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Posts Tagged ‘Calderoli’

L’ho saputo presto, quasi in tempo reale e il respiro già corto per la polmonite, si è subito appesantito: Antonio Amoretti, l’ultimo partigiano combattente delle Quattro Giornate di Napoli ha raggiunto i compagni perduti negli anni. Non ho pensato di ricordarlo perché sono affaticato e soprattutto perché ho avuto la sensazione che la sua morte si inserisse quasi naturalmente nella traversata del deserto iniziata col Governo Meloni. Ho pensato che in fondo, portandolo con sé, la morte gli avesse fatto un dono. mi sono venuti in mente Valditara, le sue deliranti circolari e mi sono detto che il rischio c’era: partigiano e comunista, avrebbe potuto ancora raccontare ai giovani nelle scuole cosa fu il fascismo? Valditara sa quale debito ha la Repubblica con i comunisti come Amoretti?
Mi sono lasciato andare alla tristezza, ho provato una pena immensa per i tanti ragazzi che non potranno incontrarlo e per le grandi e semplici verità che non ascolteranno. Nel pomeriggio m’è venuto tra le mani un articolo di un quotidiano napoletano e qualcosa è scattata dentro di me. Non si possono scrivere tante sciocchezze di fronte alla scomparsa di un uomo di valore, che ha saputo farsi testimone dei grandi valori da cui – checché ne pensi Valditara – sono nate la Repubblica e la sua Costituzione. Quella sulla quale Valditara non s’è accorto che c’è la firma di Terracini.
Antonio Amoretti non ha mai avuto un “nome di battaglia”, ma era l’ultimo testimone vivente d’un verità sottaciuta, che ha sminuito il valore e il significato dell’insurrezione. Un silenzio ingiusto per una città medaglia d’oro della Resistenza, che ancora una volta si pensa di rapinare con l’Autonomia differenziata di Calderoli e dei suoi camerati: le Quattro Giornate di Napoli non furono né la rivolta degli scugnizzi, ne l’esplosione della rabbia “vesuviana”, di un popolo che si accende e si spegne come fuoco d’artificio. Amoretti fu figlio di antifascisti; il padre Francesco frequentava infatti le riunioni clandestine che si tenevano in casa di Francesco Lanza – dentista, ex confinato politico, anarchico, passato poi ai comunisti – e non scappò di casa per andare a fare l’eroe incosciente sulle barricate dell’insurrezione. Seppe dal padre che la città era pronta a sollevarsi e questo non è un dato marginale: significa che l’insurrezione non fu affatto spontanea ed era stata anzi “pensata” e organizzata.
Il padre non solo l’avvisò, ma gli consegnò la sua pistola di combattente della prima guerra mondiale. Il giovanissimo Antonio, un sedicenne di formazione antifascista, non ebbe dubbi e la mattina seguente prese posto tra i combattenti. Fece la sua parte, ma la partecipazione alla vita e alla vicenda storica della città, non si chiuse con il coraggioso intervento nella rivolta. Testimone oculare di una pagina importante della storia della città e del Paese, divenne “partigiano della pace”. Sangue ne aveva visto versare troppo, per non fare quella scelta. Attivo militante dell’ANPI, di cui divenne infine Presidente provinciale, portò in mille aule scolastiche il suo messaggio di antifascista, i suoi valori di democrazia, libertà e giustizia sociale e fu un autentico apostolo del pacifismo.
Lascia un vuoto che non sarà facile colmare, ma occorrerà pensarci e provare a riempirlo. Non avrebbe chiesto altro a noi compagni e amici che l’abbiamo amato e rispettato.

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Mattarella, membro della Consulta, dichiarò incostituzionale la legge elettorale firmata Calderoli; votato poi dai parlamentari eletti con quelle legge, accettò di diventare Presidente della Repubblica. Terminato il mandato, ha sbandierato ai quattro venti che la rielezione non sarebbe stata costituzionalmente corretta. Ieri però è tornato al Quirinale.
Si può ritenerlo davvero garante della Costituzione?  

