Lo dico molto umilmente, perché sono confuso. La sinistra ha colpe gravissime e ha creato i presupposti che ci conducono a ieri. Distrutto il sistema formativo, cancellato lo stato sociale, ha seminato ignoranza e disperazione. Il programma delle destre è stato realizzato dalle sinistre, un tempo marxiste, oggi neoliberiste. Per suo conto, il neoliberismo, con la sua religione del mercato, ha prodotto crisi devastanti, che hanno colpito un popolo di senza storia, ridotto a un gregge, privo di coscienza critica. Viviamo su un vulcano prossimo a una probabile eruzione. Se il tappo dovesse saltare, in testa a un movimento di popolo troveremmo certamente chi ieri ha misurato la febbre alla democrazia e sa che è molto malata. L’attacco è stato portato non solo al sindacato, ma si è provato anche a entrare nel Parlamento, alla maniera di Trump. Il fascismo è stato ed è il regime politico ideale per il capitalismo finanziario e da questo governo, che ha dentro i colletti bianchi di una destra eversiva ed è guidato da un banchiere, non potremmo aspettarci una reazione di quelle eroiche alla Allende. La sinistra, dopo aver messo i semi della tempesta si è praticamente dissolta. Auguriamoci che nei prossimi giorni chi ieri ha retto i fili della pantomima rivoluzionaria, si dimostri una tigre di cartone, che non può contare su un Mussolini. Se dovesse uscirne uno, il pericolo sarebbe enorme e comunque i processi ai «sinistri», per quanto necessari, oggi sono tardivi. Abbiamo bisogno di tempo per organizzarci dal basso, parlare alla gente in senso lato, dagli autentici democratici ai preti di base. Credo che questo ci consentirebbe di essere pronti, se possibile, per una lotta politica. Se la parola dovesse invece passare alla forza, avremmo gettato le basi per una resistenza di popolo. Se ho esagerato o detto sciocchezze, perdonate, ma tenete anche presente che per un uomo della mia generazione ciò che è accaduto ieri è stato un trauma violento.
Elettoralismo? Astensionismo? Autonomia del sindacato o cinghia di trasmissione del partito? Riformisti? Rivoluzionari? Teorie o bibbie? Ricordare chi siamo e da dove veniamo ci aiuta a capire che fare, senza tornare a problemi che sembrano attuali e sono invece il nostro lontano passato… Una biografia lunga, ma anche una storia che farà bene leggere.
Nato a Scafati il 25 aprile 1895, Cecchi trascorre l’infanzia in una casa confinante con la Camera del Lavoro, luogo di comizi domenicali e lavoratori che parlano di salari da fame e disoccupazione e si sente socialista sin da bambino. Nel 1911 fa parte dei giovani del PSI e diventa corrispondente del giornale socialista napoletano «La Propaganda». Nel 1912 si sposta con la famiglia a Castellammare di Stabia, dove conosce Ruggiero Grieco e Oreste Lizzadri e frequenta il Circolo «Carlo Marx», fondato a Portici da Bordiga, di cui sarà amico per tutta la vita. Tra novembre del 1915 e ottobre del 1916 è eletto prima Segretario regionale e poi nazionale dei giovani socialisti, ma si dimette inspiegabilmente pochi giorni dopo. Chiamato alle armi nel 1917 e tornato a Castellammare il 21 marzo 1919, contribuisce alla nascita di una Camera del lavoro, di cui diventa segretario e ne fa un’organizzazione così temibile che, per umiliarla, gli industriali rendono lavorativo il I maggio. La risposta operaia spaventa i moderati. In una piazza gremita, infatti, la Camera del lavoro espone la bandiera rossa, chiama alla lotta lavoratori, donne e studenti e diventa una sorta di «Soviet», che impone un prezzo politico ai negozi di alimenti esposti al saccheggio. Mentre il PSI è fermo e la CGL non coinvolge i contadini, la paura della rivoluzione unisce le forze della reazione e a settembre la cavalleria, caricando un corteo e ferendo lavoratori inermi, mostra quali sono i rapporti di forza. Tra il 1919 e il 1920 Cecchi entra nel Comitato Centrale della frazione astensionista di Bordiga ed è eletto Segretario della Camera del lavoro di Napoli in un momento di dure lotte. Poiché PSI e CGL non sostengono le fabbriche occupate e i padroni reagiscono, spalleggiati dai fascisti, per uscire dall’isolamento, Cecchi si oppone all’astensionismo elettorale ed è sospeso dalla Frazione Comunista. Il 1921 nasce all’insegna di scontri e licenziamenti, con padroni e fascisti scatenati. Quando a Castellammare un carabiniere muore in un conflitto, Cecchi, accusato di aver causato gli scontri, sente la bufera vicina e minaccia: «Per una istituzione operaia violata, cento palazzi borghesi grideranno il nostro odio e la nostra ferma vendetta». In realtà il sindacato è debole e diviso.
