Ho atteso con pazienza cinese di poter rispondere – fatti alla mano – alla domanda dei centomila zerbini travestiti da giornalisti, che fino a ieri si chiedevano scandalizzati se si può mai dire no a Draghi. Ieri sera a Milano, in vista dell’entrata in vigore della zona arancione, ai Navigli e alla Darsena si sono radunate migliaia di persone e duecento tra vigili urbani e poliziotti hanno assistito impotenti al dilagare degli assembramenti. Il sindaco Sala, evidentemente irritato dalle accuse che gli sono piovute addosso, non le ha mandate a dire: «Sarebbe stato meglio chiudere nel pomeriggio la Darsena? Ma secondo voi, chi è andato in giro sarebbe stato a casa o sarebbe andato da qualche altra parte? Avete idea di quanti luoghi in città raccolgono la sera persone che si aggregano?». Evidentemente questa idea non è mai frullata nella testa del divino parto di Mattarella e Sala ha stabilito così il suo record: «E poi ci lamentavamo quando il Governo Conte decideva dalla sera alla mattina il cambio di ‘colore’. Ora che Draghi comunica la decisione tre giorni prima vedete tutti cosa succede». Signori zerbini travestiti da giornalisti, come vedete la vostra domanda ha trovato risposta: chi sa dire no a Draghi c’è. Lo fa pubblicamente e con giusta ragione. Finora il Santo miracoli non ne ha fatti, ma di cazzate ne ha fatte molte; poiché nessuno ha trovato il coraggio di dirlo, Sala ha stabilito un record: è stato il primo a dire no a Draghi. Il castello di carte comincia a vacillare e più i giorni passano più Renzi ricorda Giuda.
Emilia Buonacosa nasce a Pagani il 19 ottobre 1895. Abbandonata dai genitori e adottata da una famiglia di lavoratori, frequenta a stento le elementari. Ai primi del ‘900, Giolitti apre una stagione di riforme sicché nel 1911, quando Emilia entra in fabbrica, per i minorenni la legge vieta turni di notte e mansioni rischiose e limita l’orario a dodici ore con due di pausa. La giovane donna difende coi compagni i diritti calpestati dai padroni, ma il lavoro è così rischioso, che un incidente la priva del cuoio capelluto. Nel 1921 Emilia è a Milano col tipografo Federico Giordano Ustori, che, accusato di un attentato e assolto dopo un anno di carcere, va a vivere con lei a Nocera. Tornati a Milano per le minacce fasciste, nel 1924 si sposano, ma dopo le leggi «fascistissime» fuggono in Francia. A Parigi «casa Ustori» è un riferimento per molti fuorusciti e quando Federico attacca Stalin, «spietato necroforo della rivoluzione» e denuncia la persecuzione degli anarchici nell’URSS, Emilia è con lui. Il 2 novembre 1930, Federico muore ed Emilia si trova accanto tanti antifascisti, da Treves, che lo ebbe linotipista alla «Libertà», a Piero Montanini, della Concentrazione Antifascista che promette di riportare a casa da vincitori Federico, Amendola, Gobetti e i tanti operai morti in esilio come testimoni del sacrificio popolare. «Casa Ustori» sparisce così dalla «geografia politica» di Parigi, ma Emilia. che trova lavoro presso Ettore Carozzo, editore ed emigrato politico, non si allontana dai fuorusciti. Tutto ormai nella sua vita ha un colore politico, anche i luoghi frequentati. In un caffè in via Diderot, ritrovo di fuorusciti, nel 1932 incontra Pietro Corradi, che curerà le ferite d’una donna sofferente. Vicina a «Giustizia e Libertà», la Buonacosa frequenta i libertari Renato Castagnoli e Bruno Gualandi e il dott. Temistocle Ricciulli. Interrogata su tali amicizie, anni dopo dirà di non conoscere anarchici. Ricorda il Ricciulli perché nel 1935 le curò una polmonite. In realtà, hanno combattuto i franchisti. Tornata a Parigi nel 1938 la donna procura documenti per i reduci in fuga dalla Francia. Sa di rischiare e il 2 gennaio 1940 avvisa un’amica: «quelli […] considerati i più sinceri fra gli amici […] oggi cercano di pugnalarti alla schiena». L’attacco italiano alla Francia la trova esule in un Paese in guerra col suo e il 9 luglio 1940, come ha previsto, un «amico» la vende ai tedeschi. Condotta ad Aquisgrana, il 9 ottobre è in mani fasciste. A Napoli, a novembre, nega l’attività antifascista, la Spagna e le riunioni di «Giustizia e Libertà». Il 2 dicembre 1940, quando è condannata a cinque anni di confino, non ha un legale, l’accusa non esibisce prove e un medico attesta che è idonea al regime del confino. La Buonacosa ricorre: le accuse sono solo ipotesi, la condanna è «enorme e inumana», perché non si è giudicato un «atto violento», si sono ignorati l’infortunio e il bisogno