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Dopo la pantomima dell’opposizione che attacca, nemmeno Cuperlo, che pure gliene ha dette di tutti i colori, ha votato contro. Il tempo dirà fin dove intende spingersi Renzi, il «sindaco d’Italia» nato in provetta dall’ibrido connubio tra terze file dell’ex DC e scarti del PCI, ma un dato certo, dal quale partire purtroppo esiste: siamo più che mai la «serva Italia» che Dante immortalò nei suoi amari versi: «nave senza nocchiere in gran tempesta,/ non donna di province, ma bordello!»
IT.ACS.AS0001.0000614.0002Negli Atti della Costituente, a futura vergogna di chi finge di ignorarlo e di un popolo complice – geneticamente fascista direbbe Gobetti – che tace o, peggio ancora, consente, c’è l’ordine del giorno di Antonio Giolitti, nipote del famoso statista liberale, approvato dall’Assemblea ma escluso dal testo definitivo dello Statuto, per evitare di rendere costituzionale la legge elettorale: «L’Assemblea Costituente ritiene che l’elezione dei membri della Camera dei Deputati debba avvenire secondo il sistema proporzionale». Questo è lo spirito autentico della Costituzione, ma Renzi non lo sa e – c’è da giurarci – se qualcuno glielo dicesse, non muterebbe d’una virgola la sua oscena legge elettorale. Per farlo, dovrebbe ragionare da politico, ma non gli interessa e non ha gli strumenti culturali per farlo. A chiunque lo attacca ormai, replica, con toni ricattatori: ti stai mettendo contro tre milioni di voti. E’ questo il suo unico argomento: tre milioni di oggetti misteriosi, tessere false e berlusconiani d’origine controllata che lo hanno «votato» al prezzo di due euro. Il prezzo che marca anche fisicamente la distanza dai nullatenenti, un problema che non riguarda più il Partito Democratico; ci penseranno forse camini e forni, come il Mediterraneo pensa ai migranti.
«Fortunato il paese che non ha bisogno di eroi», ebbe a scrivere Brecht, ma Gaetano Arfè, maestro di una stagione felice della nostra storia, conscio della tragedia incombente, al tramonto della sua vita, lucidamente, corresse: «fortunato quel paese che quando ha avuto bisogno di eroi li ha trovati, sventurato il paese che non sappia mantenersene degno». L’Italia ha disperato bisogno di eroi, ma non ne trova uno nemmeno in fotocopia. Ce ne fosse ancora di gente della tempra di Amendola, Matteotti, Gobetti, Gramsci e Rosselli, Renzi dovrebbe ammazzarli, ma eroi non ne abbiamo e al neofascismo non occorrono certo pugnali, manganelli e spedizioni punitive; la nostra dose quotidiana di olio di ricino e botte in testa la prendiamo da tempo, grazie allo strapotere mediatico dei padroni schierati a sostegno: De Benedetti con la Repubblica, il Gruppo Espresso, i nove supplementi, tre radio nazionali, quindici quotidiani locali e numerosi periodici, Berlusconi con la possente Mediaset, Urbani Cairo, un ex di Berlusconi alla Fininvest, che alla Giorgio Mondadori ha ora sommato «la Sette». E si potrebbe continuare. Con un’armata simile alle spalle, capace di un volume di fuoco davvero paralizzante, il caudillo «democratico», che solo due anni fa Bersani aveva ridotto al silenzio, ha fatto agevolmente la sua via e ora, se non vuol cadere nella polvere in un battibaleno, così com’è salito alle stelle in un momento, deve solo eseguire, rapido e senza esitazioni, gli ordini di chi in un giorno l’ha reso leader.
Di leggi elettorali e Costituzione, Renzi non capisce praticamente nulla – «ha la parlantina troppo facile per dargli il tempo di leggere e informarsi», ha giustamente osservato Giovanni Sartori – ma i padroni l’hanno affidato a un tutor di gran nome, il politologo Roberto D’Alimonte, uno che, guarda caso, ha un posto d’onore nei salotti buoni televisivi e ripete fino alla nausea il principio base della sua pericolosa scienza elettorale: «una cosa sono i valori su cui si fonda un regime democratico, un’altra cosa è il suo funzionamento». Quando l’immancabile amico degli amici gli ha «anticipato» le motivazioni della sentenza di una Corte Costituzione opportunamente rinforzata da Napolitano con Paolo Grossi, Marta Cartabia e Giuliano Amato, in quattro e quattr’otto Roberto D’Alimonte ha riscaldato la pietanza precotta: niente voto di preferenza, un premio di maggioranza da «legge truffa» e cancellazione dell’idea di «rappresentanza». I vizi costituzionali sono forse meno evidenti di quelli messi assieme da Calderoli, ma stavolta più gravi e non c’è dubbio: Antonio Giolitti e il suo ordine del giorno sono stati sprezzantemente ignorati.
Quella di Renzi non è «demagogia», come pensa Sartori, inseguendo il feticcio della governabilità, è la condanna a morte della democrazia parlamentare.
J. P. Morgan e il grande capitale finanziario ci avevano avvisati e non c’è scampo: la Costituzione troppo «socialista», sarà massacrata.

