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Archive for agosto 2020

Analfabeta di valori, come tutti i prepotenti impuniti, il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, non conosce la storia e da quel poco che ne sa non ricava evidentemente lezioni. Ignora, per esempio, la vicenda di Luigi Bonnefon Craponne, fondatore e primo presidente di Confindustria, prepotente come lui, finché non si trovò a fare i conti con Giovani Giolitti, che non fu un bolscevico, ma ebbe il senso dello Stato. Craponne era della stessa pasta di Bonomi, che, senza nemmeno saperlo, nei suoi discorsi da guappo capitalista teorizza una strategia di totale egoismo, secondo la quale – gli metto in bocca le parole del suo predecessore – «gli industriali non debbono restringersi alla difesa dei loro interessi economici immediati nei riguardi della classe operaia, ma saper fare pressioni tali che la legislazione sociale non proceda troppo avanti e non danneggi l’industria e i suoi interessi».
Nel 1913, con questa minacciosa e a dir poco pericolosa dottrina, l’antenato di Bonomi pensò di piegare con la forza gli operai, protagonisti di uno sciopero a oltranza che aveva i crismi della santità. Facendo fuoco e fiamme Craponne, ricattò Giolitti, reo di non intervenire con la forza, minacciò il governo, facendo balenare lo spettro di licenziamenti di massa e pensò di aver chiuso la partita, intimidendo il Presidente del Consiglio dei Ministri. Fece male i suoi conti, però, perché di fronte a tanta arroganza Giolitti non ci pensò due volte: per molto meno di quanto sta combinando oggi Bonomi, espulse dall’Italia, come fosse un migrante di Salvini, l’eversivo capo dei padroni, colpevole di aver messo a rischio la pace sociale, osando «eccitare e invelenire le agitazioni degli operai, suscettibili di gravi effetti politici e sociali».
Bonomi, incarnazione della barbarie violenta e dell’arroganza ignorante dei capitalisti, vale più o meno Craponne. Conte purtroppo non vale Giolitti. Per quanto mi riguarda io starei dalla parte di quel governo capace di trasformare gli uffici delle aziende di Bonomi e soci in accampamenti della Guardia di Finanza. Non ci vorrebbe molto e per Confindustria sarebbe l’inizio della fine. Purtroppo un governo di questa pasta non c’è e io sto con chi, come Potere al Popolo!, intende organizzare uno scontro senza mezze misure e dubbi non ne ho: questa gente deve pagare e sparire.

Fuoriregistro, 15-9-2020

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Ci sono notti in cui è impossibile dormire. Notti in cui al corpo stanco che chiede riposo si oppone un’attività incontrollata della mente: un andirivieni frenetico d’elettricità che percorre nervi e volute celebrali, si materializza sotto le palpebre, negli occhi riluttanti che illuminano il buio profondo dell’inconscio.
Il percorso d’un pensiero diventa così infinito e non serve mandarlo via. Torna di nuovo. Semplicemente, automaticamente, ossessivamente. Se la luce dell’alba non lo respingesse altrove, quel pensiero ostinato, non ci darebbe più scampo.
Per Anna, la notte destinata a non finire giunse d’un tratto e non trovò più l’alba. Fu legittima difesa. Attrice di talento, costretta a rinunciare al teatro e a chiudersi nella gabbia della “normalità”, la donna evase, scegliendosi un nuovo ruolo per l’ultima recita consentita.
Fu una recita a luci spente – e perciò sembrò a molti pazzia – ma Anna mostrò incredibile maestria: ridusse l’intreccio complesso dei dialoghi a una successione logica di monologhi e indossò costumi semplici: per ogni abito bianco, ce n’era uno nero e sul viso le maschere si succedevano in modo che l’una raccontasse il contrario dell’altra. Ogni verità solidissima partoriva il suo opposto e si disponeva alla lotta, ma sul palcoscenico terribilmente buio c’era sempre e solo lei. Bianca e nera, vera e falsa, felice o dolente, raccolta su stessa in un crescendo di amore e odio, di dolci confessioni e furiose auto sconfessioni.
Nelle rare pause in cui se ne stava affannata, muta, quasi invisibile al centro del palcoscenico buio, con un’accorta regia, Anna trasformava in coro le mille verità sconfessate e nel buio si intravedeva il suo viso o, per dir meglio, la maschera che portava sul volto irriconoscibile. Un attimo, poi tornava a recitare e aveva toni sempre più concitati: si disperava per l’immensa fatica, ma recitava con mille voci contemporaneamente i suoi infiniti personaggi e non accettava di metterne a tacere qualcuno…