Tornato nei ranghi, il 29 gennaio Cecchi diventa dirigente della neonata sezione del PCdI e ad aprile è rieletto segretario della Camera del Lavoro, ma è ben presto isolato. I socialisti infatti non tollerano l’egemonia comunista e per i comunisti Cecchi non segue la linea del partito. Il 3 febbraio 1922, nonostante la debolezza del sindacato e le minacce fasciste, è costretto a uno sciopero generale che si rivela un fallimento. Quando chiede una discussione collettiva sull’autonomia del sindacato, giunge l’attacco personale: Cecchi, opportunista a caccia di stipendi, ama il lusso e bada anzitutto ai propri interessi. Di lì a poco, un’inchiesta sul tenore di vita del sindacalista, voluta da Ugo Girone, dirigente e futura spia, termina con l’esonero da ogni incarico.
Cecchi va via senza difendersi. Riprende gli studi e nel 1924 si laurea in legge. Nel 1925, però, una iniziativa per i martiri del fascismo, la presenza a un incontro tra Bordiga e Gramsci e l’assalto fascista alla sua abitazione, mostrano un militante attivo e spiegano la condanna al confino del 2 dicembre 1926 e l’accusa di sovversione che un anno dopo lo conduce al carcere di Siracusa, da dove, assolto dal Tribunale Speciale, torna al confino ad agosto del 1928. Liberato il 7 dicembre 1929 e sottoposto a una stretta vigilanza e a mille angherie, sposa l’ostetrica Tullia Tommasi, si stabilisce a Napoli con la moglie e si laurea in lettere e filosofia. Dopo una breve esperienza da procuratore legale, la scelta di insegnare, avversata dal regime, lo condanna a una vita precaria, vissuta con quanto ricava da lezioni private e segnata da arresti e perquisizioni. Nel 1935, per evadere dalla sua invisibile prigione, scrive al Duce, che – afferma – sente vicino come nel 1914, quando colpì i massoni. Da anni vive di rinunzie e miserie. Se si fosse piegato, scrive, diploma e lauree gli avrebbero garantito una vita tranquilla, ma non l’ha fatto e ha voluto capire. Ritorna al duce perché esprime «il diritto, l’onore e la forza rinnovatrice dell’Italia». Troppo repentinamente «fascista», l’ex sindacalista non convince l’Alto Commissario Pietro Baratono, che gli allenta però la vigilanza. Nel 1938, in vista di un concorso magistrale, Cecchi firma con uno pseudonimo un libro di lezioni per i futuri maestri «della nuova Italia» e a marzo del 1940 chiede la tessera al partito fascista, che il 25 gennaio 1941 gliela rifiuta per indegnità politica. Il 18 marzo, benché il partito si opponga, è radiato dall’elenco dei sovversivi. In realtà, Cecchi non si è mai convertito. Nei ricordi di autorevoli compagni di lotta, confermati da studi di vari studiosi, dal 1932 l’ex sindacalista e gli uomini della frazione intransigente vicina a Bordiga sono anzi tra i militanti che collegano tra loro gli antifascisti dispersi dalla reazione. Entrato poi in un gruppo clandestino, Cecchi scrive e diffonde con Antonio Baldaro, i fratelli Ennio e Libero Villone ed Eugenio Mancini, due opuscoli sulla situazione politica mondiale. Nel 1937, a conferma di ideali mai negati, l’Ovra segnala alcuni militanti «organizzati attorno a Cecchi come sezione della Quarta Internazionale».