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Dice re Giorgio che è inutile far cadere il governo da lui fortemente voluto. Non scioglierebbe mai le Camere perché la legge elettorale è incostituzionale e non si può votare. 22563_20260_bloglive-81c45c141eae14fbf835ef6818a1bc46_ImageA dirla come si deve, senza girarci attorno con mezze parole che nessuno capisce bene, la legge che ha determinato la formazione delle Camere e l’inconsueta rielezione di Napolitano al Quirinale è una «legge-truffa». Questo, però, non è il linguaggio che usano i re.
Dice Epifani che il Partito democratico sta con Berlusconi perché non può piantare in asso baracca e burattini e, per suo conto, il senatore pericolante ripete pari pari il ragionamento di Epifani: ci vuole una legge elettorale, quella che c’è non va più bene ed è finita nel mirino della Corte Costituzionale. Né l’uno né l’altro, però, ammette apertamente che la legge Calderoli è un vero e proprio imbroglio. Gli «uomini delle Istituzioni» non parlano mai chiaro: c’è il rischio che la gente capisca.
Dice Alfano che se, come pare ormai certo, troverà il coraggio di tradire definitivamente il suo ex padre padrone, avrà un partito vero e finalmente suo, ma non potrà certamente far cadere il governo. Giocando d’anticipo, l’ex delfino del più celebre pregiudicato d’Italia, interroga direttamente gli elettori: si può mandare il popolo a votare, se la legge elettorale è un’autentica vergogna?
A sentirli parlare, con le loro mezze parole, i sottintesi e quel disaccordo totale su tutto, tranne che sulle impossibili elezioni, non si capisce praticamente nulla, ma emerge la verità puntigliosamente negata: questa vituperata legge elettorale, che tutti hanno voluto e nessuno ha mai fatto qualcosa per cambiare, ha un’importanza fondamentale per re Giorgio, per Epifani, per Berlusconi, per Alfano, per la sgangherata banda Monti, per Casini e la sua malconcia compagnia di ventura. In questo nostro sventurato Paese, per capirci, chiunque prometta cambiamenti che non intende realizzare, si affretta a chiamare in causa la legge elettorale per spiegarci che cambiare vorrebbe ma cambiare non si può. Nel guazzabuglio da Regia Marina – ciò che è vero la sera non vale la mattina – la legge Calderoli è l’alibi per una sporca faccenda, un pasticciaccio tale da fare impallidire Germi e la sua via Merulana. L’inganno più grave, però, l’oltraggio sanguinoso all’intelligenza degli elettori, non va cercato in quello che i galantuomini autonominati ripetono con esasperante monotonia. Il peggio si cela in quello che nessuno dice, ma è sempre più chiaro a tutti: poiché la legge elettorale è fatta apposta per vanificare il voto espresso dal mitico «popolo sovrano», Senato e Camera dei Deputati sono attualmente formati da alcune centinaia di persone elette illegalmente e perciò prive di una autentica legittimità democratica. Sono loro, questa nuova specie di clandestini, che hanno voluto per la seconda volta Napolitano al Colle e sempre loro, i figli di una «legge-truffa», il 23 ottobre, al Senato, hanno votato una gravissima modifica dell’articolo 138 della Costituzione.
Dice re Giorgio che lui non scioglierebbe le Camere perché la legge elettorale è incostituzionale. C’è da chiedersi dove sarebbe Napolitano, Presidente praticamente a vita, se l’Italia fosse un Paese retto da Istituzioni democratiche legalmente elette; molto probabilmente non sarebbe dov’è, in Parlamento non vedremmo accampati deputati e senatori «espropriati» dai segretari di partito e da saggi di nomina regia e nessuno avrebbe osato mettere ai voti una modifica della Costituzione che fa di uno «Statuto rigido», una inutile dichiarazione d’intenti alla mercé di ogni «golpe bianco».
Dice Formigoni che chi si è astenuto sull’articolo 138 intendeva far cadere il governo. La verità è che il Senato ha approvato un ddl costituzionale sul Comitato per le riforme costituzionali, che per soli quattro voti evita anche il ricorso al referendum confermativo. Giulietto Chiesa, giornalista prestato alla politica, è stato invece brutalmente chiaro: «questo Senato non ci rappresenta», ha detto, «ha una maggioranza di provocatori, di lanzichenecchi che operano contro l’ordine e la pace sociale. […] Un parlamento di nominati non rappresenta il paese e, tanto meno, può arrogarsi il diritto di cambiarne la carta costituzionale […]. Questo è un golpe bianco, che esegue il piano eversivo della P2. Noi faremo resistenza». Non è facile capire che intenda Chiesa, quando dice «Resistenza», ma a far chiarezza hanno pensato in questi giorni di ottobre le piazze, colme di gente e di rabbia composta, che pacificamente tornavano al monito che in anni ormai lontani, ma molto simili a quelli che viviamo, venne da Giovanni Bovio: «Non fateci dubitare della giustizia. Che ci resterebbe? Temiamo di domandarlo a noi stessi, di noi stessi temiamo e ci volgiamo a chi ci chiama fratelli: noi fummo nati al lavoro e, per carità di dio, non fate noi delinquenti e voi giudici».
Umberto I, il re di quegli anni tragici, non gli diede ascolto. Finì come tutti sanno, coi moti del ’98, la cavalleria accampata nelle piazze e le tragiche cannonate milanesi di Bava Beccaris.

Liberazione e Report on Line , 25 ottobre 2013

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E’ vero. Calderoli ha oltraggiato in maniera inaccettabile la ministra Kyenge. Se ne vada subito, faccia le valigie e tolga il disturbo. E’ un razzista. A ruota, però, si dimettano subito – e chiedano scusa alla popolazione – questo governo senza onore, nato da un miserabile inganno al corpo elettorale che non merita certo meno rispetto della ministra, e Giorgio Napolitano, principale responsabile dello sfascio della Repubblica. Se ne vadano tutti e la smettano di impartire lezioni di morale. Non ne hanno né i titoli, né il diritto. Napolitano, che non s’indigna per i campi di concentramento riservati ai cosiddetti “clandestini”, sa benissimo come stanno le cose; sa che l’ha eletto un Parlamento nato da una legge elettorale incostituzionale che Calderoli ha proposto e lui ha firmato senza fiatare. Se Calderoli è osceno, quest’uomo che gli fa la lezione lo supera di gran lunga. E’ stato lui, Giorgio Napolitano, che ha interdetto il Parlamento in tema di spese militari, lui, il due volte Presidente, che ha impedito al popolo italiano di conoscere il contenuto delle sue conversazioni con un imputato di gravissimi reati. Vada immediatamente via dal Quirinale. La sua figura è di per sé un vilipendio alla funzione costituzionale della Presidenza della Repubblica.