Se il racconto ti piace o ti incuriosisce e vuoi continuare a leggere, ecco il link che ti porta a “Canto libre” che l’ha pubblicato:

https://www.cantolibre.it/con-amore-e-con-dolore/

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La malattia è sofferenza e talvolta morte. Sia l’una che l’altra possono talora essere evitate dalla tempestività dell’intervento medico. La «lista d’attesa» è un prolungamento più o meno indefinito della sofferenza e per il cittadino povero significa in molti caso tortura e qualche volta morte.
In «lista di attesa» naturalmente finisce quella parte della popolazione, da anni ormai in crescita costante, che non può far ricorso all’assistenza privata. Non è un paradosso: secondo il rapporto Rbm-Censis 2019 le popolazioni dei territori più poveri sono quelle che, in proporzione al reddito, spendono di più per curarsi. Più deboli o assenti, infatti, sono le strutture pubbliche, più la tortura diventa feroce e più il torturato è costretto a pagare per colpe che non ha commesso.
L’anno scorso il 44 % della popolazione italiana, dopo lunghe e dolorose attese, è stato costretto a sottrarre al suo magro bilancio i soldi necessari a pagarsi una prestazione sanitaria.
Diversamente da De Luca e Caldoro, i pilastri su cui poggia in Campania la Sanità privata, Giuliano Granato, candidato di Potere al Popolo! alla Presidenza della Regione, qualora dovesse vincere, destinerebbe ogni possibile risorsa al potenziamento della Sanità pubblica, riaprirebbe gli ospedali e i presidi sanitari chiusi da Caldoro e De Luca e farebbe di tutto per cancellare le «liste di attesa», che significano solo tortura e rischio di morte.     

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OGGI SONO SU IL MANIFESTO!

In viaggio su un treno regionale, destinazione Cilento. Per andare a incontrare Filippo Isoldi, uno dei candidati di Potere al Popolo! nella provincia di Salerno, e affrontare il tema dell’agricoltura.
Filippo è un “custode” della nostra terra, uno di quelli che più prosaicamente chiameremmo contadino.
E quale miglior lettura da treno, mentre dal finestrino scorrono le immagini della nostra Campania, se non l’articolo di Adriana Pollice?
Oggi su il Manifesto racconta la nostra lista con cui ci presentiamo alle elezioni del 20 e 21 settembre, alcuni dei temi da noi sollevati finora: dall’emigrazione al lavoro nero, passando per i trasporti e l’inquinamento delle nostre acque; alcuni dei prossimi passi, già in programma…
Leggete e, se vi va, fatemi sapere che ne pensate. Soprattutto: facciamo girare!
Nel frattempo, buona lettura e buona domenica!

Basta con le stesse persone e le trame di potere che vediamo da sempre
Adriana Pollice

