Leggo che Mario Draghi, uomo di punta del governo Mattarella, s’è messo d’accordo con Macron e salto dalla sedia. A prima vista pare che, per una volta, il banchiere si stia occupando di questioni che sembrano umanitarie e mi sorge un dubbio che mette in crisi la coscienza: non è che sul diavolo fatto santo ho davvero sbagliato tutto? Leggete con me ciò che dice il nemico-amico dei dittatori: «La memoria di quegli atti barbarici è viva nella coscienza degli italiani. […] A nome mio e del governo, rinnovo la partecipazione al dolore dei familiari nel ricordo commosso del sacrificio delle vittime». Sta parlando ai genitori di Regeni? Pensa a Ilaria Alpi e Miran Hrovatin? S’è accordato per mettere fuori gioco gli aguzzini e si riferisce ai morti del Mediterraneo? Continuo a leggere e capisco tutto: il salvatore della patria non cammina più sulle acque, ma affonda nel fango. Ci si può non credere, ma è così: fa riferimento a uomini e cose che trovi ormai nei libri di storia. Il «governo dei migliori», infatti, ha chiesto a Macron l’estradizione di alcuni anziani rifugiati italiani, protetti dalla dottrina Mitterrand. Un monito barbaro per chi non ne può più, ma anche un gesto che sa di paura. Poiché odio gli ipocriti, non posso far altro che dirlo: questo governo di mezze calzette, fatte passare per capolavori, spaccia per giustizia una voglia di vendetta che ci disonora tutti. Disprezzatemi, se vi pare, adoratori del santo, come io disprezzo la vostra ipocrisia, ma spiegatemi perché non avete rotto con la Francia quando Sarkozy, in nome della destra francese, v’ha sbattuto la porta in faccia e s’è tenuto Marina Petrella. Avete forse avuto paura della risposta? Avete temuto che vi dicesse chiaro che non siete attendibili, che la democrazia vi tiene in profondo sospetto, sinistri o destri che vi dipingiate? La mia posizione la presi tempo fa. Molto o poco che conti, è quella di chi si vergogna della classe dirigente del suo Paese e glielo dice chiaro: il fascismo fu più credibile. La lettera che segue l’ho scritta tredici anni fa, nel 2008, in tempi non sospetti. Non era indirizzata a Macron, ma a Sarkozy. Sono trascorsi tredici anni e la riscriverei:
Monsieur le Président,
Pardonnez avant tout mon français. Je suis italien, je ne connais pas beaucoup votre belle langue, et pour me faire comprendre j’utilise mon petit dictionnaire Larousse. C’est ainsi que je m’adresse à vous, Monsieur le Président, pour lancer un appel à l’homme, ainsi qu’à l’homme d’État, que vous êtes. Je suis de gauche et, par conséquent, je suis conscient du fait que nous avons des opinions politiques différentes. Mais vous êtes français et ce mot, pour moi et pour beaucoup de ceux qui connaissent l’histoire et l’évolution de la pensée politique, signifie civilisation et humanité. Autrefois, on disait que « chaque homme libre a deux patries: la sienne et la France ». Au nom donc de ce que je considère être l’histoire de votre peuple, que vous gouvernez et représentez dans le monde entier, au nom des raisons humanitaires que vous avez reconnues le mois dernier à Tokyo, je pense pouvoir vous demander de revenir sur la décision – la vôtre et celle de votre Premier Ministre – concernant le cas douloureux de Marina Petrella. Je sais qu’il est en votre pouvoir – et en celui de votre Premier Ministre – de suspendre le décret qui avait été signé. Si vous le faites, vous ne prendrez pas seulement une décision noble et digne de votre grand Pays, mais vous écrirez aussi une belle page de votre propre histoire politique. Permettez-moi de croire que vous serez d’accord : un choix effectué à but humanitaire ne peut offenser ni l’Europe ni sa partie italienne ; par contre, il peut représenter un exemple de bonne gouvernance.Vous, Monsieur le Président, vous avez écrit à Berlusconi et, par son truchement, à Napolitano en demandant qu’à la femme que – vous disiez – vous n’auriez pas pu éviter d’extrader par respect envers un «Pays ami» soit octroyée par le Président de la République italienne une grâce. Puis-je croire que cette demande naît de votre sens de l’humanité? Dans ce cas, croyez-moi, Monsieur le Président, aucune grâce ne sera considérée concevable par les hommes politiques italiens, donc accordée par le chef de l’Etat. Cette «société politique», sur cela unanime, n’a pas hésité, Monsieur Sarkozy, à vous mettre dans la difficile et amère nécessité de prendre une décision d’extradition pour des faits remontant à plus de 25 ans, en oubliant ainsi l’engagement de la France de ne pas extrader des réfugiés Italiens, passant par-dessus, comme s’ils étaient nuls et non avenus, quinze ans de vie d’une personne. Non, Monsieur le Président, aucune grâce ne sera accordée. En Italie, personne ne s’occupera, au niveau institutionnel et décisionnel, de la terrible détérioration de l’état de santé de Marina Petrella. Vous avez fait votre part, mais les autorités italiennes n’ont certainement pas l’intention de jouer un rôle « humanitaire » en écoutant votre sollicitation d’une mesure de grâce. Vous faites appel au sens de la justice, ils désirent de la vengeance. Permettez-moi enfin, Monsieur, de m’adresser à vous d’une façon directe: dans leur jeu cruel, ils ne donnent aucune importance ni à la vie de Petrella, ni aux difficultés qu’ils vous ont consciemment créées et aux prévisibles effets négatifs que cette affaire pourra avoir sur votre image. Montrez-leur, Monsieur le Président, que vous avez un sens différent et profond de ce qu’on appelle «humanité», et ne permettez pas que Marina Petrella soit enterrée vivante dans une prison. Vous pouvez le faire. Vous êtes – j’en suis sûr – un homme politique qui par intelligence et sensibilité saura garder une distance par rapport à un enjeu – je vous l’assure – interne à la politique politicienne en Italie. Ne livrez donc pas Petrella aux autorités italiennes, ne le faites pas, puisqu’elles ne veulent pas entendre votre sollicitation d’une grâce. Je ne crois pas être dans l’erreur: en allant dans ce sens, vous serez digne de votre peuple, et la partie la meilleure du peuple français sera fière de vous. Avec espoir, Giuseppe Aragno Chercheur Historien
Non sarà stata certo merito mio, ma Sarkozy in Italia non ve l’ha rimandata Marina Petrella. Si vergognò di farlo. Possibile che a Draghi e Macron manchi persino la capacità di vergognarsi?