di cure e si poteva mandarla infine in un luogo in cui i familiari potevano aiutarla. Il ricorso è respinto. Giunta a Ventotene il 13 dicembre 1940, ottiene che un medico attesti il bisogno di cure e di una parrucca. Inizia così un duello sulle regole, che sembra rendere la confinata più libera dei suoi carcerieri, servi d’un regime in cui il diritto coincide col potere e il potere nasce dalla forza bruta. La prima richiesta – «un sussidio di vestiario» – chiama i carcerieri al rispetto dei «principi umanitari» della finta «civiltà fascista»: se manca di tutto, è perché il medico ha ignorato il suo infortunio e la polizia l’ha trascinata via senza lasciarle prendere le sue cose. Tocca al Ministero ritrovare le sue valigie perse nel carcere tedesco e pagare per la parrucca rotta. Per quanto sofferente, Emilia insiste. Per la parrucca, propone, potrebbero condurla a Napoli e per le cure avvicinarla a casa. Se non si vuole, dovrà «abitare da sola, perché è umanamente impossibile vivere con altre donne». Invano il prefetto di Littoria approva il viaggio e il medico ricorda che la «psicoastenia a sfondo depressivo», vissuta «in comune con altri confinati», può «indurre al suicidio», il Ministero nega il trasferimento. Emilia vacilla – «vivo in penosissime condizioni», ammette – ma non cede e torna sulle valigie, in cui c’era il suo corredo, costato anni di lavoro e del quale, nonostante le ricerche promesse, non sa nulla. Quando infine si decide di condurla a Napoli, si scopre che manca la scorta. Per otto mesi, afflitta da dolori alla testa e dal timore del «ridicolo per le […] condizioni della parrucca», la donna resiste e frequenta gli «anarchici più pericolosi della colonia». Il calvario termina il 19 agosto 1941, quando, partita per Napoli, torna con una parrucca nuova. Ai primi del 1943, il Ministero le permette di scrivere a Parigi al Corradi, che, per aiutarla, le ha venduto dei mobili, ma la donna critica il cambio con la moneta francese, così sfavorevole, da scoraggiare altre vendite. Meglio conservare ciò che ha, altrimenti, scrive, scontata la pena, «mi troverei senza casa e senza possibilità di formarmene un’altra». Ora la guerra si sente anche sull’isola. Costretta a bere acqua di mare bollita e a mangiare foglie di fichidindia cotte, l’unica pianta di cui l’isola è ricca, la Buonacosa peggiora e il sistema nervoso, già debole per l’infortunio, le causa vertigini e oscuramenti della vista. Per curarla, il medico prescrive farmaci e vitto speciale, ma il Ministero, deciso a piegarne la resistenza, colpisce dove i nervi sono scoperti e il dolore più vivo. Il direttore, Marcello Guida, un vero aguzzino fascista – è lui che consiglia di prolungare la pena per Terracini e la Ravera – conosce l’intento del regime ed esercita con ferocia il suo potere, ritardando l’invio delle richieste a Roma. Il colpo più doloroso giunge quando i genitori chiedono di vederla e la Buonacosa implora: la madre anziana potrebbe d’un tratto mancare e «sarebbe troppo grande dolore per me e per lei, qualora non ci fosse dato di vederci almeno una volta ancora. […] La devozione per il Regime li raccomanda. Non vorrete negare una consolazione». Il duce rifiuta e un no riceve anche la madre, che il 29 aprile 1942 gli confida l’ansia terribile «per il figlio combattente, che non scrive dal mese di novembre» e lo implora: non «avrò molto da vivere […] e vorrei vedere almeno la mia cara figlia adottiva che non ho potuto abbracciare da 16 anni». Alla clemenza, che può sembrare debolezza o ammissione di colpa, i tiranni preferiscono spesso la crudeltà, sicché il senso di umanità cede il passo alla ferocia. Disumana è la risposta di Mussolini: la «domanda per ottenere una breve licenza a favore della Buonacosa Emilia non è stata accolta». La confinata resiste, finché, Guida sente morire il regime e abbandona la nave che affonda. Passi felpati, ma chiari: i diritti non più legati alla sottomissione faranno dell’aguzzino un «esecutore d’ordini». Il braccio di ferro con Emilia non ha più senso e il 27 giugno 1943, dopo che Roma ha deciso di liberare i «politici» meno «pericolosi», benché sia molto attiva e stimata dalle compagne, la inserisce in un elenco di 140 confinati ai quali commutare in ammonizione la pena. La notizia dell’arresto di Mussolini giunge a Ventotene il 26 luglio e gli antifascisti, formato un comitato, si recano dal Guida, che, tolto il quadro del duce dall’Ufficio e il distintivo fascista dalla giacca, d’un