Caduto Mussolini, firma un appello per la pace e la democrazia contro le misure di ordine pubblico volute da Badoglio e giunge alle Quattro Giornate col gruppo «Spartaco» e con legami clandestini che vanno dagli uomini vicini a Bordiga, al prof. Giacomo Cicconardi, primario degli Incurabili, legato a Federico Zvab. La sera del 30 settembre 1943, alla fine delle Quattro Giornate, Cecchi assiste interdetto all’incontro tra i partiti e Leopoldo Piccardi, redivivo ministro di Badoglio e quando giunge Giuseppe Cenzato, Presidente dell’Unione Fascista degli Industriali fino alla caduta del regime, indignato, lo mette alla porta. Si scontra così con Eugenio Reale, segretario del PCI, che difende Cenzato ed è pronto a ricevere il prefetto Soprano, che ha consegnato la città ai tedeschi. Il dissenso sull’epurazione, sui rapporti con Badoglio, gli Alleati e la Democrazia Cristiana e sul ruolo del sindacato, causa una breve ma indicativa scissione. Per i futuri togliattiani, Cecchi e i suoi, «notoriamente bordighisti», seguono una via «diametralmente opposta a quella del Partito Comunista». Per Cecchi, invece, il PCI scende a patti con le forze borghesi, impone dirigenti calati «dall’alto», ignora la democrazia interna e il valore della rappresentanza degli iscritti. Lascia perciò il partito, che sente lontano e si dedica al sindacato. A novembre del 1943 azionisti, comunisti e socialisti dissidenti, riunite varie categorie di lavoratori, riaprono la Confederazione Generale del Lavoro, che rifiuta di salvare fascisti, ha dirigenti eletti dalla base, Camere del Lavoro e strutture sindacali che non sono cinghia di trasmissione dei partiti; un sindacato che afferma il valore costruttivo del lavoro e chiede di partecipare alle scelte di politica economica, per impedire che il governo regali alla borghesia industriale cifre incontrollabili, che peseranno di certo sul proletariato. Cecchi torna alla Camera del Lavoro di Castellammare di Stabia, ma lo scontro si riapre nel sindacato. Si giunge al punto che, nella primavera del 1944, quando Norman Lewis, agente dei servizi segreti inglesi e sincero antifascista, irritato da un insolito interesse del PCI per l’epurazione, chiede i nomi di fascisti clandestini, Eugenio Reale gli consegna un foglio con «i nomi dei quattro uomini più pericolosi di Napoli e quello di un giornale sovversivo che andava soppresso». Purtroppo, scopre poi contrariato l’ufficiale, il giornale è «Il Proletario», pubblicato dai comunisti di sinistra e i nomi sono quelli «di Enrico Russo, capo dei trozckisti e dei suoi luogotenenti, Antonio Cecchi, Libero Villone e Luigi Balzano». L’ultimo intervento di Cecchi quale dirigente sindacale risale all’agosto del 1944, quando presenta due ordini del giorno in cui chiede invano un’organizzazione apertamente classista, garante di una reale unità dei lavoratori, che affermi il principio dell’autonomia delle Camere del Lavoro. La sua «CGL rossa», confluisce però nella CGIL. Per non perdere un autorevole dirigente del movimento operaio, Di Vittorio tenta di trattenerlo, ma il vecchio militante lascia il sindacato. Nell’autunno del 1944, per unire i gruppi di opposizione, Cecchi fonda con Enrico Russo la Frazione di Sinistra dei Comunisti e dei Socialisti Italiani, che raccoglie circa mille iscritti. Ostile alla politica d’unità nazionale, dopo la liberazione del Nord entra in contatto col Partito Comunista Internazionalista, poi lentamente scivola ai margini della vita politica. Con la consueta coerenza, però, a marzo del 1945 rifiuta l’incarico di Commissario prefettizio dell’Azienda Autonoma di Cura e Soggiorno, che gli offrono il Prefetto e il Comitato di Liberazione, Istituzioni che ha combattuto.