Ezio Murolo, di Ferdinando e De Marco Antonietta, Caivano, 9 aprile 1897. Giornalista. Giovane agiato e lontano dal movimento operaio e dalle «organizzazioni rosse», Ezio Murolo, che nella «grande guerra» ha combattuto tra gli arditi, non rifiuta il fascismo per ragioni ideologiche o di classe. La sua ostilità al regime nasce soprattutto dalla crisi d’identità di quei reduci che, come lui, nel clima di confuso rivoluzionarismo che segna la crisi dello Stato liberale, vivono «da destra» i problemi del dopoguerra e cercano risposte a un sentito bisogno di cambiamento sociale. Per molti di quei giovani la ricerca è breve e conduce al fascismo. Le scelte di Murolo invece affondano nel clima confuso che annuncia la crisi del liberalismo, con gli intellettuali che criticano l’«Italietta» di Giolitti ed esaltano la guerra, «sola igiene del mondo» e molti operai che, senza cogliere il diffuso clima di reazione, scambiano per rivoluzionaria la polemica dei futuristi contro la mummificata cultura accademica, mille miglia lontana dalle classi popolari. Dopo il bagno di sangue, che Murolo aveva immaginato come il momento del sacrificio e del riscatto collettivo di un popolo, il dopoguerra non ha aperto la via alla trasformazione sociale. Si sono fatti strada, invece, gli appetiti dell’alta borghesia, pronta a reclamare la sua parte di bottino. A queste contraddizioni conduce la scelta antifascista di Murolo, mentre il mondo liberale tramonta, scosso dalla contestazione all’Italia dei notabili, al pacifismo di popolari e socialisti, contrari alla guerra di cui hanno rifiutato una valenza rivoluzionaria. Non a caso, tornato dal fronte, Murolo guarda a D’Annunzio, nel quale, più che il nazionalista, vede il patriota pronto a realizzare ciò che, secondo lui, il fascismo, nascendo, ha promesso e poi rinnegato: la rivolta della sua generazione contro il socialismo pacifista e l’Italia liberale, ferma a convenzioni e regole ormai superate. E’ perciò che, pur essendo inizialmente vicino a temi e finalità della propaganda mussoliniana, Murolo non aderisce al fascismo e giunge anzi a rappresentare un antifascismo numericamente debole, che non ha la continuità d’azione, la formazione teorica e la capacità organizzativa dei comunisti, non può contare sulla sperimentata esperienza di militanza degli anarchici, ma possiede una definita identità; è, per intenderci, l’antifascismo di quei giovani che prima della guerra hanno subito il fascino del futurismo poi, tornati dal fronte, hanno rivolto la loro polemica contro «panciafichisti» e neutralisti, esaltando le idee nuove e il coraggio, rivendicando ai ceti medi, di cui sono in fondo l’espressione, un ruolo di guida del Paese, rispetto alla borghesia capitalistica e alle classi proletarie, gli estremi tra cui temono di essere schiacciati. E’ naturale che, nel pieno della devastante crisi morale e materiale del dopoguerra, quando Gabriele D’annunzio incita i giovani a battersi per un’Italia nuova e ribelle e il 12 settembre 1919 occupa Fiume, tra la folla festante, con sognatori, avventurieri, nazionalisti, collettivisti e anarchici, troviamo anche Murolo: seguire i legionari a Fiume significa per lui prender parte alla rivoluzione che inizia. Una convinzione così profonda, da sopravvivere al «Natale di sangue» del 1920, quando l’esercito prende la città con la forza. Fino all’omicidio Matteotti, anzi, benché D’Annunzio dimostri di non voler esercitare un ruolo politico attivo e si atteggi a «nume pacificatore», Murolo continua a vedere in lui l’uomo che, al momento opportuno, saprà guidare gli arditi alla rivolta. Ben diversi sono i rapporti dell’ex combattente con Mussolini, il duce della «rivoluzione fascista», che, dopo aver finto di sostenere il«vate d’ltalia» ne liquida strumentalmente ideali e progetti: «Può il fascismo trovare le sue tavole negli statuti della reggenza del Quarnaro? A mio avviso no. D’Annunzio è un uomo di genio, è l’uomo delle ore eccezionali, non è l’uomo della politica quotidiana». Per Murolo, che ha creduto davvero nella «Repubblica sindacale», Mussolini è un avventuriero opportunista e autoritario, che rappresenta quanto di «nuovo» c’è nel vecchio e punta esclusivamente al potere. Un giudizio confermato ben presto dalla scelta di fare del fascismo il braccio armato della reazione, utilizzando arditi ed ex combattenti come boia dei lavoratori per conto dei padroni. Da quel momento, Murolo, Segretario regionale dell’Associazione Nazionale Arditi d’Italia, rompe col fascismo e tenta in tutti i modi di impedire che l’Associazione finisca in mano a Mussolini. Lo ritroviamo così tra gli esponenti di primo piano di una corrente minoritaria dell’organizzazione che a Roma si attesta su posizioni dissidenti, secessioniste e antifasciste, attirando nella sua orbita arditi ed ex legionari vicini al socialismo massimalista. Se e in che misura Murolo si accosti davvero al socialismo è difficile dire, ma non ha torto la polizia quando lo descrive come un uomo estremamente audace che, senza irrigidirsi troppo su scelte ideologiche, è «pronto a metter mano alle armi e deciso a tutto osare pur di contrastare il regime che si afferma». Non a caso, conserva rapporti con l’Unione spirituale dannunziana e lavora con Argo Secondari, un ex tenente degli Arditi di fede anarchica, per dar vita agli Arditi del Popolo, gruppi armati di anarchici, socialisti, repubblicani, comunisti e qualche popolare e contrastare le Squadre d’azione fasciste. Com’è naturale, la tensione tra antifascisti e fascisti sale rapidamente, finché il 3 settembre 1921, a Roma, dopo violenti scontri davanti al caffè Aragno, l’ex ardito è arrestato assieme ad alcuni reduci dell’avventura fiumana, tra cui Edoardo Bellia ed Emilio Carpinelli. Trovati in possesso di pugnali e bombe a mano, i tre arrestati e denunciati all’Autorità Giudiziaria, sono condannati a 75 giorni di carcere e due anni di interdizione dai pubblici uffici. Tornato libero, Murolo riprende il suo lavorio tra gli arditi, finché nel 1922 Mussolini non scioglie l’Associazione per sostituirla con una Federazione Nazionale Arditi d’Italia controllata dai fascisti. Un fermo di polizia chiude per lui l’anno della Marcia su Roma; sorpreso a Trieste mentre fa propaganda antifascista, è spedito a Napoli con foglio di via obbligatorio. Tra il 1923 e il 1924, per impedire la disgregazione delle forze antifasciste, l’ex ardito si avvicina a Giovanni Amendola, e tenta di riorganizzare gli Arditi in Campania. D’Annunzio però non sparisce dal suo orizzonte. Nel 1923, infatti, quando aderisce a «Italia Libera», un’associazione creata da Randolfo Pacciardi per unire in un’unica organizzazione gli ex combattenti fedeli alle ragioni ideali dell’interventismo democratico, vivi sono ancora nel suo animo i valori e le idee che lo hanno condotto a Fiume. Non a caso, l’associazione, si dichiara repubblicana e antibolscevica e si riconosce nei principi interclassisti affermati dalla Carta del Carnaro. Dopo l’omicidio Matteotti, d’accordo con Giovanni Amendola, Murolo va a vivere in casa di un giornalista del «Mondo», Agesilao Incagnoli, dove lavora per mettere assieme militanti di «Italia Libera» ed ex combattenti, protagonisti dei violenti scontri di piazza che si registrano a Napoli il 17 agosto 1924, quando gli squadristi attaccano un comizio facendo morti e feriti tra i partecipanti. Individuato come uno dei principali organizzatori della risposta antifascista, l’ex ardito lascia precipitosamente l’abitazione del giornalista. Il 6 settembre, però, grazie a una perquisizione in casa del dannunziano Eduardo Bellia, la polizia scopre che Murolo, ex segretario regionale dell’Associazione Nazionale Arditi d’Italia, disciolta da Mussolini e sostituita dalla Federazione Nazionale Arditi D’Italia, in contatto con i generali Luigi Capello, Peppino Garibaldi e Roberto Bencivenga, esponente dell’Aventino, lavora per riorganizzare gli arditi in Campania e convincerli ad aderire all’ala dissidente della Federazione Nazionale Arditi D’Italia. Pur avendone la possibilità, la Questura non lo arresta. Come scrive il Prefetto al Ministero dell’Interno, poiché
«è stato visto frequentare la sede dell’Italia Libera e ha tentato di attrarre nell’orbita dei partiti d’opposizione gli ex arditi […], si stanno accertando a suo carico elementi di responsabilità tali da giustificare provvedimenti di natura giudiziaria per procedere poi col dovuto rigore».
