato misteriosamente rimosso dopo l’abbattimento; l’uomo, infatti, afferma che i tracciati registrati dai radar sono stati subito requisiti.
In un gioco oscuro , che invece di cancellare prove conferma certezza, proseguono intanto le rimozioni da Internet di tutto ciò che rafforza la tesi dell’attacco aereo. Il News Straits Times riferisce inoltre che Robert Parry, noto giornalista investigativo americano, si è rivolto personalmente a uomini dell’Intelligence, che dopo aver chiesto l’anonimato hanno seccamente smentito Obama: secondo questi analisti dell’Intelligence a stelle e strisce, i ribelli e la Russia non c’entrano nulla con l’abbattimento,voluto a quanto pare da un’ala estrema del governo ucraino. Di fatto, al di là di chiacchiere e minacce, il governo USA non ha mai fornito uno straccio di prova sulle responsabilità della Russia e senza Putin i ribelli non avrebbero mai potuto disporre di un sistema missilistico anti aereo in grado di abbattere l’aero malese alla quota in cui volava. Parry è sconcertato, perché mentre l’ «isteria» dell’amministrazione Obama si scatenava contro la Russia, nessun giornalista, ha mai chiesto «cosa mostrano le immagini satellitari»; un comportamento che ricorda molto da vicino la stessa «assenza di sano scetticismo professionale riscontrata sull’Irak, la Siria e altrove». Ci «saranno anche dei limiti a quel che i satelliti vedono», annota Parry, «ma i missili del sistema Buk sono lunghi 16 piedi (circa 5 metri), le batterie sono montate su un camion, e quel pomeriggio la visibilità era ottima». E’ strano che a nessun giornalista sia venuto in mente che i soli a possedere le batterie di Buk – come ben sa l’Intelligence Usa – sono i militari del governo ucraino. Per nulla intimorito dal clima creato da Obama attorno alla vicenda, Parry, concludendo, riferisce, perciò, che «l’ipotesi di lavoro degli analisti Usa è che una batteria Buk di missili SA-11 e uno o più aerei militari abbiano potuto operare insieme andando a caccia di quello che credevano fosse un aereo russo, forse addirittura l’aereo presidenziale che riportava in patria Putin dal Sud America».
Qui ci si può anche fermare, senza seguire le mille ipotesi. Volontario o involontario, l’attacco c’è stato. Volontaria è stata – e tale rimane – la violenta campagna antirussa di Obama e la vergognosa la scelta dell’Occidente di imporre sanzioni ai russi e di sostenere i crimini commessi a Gaza da Israele sotto gli occhi del mondo inorridito.
Uscito il 18 agosto su <a href=”secondo questi analisti dell’Intelligence a stelle e strisce, i ribelli e la Russia non c’entrano nulla con l’abbattimento, voluto a quanto pare da un’ala estrema del governo ucraino. Di fatto, al di là di chiacchiere e minacce, il governo USA non ha mai fornito uno straccio di prova sulle responsabilità della Russia e senza Putin i ribelli non avrebbero mai potuto disporre di un sistema missilistico anti aereo in grado di abbattere l’aero malese alla quota in cui volava. Parry è sconcertato, perché mentre l’ «isteria» dell’amministrazione Obama si scatenava contro la Russia, nessun giornalista, ha mai chiesto «cosa mostrano le immagini satellitari»; un comportamento che ricorda molto da vicino la stessa «assenza di sano scetticismo professionale riscontrata sull’Irak, la Siria e altrove». Ci «saranno anche dei limiti a quel che i satelliti vedono», annota Parry, «ma i missili del sistema Buk sono lunghi 16 piedi (circa 5 metri), le batterie sono montate su un camion, e quel pomeriggio la visibilità era ottima». E’ strano che a nessun giornalista sia venuto in mente che i soli a possedere le batterie di Buk – come ben sa l’Intelligence Usa – sono i militari del governo ucraino. Per nulla intimorito dal clima creato da Obama attorno alla vicenda, Parry, concludendo, riferisce, perciò, che «l’ipotesi di lavoro degli analisti Usa è che una batteria Buk di missili SA-11 e uno o più aerei militari abbiano potuto operare insieme andando a caccia di quello che credevano fosse un aereo russo, forse addirittura l’aereo presidenziale che riportava in patria Putin dal Sud America». Qui ci si può anche fermare, senza seguire le mille ipotesi. Volontario o involontario, l’attacco c’è stato. Volontaria è stata – e tale rimane – la violenta campagna antirussa di Obama e la vergognosa la scelta dell’Occidente di imporre sanzioni ai russi e di sostenere i crimini commessi a Gaza da Israele sotto gli occhi del mondo inorridito.”