La vita di Cecchi nella «Repubblica nata dalla Resistenza» è fatta di stenti e dignità: lezioni private, l’aiuto economico della moglie e finché non si scinde, la militanza nel gruppo bordighiano di sinistra, nato a Napoli nel Partito Comunista Internazionalista l’1 settembre 1951. Docente precario fino al 1956, insegna da incaricato materie letterarie e giuridiche in varie scuole di Napoli e della Provincia. Nel 1962, per giungere al minimo della pensione, ottiene di insegnare fino al 1965, quando compirà 70 anni. Frequenta «gruppi d’irriducibili in un bar di Piazzetta Matilde Serao, trasformato in un covo di rivoluzionari», fino alla morte, giunta l’1 ottobre 1969. Sull’immaginetta stampata dalla famiglia per ricordarlo, si legge: «grande idealista, studioso di problemi politici e sociali, fu combattente per la libertà, per l’emancipazione delle classi lavoratrici e per il progresso sociale. Subì persecuzioni e sofferenze che […] affrontò con forza e serenità […]. Professore di Lettere, di Filosofia e di Diritto, […] fu amato e venerato dai discepoli che ne esaltarono l’ingegno e la cultura».
Fonti e bibliografia Archivio Centrale dello Stato, Confino Politico, b. 229, ad nomen e Casellario Politico Centrale, b. 1219, ad nomen. Archivio di Stato di Napoli, Schedario Politico, Sovversivi deceduti, b. 16, ad nomen. Ivi, Gabinetto di Prefettura, II Versamento, b. 588, f. «IV-7-2-198- 1944-45», sf. «Torre Annunziata. Camera del Lavoro»; Anteo Roccia, (pseudonimo di Antonio Cecchi), L’attività del gruppo Spartaco contro il fascismo e la guerra durante il periodo mussoliniano e fino all’armistizio, «Il Pensiero Marxista», Bari, 2-7-1944; Rocco D’Ambra, dattiloscritto senza titolo conservato in ANPI Napoli, b. 2, f. «D’Ambra Rocco»; Raffaele Colapietra, Napoli tra dopoguerra e fascismo, Feltrinelli, Milano, 1962; Pasquale Schiano, La Resistenza nel Napoletano, C.E.S.P., Napoli, Foggia-Bari, 1965; Nicola De Janni, Operai e industriali a Napoli tra Grande guerra e crisi mondiale: 1915-1929, Librairie Droz, Ginevra, 1984, passim; Norman Lewis,Napoli ’44, Adelphi, Milano, 1998; Rosa Spadafora, Il Popolo al confino. La persecuzione fascista in Campania, I, Athena, Napoli, 1989, p. 130; Alexander Höbel, L’antifascismo operaio e popolare napoletano negli anni Trenta. Dissenso diffuso e strutture organizzate, in Gloria Chianese, Fascismo e lavoro a Napoli. Sindacato Corporativo e Antifascismo popolare, Ediesse, Roma, 2006, Francesco Giliani, Fedeli alla classe. La CGL tra occupazione alleata del Sud e “svolta di Salerno” (1943-45), produzione propria, 2013; Giuseppe Aragno, Le Quattro Giornate di Napoli. Storie di antifascisti, Intra Moenia, Napoli, 2017; Raffaele Scala, Antonio Cecchi, Storia di un rivoluzionario.