Benché sorvegliato e ripetutamente fermato e perquisito, l’ex ardito, che pure si muove con grande determinazione, riesce a evitare che la polizia raccolga le prove per un processo. Convinto che l’omicidio di Matteotti possa chiudere l’avventura politica di Mussolini e che la paralisi dell’Aventino dia respiro al regime, Murolo stringe i tempi, rafforzando i legami tra ex arditi e militanti di «Italia Libera» e invia a D’Annunzio, che ritiene l’uomo più adatto a guidare un movimento antifascista, un telegramma che vale la pena di riportare per intero:
«Comandante, continuo sempre per la via maestra dell’Orsa Maggiore da voi, primo fra i primi, additataci. Gli italiani di Vittorio Veneto, di Ronchi e di tutte le più belle battaglie combattute e vinte attendono la vostra parola per liberare dalla tirannia questa povera nostra Italia che oggi è come la nave che nella tempesta non ha timone. Gli arditi vostri vi attendono, gli italiani guardano voi. Il fedelissimo Ezio Murolo».
Benché D’Annunzio non gli risponda, Murolo prosegue nel suo instancabile lavoro che il 4 novembre, nell’anniversario della vittoria, sfocia in una grande manifestazione, promossa dagli ex combattenti con l’adesione dei liberali, dei radicali e della sinistra popolare. Quel giorno, mentre il fascismo sembra ormai precipitato in un drammatico isolamento, migliaia di antifascisti, in testa ai quali si notano i deputati aventiniani Roberto Bencivenga, Giulio Rodinò, Enrico Presutti e Roberto Bracco, sfilano in corteo dal Museo a Piazza San Ferdinando e in una selva di bandiere, davanti alla sede del «Mondo», al grido di «Italia libera! A Roma! A Roma!», invitano Giovanni Amendola ed Emilio Scaglione a non dar tregua al regime. Il deputato liberale, però, incapace di superare i limiti di una formazione politica e culturale democratica di destra, indugia e non prende alcuna iniziativa. Invano perciò Emilio Scaglione annuncia la fine di Mussolini nel «crollo miserabile» del regime. Il giorno seguente, rispondendo alla manifestazione con estrema violenza, gli squadristi provocano aspri scontri presso la sede dell’«Italia Libera»; uno di loro, il milite Gabriele Camera è ferito gravemente e Murolo è fermato, perquisito, rilasciato, poi di nuovo arrestato, ma ancora una volta rimesso infine in libertà perché mancano gli elementi concreti per una denuncia. Lentamente, intanto, inesorabilmente, il fascismo riprende il controllo del Paese, finché il 3 gennaio 1925 in Parlamento, con un discorso che è ad un tempo sfida, confessione e minaccia – «io sono il capo di questa associazione a delinquere» – Mussolini chiude la partita.
Prima che le «leggi fascistissime» riducano l’Italia a un’immensa galera, il 22 febbraio 1925, animati da Murolo, manipoli di antifascisti, audaci, ma isolati – ex combattenti, operai, studenti, militanti dell’«Italia Libera» e del circolo repubblicano, sorprendono la polizia e riempiono di volantini le officine, le Poste, la Stazione Ferroviaria e Castelcapuano, sede del Tribunale e fanno circolare il cosiddetto «memoriale Filippelli», la lettera inviata il 14 giugno 1924 da Cesare Rossi a Mussolini prima di costituirsi. E’ lo stesso memoriale che quella sera, lanciato tra gli spettatori da universitari repubblicani e operai socialisti, nonostante il pronto intervento di squadristi e questurini, piove sul pubblico dai loggioni del «Politeama», del «Fiorentini» e di altri teatri cittadini. Per le vie della città, infine, benché non vi sia speranze concrete di capovolgere la situazione, circola coraggiosamente, testimone di una fede che non si rassegna a piegarsi, un «proclama» rivolto alla popolazione nel nome di Giacomo Matteotti:
«Italiani, da circa trenta mesi la vita della Nazione è terrorizzata dallo squadrismo […]. Si violano i domicili privati, si arrestano i cittadini incolpevoli. Si perquisiscono senza mandato e senza ragione le case e gli uffici. Si sequestrano e si sopprimono i giornali. Ogni riunione è vietata. Ogni diritto di associazione è soppresso. Le guarentigie fondamentali del patto giurato tra Re e Popolo sono distrutte […] Tutto questo perché una serie di reati comuni messi in luce da]l`orrendo assassinio di Matteotti, possano passare nella impunità e nel silenzio e perché possa tentarsi il salvataggio dei maggiori responsabili. Indubbiamente il popolo italiano non sopporterà questo disonore! Ma mentre l’ora della liberazione si avvicina a grandi giornate, occorre che ciascuno come individuo reagisca e si prepari alla resistenza civile! Si faccia il vuoto intorno ai fascisti, al fascismo e alle sue organizzazioni armate! Sia con cura evitato ogni contatto! Non si compri merce nei negozi fascisti o filo-fascisti! […] Chiudete il vostro uscio al passaggio d’un corteo fascista e ritraetevi dai balconi! I nostri mutilati vilipesi e percossi lo comandano, i nostri combattenti, contro cui si sferra l’ultima offensiva, ci chiedono difesa e aiuto! […] Nel nome di Dio, della Libertà dell’Italia, tutto il popolo si prepari a trarsi in salvamento».
E’ il disperato segnale di una resistenza locale, che ormai non può mutare il corso delle cose. Con la ripresa del fascismo e l’inevitabile consolidarsi della dittatura, per la prima volta dopo anni, Murolo si tiene nell’ombra e infine, sfuggito abilmente alla vigilanza, ripara in Francia. Per un po’ il regime ne perde le tracce, finché nell’estate del 1926 ricompare a Parigi, dove si fa subito notare per la propaganda contro il regime e l’amicizia con Ricciotti Garibaldi e molti altri elementi ritenuti pericolosi. Nell’agosto del 1927, quando una lettera anonima lo accusa di far parte di un gruppo di antifascisti che prepara un attentato contro Mussolini, è colpito da un mandato di cattura; l’Ambasciata di Parigi e il personale consolare di Tunisi, Marsiglia e Nizza, avviano subito indagini per verificare la fondatezza dell’informazione e identificare gli eventuali complici. Gli accertamenti non hanno esiti concreti, ma rendono difficile la vita del fuoruscito, che, tuttavia, continua a rischiare, proseguendo nella sua attività, finché, dopo due anni di permanenza a Parigi, decide di tornare in Italia. Il 9 giugno 1928, arrestato a Bardonecchia, mentre tenta di passare il confine e condotto a Napoli in manette, è incarcerato per il complotto che avrebbe organizzato contro Mussolini, ma torna ben presto libero perché l’accusa risulta del tutto infondata. Ritenuto comunque un «elemento intemperante e pericoloso per l’ordine nazionale», il 26 ottobre è sottoposto a due anni di ammonizione. Scontata la pena, Murolo, che gestisce col padre il Cinema-Teatro di Caivano, sembra ormai rassegnato e apparentemente lontano da ogni attività politica. A partire dal 1929, benché i rapporti che lo riguardano ripetano periodicamente la stessa frase burocratica e tranquillizzante – «il sorvegliato non dà luogo a rilievi» – la polizia, convinta che il sovversivo sia ancora in contatto con ambienti antifascisti, tenta invano di sorprenderlo. Abile o fortunato, Murolo sfugge per anni ai suoi sorveglianti, finché a marzo del 1937, un giornale comunista di Nizza, «Le cri des Travailleirs des Alpes Marittimes», pubblica l’esito di una sottoscrizione a favore degli italiani che combattono per la repubblica di Spagna: 170 franchi provenienti da un paese dell’Italia meridionale, raccolti da un uomo che si firma «Luciano». Come scrive il giornale francese, l’iniziativa «più che un valore finanziario», ha un alto contenuto simbolico ed etico, per i rischi che volutamente «hanno corso i sottoscrittori dando questa prova tangibile di volersi opporre al fascismo». Le indagini, orientate molto probabilmente dalla «soffiata» di un confidente, conducono ben presto a Caivano, dove risiede Murolo e di lì a poco Michelangelo Di Stefano, il Direttore della polizia politica, può scrivere al Questore di Napoli che
«da informazioni fatte assumere al riguardo è risultato – ma la notizia va tenuta […] riservatissima perché comprometterebbe, se propalata, la fonte da cui proviene – che i 170 franchi sono stati trasmessi dal noto Murolo Ezio […] il quale, per corrispondere con i comunisti residenti all’estero, usa lo pseudonimo di Luciano».