Uscito il 18 agosto 2014 su
Uscito il 18 agosto 2014 su Agoravox.
Renzi a Napoli. cariche contro i manifestanti
Posted in Interventi e riflessioni, tagged Caldoro, De Magistris, ferragosto, Hitler, Milizia fascista, moto perpetuo, Napoli, ordine nuovo, pietà, pupo fiorentino, Renzi on 14/08/2014| Leave a Comment »
Alla vigilia di Ferragosto il pupo fiorentino, è venuto a Napoli per incontrare il presidente della Regione Caldoro e il sindaco De Magistris. Non passa giorno che non perda tempo in un dissennato girovagare per le vie d’Italia, ma la cosa si spiega: Renzi è malato di “moto perpetuo”, una incurabile forma d’ansia, che si riscontra di norma in tutti gli avventurieri della politica, quando provano ad abbattere un regime democratico. Un andirivieni inconcludente che non gli consente di ragionare. Presto tornerà, armato di zappa e falcetto e per non fermarsi inaugurerà la campagna del grano nelle aiuole davanti al Museo Archeologico Nazionale.
Come accade sempre, quando un regime autoritario mette radici nel corpo di una democrazia malata, anche oggi a Napoli gli scherani dell’«ordine nuovo» hanno picchiato e poi, come denuncia la stampa alternativa, hanno provato a occultare le prove, attaccando un reporter.
Quando la protesta si organizzerà e diverrà insurrezione vittoriosa, gli eroi da operetta chiederanno pietà. Capita sempre così: «Siamo solo padri di famiglia che si guadagnano il pane per i figli», diranno, e come al solito si difenderanno, tirando in ballo l’immancabile disciplina: «abbiamo solo eseguito gli ordini ricevuti». Bisognerà perciò che qualcuno li avverta sin da ora, in modo che possano scegliere: quando il momento verrà, i rivoluzionari risponderanno che anche la Milizia fascista e gli uomini di Hitler ubbidivano ai loro capi. Chi esegue ordini vergognosi è colpevole come colui che li dà. Se la guadagnino oggi la pietà che chiederanno domani, scelgano con chi stare e la smettano di infierire sulla gente che paga lo stipendio del quale vivono. Lo facciano ora, perché domani non ci sarà pietà.
Il sovrano e l’assemblea, una vecchia storia
Posted in Carta stampata e giornali on line, tagged autonomie, borghesia, Carlo I Stuart, consilium regni, cursus honorum, Età moderna, Gloriosa rivoluzione, governablità, Impero, Montesquieu, Parlamenti, potere centarel poteri periferici, rappresentanza, Roma repubblicana, Senato, Soviet on 12/08/2014| 4 Comments »
Sembrerà un paradosso, ma è saggezza politica: finché non fu in grado di realizzare i suoi progetti politici senza il contributo dei poteri periferici – sia feudali, che cittadini – fu il sovrano a sollecitare la partecipazione alla sua attività di governo delle componenti sociali più rilevanti. Privo di efficaci strumenti amministrativi, cercava il consenso di assemblee controllabili che ne avallassero le scelte senza esigere la condivisione di un potere realmente esercitato. Com’è naturale, però, le assemblee rifiutavano ruoli di supplenza del «consilium regni» e chiedevano una istituzionalizzazione della propria presenza politica.
La dialettica tra potere centrale e poteri periferici si configurò così come processo dinamico, da cui nasceva una complessa trama di rapporti tra forze diverse, che tenevano assieme il corpo centrale dello Stato e le sue articolazioni periferiche. Di fatto, i poteri periferici, che esprimevano interessi diversi tra loro, esercitavano un reciproco controllo e una funzione equilibratrice. Naturalmente, più il potere centrale contava su basi sociali autonome e potenti, più deboli erano le assemblee e più arretrata la realtà politica. Se il sovrano poteva agevolmente sfruttare i contrasti interni ai poteri periferici – difficili relazioni tra città e contado, rapporti tesi tra feudatari e autonomie cittadine – la logica dal «divide et impera» causava una destabilizzante frammentazione politica.