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Zavorre d’Italia“. Così, con questa sprezzante definizione, in un libro privo di intenti autobiografici e di una sia pur minima punta di autoironia, Antonio Catricalà descrisse anni fa ciò che frena la crescita. La definizione mi ritorna in mente mentre provo a evitare la valanga di dotte analisi sui sottosegretari del governo Letta. Tranne rare eccezioni, silenzio di tomba sul grumo d’interessi corporativi, protezioni e privilegi di classi sociali forti strette attorno alla “squadra di governo”; la parola d’ordine è chiara: sorvolare sul cuore del problema italiano, ignorare che in una repubblica parlamentare, quali che ne siano gli esponenti, questo governo, nato tradendo gli impegni presi con gli elettori e vincolato alle condizioni dettate alle Camere da un Presidente della Repubblica rieletto, soffre di anemia costituzionale e scarsa legittimità democratica. Più che ministri o sottosegretari, gli uomini di Letta sono, in realtà, esecutori d’ordini, scelti col manuale Cencelli tra sacerdoti del liberismo e sperimentati portaborse dei capi fazione di una maggioranza rifiutata dal voto popolare. Non c’è dubbio: Lombardi e Crimi non sono Matteotti e Amendola, ma il circo mediatico picchia più duro del manganello e, grazie alla “Calderoli-Acerbo“, manipoli di “nominati” bivaccano alla Camera in attesa dell’incombente “Convenzione” e rendono l’aula parlamentare così sorda e grigia, che mai come stavolta l’inascoltato monito di Gaetano Arfè sulla rinascente “Camera dei Fasci e delle Corporazioni” appare più profetico che amaro.
Se si esce da questo quadro per inseguire il sogno dei “buoni ministri” che danno il crisma di santità a un governo di senza Dio, gli “elementi positivi” si possono anche trovare. Basta però fermarsi ai nomi dei personaggi “sperimentati“, per capire quanto potrà contare la storia d’un volto pulito. Catricalà, Cavaliere di gran Croce all’Ordine del merito della Repubblica e docente di Diritto privato prima all’Università di Tor Vergata e poi alla LUISS, grazie a un anemico saggio sul Consiglio di Stato e a una guida alla preparazione delle prove di concorso con schemi, esempi e quesiti, che Wikipedia contrabbanda per un saggio di diritto civile, più puntuale di un orologio svizzero, figura nell’elenco dei sottosegretari. Già presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, presidente designato dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas, ha visto premiata la sua fede neoliberista con un posto di Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri del governo precedente e, dopo il disastro, eccolo viceministro allo Sviluppo Economico, dove regna Flavio Zanonato, noto soprattutto come sostenitore dell’energia nucleare. In quanto all’istruzione, mentre il buon nome di Maria Chiara Carrozza, sull’esempio della Boldrini, fa da specchietto per le allodole, la riconferma di Marco Rossi Doria è da sola un programma di governo: sostenitore del dialogo con Casa Pound, guardia armata della disastrosa legge Aprea, paladino del concorsone e crociato dell’Invalsi, Rossi Doria ha appoggiato con la più ferma convinzione tutte le iniziative di Profumo, che, a sua volta, ha tenuto con ostinata mano ferma la rotta tracciata dalla Gelmini. Una posizione notevolmente rinforzata dall’arrivo di Gianluca Galletti e Gabriele Toccafondi. Ammesso che voglia farlo – ed è cosa tutta da dimostrare – basta cercare nei loro curricula, per capire quanto sarebbe difficile per il nuovo ministro mutare il corso delle cose.
Gabriele Toccafondi, scuola PDL, si è distinto soprattutto per la difesa dei contributi statali alle “scuole paritarie“, in aggiunta ai fondi ordinari del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca , e per l’istituzione di un Fondo per la parità scolastica sostenuto in tandem con Gianluca Galletti, centrista e cattolico, che, per suo conto, ha lottato per evitare il pagamento dell’IMU alle scuole paritarie, ha difeso l’insegnamento della religione cattolica, s’è battuto per dell’ANVUR, la discussa agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca e ha chiesto di reintegrare il fondo in bilancio previsionale 2013 per le istituzioni scolastiche “non statali, in modo da garantire il livello di finanziamento degli anni precedenti.
Chi ha sognato il cambiamento è avvisato: stiamo assistendo al trionfo delle zavorre d’Italia. Inutile sognare o continuare a chiedere ciò che spetta di diritto alle buone grazie dei ministri. I diritti si difendono lottando come si può, con le unghie e con i denti se necessario.