Leggo da più parti che un governo Draghi potrebbe aiutarci se non altro a liberarci di una menzogna che da tempo va per la maggiore: la destra «antisistema» e «sociale», quella in qualche modo più vicina alla povera gente, è solo una volgare bugia. Io sarei più prudente e proverei ad andare più a fondo, per capire. Si dice spesso che Mussolini si sarebbe affermato per il timore di una minaccia rossa. Fu davvero così? Ci sarebbe di che riflettere, anche per provare a capire meglio il presente. Certo, il fascismo fu l’arma del Capitale locale, che lo utilizzò, però, quando si vide costretto a difendere i giganteschi profitti di guerra e dovette dare risposta a un problema – quello sì minaccioso – sui costi della guerra. A chi toccava pagarli? I padroni avevano di fronte un proletariato forte e organizzato e un governo Giolitti che nel 1913 aveva esiliato il Presidente di Confindustria, tutt’altro che disposto a sostenere fino in fondo le richieste dei padroni. Un governo che rifiutò di usare l’esercito per restituire ai padroni le fabbriche occupate. Certo, le cose poi cambiano, e lo Stato sta con i fascisti, ma a rifletterci con attenzione e senza pregiudizi, alla fine non è il pericolo della rivoluzione, ma la minaccia rivoluzionaria campata per aria a far spazio al fascismo, dividere pericolosamente la sinistra e a decidere la partita. Il fascismo, che mette insieme i cocci di una sinistra sconfitta anche e soprattutto per la sua incapacità di «leggere» la crisi, fa presa su masse sbandate grazie anche alla sua capacità di dare una speranza ai disperati. L’anima sociale della destra, sia pure ingessata nella gabbia corporativa, è un forte strumento nella crescita del consenso. Piaccia o no, il fascismo costituisce per anni un «modello» che prova ad affermarsi nel mondo e in parte ci riesce, costituendo i «Comitati per l’Universalità di Roma», che avranno una loro funzione, finché non saranno superati dal prevalere del nazismo, che, tuttavia, inizialmente si ispirò apertamente al fascismo. Non è un caso se nel 1936 (cito a memoria e posso sbagliare l’anno, ma siamo lì) quando l’esercito italiano giunge ad Addis Abeba, il Pci scrive un manifesto intitolato «Per la salvezza dell’Italia. Riconciliazione del popolo italiano», firmato col proprio nome da tutti i dirigenti del partito sparsi per il mondo, da Mosca agli USA a Parigi a quelli in carcere o al confino, molti dei quali non avevano alcuna possibilità di firmarlo. Quel documento, passato alla storia come «Appello ai fratelli in camicia nera», giunge a vedere nel «programma fascista del 1919» la base comune per una unità di azione tra fascisti e antifascisti contro industriali, finanziari e agrari, che ricavavano profitto dalla nascita dell’«Impero». Importa poco se Togliatti, che poi definì l’appello una «coglioneria», sapesse o non sapesse. Come affermò Paglietta, il partito nel suo insieme «mirava alla riconquista dell’elemento nazionale alla lotta operaia e rivoluzionaria». L’appello dimostra che gli operai erano lontani dal partito e attratti dall’anima sociale del fascismo, che era sistema ma si presentava come antisistema. Con il passare degli anni, la destra – anche quella di età repubblicana – più che nei panni dell’antisistema, si è presentata come sistema alternativo. Oggi perciò quello che occorre davvero, se si parla di destre che aderiscono all’eventuale governo Draghi, è provare a capire se e come le vicende che stiamo vivendo si inseriscono in questo antico progetto. In quanto al voto «utile», certamente ha avuto e potrà avere una sua funzione, ma tutto sembra dirci che ormai – quando non è minaccia per «peones» e partitini – il voto tende a trasformarsi nella «foglia di fico» che copre l’agonia della democrazia.
Pace all’anima sua, per consentirci di votare, c’è stato che si è fatto ammazzare.
Per onorare e ringraziare i nonni combattenti, milioni di italioti hanno deciso poi di non votare, tanto non serve e sono tutti uguali.
L’anno scorso qualche meridionale, bisognoso di cure urgenti, a votare c’è andato, ma ha scelto una banda di mariuoli padani che gli sputavano e gli sputano in faccia mattino pomeriggio e sera.
Gli ultimi arrivati, fanatici di un comico genovese, si sono mescolati a genialoidi disertori della fu sinistra e hanno votato per dispetto, a scatola chiusa; sono stati però così zelanti, che quando il comico ha candidato cani, gatti e scimpanzé, non ci hanno pensato due volte e hanno trasformato l’aula sorda e grigia in un autentico giardino zoologico.
In quanto all’immancabile pattuglione dei sadomasochisti, decisi a farsi e a far del male, chissà, forse per soddisfare inconfessabili pruriti sessuali, hanno scelto il partito del pupo toscano.