tratto cortese, accetta le condizioni poste dai confinati. Mentre Badoglio, incalzato dai partiti risorti, libera i prigionieri politici, ma «dimentica» gli anarchici, a Ventotene Emilia protesta vivamente e in nome delle «mutate condizioni politiche» chiede la liberazione. Il 23 agosto 1943, lasciando Ventotene, crede di tornare a casa. L’attendono invece le macerie e i morti di Formia bombardata e il campo di Fraschette d’Alatri, con migliaia di internati, per lo più donne e bambini. La Buonacosa, che ha tenuto testa a Guida, è un riferimento per le slave, giunte con lei da Ventotene e a nome suo e delle compagne malate e prive di cure, ricorda al vecchio fascista Badoglio un titolo che ora impone rispetto: la sua strenua lotta al fascismo. Noi tutte, scrive, «protestiamo energicamente contro questo trattamento e chiediamo la nostra immediata liberazione come confinate ed internate politiche». Il senatore Umberto Ricci, però, ex prefetto di Mussolini e ministro dell’Interno di un governo pronto alla fuga di fronte ai nazisti, prende tempo. Invano il 31 agosto da Fraschette chiedono che fare di Emilia Buonacosa, che, giunta al campo 24 agosto, per il direttore è ancora una «politica». L’ordine di liberarla parte da Roma il 7 settembre, mentre il governo prepara la fuga, e giunge al campo il 4 novembre, quando gli eventi bellici impediscono che Emilia torni a casa. Tornata a Pagani il 7 agosto 1944, la donna abbandona lentamente la militanza attiva, mentre il sipario cala sulla sua vicenda umana e politica. Poco prima della Liberazione, Nenni le scrive, promettendo di andare a farle visita, ma non lo farà. Di lì a poco, quando Emilia chiede il passaporto per un viaggio a Parigi, il prefetto di Salerno, fermo al ventennio, scrive a Romita, socialista come Nenni e ministro dell’Interno, che Emilia Buonacosa, «pericolosa alla sicurezza pubblica e agli ordinamenti dello Stato», confinata a Ventotene, fuggì quando gli Alleati liberarono l’isola e conclude con parole terribili: «in atto, serba buona condotta in genere e non dà luogo a rilievi». Per le autorità, quindi, La Buonacosa è una «fuggiasca» sorvegliata. La melma in cui rimesta il prefetto non può sfiorare la «vedova Ustori», che parte per Parigi, rivede i compagni e la tomba del marito, poi torna a casa. Su quella melma, però, poggia in parte l’Italia nuova, che in anni di lotte migliaia di «sovversivi» hanno provato a costruire. Una melma destinata a riaffiorare, se nel 1959, con Segni Presidente del Consiglio e ministro dell’Interno e Tambroni al Tesoro, il fascicolo di Emilia «vive» ancora. E’ il Tesoro che, per decidere sul diritto alla pensione assegnata ai perseguitati politici, chiede agli uomini di Segni notizie sulla donna. Nella domanda Emilia ha ricordato tutto: l’espatrio, l’arresto e il confino, ma gli uffici di Segni copiano note fasciste ed è chiaro: nella vita di Emilia, come nel suo eterno fascicolo, il «passato non passa», l’antifascismo minaccia le Istituzioni e la «sovversiva» rimane la «donna di facili costumi, capace di azioni delittuose» che «convisse more uxorio con un tipo politicamente pericoloso». Si chiude così un fascicolo che conduce difilato al 12 dicembre 1969, a Piazza Fontana, agli anarchici di nuovo in catene, a Valpreda, a Pinelli, staffetta partigiana e antifascista come Emilia e ai morti di Milano, che aprono quella che Zavoli chiamò «notte della repubblica». La notte in cui, incredula, alla televisione, Emilia vede il fango del ventennio che riemerge e riconosce Marcello Guida, l’aguzzino di Ventotene. Questore di Milano, indaga sull’attentato e colpisce ancora gli antifascisti.Emilia muore il 12 dicembre 1976, ancora «pericolosa» per istituzioni in cui si muove libero Marcello Guida, protetto da «omissis» e segreti di uno Stato di cui è ad un tempo simbolo di continuità e naturale nemico.
Fonti e Bibliografia
ACS, Confino, f. 164; Necrologio in “Umanità Nova”, 6-3-1977; Rosa Spadafora, Il popolo al confino, Athena, Napoli, 1989, pp. 105-106; Giuseppe Aragno, Emilia Buonacosa, in AA.VV. Dizionario biografico degli anarchici italiani, Biblioteca Serantini, Pisa, 2003, I, p. 274; Idem, Antifascismo e potere. Storia di storie, Bastogi, Foggia, 2012, pp. 53-72; Annunziata Gargano, Resistenze. Esperimenti di microstoria attraverso tre biografie, Ippogrifo, Sarno, 2012. Ilaria Poerio, Vania Sapere, Vento del Sud. Gli antifascisti meridionali nella guerra di Spagna, Istituto Ugo Arcuri, Cittanova, 2007, p. 233.