Uscito su “Fuoriregistro” il 3 maggio 2013 

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Condivido ciò che scrive Cremaschi sulla scelta di Monti: si candidi in prima persona o pensi di prestare il suo nome immacolato alla marmaglia adunata attorno a quella Confindustria che foraggiò il “duce” e alla finanza impunita per gli amorazzi fascisti, il tecnico “super partes” ha gettato la maschera. Presentato come l’uomo della Provvidenza, il terzo, dopo Mussolini e Berlusconi, tutto casa, famiglia, Europa e Vaticano, consacrato da Napolitano, immancabile comunista pentito, aveva promesso di tornare alla Bocconi, come Garibaldi a Caprera e ai suoi campi Cincinnato, ma s’è invece ulteriormente “sporcato” mani già grondanti del sangue dei diritti ammazzati. Sceso dall’Empireo dove l’ha messo la stampa – peggio non fecero ai tempi loro Interlandi e Spampanato – ha voluto aprire a Melfi la sua campagna elettorale, per mostrare l’intesa che lo lega a Marchionne, un manager cui calza a pennello la miserabile tradizione dell’impresa italica, fotocopia ritoccata in peggio del fascista Valletta, finito su un nobile scranno al Senato della Repubblica, accanto ai capi partigiani. Qui da noi s’usa così e il giurista Azzariti, presidente del tribunale della razza, s’insediò senza problemi sulla poltrona di primo presidente della smemorata Corte Costituzionale.
Marchionne e la Fiat, quindi, una versione se possibile peggiorata delle visite di Mussolini, al quale, però, poteva anche capitare di trovarsi di fronte al gelido silenzio operaio, quando il gerarca di turno lanciava il suo “viva il duce” e gli rispondeva solo la “brigata balilla” puntualmente mobilitata. Monti non rischia e Marchionne è una tigre di carta: il primo soffio di vento lo sbianca e gli pare tempesta. Modificato il protocollo fascista, il dissenso s’è tenuto lontano e in fabbrica sono entrati i balilla. Qualcuno autentico e tutti gli altri solo sventurati che la fame ha piegato.
Per quel che s’è visto, l’adunata s’è svolta secondo le regole del gioco e il “film Luce”, ieri come oggi, ha narrato più verità di quante volesse mostrarne. C’è un Paese che non è domato: la FIOM, messa alla porta, sbatteva sul muso dei complici cronisti le sentenze dei giudici ignorate, gli operai illegalmente licenziati ma non ancora rasseganti, reagivano alla rappresaglia con la lotta. Il conflitto, insomma, ancora presente dietro la sceneggiata del consenso.
E’ difficile dire se, di qui a qualche decennio, storici compiacenti e “liberali” sosteranno di nuovo le banalità di Mosse, ignorando  bastone, carota e fabbrica del consenso, e racconteranno che “se non c’è un’attesa, un desiderio da parte delle masse, non c’è propaganda che tenga“. Nel dubbio, meglio esser chiari: fu il sangue di Amendola e Mattotti, non il “listone” a decidere del “consenso” e oggi c’est la meme chose: quelle che ci attendono, più che elezioni politiche, potrebbero essere il primo atto di una rinnovata tragedia. Vada come vada, con Bersani nella trincea neoliberista, dalle urne Monti uscirà  probabilmente vittorioso comunque. Se è vero, però, come pare incontestabile, che il “professore” ha fatto impunemente ai diritti e alla democrazia ciò che Marchionne ha fatto alla Fiat, non avremo di fronte un blocco di potere clerico-moderato. Quando il vincitore non riconosce il sindacato ed è pronto ad affermare, costi quel che costi e con ogni mezzo, la preminenza dell’Esecutivo sul Parlamento, l’appoggio del Vaticano e dei cattolici della CISL sono solo un dei rovesci della medaglia: la sua anima clericale. Ciò che rende Monti l’avversario più insidioso e ambiguo che abbiano avuto i lavoratori dalla nascita della repubblica ad oggi è la filosofia della storia e la natura eversiva d’una guerra di classe scatenata dall’alto, che supera di molto e anzi trascende il berlusconiano disprezzo per la democrazia. Una filosofia inconciliabile col ruolo storico dei “moderati”. Gli operai della Fiom tenuti a forza fuori i cancelli della fabbrica, sono il biglietto da visita di una borghesia mossa da una visione politica autenticamente e pienamente reazionaria.
E’ vero, la messa in scena dello scontro tra una destra che si finge moderata e una formazione  interclassista di comunisti pentiti e cattolici neoliberisti più papalini del papa, privi dell’anima sociale e delle radici popolari della sinistra democristiana, può dar vita, per dirla con Cremaschi, a un Parlamento che più montiano non si può. Non è tutto, però, manca il secondo volto della medaglia. Da elezioni politiche svolte in un clima di ricatto greco, con la legge Calderoli che rende accettabile persino la memoria di Acerbo, un Parlamento più montiano di Monti può essere solo espressione di un fascismo riveduto e corretto. L’Europa non consentirebbe? Non è così. Il rischio, se mai, viene proprio dai carnefici della Grecia. Meno forte, perciò, sarà  il montismo in Parlamento, più debole sarà la reazione in Europa e più agevolmente costruiremo la resistenza. Quale resistenza? Questo è il punto: non è detto che la partita sia parlamentare. 