Potere al popolo correrà in Toscana (nella coalizione del candidato Tommaso Fattori) e in Campania. Non hanno avuto nessuna esitazione a schierarsi contro il centrosinistra targato De Luca, tanto che la loro campagna elettorale era già partita a giugno, un mese prima che l’altra lista di sinistra (Terra) sciogliesse la riserva.
Il simbolo di Pap sarà presente in tutte le province campane. Il candidato governatore è Giuliano Granato, 34 anni, laureato in Relazioni internazionali, attivista dell’Ex opg Je so’ pazzo per cui si occupa, in particolare, della battaglia contro il lavoro nero. Le liste di Pap sono cucite sull’attivismo dei propri militanti. Mariema Faye fa parte del Movimento migranti e rifugiati Napoli; Clementina Sasso è astrofisica ed è impegnata nella difesa dell’ambiente; Marzia Pirone è avvocato del lavoro. La giovanissima Adelaide Sara Cavallo è portavoce della Casa delle Donne di Cava de’ Tirreni e militante di Spazio Pueblo. E poi c’è Gennaro Tesone, batterista degli Almamegretta. Spicca anche una pattuglia di fuoriusciti 5s, tra i fondatori dei meetup, come Marco Manna.
«È il momento di rompere il teatrino, che negli ultimi giorni è diventato ancora più evidente grazie all’accordo tra Pd e M5s – attacca Granato -. Basta con le stesse persone e le stesse trame di potere che vediamo da anni». La campagna elettorale è stata scandita da due temi: bonifiche e recupero del territorio; lotta allo sfruttamento delle categorie di lavoratori più fragili. Oggi saranno in Cilento per discutere di agricoltura sostenibile. Quindi, dopo la denuncia degli stagionali del turismo in costiera sorrentina, saranno a Ischia per raccogliere nuove denunce.
Altro tema attenzionato il fiume Sarno, uno dei più inquinati d’Europa grazie agli scarichi abusivi di industrie conserviere e conciarie a cui si sommano i condotti fognari abusivi. «Durante il lockdown le sue acque erano diventate cristalline – racconta – con le riaperture è tornato torbido. C’è stata una grande operazione della forestale con i sigilli alle imprese non a norma ma ieri la foce era di nuovo una fogna a cielo aperto. Ho cominciato la campagna elettorale da lì, su una canoa, e voglio tornaci. È una battaglia che abbiamo intenzione di continuare». Infine, il tema del trasporto regionale: «Andremo a verificare lo stato di alcuni tratti di linee abbandonate, ad esempio la Sirignano – Lagonegro che, se riattivate, permetterebbero di collegare aree interne che oggi soffrono di un isolamento per certi versi estremo».
Dietro l’angolo la ripresa dell’anno scolastico e la minaccia di De Luca di chiudere i confini della regione: «Il governatore è molto bravo a giocare con le paure ma la Campania è sempre stata fanalino di coda per tamponi effettuati, l’assistenza sanitaria territoriale continua a non esserci e i nosocomi sono stati trascurati in favore della costruzione di ospedali container, ancora senza agibilità. Come per la Sanità, ci ritroviamo con il comparto Scuola a pezzi, perché reduce da decenni di definanziamento, e ora deve fare i conti con la pandemia. E nessuno che voglia affrontare il disastro prodotto negli anni».
Se si dovesse ripetere il lockdown? «A marzo abbiamo messo su una rete di solidarietà molto attiva, che ha sostenuto le famiglie del centro e della periferia, tagliate fuori da bonus e aiuti per i troppi paletti messi da governo ed enti locali. Volontari e famiglie, siamo rimasti in contatto con tutti e siamo pronti ad attivare la macchina se dovessimo tornare a quella condizione».

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eskimo_contestazione_68_rivolta_ragazzi-802x499Com’era già accaduto col manganello della celere, anche la spranga e il coltello mi sorpresero disarmato. La violenza subìta scatenò i mostri che ci coviamo dentro dalla notte dei tempi, ma la tempesta improvvisa mi colse ancora una volta impreparato.
Come accade per mare, anche nella vita la prima volta che incontri una burrasca vera non sai cosa sia e non la riconosci; ti pare un curioso gioco di luci ed ombre, un movimento anomalo sulla curva dell’orizzonte.
A poco a poco, però, un gregge numeroso e compatto irrompe tra cielo e mare e ti corre incontro. E’ un momento: squarci di cielo livido si fanno velocemente strada nell’azzurro rassicurante e un vento salato, forte e tagliente ti prende d’infilata. Quando la luce diventa elettrica e il mare, nero come l’inchiostro, ti si alza davanti minaccioso, sputando schiuma dalla cresta delle onde, capisci che sei dentro la bufera e non hai scelta: se non governi, la barca cola a picco.
Quel giorno, aggrappato al timone, governai nel vento del mare in burrasca senza sapere quale rotta seguire. D’istinto salii più volte in cielo e superai montagne d’acqua con un grido di gioia; più volte vidi la prua puntare giù verso l’abisso tra pareti d’acqua ribollente. Senza respirare, quando il mare sembrò passarmi sulla testa, trovai un passaggio e lesto m’infilai.