Nonostante lo spreco d’incenso e le incessanti processioni dei devoti in mistica attesa che il Santo faccia almeno uno dei centomila, sospirati miracoli, tutto è fermo al campanello scambiato. Sono le settimane destinate alla preghiera, spiegano in coro gli zerbini dell’informazione, ma l’occhio malevolo dei miscredenti non sfugge il fatto che per ora all’uomo piovuto dal cielo non è riuscito di chiudere in tempi da Santo, nemmeno l’indecente partita dei sottosegretari. Roberto Cingolani, l’uomo dell’Istituto Italiano di Tecnologia e della scienza privata finanziata dallo Stato, pare monsignor tentenna: un tempo perplesso sulle «rinnovabili» («sono le energie meno impattanti – diceva – ma bisogna fare investimenti e non risolvono tutti i problemi») ora ragiona come un manager dell’ambiente, che di ecologia sa poco, ma di profitto molto. Intanto, per il suo Ministero della Transizione Ecologica, in materia energetica dovrebbe sottrarre competenze ad altri ministeri, ma se la deve vedere col leghista Giancarlo Giorgetti, che non vuol cedergli il MISE. Vittorio Colao, che dovrebbe essere il faro dell’innovazione tecnologica e della transizione digitale, pare sia a disagio. Dovrebbe presiedere un comitato interministeriale sulla digitalizzazione del paese istituito, però, presso il Ministero dell’economia e delle finanze. Questo significa che ci metteranno le mani tutti i ministeri competenti con i loro ministri incompetenti. Roberto Garofoli, sottosegretario alla Presidenza, del Consiglio sta rischiando il manicomio per raccogliere le rose di nomi dei sottosegretari. Al Carroccio spetterebbero 8-9 posti, 11-12 ai 5Stelle, in serie difficoltà per le defezioni, 6-7 a Forza Italia, due a Italia Viva, uno a Leu, uno al blocco centrista. Gente di alto livello? Il precedente dei ministri con Brunetta e soci non incoraggia e per ora comunque siamo a una babele di nomi, complicata dalla richiesta del PD di confermare alcuni ex sottosegretari di Conte e riequilibrare la presenza maschile nei ministri del governo. Poiché la questione delle donne al governo passerà per la direzione del partito che si riunirà in questi giorni, tutto per ora è fermo. Incenso e processioni per ora non sono bastate: il Santo, per chi ci crede, c’è, ma la «corte dei miracoli» non s’è ancora formata. In realtà, mentre l’informazione ufficiale disegna ogni giorno l’apoteosi del Santo e nessuno lo dice il primo segnale della sua esistenza il Governo l’ha dato. E’ accaduto al tavolo Stato e Regioni, guidato dalla Gelmini, scienziata dei neutrini. Un segnale importante, perché riguarda le vaccinazioni, per le quali dal Santo si aspettano miracoli. Per il momento, in attesa dei miracoli, la vaccinazione dei docenti e del personale amministrativo scolastico è un autentico disastro. Con Gelmini fedele agli ordini della sua destra, le cose per ora vanno infatti così: gli istituiti scolastici inseriscono in una piattaforma i nomi dei lavoratori, i quali, se vogliono si prenotano. Quando però un insegnante campano che insegna in Lombardia chiede di essere inserito, scopre che non può: ogni regione inserisce infatti solo i nomi dei docenti nati dalle sue parti. E il docente campano? Si rivolga alla Regione in cui è nato! Non sarebbe un metodo da «governo dei migliori», ma siamo agli esordi e ci vuol pazienza. Il fatto è, però, che il docente campano non insegna dalle sue parti e nella piattaforma campana non c’è posto per lui. Risultato? Non si può vaccinare. Per chi non l’avesse capito, stiamo parlando di migliaia di lavoratori. Il Santo lo sa che quando fai di una scuola un’azienda, va a finire così? E’ vero che non si fanno profitti, ma registrare perdite significa funzionare male. Quante processioni e quanto incenso sarà necessario, per compiere il miracolo della vaccinazioni?
Rari sogni seguire, stringendo fili d’oro in pugni chiusi. Giudicare che presso a la burrasca il mare è assai più vero. Domandare ed offrire la luce d’un sorriso senza starci a pensare, esser lieto per nulla e morire d’amore per un’anima chiara. Questo tu sognerai. E però i fili d’oro talvolta troncherai con le tue mani, i pugni affaticati si apriranno e mari cercherai sempre più queti. Senza troppo pensare, indifferente, la luce d’un sorriso negherai. Tra questi opposti limiti oscillando, verrai, poi andrai, figlio di rari sogni e di spezzati fili.