Ad allarmare subito la polizia non è il fatto che Murolo sia tornato alla militanza; dati i suoi precedenti la Squadra Politica, come abbiamo visto, non ha mai creduto a un ravvedimento e lo ha inserito anzi tra gli elementi di rilievo dell’antifascismo. A preoccupare gli inquirenti, in realtà, è soprattutto quello che potrebbe celarsi dietro l’iniziativa. Se, com’è probabile, non ha agito da solo, chi c’è dietro l’ex ardito? Gruppi organizzati? Pericolosi e temuti comunisti o antifascisti conosciuti in Francia? Dal 1925, da quando Mussolini ha ripristinato lo schedario centrale delle associazioni politiche, soppresso nel 1919, le organizzazioni comuniste sono seconde solo a quelle anarchiche nella «graduatoria» della pericolosità; è naturale perciò che, per scoprire eventuali complici, il Di Stefano intenda esercitare su Murolo solo «una cauta, continua vigilanza, integrata dalla revisione della corrispondenza postale» e speri di colpire così alla prima occasione favorevole, non solo Murolo, ma i suoi eventuali complici. Ciò tanto più che, secondo la polizia, l’ex ardito non solo dimostra da tempo di essere tornato al «suo intimo odio verso il Fascismo e le sue istituzioni», ma agisce come avesse ripreso una concreta attività antinazionale e riallacciato «contatti con accesi elementi comunisti». Il Questore di Napoli, però, non si sente tranquillo; conoscendo la «pericolosità del soggetto», teme «la difficoltà di esercitare un’efficace sorveglianza» e ritiene più prudente denunciare immediatamente il Murolo e chiederne l’assegnazione al confino. Poiché De Stefano insiste sull’opportunità di temporeggiare, si giunge a una sorta di «braccio di ferro». Alla fine la spunta il Questore, che, ottenuta da Arturo Bocchini, capo della Polizia, l’autorizzazione a provvedere nel modo che ritiene più opportuno, denuncia alla Commissione Provinciale il sovversivo, che il 29 aprile 1937 è condannato a cinque anni di confino a Tremiti. Per quali vie l’antifascista sia giunto al giornale francese e chi siano stati i suoi complici non è facile dire, tuttavia, il suo mondo non pare essere quello dei comunisti, ai quali col passare del tempo probabilmente si avvicinerà, per giungere infine a un’aspra rottura sul tema cruciale dello stalinismo. D’altra parte, nella sua vita agitata e avventurosa, l’ex ardito ha intrecciato molteplici legami e non a caso per lui si muove padre Pietro Tacchi Venturi, infaticabile tramite tra il Vaticano e Palazzo Venezia, che scrive di suo pugno a Bocchini. Se a tirare Murolo fuori dal confino sia l’autorevole patrono è difficile dire; sta di fatto, però, che profittando di una sanatoria, l’uomo, trasferito intanto a Palmi, si dichiara pentito e il 24 dicembre «in occasione del Natale 1937» è “prosciolto condizionalmente d’ordine di S.E. il Capo del Governo». Tornato a Caivano il 26 dicembre 1937 e subito diffidato, a gennaio del 1938 si trasferisce a Napoli, in via Mergellina 105 e sembra finalmente arrendersi al regime. In realtà i suoi conti col fascismo non sono affatto chiusi. Sorvegliato dalla polizia, che lo ritiene un riferimento per i fuorusciti, poco prima delle Quattro Giornate raccoglie un gruppo di combattenti e a lui, tra gli altri, si rivolge il comunista Ciro Picardi, quando gli uomini del PCI, usciti dall’ombra, si preparano allo scontro e prendono contatto con altri raggruppamenti antifascisti. Durante l’insurrezione, Murolo guida con valore e intelligenza un gruppo di uomini armati che combatte tra il Museo Nazionale, Piazza Dante e via Pessina. E’ in quella zona della città che il 29 settembre 1943, interviene per
«arrestare alcuni tra i maggiori collaborazionisti dei tedeschi e sottrarli all’ira dei partigiani, che in molti volevano fare giustizia sommaria e snidare le varie spie di cui si conoscevano i rapporti con i nazisti. Tra questi il tenente colonnello della finanza Sasso […] che aveva fornito un piano per la distruzione delle più importanti industrie della città».
Dopo l’arrivo degli Alleati in città, assieme al partigiano Viglio, che ha combattuto con lui, prende contatti con il tenente Schirichi dell’Intelligence Service, si arruola tra i volontari dei «Gruppi Combattenti Italia». e subito dopo sparisce nella furia della guerra. Quando riappare, nell’aprile del 1944, è sul massiccio del Matese, terra di partigiani e ribelli sin dai tempi di della resistenza ai francesi di Murat. Dopo notti terribili, passate all’aperto nel gelo dei monti, gli hanno prestato soccorso alcuni soldati Alleati; è stremato, febbricitante, ha la tubercolosi e la broncopolmonite. La guerra per lui è ormai terminata; l’ha combattuta tra i paracadutisti, ha eseguito rischiose missioni tra Verona e Sanremo e dall’1 novembre 1943 al 30 aprile 1944 ha guidato «quale Com.te di Brigata […] moltissime missioni importanti nelle linee tedesche per atti di sabotaggio e ricerche di prigionieri Alleati». La sua partecipazione alla guerra di Liberazione, iniziata con le «Quattro Giornate», è l’epilogo naturale di una opposizione al fascismo che attraversa come un filo rosso un ventennio in cui, se é vero che la storia del Paese non può ridursi alla storia della lotta al fascismo, è vero anche che non è possibile ricostruirla correttamente ignorando il ruolo svolto dall’antifascismo. Un antifascismo dai mille volti, contro il quale un regime tracotante urta costantemente, nonostante la durezza della repressione, fino al momento in cui, travolto dalla sua pochezza politica e dalla sua miseria morale, non si sgretola, dopo aver condotto il paese a un disastro. Finita la guerra, Murolo, decorato con medaglia d’oro al valor militare, è chiamato a far parte della Commissione ministeriale per il riconoscimento delle qualifiche dei partigiani e prende parte attiva alla vita dell’ANPI, rappresentando Napoli al congresso nazionale di Firenze del 1946, poi entrando far parte del Comitato Esecutivo provinciale di Napoli, cui nel 1949 è vice presidente. Nel 1952, alla vigilia della morte di Stalin e nel clima che preannuncia le scelte di Kruscev, una breve, ma significativa fiammata lo riporta alla ribalta. Con il fratello Tito, perseguitato politico e combattente delle «Quattro Giornate», e con i partigiani Salvatore Finocchiaro e Vincenzo Saturno, Murolo è infatti protagonista di una temporanea scissione dell’ANPI di Napoli, da cui si staccano una cinquantina di soci che costituiscono l’«Unione Partigiani e Patrioti Indipendenti». Il gruppo, che si professa apolitico, dichiara di rifiutare le interferenze dei partiti e di voler «tutelare il patrimonio morale della Resistenza», ma in realtà è «orientato verso i deputati Aldo Cucchi e Valdo Magnani», i quali, espulsi dal PCI per le critiche allo stalinismo e alla posizione assunta con Tito, costituiscono il «Movimento dei Lavoratori Italiani», diventato poi «Unione Socialista Italiana». La frattura si ricompone piuttosto rapidamente e il gruppo scissionista rientra dopo meno di un anno, ma la polizia riferisce che la rottura è nata anzitutto in polemica col Pci, che, secondo Murolo, egemonizza il movimento. Per ciò che ne sappiamo, Ezio Murolo chiude così la sua esperienza politica e si fa da parte. Per la sua lunga vicenda di militante, per la complessità della sua formazione e delle scelte politiche, è stato di certo una delle figure più significative dell’antifascismo campano. La cultura politica originale e ricca di molteplici esperienze che ha portato nel movimento di opposizione al regime rivelano la sostanziale debolezza di quella tesi storiografica revisionista che, per liquidare l’antifascismo, identifica la Resistenza con il comunismo e il comunismo col «gulag». Come quella di altri oppositori del regime di Mussolini in Campania, la sua vicenda politica e umana dimostra che tra gli antifascisti in lotta col regime non si incontrano solo militanti comunisti, ma che tra gli stessi comunisti non mancano antifascisti contrari alla rigida ortodossia del PCI e più in generale, critici delle contraddizioni, delle ingessature ideologiche e degli eccessi perniciosi di realismo delle
«grandi potenze e delle grandi formazioni politiche che ad esse ideologicamente e politicamente fanno capo, quel realismo che regalerà al mondo l’equilibrio della guerra fredda e delle contrapposizioni frontali che spaccano la Resistenza all’interno dei maggiori Paesi europei, in prima linea Italia e Francia».