Se il racconto ti piace o ti incuriosisce e vuoi continuare a leggere, ecco il link che ti porta a “Canto Libreche l’ha pubblicato.

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unnamedNon so quante volte in questi ultimi tempi ho subito pazientemente questo stupore in apparenza cortese, che in realtà contiene un’accusa pesante: anche tu, alla tua età, ti metti a lavorare per dividere, quando invece dovresti unire?
Vorrei provare a rispondere pacatamente all’accusa e farlo nel modo che mi è congeniale: mettendo mano a ciò che ci dice la storia per partire da una domanda: chi predica l’unità saprebbe dirmi, per caso, quante forze di Sinistra esistevano in Europa nel momento del passaggio dal Novecento – il secolo dei lavoratori – a questo disgraziatissimo secolo degli imprenditori tornati padroni?
Non lo sapete? Bene. Ve lo dico io: in 35 Stati europei con almeno 100.000 abitanti la parola Sinistra col codicillo del Centrosinistra si divideva per 20.
Cosa significano questi numeri? Ci dicono che in un momento storico in cui la differenza tra destra e sinistra era chiarissima e la forza della Sinistra molto consistente, l’unità non esisteva e c’erano 20 modi di essere Sinistra.
Passo alla seconda domanda: è questo il punto più alto della “divisione” o c’è stato un momento storico in cui la Sinistra – forse mai così forte – si presentava ugualmente divisa?
Se il paladino dell’unità che mi si volge stupito non se ne ricorda, lo aiuto io: la Sinistra europea probabilmente più forte che abbia recitato la sua parte sul palcoscenico della Storia l’abbiamo avuta tra il 1944 e il 1946. E non c’è da meravigliarsi. Era la Sinistra che si opponeva al nazifascismo e animava la Resistenza europea. In quel momento si parlò di “unità antifascista” – credo che questo ce lo ricordiamo tutti – ma nessuno si scandalizzò per il fatto che quella sinistra “unita” diede vita o prese parte più o meno contemporaneamente a oltre 20 Esecutivi diversi tra loro; nessuno ha mai seriamente parlato di settarismo, individualismo o voglia di primeggiare. Tutti sapevano che dalla fine dell’Ottocento la tormentata vicenda storica, senza intaccare alcuni dei principi caratterizzanti di ciò che si intendeva per Sinistra, l’aveva resa così dolorosamente piena di contraddizioni e così divisa su alcune importanti questioni, che si faceva già molta fatica a riconoscerla come un corpo unico.
Dal 2000 al 2020, quelle contraddizioni, quelle incertezze e le ragioni profonde delle divisioni hanno reso ardua non una unità in fondo mai esistita, ma l’utilizzazione della parola come sintesi di valori condivisi. Col passare degli anni, un numero sempre più alto di elettori e persino di militanti si è allontanato dai “partiti di Sinistra”. Ridurre questa frattura a una questione di buona volontà, a un problema tattico e illudersi che la somma di mille differenze possa ricondurre a una inesistente unità significa chiudere gli occhi sulla realtà, come dimostrano gli elettori, sempre più lontani dai “cartelli” e dalle ammucchiate. Purtroppo le fortune della destra si spiegano pure con queste scelte.
Potere al popolo! è un movimento politico giovanissimo, che nasce dopo la catastrofe della Sinistra e sta costruendo una sua identità. Venendo al mondo, ha fatalmente rotto equilibri ormai impossibili e si è lasciato alle spalle un passato che non rinascerà. Sostenere che è responsabile di divisioni che sono sempre esistite significa strumentalizzare un problema storico. Potere al popolo! – questo sì – sarebbe colpevole di cecità proprio se si ostinasse a ricostruire una unità condannata dalla storia. Pap contiene l’embrione della sinistra che verrà? Questo lo vedremo. Come accade nella vita e nella vicenda storica, ciò che è nuovo fa strada solo se si muove sul filo della corrente che viene dal passato e va verso il futuro. Sul filo della storia.
Il professore, quindi, per tornare alla domanda iniziale, non lavora per dividere. Divisi siamo sempre stati e non gli pare questo il problema storico da affrontare. Molto più semplicemente ha motivi fondati per vedere in un movimento nuovo come Pap tutto quanto di buono sopravvive del nostro passato e poiché è stato un buon marinaio, vede che la sua prua punta diritto verso il futuro. Vi pare sia poco?