Clotilde Peani nasce a Torino il 18 aprile 1873, mentre una crisi economica semina disperazione e Marco Minghetti, da buon liberista, per quadrare il bilancio, non taglia le spese militari, ma i fondi per la scuola e impone tributi e balzelli ai ceti popolari. Clotilde, figlia di povera gente, ha il futuro segnato. A scuola va quanto basta per leggere, scrivere e far di conto, ma in fabbrica le sono maestri i «sovversivi»; studia opuscoli e giornali proibiti e capisce che il lavoro è sfruttamento, ma anche emancipazione. Quando rifiuta di essere «angelo del focolare», per la polizia diventa donna «di cattiva condotta morale» ed è malvista dalla società della «Belle époque», che, trasgressiva nel «café chantant», esclude le donne dalla cosa pubblica e le chiude nel limbo delle mura di casa. Una società ipocrita, fatta di madri e sorelle sante, di mogli vigilate e donne libere ridotte al rango di prostitute e cocottes…
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La voglia di capire l’avevo da tempo, ma l’idea di provare è nata dopo che Draghi, parlando di riforma fiscale, ha citato la Danimarca. E’ bastato cercare e s’è accesa una luce. Secondo dati recenti, l’evasione annuale complessiva raggiunge in Italia i 190,9 miliardi. Seguono a ruota l’insospettabile Germania con 125,1 e la Francia con 117,9. Se si tien conto, però, dell’evasione procapite, la sorpresa è notevole. L’Italia è ancora al primo posto con 3.156 euro, ma dietro c’è la Danimarca di Draghi con 3.027 euro. Una differenza minima: 129 euro. Certo, il potere d’acquisto è diverso, ma il dato in sé è a dir poco sorprendente e capisco perché il mio amico Gianpiero Laurenzano, che di queste cose s’intende molto, commenta: «Questa non è una gaffe. […] Sta dicendo al mondo del lavoro autonomo, all’imprenditoria (in particolare a quella piccola e media) di star tranquilli […] che non stravolgerà le cose, che si intensificherà la lotta all’evasione ma che non esagererà e il tutto sarà accompagnato da un piccolo abbassamento delle tasse». Il fatto è che su questi temi siamo ormai predisposti a farci prendere per i fondelli. Da tempo una informazione disinformante lavora ingigantisce i nostri difetti, per farci accettare lezioni, anche da chi farebbe meglio tacere. Siamo al punto che, nell’immaginario collettivo, se dici «furbetti», stai dicendo italiani. Se però non ti contenti di chiacchiere, scopri che siamo in buona compagnia e spesso a farci la lezione sono maestri a dir poco sospetti. Nella graduatoria dei «furbetti», per esempio, il piccolo Lussemburgo è al primo posto per una grandissima furbizia: gli sconti «ad hoc» che le sue banche assicurano alle aziende. Non è un bel primato e non è l’unico di cui non siamo i primi a doverci vergognare. La Germania, ritenuta un modello di efficienza e correttezza, è in cima alla classifica dei «furbetti» che hanno più ricchezza accumulata in Paesi offshore: 331 miliardi, il 13 % del Pil prodotto tra il 2001 e il 2016. Una cifra che supera di gran lunga la media dei 28 Paesi europei e Italia compresa. Non si tratta di un dato banale. Per l’OCSE, infatti, il problema di coloro che evadono, portando il loro soldi nei paradisi fiscali, è uno dei più gravi dell’economia mondiale. Per l’Europa si tratta di 1.500 miliardi, una montagna di soldi. L’Italia non è un’anima innocente, ma dopo la Germania c’è la Francia, che fa sparire 288 miliardi (il 10 % del Pil); noi siamo quarti e i soldi che facciamo viaggiare clandestinamente costituiscono l’8,1 % del Pil. Tutti sanno che nell’Unione Europea l’Italia è al primo posto per evasione fiscale e tutti credono che la Germania sia un Paese in cui certe cose non sono nemmeno pensabili. Per un inspiegabile mistero, nessuno ricorda i danni gravissimo di una pillola anticoncezionale targata Bayern, gli scandali Wolkswagen, Porsche e MAN, le tangenti pagate dalla Siemens, l’amministratore delegato di Deutsche Post, Klaus Zumwinkel, arrestato nel 2008 per un’evasione fiscale di 10 milioni di euro, trasferiti naturalmente nel Liechtenstein, la multa pagata dalla Deutch Bank nel 2013 per la manipolazione dei tassi di interesse e gli oltre 2,5 miliardi di euro versati al governo inglese e agli Stati Uniti per aver manipolato gli indici