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Fanno profitto, si tratta di soldi, è giusto tassare!“.
Monti l’aveva annunciato con la dovuta solennità, tra rulli di tamburi, squilli di fanfare, bandiere al vento e loden delle feste comandate:
Anche le scuole cattoliche pagheranno le imposte sugli immobili che utilizzano“.
Ignorato il dettato costituzionale che, a quanto pare, non conta un bel nulla per i tecnici salvaitalia e per la maggioranza bulgara che li sostiene – la Costituzione in tema di soldi alle private è chiara come il sole – il mondo della scuola ha voluto stare al gioco. Crediamoci, si sono detti i tartassati docenti, diamogli fiducia: è solo un caso che i tecnici professori che ci governano siano colleghi del prof. Frati, il rettore della Sapienza che ha fatto dell’università una sorta di succursale della famiglia. Per chi non lo sapesse, Frati ha con lui, a Medicina e Chirurgia, tutti sistemati a vario titolo, i suoi amati parenti: la moglie, laureata in lettere, che ha una cattedra di storia della medicina, la figlia, regolarmente laureata in giurisprudenza, che, guarda caso, insegna medicina legale, e il figliolo, professor Giacomo, che entra di rado in sala operatoria, però – serve dirlo? – è titolare di cardiochirurgia al Policlinico di Roma.
Crediamoci, qualcosa sta cambiando“, si son detti i docenti. E l’annuncio autorizzava speranze. Non era la presa della Bastiglia e il Palazzo d’Inverno poteva star tranquillo, però non era mai accaduto prima.
il piccolo terremoto, tuttavia, ha spaventato il governo tecnico e ci ha pensato il calvinista Monti a spegnere gli eccessivi entusiasmi. Lui, che fa un uso parco delle parole, stavolta s’è sprecato:
I cattolici pagheranno, certo“, ha farfugliato, “ma è del tutto ragionevole valutare con attenzione i parametri che consentano agli istituti scolastici di ottenere l’esenzione dal pagamento dell’imposta“.
Dopo ciance da condominio sull’attività paritaria e fumo da venditori di sogni sul servizio realmente prestato, che si sa, “è del tutto simile a quello pubblico“, dopo le banalità sui programmi di studio, l’importanza sociale, l’accoglienza di alunni con disabilità, l’applicazione del contratto collettivo del personale docente e non docente, l’annunciata rivoluzione bolscevica è stata inopinatamente domata. La soluzione è bizantina: “Per godere dell’agevolazione“, dice la norma, “la scuola cattolica dovrà render pubblico il suo bilancio e le caratteristiche della struttura, in modo da dimostrare che non ci sono finalità lucrative. E se ci fossero avanzi” – ha precisato il loden pontificante – “essi non devono risultare nei profitti ma nelle spese a sostegno delle attività didattiche“.
Non del tutto tranquillo, il neosenatore a vita, presidente pro tempore del Consiglio e – c’è da giurarci, l’annuncia già la stampa patinata – futuro Cincinnato, ha voluto precisare: “stiamo consolidando una giurisprudenza e una prassi“.

Sarà pure consolidata giurisprudenza, qualcuno, però, dovrebbe spiegare al capotecnico, che un Ente il quale svolga servizio pubblico, benché privato, paga le tasse come tutti. E le paga tutte. Concedere alle scuole cattoliche un beneficio fiscale non solo è un principio che contraddice la sbandierata equità, ma la natura tecnica del governo dei professori e, ciò ch’è più grave, discrimina tutti gli altri Enti della stessa natura, li penalizza gravemente e riconduce il Paese ai privilegi vaticani assicurati dal regime fascista bisognoso di legittimazione.
Non è un principio islamico, Monti ne converrà: nessuno ricava profitti dalla sua prima casa; chi ce l’ha ci vive, spesso per evitare di fare il clochard nelle stazioni ferroviarie, l’Ici però la paga e non presenta bilanci. Se lo potesse fare, come sovente accade con le aziende, che sono l’ambiente prediletto da Monti e compagni, la cosa è certa: il buon padre di famiglia segnerebbe alla voce investimento un sia pur minimo guadagno.
Grazie a Monti, oggi qualsiasi scuola privata che dichiari di non avere scopo di lucro, può disegnare il suo piano di offerta formativa in relazione ai profitti, mettere in campo i suoi nuovi progetti di arricchimento dell’attività formativa curricolare e pagarseli con i soldi che non darà all’erario. La scuola statale, intanto, muore di inedia e sotto il capitolo “sostegno alla didattica” presto non ci sarà più scritto nulla. Il pio Monti lo sa: senza soldi, non si cantano Messe.

Sfiducia e sconcerto, nonostante la grancassa televisiva e i giornali stesi a zerbino o messi a tacere? Motivi ce ne sono. La stato dell’arte, ad essere oggettivi, è desolante.
Giorgio Napolitano, bocciato dagli elettori nel 2004 è stato prontamente nominato senatore a vita nel 2005 dall’allora Presidente della Repubblica Azeglio Ciampi. Ha illustrato la patria con altissimi meriti che, a onor del vero, nessuno, tranne Ciampi, sa quali siano. Tornato così nei palazzi del potere, a carico degli impotenti contribuenti e a dispetto della volontà popolare, nel 2006 è passato armi e bagagli da Palazzo Madama al Quirinale: un’assemblea, composta per lo più da nominati, grazie alla legge “porcata” di Calderoli, deputato al Parlamento Padano, l’ha eletto Presidente della Repubblica.
In quanto al sobrio prof. Monti, la sua fulminante storia di tecnico della politica ha del miracoloso e si riassume in cinque fatidici giorni. Nominato senatore a vita il 9 novembre del 2011, anch’egli, s’intende, per la patria illustrata con altissimi meriti in campi ignoti a tutti, tranne che a Giorgio Napolitano, il 13 novembre, per opera e virtù dello Spirito Santo, era già Presidente del Consiglio: non ha un partito, non ha avuto un voto popolare, ma ha una maggioranza parlamentare bulgara, composta per lo più di nominati, riuniti per folgorazione divina, dopo vent’anni di scontri all’arma bianca.
Per i membri del governo tecnico, la dichiarazione dei redditi è più eloquente di un lungo discorso: da soli, potrebbero aprire una banca d’affari.