Fonti e bibliografia Buona parte delle notizie sull’antifascista sono ricavate dai seguenti fondi archivistici e libri: Archivio Centrale delle Stato (ACS),Ufficio per il servizio riconoscimento qualifiche e per le ricompense ai partigiani (Ricompart), Scheda C17bis, faldone 1, f. 17; Casellario Politico Centrale, b. 3461, f. «Murolo Ezio»; ivi, Confino di polizia, b. 699, f. «Murolo Ezio». Archivio di Stato di Napoli, Prefettura Gabinetto, II Versamento, f. «Napoli: Associazione ex arditi d’Italia. Federazione. Unione spirituale dannunziana. Perone Giannetto», e f. «Napoli: Unione Spirituale dannunziana»; Gardone Riviera (BS), Archivi del Vittoriale degli Italiani, Archivio Fiumano, serie corrispondenze, cartella 3023 f. «Ezio Murolo». Rosa Spadafora, Il popolo al confino. La persecuzione fascista in Campania, I, p. 341; Giuseppe Aragno, Dietro le parole. L’antifascismo: i volti, le storie, in Gloria Chianese (a cura di), Fascismo e Lavoro a Napoli. Sindacato corporativo e antifascismo popolare (1930-1943), Ediesse, Roma 2006, passim; Idem, Antifascismo popolare. I volti e le storie, Manifestolibri, Roma, 2009, passim; Idem, Le Quattro giornate di Napoli. Storie di antifascisti, Intra Moenia, Napoli, 2017, passim; Isabella Insolvibile, Per la liberazione dell’amata Italia: la Resistenza campana nel fondo Ricompart, in Enzo Fimiani, La partecipazione del Mezzogiorno alla Liberazione d’Italia (1943-1945), passim.
COMUNE DI SAN DIDERO Città Metropolitana di Torino – Unione Montana Valle Susa- Via Roma n.1 – 10050 SAN DIDERO P.IVA 05920680013 – COD. FISC. 86501330012 – TEL.: 011/963.78.37 – FAX 011/963.73.41 e-mail: info@comune.sandidero.to.it
SAN DIDERO È SOTTO ASSEDIO
È vergognoso quello che è successo nel centro abitato di San Didero martedì 13 aprile. Lacrimogeni sparati nei cortili delle case, campi di grano calpestati, candelotti di lacrimogeni sparsi nei prati, di cui taluni inesplosi, un pericolo soprattutto per gli animali al pascolo. Un paese sotto assedio!
L’Amministrazione Comunale di San Didero, si stringe ai suoi cittadini, esprimendo rammarico e rabbia allo stesso tempo per l’uso improprio di forze dell’ordine che, per difendere un cantiere sulla S.S.n.25 distante 1,5 km. dal centro abitato, si sono spinti all’interno del paese, spargendo il panico fra i residenti.
In questo modo si calpestano i diritti, sia dei cittadini sia degli amministratori che rappresentano la comunità.
Non ci è dato sapere cosa accadrà con questa militarizzazione chiamata a difendere un cantiere che costerà oltre 50 milioni di euro; certo è, che, in un momento di crisi emergenziale dovuta alla pandemia, dove non arrivano i vaccini per il COVID-19, dove il lockdown ha fatto sì che chiudessero imprese e attività commerciali, nella piana di San Didero – Bruzolo vengano inviate delle truppe di occupazione.
Come si può parlare di tutela ambientale, transizione ecologica, come si può pensare che quest’opera possa contribuire a migliorare la vita dei cittadini?
Faccio girare. Aggiungo solo che i sindaci di San Didero e Bruzolo sono con la loro gente.