che regolano i prestiti tra banche e i mutui. Si dice che noi abbiamo il primato nel campo della malavita. Un conto dal quale però si tengono fuori i banchieri. Se ci si occupasse anche di loro, scopriremmo che per il riciclaggio dei capitali sporchi da parte delle banche le cose stanno così: le peggiori si trovano in Danimarca, Estonia, Germania, Lettonia e Paesi Bassi. Il Parlamento europeo ha ripetutamente sottolineato che in molti Paesi, soprattutto quelli in cui il riciclaggio è più diffuso, i sistemi fiscali sono vecchi e arretrati, soprattutto perché sono state facilitate le opportunità di cambiare residenza fiscale. Ovunque l’uso di software per il prelievo automatico di contante da registratori di cassa e punti vendita agevolano l’opacità e le truffe fiscali. Grave è che Stati membri dell’Unione attirino utili generati altrove, danneggiando il principio di solidarietà e determinando una distribuzione della ricchezza anomala a spese dei cittadini dell’UE. A spese nostre, quindi. Nell’immaginario collettivo, se dici «Stato sanguisuga» pensi all’Italia, anche perché essa sconta una storica debolezza politica sul terreno fiscale. Tuttavia, per quanto riguarda la pressione fiscale nel 2019 la Fondazione Nazionale dei Commercialisti calcola che al primo posto ci sia la Danimarca (47,6 %), mentre l’Italia è al sesto posto, con il 42, 4 %. La Germania è ottava, con il 41,6 [Analisi della pressione fiscale in Italia in Europa e nel mondo. p. 16]. Per quanto riguarda le imposte dirette, indirette e sui redditi da capitale, siamo settimi, preceduti da Francia, Belgio, Svezia, Austria, Grecia e Germania. Più pesanti sono le tasse sulle imprese, in cui, tuttavia siamo secondi col 59,1 %, preceduti dalla Francia (60,7 %) e seguiti dalla Germania (46,8 %). Da qualunque parte la guardi, l’Unione Europea dei neoliberisti è un autentico verminaio.
Ho ascoltato l’uomo che la stampa ha fatto santo. Non è Cicerone; è anzi monotono e a volte soporifero, proprio come me l’aspettavo. Non mi attendevo che non citasse mai la Costituzione e che sbagliasse sui numeri, ma l’ha fatto e si trattava di quelli che ti dicono se sai di che parli. Non mi attendevo nemmeno la retorica stucchevole e un po’ patriottarda e l’insistente, acritico richiamo all’Unione Europea, alla Nato e all’atlantismo. Un ritorno a quell’Occidente di cui fa ancora parte Guantanamo, evidentemente dimenticata. Non so se il discorso sia farina del suo sacco. Se non lo è, i collaboratori del santo sono diavoletti. Se invece è suo, sono costretto a pensare che il sommo genio sia un manipolatore. Chi è onesto intellettualmente, non cita Cavour, estrapolando due parole da un suo lungo discorso per utilizzarle in maniera strumentale e fuorviante. E’ vero, Cavour parlò di riforme, ma quelle cui faceva riferimento il futuro statista piemontese, in veste di giornalista, avevano uno scopo preciso, che Draghi si è guardato bene dal ricordare: far sì che la crescita del Paese servisse anzitutto a migliorare le condizioni di chi, allora come oggi, costituiva la parte più svantaggiata della società, anche se «più direttamente contribuisce a creare la pubblica ricchezza: la classe degli operai». Il messaggio di Cavour, quindi, è chiaro, inequivocabile e ben diverso dal suo. Rivolto a imprenditori, politici, e padroni di quella industria nascente, che già minacciava future «rovine e spaventose catastrofi», se non se ne fossero rafforzate le fondamenta, Cavour dettava una regola: non si può parlare di buona riforma, se essa non guarda anzitutto ai lavoratori e non si adoperi affinché «parte delle ricchezze che si vanno accumulando» sia utilizzata in maniera seria per il miglioramento delle loro «condizioni materiali e morali», consentendo che si istruiscano e vivano in modo più agiato. Cavour così concludeva le sue riflessioni: «Impari […] l’Italia […] ad avere in gran pregio le sorti delle classi popolari, ad adoperarsi con sollecite cure ed incessanti al loro miglioramento» e faccia «si che tutti i nostri concittadini, ricchi e poveri, i poveri più dei ricchi, partecipino ai benefici […] delle crescenti ricchezze».* Ho ascoltato Draghi che chiedeva fiducia, ma non mi fido. Non ha imparato ciò diceva Cavour e ne ha stravolto il pensiero.