A ben vedere, quindi, la “governabilità” non solo non era – e di fatto non è – figlia unica del rafforzamento del potere centrale, ma l’indebolimento delle autonomie periferiche creava squilibri che intralciavano il «buon governo». Spesso, anzi, l’esagerata ricerca di «governabilità» era ed è sintomo di una patologia del potere, che difende interessi particolari e minoritari, a scapito dei reali bisogni collettivi. Vitale, quindi, per la fisiologia della vita politica, era ed è l’equilibrio delicato tra i poteri periferici e quello centrale e la «governabilità» si fa«valore» e agevola il «buon governo» solo se la forza del potere nasce dal confronto con assemblee forti di un’ampia rappresentanza.
La storia delle assemblee dimostra che più esse sono rappresentative della complessa realtà sociale, più articolata è la base di consenso e più efficace l’azione di governo. E’ il moltiplicarsi dei ruoli di «garanzia» nel «cursus honorum» degli uomini di governo affiancati al Senato a fare grande quella Roma repubblicana, che l’Impero conduce alla rovina, allorché, ridotto il Senato a un ornamento, la forza delle legioni svanisce perché non si trova più chi difenda uno Stato che non lo rappresenta.
Con l’Età Moderna, quando la bilancia pende dalla parte di chi governa e le assemblee si riducono a salotti di «ambasciatori» di questa o quella entità politica autonoma, in cui non conta l’importanza dei problemi, ma il «peso» di chi difende un interesse, lo scontro coi popoli si fa spesso violento. Val la pena di ricordare a Renzi – ma anche l’Europa farebbe bene a riflettere – che quando il potere centrale pone al centro della vita politica la «governabilità» a scapito della rappresentanza e spaccia per «modernizzazione» l’autoritarismo, s’apre la via per la rivoluzione. L’inglese Carlo I Stuart, travolto dalla «Gloriosa Rivoluzione», la questione della rappresentanza che spinge alla ribellione i coloni americani al grido di «no taxation without representation», sono modelli classici nelle storia della borghesia. Ed è sintomatico che l’animo degli americani non si infiamma, come spesso si crede, per l’eccesso di tassazione, ma per la richiesta ignorata di eleggere rappresentanti nel Parlamento di Londra. Lungo sarebbe l’elenco delle rivoluzioni nate dalla rivendicazione di una reale partecipazione, ma anche Renzi saprà che fu la rivoluzione a sancire la superiorità del modello fondato sulla rappresentanza: così accadde negli Usa, così nella Francia dei sanculotti e persino nella Russia del 1917, dove l’inascoltata richiesta di convocare un’assemblea rappresentativa dell’intera società zarista, espressa dai rivoluzionari all’alba del Novecento, trovò risposta nei «Soviet», che diedero rappresentanza ai ceti subalterni. Ragione non ultima della partecipazione popolare alla rivoluzione bolscevica.
Oggi sappiamo che quanto più forte l’accento cade sul tema della governabilità, tanto più s’intende tutelare i privilegi di classe e garantire lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Sappiamo anche che più pesante è stato il pugno calato sull’equilibrio dei poteri, più violenta è risultata storicamente la mortificazione di diritti umani, civili, politici e sociali e più spazio s’è aperto per la rivoluzione che, nel delirio liberista, è diventata la grande assente della vicenda storica. E strano, ma significativo – e fa temere una violenta burrasca – il fatto che proprio la borghesia cancelli dall’orizzonte politico la via rivoluzionaria e pretenda di leggere la storia come fosse un traballante treppiedi privo di una gamba: conservatori e progressisti, senza ombra di rivoluzionari. Eppure spesso sono stati proprio questi ultimi a scrivere pagine decisive per la vicenda umana e nessuno dovrebbe saperlo meglio di quella borghesia che, giunta al potere per la via rivoluzionaria, l’ha poi conservato grazie ai Parlamenti. Quei Parlamenti che oggi, con colpevole miopia, sono sacrificati a governi autoritari che battono in breccia la geniale creatura di Montesquieu. E’ vero, si può essere riformisti in mille modi ma non sarà male chiederselo: quante rivoluzioni sono figlie legittime di riforme concepite per negare diritti? Quanti decisivi progressi si sono affermati con la forza, quando la ragione è stata messa a tacere e hanno fatto giustizia di un’ingiustizia che non badava più alle ragioni dei popoli?
Uscito su Fuoriregistro il 13 agosto 2014 e sul Manifesto il 22 agosto 2014, col titolo Il sovrano e l’assemblea, una vecchia storia, e su MenteCritica il 29 agosto 2014.