«Compagne/i resistenti, ormai privi di acqua e cibo e nell’impossibilità di riceverne dato l’assedio da parte delle forze di polizia, si sono incatenati sul tetto del presidio di San Didero, nel quale resistono ormai da una settimana. Hanno chiesto la presenza di un medico e di un avvocato. Chiedono di poter ricevere alimenti ed assistenza. Non accetteranno di essere sgomberati con la forza. Fate girare»
Qualcuno dice che il Governo ha deciso senza informarli ed è giusto chiederselo: le riaperture decise da Draghi in base a fantomatici dati scientifici, sono condivise dagli scienziati? Proviamo a capirlo, partendo da Gianni Rezza, capo della Prevenzione del ministero della Salute e membro del Comitato tecnico scientifico. Chiamato in causa, Rezza balbetta: «abbiamo ancora oltre 300 morti e 15mila casi al giorno, stiamo facendo delle riaperture in un momento in cui la curva sta flettendo leggermente. Il rischio c’è». Bravo Rezza. Draghi quindi è un criminale? E’ probabile che Rezza lo pensi, ma si guarda bene dal dirlo e si lava la coscienza con una miserabile conclusione: «il rischio accettabile per un epidemiologo è zero, per un economista può essere invece 10». L’intervista si chiude qui, ma non c’è dubbio: se fosse un epidemiologo che ha a cuore la salute della gente, mollerebbe il politico assassino e manifesterebbe apertamente il suo dissenso. Per Matteo Bassetti, dell’ospedale San Martino di Genova, la scelta di riaprire «è di buon senso e si attendeva, anche perché non viene detto che da domani si apre tutto indiscriminatamente». Pur essendo uno scienziato, Bassetti afferma che «è giusto iniziare dalle aree esterne dei ristoranti e dei bar», perché – assicura – «sappiamo che il contagio all’aria aperta è pari a zero». Una stupidaggine che non gli fa onore, perché gli assembramenti all’aria aperta hanno fatto strage. Quanto al virologo Roberto Burioni, sia pure sommessamente, smentisce Draghi e il suo «rischio calcolato» figlio di inesistenti dati scientifici: «la decisione di riaprire» – afferma infatti – è «politica e non scientifica ». Non lo dice, ma è sottinteso: se il sistema collassa, sapete con chi prendervela. Più deciso di Burioni, Roberto Crisanti, dell’Università di Padova, mette Draghi sul banco degli imputati: «l’espressione ‘rischio ragionato’ è vuota e decisamente politica e non scientifica. Il rischio è dato da due componenti: la probabilità e l’intensità del rischio. Per la prima sappiamo già che i contagi aumenteranno e non è una probabilità. […] Servirebbe un programma di vaccinazioni a tamburo battente per evitarlo. L’intensità è la gravità del fenomeno e i nostri dati sono ancora alti, con le aperture aumenteranno e dovremo chiudere proprio in estate, quando invece gli altri Paesi saranno fuori dal tunnel». Per il virologo Fabrizio Pregliasco – Università Statale di Milano – che ha arbitrariamente sostituito al «rischio calcolato» un «rischio accettato» chissà da chi, «ci sarà un prezzo da pagare e […] i morti ci saranno». Le parole di Massimo Galli, dell’ospedale Sacco di Milano, sono sassi. Dopo quanto ha detto lo scienziato, in un Paese normale Draghi avrebbe dovuto fare subito le valigie. La situazione, ha dichiarato infatti Galli, non consente dubbi: «Le riaperture sono un rischio calcolato male. Mi sembra scontato che invece di vedere la flessione» della curva di nuovi contagi, «che è appena accennata, finiremo per avere il processo opposto. A meno che non si riesca a vaccinare a tamburo battente tanta gente, ma non mi pare il caso». Galli smaschera Draghi e i suoi inesistenti dati: «abbiamo ancora più di 500 mila casi ufficiali di infezione in corso», ricorda su Adnkronos, e «questo significa averne il doppio. Quelli che ci sono sfuggiti sono sicuramente molti. Alla fine del lockdown dell’anno scorso ce n’erano 100 mila ufficiali, anche se non erano meno di 400 mila o 500 mila. Abbiamo fatto 23,5 dosi di vaccino ogni 100 abitanti e abbiamo ancora una parte rilevante di 70enni, 80enni e 90enni che non sono vaccinati». Molto probabilmente è vero: Draghi ha fatto tutto da solo. Per l’uomo della finanza quello che conta è l’economia. La gente morirà? Tutti dobbiamo morire! La domanda a questo punto è una e urgente: ci lasceremo uccidere senza reagire?
Publication : 15 avril 2021 | Écrit par Valeria Lucera
Si Matteo Salvini représente l’extrême droite italienne dans les médias internationaux, les visages des nouvelles droites sont multiples et ont des racines profondes dans l’histoire et la culture italiennes. Quels sont les liens de continuité avec la naissance de la République ? Et quelles sont les causes qui ont favorisé l’essor, sous une nouvelle forme, du populisme d’extrême droite d’héritage fasciste ? Parmi elles, nous pouvons citer la crise économique et sociale, le basculement à droite des partis traditionnellement de gauche et la normalisation des discours portés par les partis d’inspiration fasciste et racistes. Éclairage.
Quels sont les liens entre la nouvelle droite et le fascisme historique en Italie ?
Jusqu’en 1991, pour la plupart des Italiens et Italiennes, le fascisme était un régime belliqueux et raciste. Il était considéré comme l’ennemi des travailleurs et des travailleuses, mais aussi des femmes, humiliées dans leur rôle d’épouses et de mères. Il était vu comme un régime produisant de la chair à canon. L’antifascisme consistait quant à lui en une page noble de notre histoire et les nostalgiques du régime étaient rarement suivis. La fin de l’URSS a modifié l’équilibre international ; le capitalisme a abandonné le modèle keynésien et l’idée du laissez-faire du XVIIIe siècle est réapparue. Le néolibéralisme est ainsi né : religion du marché et de la financiarisation d’une économie éloignée de la réalité et fille de modèles mathématiques souvent erronés desquels découlent crises et barbarie.
Accablée par l’effondrement de l’Union soviétique, par la victoire du capitalisme et par l’affirmation du néolibéralisme, impulsé avant tout par le capital financier, la gauche a alors oublié la leçon de l’économiste Pietro Grifone 1qui voyait dans le fascisme un régime politique complaisant à l’égard du capital financier. Ce capital financier ne défendant pas la culture politique qui a fait de la Résistance une expérience unitaire, fondée sur les valeurs éthiques et politiques dont est née la Constitution italienne, il a permis aux héritier·ères du fascisme de contester l’expérience de la Résistance. C’est ainsi que favorisée par le capitalisme financier, hostile à la Constitution qui restreint les lois du marché, la contestation a fonctionné et a changé la perception du fascisme. Aujourd’hui, dans les textes scolaires et universitaires, dans les journaux, à la télévision et dans l’imaginaire collectif, le fascisme est dorénavant perçu comme un « régime inclusif », avec une âme sociale, un consensus populaire et qui n’a commis qu’une seule faute : la Seconde Guerre mondiale. C’est un nouveau fascisme historique, dont personne ne prétend s’inspirer, ni Forza Nuova 2, qui voudrait pourtant réinstaurer les Corporations 3et le Concordat de 1929 4, ni Casa Pound 5 – fascistes, oui mais du troisième millénaire – ni les partis au Parlement. Cependant, réhabilitant les républicains et discréditant la Résistance, les néo-fascistes et les révisionnistes ont fortement élargi leurs marges de manoeuvre. Ce n’est pas un hasard si Matteo Salvini est un invité régulier des congrès de Casa Pound, et si Giorgia Meloni 6, formée au fascisme dans le Mouvement social italien, a pu se présenter aux élections européennes avec Cesare Mussolini, arrière-petit-fils du Duce.
Aujourd’hui, on peut constater que même des partis démocratiques portent atteinte à des droits humains fondamentaux. Ainsi, en 2018, après avoir livré les migrant·es aux bourreaux libyens avec des décrets qui rappellent des résolutions fascistes, pour la première fois dans notre histoire, Marco Minniti, ministre de l’Intérieur de centre gauche, a trahi la Constitution en admettant les « fascistes du troisième millénaire » aux élections politiques. Avec le parti 5 étoiles divisé et dépourvu d’identité, sans faire ouvertement référence aux fascistes, la droite présente au Parlement alimente la haine des migrants. Lega Nord et Fratelli d’Italia, en particulier, se réclament du populisme mais à l’instar de Péron, ces populistes modernes sont devenus des dirigeants démocratiquement élus, faisant du populisme un instrument de démocratisation du fascisme. En Italie, la droite parlementaire, en premier lieu celle dirigée par Matteo Salvini et Giorgia Meloni, en accord avec des groupes extra-parlementaires, fascise le populisme et conserve la connotation typique du fascisme historique : le racisme, historiquement rejeté par le populisme classique.
Peut-on dire que la culture fasciste est d’une certaine manière toujours présente en Italie ?
Les fascistes et leur culture sont entrés dans la République sans même avoir purgé leur peine. Les scientifiques qui ont signé le Manifeste sur la race ont conservé leur siège et leur poids social. Carlo Aliney, par exemple, auteur des lois raciales 7, est devenu procureur de la République et juge à la Cour suprême ; ou encore Vincenzo Eula – celui qui avait condamné Sandro Pertini ancien partisan et futur président de la République – est devenu procureur général ; quant à Gaetano Azzariti, président du Tribunal racial – à qui l’on doit l’amnistie qui « a sauvé » les fascistes – il est devenu juge à la Cour constitutionnelle, et puis président de cette dernière en 1957.