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poetaX4-720x340Leggete. E’ breve. Se vi piace, la votate. Come? Cliccate su questo link e potrete farlo.
https://strumenti.dantebus.com/contest/artwork/39692AHo
In ogni caso, grazie.

Amico            

Amico, se ti compri,
pagati quanto vali.
Non un quattrino in più.
Credimi, non sentirti prezioso,
tanto nemmeno serve e poi si muore.
Ma se ti vendono un giorno per caso,
e magari all’incanto,
tu non avere prezzo.
Stattene duro e il banditore invano
attenda di picchiare il martelletto.

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referendum-costituzionaleSarà questione di età, ma ci sono ormai pensieri che non dici nemmeno a te stesso. Non hai chiaro perché te ne stai zitto: non te la senti di affrontare una discussione che avresti tutt’al più dovuto provocare prima? Ti senti inadeguato e ormai si va facendo strada una sensazione intollerabile di solitudine che ti rifiuti di ammettere per il dolore che ti procura?
Probabilmente una risposta non ce l’hai o forse ognuna delle risposte che hai in mente ha una sua ragione d’essere. Sei confuso, questo è certo, tuttavia, sempre più spesso la notte, nel silenzio insonne, come un incubo ti si presenta questa considerazione amara che pare il canovaccio d’una tragedia da recitare a soggetto: con gli occhi chiusi siamo giunti a un referendum distruttivo e non ne abbiamo nemmeno parlato. Ci scippano la Costituzione e pare che la cosa non ci riguardi. Il problema reale è davvero se siamo uniti o divisi?