Qualcuno penserà, che in tema d’istruzione, questo governo di professori integerrimi, amanti della legalità costituzionale, che ha a cuore la sorte dei giovani e della democrazia, sia ricorso a decreti di urgenza per metter mano a una seria moralizzazione dell’università. Sarebbe logico e umano, è vero, ma chi lo pensa sbaglia. Il governo di brava gente ha altro cui pensare. C’è la Val di Susa da “normalizzare” – perché, per garantire il capitale privato e scialacquare i soldi dei contribuenti? – e ci sono le scuole riottose da valutare e ridurre all’obbedienza. La famiglia Frati può continuare a vivere serena sulle sue molte cattedre. E, se proprio qualcosa dovesse andar male, perché preoccuparsi?
Un posto da senatore a vita lo si può sempre trovare.

Uscito su “Fuoriregistro” il 3 marzo 2012

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Non sono pugnalate, Fini, non è Bruto né Cassio e, nei panni di Cesare, Berlusconi fa cilecca persino come caricatura, ma trentatre sono i colpi contati, trentatre le astensioni, una raffica, e dopo la standing ovation dei fedelissimi e il patetico saluto romano, il piccolo re s’è ritrovato nudo. Nulla v’è al mondo che in eterno duri e ora sì, ora saremmo davvero alle comiche finali, se in fondo al tunnel non apparisse lo spettro del naufragio.

Mentre lo sfruttamento cresce, il razzismo dilaga, la scuola affonda, l’università agonizza e i giovani non trovano lavoro, la successione dei fatti è oscena, cupa e raggelante. Ammutoliti Bondi e Bonaiuti, Capezzone tartaglia, come un guitto che non ricorda la parte, e la Brambilla, l’equivalente meneghino del “signor nessuno“, turista della politica e ministra del turismo, persa la testa, si scatena contro il palio di Siena, consegnando la città al nemico. La barca fa acqua da ogni parte e il motore s’inceppa. Se il livore non accecasse il signor “ghe pensi mi!”, Feltri e Belpietro, che non brillano per acume, ma sono furbi scherani, terrebbero in prima pagina le previsioni del tempo, ma l’ordine è tassativo: “trattamento Boffo”. Il conto però non torna, risulta sbagliato, e il fango misteriosamente cresce nell’impatto e poi rimbalza: uno schizzo colpisce Chiara Moroni e diventa valanga, sommergendo Berlusconi; un altro s’avventura su Fini, ma si fa diluvio e affonda nella melma i colonnelli disertori Gasparri e Larussa.

Come cozza allo scoglio, Berlusconi s’attacca al “porcello”, la legge elettorale sulla quale pesa come un macigno il giudizio dell’autore, Calderoli, fascioleghista d’origine controllata, che il 18 marzo del 2006, con imprudenza pari all’arroganza, confessò scioccamente alla “Stampa”: è una porcata, “io la chiamavo affettuosamente Porcellum. La Lega merita fiducia: trasformista per vocazione, nel 1994 piantò in asso l’amico Berlusconi e lo mandò gambe all’aria. Presto finì pezzente, rischiò di sparire e, cenere in testa, si presentò a Canossa. Gente d’onore, insomma, che sputa su Roma ladrona e sui meridionali, ma prende i soldi dello stipendio dalle tasse che pagano i “terroni” e s’è specializzata in suinate. L’ultima, in ordine di tempo, la Lega di Calderoli l’ha realizzata sostenendo i furbastri delle quote latte e costringendo la gente onesta a pagare miliardi di multe di elettori leghisti.

In che spera la cozza? Anzitutto in un meccanismo elettorale misto, in una manomissione della rappresentanza politica, caratteristica dei sistemi maggioritarî, che non rispecchiano nelle Assemblee elettive i rapporti di forza reali tra i partiti e ignorano le voci e i temi delle relazioni tra le classi sociali, e poi, in quell’imbroglio chiamato premio di maggioranza, che si giustifica con la foglia  di fico d’una promessa: stabilità politica e “governabilità”. Un inganno che non ha mai evitato la frammentazione, ha regalato il Paese a minoranze raffazzonate e pronte alla rissa. Per questo si sono creati i due sedicenti “grandi partiti” – il PD e il PDL – enormi recipienti vuoti in cui si raccolgono, a seconda degli interessi di questo o quel leader e gruppo di potere, aggregazioni disomogenee, che hanno diversa radice storica e culturale e formano articolazioni non solo molto diversificate, ma pronte alla contesa. E’ andata così con Prodi, così va col sedicente “leader maximo”.