À coté de ces personnalités qui ont occupé des postes-clefs, les accords et les lois qui avaient fait l’histoire du fascisme ont également été conservés sous la République. À l’Assemblée constituante, par exemple, la Démocratie chrétienne (DC) et le PCI (Parti communiste italien) ont inséré, dans la Constitution, le Concordat de 1929 entre l’Église et l’Italie fasciste, qui faisait du catholicisme la religion d’État, obligatoirement enseignée par des professeur·es choisi·es par l’autorité religieuse et payé·es par l’État, qui reconnaissait des effets civils au mariage religieux et des exonérations fiscales au Vatican. Quant au Code pénal de la période fasciste, il a été maintenu dans le Code de la République même si son inspiration autoritaire a été atténuée. Comme à l’époque du fascisme, il permet au juge d’imposer de sérieuses limitations à la liberté des citoyen·nes qui n’ont pas commis de crime.
“La culture fasciste n’est pas marginale dans le pays, mais imprègne des secteurs décisifs de la vie démocratique”.
C’est le cas de Maria Egarda Martucci, considérée comme « socialement dangereuse » et soumise à deux ans de « surveillance spéciale » pour avoir lutté contre l’État islamique en allant soutenir la révolution au Rojava. Nous parlons d’un Code si répressif, que la vie d’un travailleur, tué par des patrons qui ne garantissent pas la sécurité de l’emploi, équivaut à seulement 5 ans de prison au maximum – mais dans les faits aucun patron n’a eu plus d’un an – tandis qu’un distributeur automatique endommagé lors d’une manifestation est considéré comme « dévastation et pillage » et vaut bien plus qu’une vie. Depuis 2012, un homme a payé pour ce crime avec 14 ans de prison. Aujourd’hui, le code fasciste frappe durement les chômeur·ses, les migrant·es, les sans-abri, les prostituées, les laveurs de vitres aux feux de signalisation, les junkies et les adolescent·es des banlieues.
À y regarder de plus près, la culture fasciste n’est pas marginale dans le pays, mais imprègne des secteurs décisifs de la vie démocratique. Aujourd’hui, en raison de l’effondrement de la gauche et de la crise économique qui est devenue systémique, les héritier·ères de la culture fasciste profitent de la colère de la population. Il·elles proposent un fascisme nettoyé par le révisionnisme, mais qui conserve la férocité raciste et la vision hiérarchique de la société. Plus qu’une dictature, il·elles visent probablement à désarticuler les Institutions pour atteindre un tournant autoritaire dans un pays qui n’est que formellement démocratique.
Quels sont les liens entre l’appareil d’État et de police ?
La culture fasciste a des racines profondes au sein des forces de l’ordre. En 1946-47, les Prefetti di carriera 8du « Ventennio » 9remplacent leurs collègues nommés par le Comité de libération nationale et l’école de formation de la police républicaine est confiée à Guido Leto, ancien chef de l’OVRA, la police politique du Duce. Sans surprise, la piste fasciste du massacre de Piazza Fontana 10, en 1969, a été volontairement étouffée.
Tout comme la police, la Magistrature complice du régime n’a pas été épurée et à l’aube de la République, elle a persécuté de manière honteuse les partisan·es communistes. À la fin du mois de juin 1946, immédiatement après l’amnistie, les juges ont en effet libéré 7.106 fascistes contre 153 partisans. Selon des chiffres approximatifs, le nombre de partisan·es arrêtés s’élevait pourtant à 2.474, les personnes arrêtées à 2.189 et celles condamnées à 1.007. Entre 1948 et 1952, lors de manifestations, les forces de l’ordre ont fait 65 victimes en Italie, trois en France et six en Allemagne et en Grande-Bretagne. En 1966, on découvre que les effets du code Rocco 11, qui a survécu au régime, ont produit 15.059 « persécuté·es politiques » et 7.598 années de prison. La moyenne dépasse celle du Ventennio. Il est donc évident que l’Italie n’a jamais fait les comptes du fascisme malgré l’avènement de la République.
Récemment encore, certaines pratiques policières évoquent celles de la période fasciste. À Gênes en 2001, un manifestant de vingt ans a été tué par la police lors d’une grande manifestation contre le G8. Ces faits ont révélé les tortures commises par la police dans l’école Diaz, dans laquelle les manifestant·es de toute l’Italie et aussi d’Europe étaient venu·es pour rejoindre les assemblées du Forum social. L’Italie a été condamnée par la Cour européenne des droits de l’homme pour torture et a été obligée d’indemniser celles et ceux qui avaient porté plainte.
En ce qui concerne la police, les partis « démocratiques » et les groupes néo-fascistes ont des positions différentes. Sur l’affaire Cucchi 12, un jeune homme tué par la police en 2009, Giorgia Meloni a rejeté l’idée de recourir au numéro d’identification sur le casque des agents : l’erreur, dit-elle, ne peut être utilisée pour attaquer le travail de la police qui est au service de l’État. Matteo Salvini a défendu les policiers et a attribué à la victime une vie dissolue qui ne mérite pas de pitié.
Quel est le discours qui a permis de toucher un électorat aussi large ?
Le succès de la droite vient d’abord de la crise de la gauche, éloignée des classes sociales qu’elle a représentées pendant plus d’un siècle, jusqu’à atteindre le libéralisme, devenant en fait le substitut de la droite. Malheureusement, ce sont des gouvernements de centre gauche qui ont bombardé la Serbie et modifié le titre V de la Constitution, au nom d’un fédéralisme qui a exacerbé le fossé Nord-Sud et déclenché la crise de l’université, de l’école et du service national de santé.
Lorsque Matteo Renzi 13 a aboli l’article 18 du statut des travailleur·ses et frappé durement le monde du travail, la gauche est devenue le meilleur allié de la droite, qui s’est développée en exploitant ses ambiguïtés et ses erreurs grossières. L’adhésion au néolibéralisme, qui a produit des crises économiques répétées et alimenté l’émigration principalement des jeunes, le soutien non critique à l’Europe, même quand elle est devenue très différente de celle pensée par Spinelli, ont poussé l’électorat trahi à voter pour la droite ou pour le populisme du parti 5 étoiles. Face à une gauche inerte et confuse, la droite a parlé au ventre d’un peuple appauvri, proie facile d’un grave illettrisme et d’une presse majoritairement aux mains d’un patron rétrograde et autoritaire. Leur succès est-il appelé à durer ? Ce n’est pas facile à dire, mais il y a un fait qui ne doit pas être négligé : la déception de la gauche n’a pas étouffé le besoin de justice sociale. Un besoin auquel la droite ne sait pas et ne veut pas donner de réponses.
Quelles sont ou devraient être les résistances et quel rôle pour les mouvements sociaux ?
La pandémie a mis en évidence les inégalités sociales qui mettent en accusation toutes les forces qui ont gouverné. Les gens sont fatigués des classes dirigeantes qui sont loin de leurs problèmes et qui à l’évidence des faits montrent qu’elles n’ont pas de solutions pour les classes les plus touchées par la crise économique et la pandémie. À cela s’ajoute une droite qui alimente les peurs. Les représentants de la gauche ont déçu et sont discrédités, mais les masses populaires, les travailleur·ses précaires et les chômeur·ses reconnaissent encore leurs valeurs. En ce sens, le mouvement NoTav 14est un modèle, tout comme l’enthousiasme qui a accueilli la récente expérience de Potere al Popolo 15montre le chemin. La pratique du mutualisme 16, les Maisons du peuple, la participation et le soutien aux luttes pour la recherche et l’éducation, pour les droits des travailleur·ses, pour l’environnement et pour le contrôle populaire ramènent la gauche à ses origines et rouvrent le dialogue avec les masses découragées. C’est un premier pas qui unit et rapproche les politiques. Sur cette base, il est possible de tenter une résistance et de construire un chemin unitaire de solidarité et de lutte, à partir d’un premier point fixe : le rejet du néolibéralisme.