Voi mi direte – e forse è vero – che solo il tempo potrà dire quale ruolo avrà per davvero il governo di Nembo Kid e che Mattarella non a mai parlato di un «Governo di unità nazionale». Magari è vero, questa formula lui non l’ha usata, ma è una vecchia volpe e sapeva benissimo che la navicella varata avrebbe seguito quella rotta. Piuttosto, è vero quello che si dice? Davvero quella scelta era la sola via possibile? A me pare di no. Pertini, per nominare un Presidente della Repubblica che non aveva un filo diretto con i principali esponenti del neoliberismo, avrebbe rifiutato le dimissioni di Conte, gli avrebbe detto che i governi – soprattutto se hanno la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato – cadono in Parlamento, non al Quirinale. A Conte sfiduciato non salo avrebbe poi ridato l’incarico, ma l’avrebbe fatto dichiarando ad alta voce, perché Renzi lo sentisse anche dall’Arabia Saudita, che, fallito Conte, avrebbe sciolto le Camere e si sarebbe votato a tambur battente. Voi ve l’immaginate Renzi? Io sì. Bianco nei capelli per il terrore e facendosela addosso, sarebbe andato da Conte come Enrico a Canossa. Perché non l’ha fatto? Perché sapeva bene che Conti era condannato. Non si tratta di complottismo. I fatti parlano da soli. Renzi è stato come al solito il killer, ma i mandanti erano altrove e gli davano garanzie. Sin dal 3 gennaio, come attesta un articolo di Left che, tranne Renzi, nessuno si è azzardato a smentire, in Umbria, casa Draghi era un covo di pessimi arnesi; Renzi ci aveva messo le tende e di politici ne erano passati tanti, compreso Salvini, che evidentemente la svolta europeista non l’ha maturata dalla sera alla mattina. Purtroppo la libertà della nostra stampa è morta da tempo e noi siamo costretti a ragionare, seguendo i dibattiti fasulli organizzati nei salotti della Berlinguer, di Mentana, di Floris, Formigli e campioni della stessa qualità. Salotti nei qual, per esempio, non sentiamo mai parlare della politica estera del governo Conti e non ci accorgiamo – a me è sfuggito per molto tempo – che – ci piaccia o non ci piaccia – il governo Cinte, così «inspiegabilmente» mandato a casa, non aveva mai accettato i pressanti inviti venuti dagli USA – Trump o Biden in questo caso non fa differenza – e fatti subito propri dall’UE; inviti volti a rompere ogni legame economico-commerciale con la Cina. Conte seguiva un’altra via: aveva firmato il Memorandum per la Via della Seta e non si era mostrato entusiasta per l’idea di Biden, deciso a costruire un fronte occidentale unito contro la Cina. Vi scandalizzo, però lo dico: il governo dei «migliori» varato da Nembo Kid, che si porta appresso non so quanti ministri di Conte – scusate, ma non erano scarsi? – e gente come Brunetta, Gelmini, Carfagna e compagnia cantante, che scarsa ha da tempo mostrato di essere, a me ricorda, per le ragioni che lo fanno nascere, quello di Monti ai tempi di Berlusconi, che, guarda caso s’era messo con Gheddafi e Putin. Vi scandalizzo, però lo dico: Renzi è il sicario, ma i mandanti vanno cercati negli USA, nelle bande di criminali annidati nella NATO e nell’Ue, dove la disciplina liberista mostrata da Conte non è sembrata a prova di bomba. E questo gli è costato caro. Pensate, per esempio, alla vicenda del nodo scorsoio rappresentato dal MES, che Conte non ha voluto mettere al collo del Paese. Questa “indipendenza” non ha dato completo affidamento nemmeno su un altro terreno: quello dello «svuotamento» delle costituzioni «socialiste» del sud Europa, ostacolo ancora serio per gli usurai dell’UE. Molti dicono che Conte abbia interpretato in maniera sbagliata il «Recovery Found». De Masi, che l’ha letto, dice – e nessuno lo smentisce portando fatti – che è ottimo e certamente migliore di quello francese. Vuoi vedere che anche in questo caso si è trattato di accettare una piena servitù? Questo non spiegherebbe la farsa cui abbiamo assistito? Non farebbe di Draghi quello che è sempre stato, il portalettere del più sfrenato e barbaro liberismo? Non è stato Draghi, il complice di Triche, che pochi mesi fa ha dichiarato morto il Welfare State? Voi dire che, diventato Commissario Europeo per gli affari d’Italia, farà come Paolo sulla via di Damasco? E’ vero, tutto può essere. Io però non ci credo.