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Non è un caso che la strage di Pietrarsa si verifichi poco meno di un anno dopo i fatti dell’Aspromonte e il ferimento di Garibaldi, che durante la sua breve «dittatura» aveva consentito la nascita delle prime associazioni operaie; un peso in quegli eventi tragici, del resto, ce l’ha anche l’estensione della Legge Casati al neonato Regno d’Italia; nonostante i suoi forti limiti, infatti, essa costituisce un primo e sia pur debole tentativo di alfabetizzazione di massa.
Pietrarsa di fatto è la raggelante risposta a un modello di sviluppo che, per quanto moderato, mostra un minimo di attenzione alla domanda di riscatto sociale dei lavoratori; una domanda che esprime due evidenti bisogni: quello di organizzazione e quello di formazione umana, civile e professionale.
Pietrarsa, quindi, non è un «episodio» accidentale, ma segna il momento di una svolta politica consapevole della classe dirigente minoritaria, miope e reazionaria, che detiene il potere economico e politico e vede nella crescita del movimento operaio un rischio mortale per i suoi privilegi di classe. Sintetizzando in una breve immagine ciò che questa svolta significa per il Paese – e per il Mezzogiorno in particolare – si potrebbe dire che dopo molte incertezze, la soluzione della «questione sociale» è affidata «alla canna del fucile», come dimostreranno di lì a poco la «legge Pica» e la feroce lotta al «brigantaggio». Per anni la risposta a tutti i problemi nati con l’unità, sarà la violenza di Stato, che, tuttavia, non riuscirà a impedire che le lotte dei ceti subalterni e la crescita della coscienza di classe, aprano la via a un tempo nuovo, al quale, con intuizione felice, la testata di un giornale operaio di lì a qualche anno darà un nome destinato a indicare un momento della nostra storia: «Il secolo dei lavoratori».
Com’era prevedibile, dopo Pietrarsa, quando le condizioni lo consentirono, la risposta operaia divenne sempre più efficace e acquistò progressivamente una crescente continuità. Nel 1864, per esempio, la «Società generale operaia napoletana delle associazioni di mutuo soccorso», che contava 4.400 iscritti riuscì a far approvare una deliberazione che, togliendo il diritto di parola ai soci onorari, metteva di fatto a tacere i padroni. Era il primo segnale di uno scontro decisivo – la separazione delle organizzazioni operaie da quelle padronali – e vale la pena di ricordare che la struttura della «Società generale operaia napoletana delle associazioni di mutuo soccorso», divisa in sezioni, – bisciuttieri, chiodatori, corallari, ebanisti, ferrari di letti, fonditori, indoratori, intagliatori, lavoranti sarti, marmorari, meccanici, muratori, ottonai, pianofortisti, stiratori, tappezzieri, tessitori e tintori di lana e tornieri – rappresentava una parte significativa della vita economica della città.
Di lì a poco, nel 1865, un gruppo socialista anarchico, formatosi attorno a Bakunin, tenta e in parte ottiene, grazie all’abilità di Carlo Gambuzzi, stretto collaboratore del rivoluzionario russo, di stabilire un rapporto organico tra politica e mondo del lavoro. Nasce così la «Sezione Napoletana dell’Internazionale», che diventa un punto di riferimento per artigiani, contadini proletarizzati e operai, costretti dalle scelte economiche dei «governi unitari» a pagare un insostenibile e crescente aumento delle materie prime. Sciolta una prima volta dopo uno sciopero dei conciapelle, che costò la galera a numerosi operai, l’organizzazione fu definitivamente messa al bando nell’agosto del 1871, dopo licenziamenti indiscriminati ai Cantieri di Castellammare.
A un esame superficiale, si direbbe che nei primi anni di vita del neonato Regno d’Italia le classi subalterne furono costrette a subire una ininterrotta successione di sconfitte; ciò è vero solo in parte, perché nel conto va messa anche la formazione dei primi, audaci organizzatori sindacali, figure significative che ritroveremo negli anni successivi come protagonisti di una crescita inarrestabile. Per fare dei nomi, evitando un elenco necessariamente incompleto, sono gli anni in cui si formano e crescono i tipografi Ferdinando Colagrande e Luigi Felicò, il calzolaio Giacomo Rondinella, il ceramista Antonio Giustiniani, il guantaio Gaetano Balsamo e l’ottonaio Tommaso Schettino. Gli stessi anni in cui una «Federazione Operaia Napoletana» riesce a raccogliere più di mille iscritti tra muratori, indoratori, pittori, ottonai, torcitori di cotone e fonditori di bronzo e per la prima volta nelle associazioni operaie si sente parlare di solidarietà, di emancipazione e cooperazione.
Certo, scioperi e proteste sono ancora spontanei, ma la crescita è evidente. Non a caso, nel 1879 nelle società dei lavoratori prende a circolare un «Patto di solidarietà tra gli operai di Napoli» che chiarisce un concetto fondamentale: «gli scioperi non possono mutare la condizione della classe operaia, ma possono lenire i dolori, quando sono praticati con solidarietà perfetta e senza intromissione di membri di altre classi sociali».
E’ il primo, forte segnale di una scelta di classe ormai matura, dietro la quale si intravede un ragionamento compiutamente sindacale.
Da Pietrarsa in poi c’è stata una grande semina. Presto la borghesia scoprirà che è giunto il tempo del raccolto.

Il Blog dei Pazzi, 7 agosto 2020

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