Propos recueillis par Valeria Lucera
P. Grifone, homme politique italien, antifasciste et communiste.
Parti politique italien d’extrême droite et ouvertement néofasciste, fondé en 1997 par R. Fiore et M. Morsello.
Les Corporazioni sont l’expression de l’État « syndical-corporatif » de Mussolini, caractérisé par la soumission dessyndicats au régime : à partir de 1925 on assiste aux dernières grandes manifestations ouvrières. Le pacte du Palazzo Vidoni et le code Rocco mettent en œuvre le fascisme également dans le domaine syndical, prévoyant la suppression des syndicats et associations antifascistes, ainsi que l’abolition du droit de grève. Ainsi, les principales activités économiques de l’État italien sont sous le contrôle direct du parti national fasciste et être membre du parti devient nécessaire pour avoir un emploi.
En 1929, B. Mussolini signe les accords du Latran avec le Saint-Siège qui comprennent trois conventions distinctes dont notamment un concordat qui statuait sur la position de l’Église en Italie faisant du catholicisme la religion d’État.
CasaPound Italia : parti politique, né à Rome en 2003, d’inspiration national-socialiste et néofasciste.
G. Meloni est la leader du parti politique « Frère d’Italie » qui milite pour un souverainisme, une lutte contre l’immigration, ainsi que pour la préservation des traditions nationales, libérales et populaires.
Les lois raciales fascistes précisent les mesures racistes prises en Italie en 1938 notamment contre les personnes de religion juive.
À l’époque fasciste, les Prefetti ont été des instruments auxquels Mussolini a eu recours pour sa politique de centralisation et pour le renforcement du pouvoir exécutif au niveau territorial. Ils dépendaient directement du ministère de l’Intérieur.
Le Ventennio correspond à la période historique durant laquelle le fascisme était au pouvoir en Italie, de 1922-1943.
Les années de Piazza Fontana sont appelées « les années de plomb ». Elles s’étalent des années 1960 aux années 1980 sont marquées par une radicalisation des organisations de gauche et de droite. La période a été caractérisée par des violences, par la lutte armée et des épisodes de terrorisme. L’attentat de la Pizza Fontana est un attentat à la bombe qui s’est produit à la Banca Nazionale dell’Agricoltura sur la Piazza Fontana dans le centre-ville de Milan.
Le code Rocco est le Code pénal social. Même s’il a été profondément modifié au fil de temps, il garde encore des traces des dispositions autoritaires de l’époque fasciste dans laquelle il a été fondé.
S. Cucchi a été retrouvé mort quelques jours après avoir été arrêté par la police et incarcéré. Une enquête a permis d’établir qu’il est mort par manque de soins médicaux, de nourriture et d’eau. Cette affaire dépasse le drame d’une famille. Elle est devenue le symbole des « morts d’État » et de leur défiance envers la justice et les forces de l’ordre.
M. Renzi, à l’époque leader du Parti démocratique et Président du conseil des ministres, a aboli l’art. 18 qui permettait la réintégration en cas de licenciement illégitime injuste ou discriminatoire. Il a aussi réformé le marché du travail avec le « Jobs act » qui implique une déstructuration et une flexibilisation du monde du travail en Italie.
NoTav (TAV : treno ad alta velocità) est un mouvement populaire de la vallée de Suse de protestation contre le projet de construction de la ligne à moyenne vitesse (220 km/h) Lyon-Turin pour le transport de marchandises.
Le Pouvoir au Peuple est une alliance électorale née en 2017 et qui réunit de nombreux partis politiques, associations et centres sociaux italiens de gauche antilibérale.
Le mutualisme est une pratique née dans les pays du sud de l’Europe face à la crise, notamment en Grèce et en Italie. Les services minimums n’étant pas garanti, comme les soins médicaux ou encore l’accueil des étranger·ères, des citoyen·nes et des collectifs s’organisent pour pallier ce manque dans une optique d’aide réciproque qui permet de créer du lien social et de pouvoir dénoncer et agir ensemble pour revendiquer les droits bafoués par les institutions. En Italie, Potere al Popolo est une des organisations qui pratique le mutualisme via les maisons du peuple, lieux de regroupement social et d’organisation d’actions collectives au niveau territorial, de quartier ou de la ville.
Spero sinceramente che sia una bufala perché, se fosse vero, stavolta non sarebbe cosa da poco. Secondo «La Stampa» e «QuiFinanza», Draghi ha tagliato la testa al toro. Nel 2022 – avrebbe dichiarato – utilizzeremo solo Pfizer e Moderna. Del resto, specifica «QuiFinanza» Draghi «lo aveva detto: l’Ue non replicherà l’errore di firmare contratti senza vere garanzie » , specificando che «i prossimi saranno fatti meglio”». Una domanda me la deve consentire, signor presidente: Si rende conto di quello che ha combinato? Dopo questa sua dichiarazione, con quale animo pensa che andrà a vaccinarsi – se ci andrà – chi quest’anno dovrà ricorrere ai vaccini che lei ha cestinato per il 2022?
Con quale diabolico cinismo quest’uomo parla di coscienza, mentre spiega la sua feroce filosofia della storia? Con un dittatore – dice – si può anche essere franchi, però poi occorre cooperare. Com’è possibile che nessun giornalista gli chieda se il suo pragmatico magistero preveda un limite, o comprenda la cooperazione con Hitler e le sue bestie scatenate. Con quale coscienza un Presidente della Repubblica antifascista può affidare la sorte dei nostri giovani a un ragioniere senza ragioni, cui la Storia non ha potuto insegnare che dalle nozze incestuose tra finte condanne e reali cooperazioni sono nate le pagine più nere della vicenda umana?
«Ahi serva Italia, di dolore ostello, /nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello!»
La notizia non è recentissima, ma nemmeno lontana ed è certamente inquietante. Me la segnala la mia amica Serena Romano, giornalista molto indipendente, con una domanda sconcertata e sconcertante: Minori sottratti alle famiglie solo perché positivi?
«La Direzione Generale delle Politiche Sociali ha approvato la manifestazione di interesse per l’individuazione di almeno due strutture filtro, destinate all’accoglienza di minori Covid positivi provenienti dall’intero territorio regionale, dislocate una al nord e l’altra al sud Sardegna. La manifestazione di interesse ha il fine di individuare un numero sufficiente di strutture disponibili all’accoglienza e all’ospitalità di minori Covid positivi asintomatici/paucisintomatici o per i quali è comunque prescritto l’isolamento (strutture filtro). Le strutture destinatarie della manifestazione di interesse dovranno essere in possesso dei requisiti strutturali, impiantistici, organizzativi, previsti dalle disposizioni regionali applicabili, incluse le disposizioni relative alla prevenzione/trasmissione dell’infezione da Covid 19. Le candidature, da parte dei soggetti gestori, devono essere presentate e sottoscritte dal legale rappresentante entro il termine di almeno 15 giorni dalla data di pubblicazione della manifestazione di interesse e in ogni caso, non oltre le ore 14:00 del giorno 21/01/2021, devono essere inviate esclusivamente tramite PEC all’indirizzo san.dgpolsoc@pec.regione.sardegna.it»
Dove vivi? Vivo nella terra dei giovani vaccinati e dei vecchi messi a morte. La terra dei giornalisti cicisbei del governo. La salute fa i capricci. L’ago della pressione segna 210 e può capitare. Nel mio Paese, però, il medico di base è introvabile. gli ospedali sono regno del Covid e non c’è chi ti curi. Dove vivo? In un Paese che muore per mano di Draghi e nessuno ha il coraggio di dirlo.