Detesto la violenza, ma riconosco il diritto alla legittima difesa. Il governo Draghi (definito anacronisticamente «di unità nazionale») costituisce un’arrogante e violenta forzatura delle regole costituzionali. Non a caso l’unico precedente risale all’immediato dopoguerra, alla realtà d un Paese uscito battuto e distrutto dalla seconda guerra mondiale, dopo vent’anni di fascismo. Di «unità nazionale» furono il primo governo De Gasperi (formato, però, durante l’agonia delle Istituzioni monarchiche) e il secondo terzo governo De Gasperi, che unì temporaneamente partiti molto diversi tra loro, subito dopo la nascita della Repubblica. Quella «unità» ebbe un senso, perché c’erano da fare scelte collettive legittimate da tutti i partiti che avevano combattuto il fascismo: scrivere la Costituzione – la prima dell’Italia unita – e firmare il trattato di pace. Nessuna forza politica avrebbe potuto procedere da sola e da soli non avrebbero potuto muoversi nemmeno una coalizione di forze laiche e di sinistra o un blocco di forze moderate, cattoliche e liberali. Nel maggio 1947, però, nel momento stesso in cui questi due problemi furono risolti, De Gasperi aprì la crisi di Governo da cui nacque l’esecutivo che collocò all’opposizione le forze della sinistra. Da una condizione di necessaria patologia della democrazia, si passò così al funzionamento «normale» della vita repubblicana. Quali condizionamenti agirono sulla nuova Italia e quanto pesantemente la sua crescita ne risultò frenata, non è il tema di questa riflessione. Ciò che risulta subito evidente dalle brevi note sulla realtà che giustificò la formula dell’«unità nazionale» è, però, più che sufficiente per dimostrare quanto sia falso e strumentale il ricorso alla stessa formula per giustificare la miserabile operazione da cui nasce il governo Draghi. Un governo moralmente illegittimo, formato per lo più da figure squallide e di parte – primo tra tutti il Presidente del Consiglio dei Ministri – lontani mille miglia dai valori che animano la Costituzione e in buona parte privi della legittimazione di un voto popolare. Un governo nato da un’operazione che ricorda da vicino più i modi e le tecniche ignobili di un golpe bianco, che la nobiltà di intenti di quella «unità nazionale» che legittimò la Repubblica antifascista, la cui distruzione è il primo, concreto quanto naturalmente inconfessato obiettivo del proconsole dell’Europa neoliberista. Gli incontri segreti e gli interessi inconfessati che si celano da tempo dietro Draghi e il suo governo, il modo in cui è nato, l’insalata russa che lo compone e ne rende impossibile un programma condiviso dai suoi ministri, aprono una pagina buia della nostra storia, ma producono anche un progressivo, crescente e spero inarrestabile bisogno di luce. Chi ha pugnalato alla schiena il governo Conti e dichiarato guerra alla democrazia, chi ha umiliato la nobiltà della politica e ha adottato principi che segnano il confine tra civiltà e barbarie, potrebbe essere schiacciato dal peso delle sue immense responsabilità. Quando metti da parte la politica, lasci aperta solo la via della violenza. L’ultima volta che abbiamo affrontato una situazione simile a questa, la risposta popolare è stata violenta, ma giusta e necessaria. I libri di storia la ricordano con un nome sacrosanto: guerra di liberazione. Nessuno lo vorrebbe, ma da questo momento in poi chi ama la democrazia non può far altro che prepararsi a lottare. Lo deve a se stesso e a chi sacrificò la sua vita perché nascesse la repubblica che vanno distruggendo. Guerra di liberazione, quindi, feroce quanto quella che preparano i golpisti reazionari. Senza quartiere e con tutte le armi possibili.
Letto l’elenco, Nembo Kid tace e zitto sta sul Quirinale – lo blocca la vergogna?- lo sponsor del «governo dei migliori». Sia come sia, quel silenzio, che com’è noto è d’oro, consente a zerbini e leccapiedi i voli più spregiudicati. Gelmini, Brunetta, Giorgetti, Carfagna e chi più ne ha più ne metta – da passato che sono stati, diventano d’un tratto e miracolosamente il futuro. Ci avevano messi sull’avviso, no? Nembo Kid è capace di fare miracoli. Stavolta però colui che non usa cappotti, non suda per il caldo e non trema per il freddo, ha compiuto un miracolo tale, da rivoltare come un calzino la storia dei venditori di fumo: l’uso mirabile delle scamorze, riempie infatti la serata e l’attenzione del popolo è tutta presa dai più azzardati, entusiastici e mirabolanti peani, cui fa da contrappunto il cicaleccio fitto, ma doverosamente contenuto nei toni, di rari scettici sconcertati ma pronti all’ossequio. Chi aveva trovato esagerata la lode dell’abilissimo Nembo Kid deve prenderne atto: con le scamorze che tengono banco, nessuno si accorge che al neonato Ministero della transizione ecologica, avvolto finora nel cauto fumo del silenzio, Nembo Kid ha chiamato una controfigura del capo, un Nembo Kid in sedicesimo, del quale si dice tutto – che è iperattivo, che accetta tutti meno gli impostori, che è autore di un milione e mezzo di saggi, articoli e volumi fondamentali – ma si passa sotto silenzio il fatto che il rambo dell’ecologia non conosce per nulla i problemi ambientali e che – udite! udite! – è uno che sa tutto di sicurezza armata del cielo, del mare e della terra. Il Rambo scelto da Nembo Kid per tirarci fuori dalla tragedia ambientale è insomma un venditore di armi. Siete sconcertati? Gente di poca fede, levate in alto i cuori e apriteli alla speranza: Nembo Kid, esperto impareggiabile nella trasmissione del pensiero, durante la notte ha fatto di Roberto Cingolani un uomo nuovo, uno che sa tutto di ecologia, un ex signore delle armi che ora possiede il segreto di un nuovo miracolo: trasformare la transizione ecologica in un affare per banche, banchieri e Confindustria.