La cozza, sostenuta da uno statista come Bossi, suscitando omeriche risate tra chi sa leggere, scrivere e far di conto, sostiene che il premier l’ha scelto il popolo, ma il “legame” tra partiti e preteso leader di una pretesa coalizione è solo virtuale: nessuno può impedire a nessuno di cambiare casacca e, in ogni caso, la repubblica presidenziale esiste solo nella testa malata di sparute pattuglie di illustri sconosciuti che, a titolo puramente personale e da nessuno mai eletti, si occupano di riforme nella spappolata maggioranza. Piaccia o meno agli storici alla Quagliarello, la Costituzione disegna il quadro di una repubblica parlamentare. E, d’altra parte, come parlare di voto, se è impossibile esprimere preferenze, se Calderoli e il porcellum hanno vergognosamente silurato la Costituzione e il parlamentare non sarà eletto dal “popolo sovrano”, come  rappresentante di sensibilità e interessi di pezzi di società, ma solo per giochi di potere e scelte del “palazzo”?

Il porcellum è un crimine. Ad esso, ridotti alla disperazione, la cozza e i suoi accoliti si aggrappano per imporre ancora una volta uno stravolgimento delle regole fondanti, per poter ancora distorcere l’articolo 49 della Costituzione, per il quale i cittadini sono i soggetti imprescindibili della vita politica e i partiti semplici strumenti di una partecipazione organizzata. Votare con questa legge criminale vorrebbe dire violare ancora una vota gli articoli 56  e 57 della Carta costituzionale, per i quali l’elezione delle Camere – deputati e senatori – è conseguenza di un voto espresso dai cittadini “a suffragio universale e diretto”. Testuale.

L’analfabetismo di ritorno, che è la principale caratteristica dell’attuale classe dirigente, impedisce alle cozze e agli scogli che hanno sconvolto le aule parlamentari che qualcuno ne faccia cenno, ma alla pagina 441 degli Atti della Costituente è riportato l’ordine del giorno Ruini, approvato dall’Assemblea Costituente, che suona oggi come un severo monito della storia: “L’Assemblea Costituente ritiene che l’elezione dei membri della Camera dei deputati debba avvenire secondo il sistema proporzionale”.

Nemmeno nel peggiore degli incubi Ruini avrebbe immaginato che a poco più di settant’anni, una legge “porcata” avrebbe espropriato i cittadini dell’espressione diretta del suffragio, per consentire la sopravvivenza d’una cozza avvinghiata allo scoglio del potere. Tocca a noi dire no a questo sconcio e se Bossi dovesse provare a suonare le trombe, faremo in modo che diventi sordo al suono delle nostre campane.

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Il polverone che s’è levato attorno alla vicenda Fini, può fa ben sperare per la fine di Berlusconi, ma rischia di coprire la pericolosissima china sulla quale il berlusconismo di destra e di sinistra ha cacciato il Paese. Della crisi della nostra democrazia, checché ne pensino i rivoluzionari da strapazzo e i pasdaran del nuovo che avanza, Fini è responsabile a destra, quanto Veltroni a sinistra e non lo salva il “gran gesto” ora che tutto rischia d’andare a catafascio e persino una nullità come Marchionne fa il maramaldo e sputa nel piatto in cui ha lautamente mangiato.

Non c’è dubbio, se l’ingombrante guitto che confonde la politica con il trono di cartapesta della “Mediaset” chiuderà la sua penosa vicenda impolitica, non solo ci leveremo di torno Cicchitto, Bondi, Gasparri e l’angelico Capezzone – che non è cosa da poco – ma eviteremo, per il momento, il disastro del sistema formativo e daremo un’immediata pedata nel sedere all’italo canadese della Fiat. Magari scopriremo poi che con Bersani e soci gli risarciremo il danno con gli interessi, ma il punto non è questo. Il punto è che manderemo al diavolo Tremonti, Calderoli e la loro sudicia idea di federare la miseria e dividere l’Italia per soddisfare gli egoismi di qualche produttore di latte e di un banda di fanatici in divisa verde. E’ qui, però, che la faccenda pare complicarsi.

Se il governo dei nobiluomini Scajola, Fitto, Brancher, Caliedo, Cosentino e Berlusconi, va gambe all’aria, cade miseramente nel nulla anche l’astuto progetto dei fascio-leghisti. Le cose stanno così, lo sanno tutti, anche se nessuno lo dice: il movimento politico denominato “Lega Nord per l’Indipendenza della Padania”, meglio noto come “Lega Nord” o “Lega Nord – Padania”, ha come prima finalità “il conseguimento dell’indipendenza della Padania”. Così dichiara urbi et orbi lo Statuto del partito, approvato nel marzo 2002 e mai modificato. E’ vero, Maroni e soci dicono di volerci arrivare “attraverso metodi democratici e il […] riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana”, ma quel galantuomo di Bossi, che sente puzza di bruciato, spara ormai a pallettoni. L’ha fatto il 31 luglio a Colico, ad una delle adunate in cui si galvanizza la minacciata guerriglia verde. Bossi  non si è limitato, infatti, a rifiutare un Governo tecnico. No. Il ministro della Repubblica l’ha detto chiaro: “Non staranno fermi, cercheranno di puntare su un governo tecnico […]. Ma se questo scenario dovesse profilarsi la Lega non starà ferma. Fortunatamente la Lega ha qualcosa come 20 milioni di uomini pronti a battersi fino alla fine.

Ci sarebbe devvero da ridere, se non venisse da piangere.

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