Cessata l’orgia, ora trovi ovunque elettori disperati che si battono il petto e si strappano i capelli, urlando terrorizzati: “stavolta torna Mussolini!”.
A parte il fatto che, se mai c’è stato, un Mussolini buono a governare oggi non lo si trova in giro nemmeno a peso d’oro, tutto quello che c’è, se ti vuoi arrangiare è la versione molto economica e commerciale rappresentata da Matteo Salvini, un guitto che non ha il fisico del ruolo e alla prova dei fatti ha già fallito. Diciamocelo francamente: si può stare tranquilli. Anche se ci fosse, un dittatore vero, serio, capace e dignitoso, si vergognerebbe di governarci, perciò, qualunque scemo arrivi, zitti e mosca: ci meritiamo il peggio.
Nel 1926 non poteva certo saperlo, ma dopo aver fatto approvare le sue “leggi fascistissime”, Mussolini s’era già messo irrimediabilmente sulla strada che lo avrebbe condotto a piazzale Loreto.
Certo, non saranno rose e fiori, ma c’è qualcosa di nuovo oggi nell’aria, anche se appare cupa come non mai. E’ che a poco a poco nelle coscienze più avvertite si fa largo una consapevolezza che orienta l’ago delle bussola e indica la rotta.
Quando il potere definisce sicurezza l’omicidio premeditato delle regole che si è dato e sulle quali ha liberamente giurato, ladri, corrotti e prepotenti esultano festosi. La gente onesta no. La gente onesta si sente invece molto più insicura e minacciata, ma proprio per questo comincia ad avvertire chiaro il bisogno di difendersi. Un bisogno che prima o poi diventerà resistenza.
E’ legge della storia: contro la sicurezza promessa da governi liberticidi i popoli ritrovano la loro antica sapienza e una dignità che non è possibile piegare, quanti che siano i gendarmi tracotanti, le leggi inique e le violenze “legali”.
Quali rischi corra il Paese con questo Governo lo sapevamo, ma in tutta sincerità non pensavamo che la conferma potesse giungere così presto. Le dichiarazioni rilasciate al “Corriere della Sera” dal neo ministro della famiglia Lorenzo Fontana sulle “famiglie arcobaleno” e aborto sono inaccettabili, rivelatrici e preoccupanti. Per la prima volta nella storia della Repubblica, infatti, un governo prende una posizione così oscurantista su temi dai quali si misura il grado di civiltà del Paese.
Noi non sappiamo in quale realtà viva Fontana, ma non abbiamo dubbi: non è quella di un Paese civile. Ci chiediamo perciò – e chiediamo a Fontana – come faccia un Ministro della Repubblica a ignorare che il mondo Lgbt esiste e che esistono i figli delle coppie che a quel mondo appartengono. Essi sono parte integrante della nostra società, sia per la qualità dei rapporti umani che intrattengono nelle scuole con i loro coetanei, sia sul piano giuridico, come attestano le sentenze della Corte Costituzionale e della Cassazione.
Le dichiarazioni del Ministro non sono solo un segnale di profonda barbarie, ma appena 24 ore dopo la nascita del Governo Conte ci riconducono agli anni bui del ventennio fascista, quando Mussolini tentò di negare al mondo Lgbt e ai loro amori persino il diritto di esistere.
demA, esprimendo la sua piena vicinanza umana e politica a quanti sono colpiti dalle gravi parole di Fontana, il quale dovrebbe ricordarsi di essere Ministro di tutti gli italiani e di tutte le italiane, e di aver giurato da poche ore sulla Costituzione antifascista per la quale tutti i cittadini e tutte le cittadine sono uguali nei loro diritti e nei loro doveri. demA è consapevole che questo primo segnale dimostra che il Governo appena nato potrebbe costituire una minaccia per tutti i diritti civili del nostro Paese e chiede pertanto a tutti i Parlamentari, che si rivedono nei valori della nostra Carta Costituzionale, di bloccare immediatamente le profondissime derive razziste, misogine e omotransfobiche di alcuni neo Ministri della Repubblica. demA, pertanto, è pronta a costruire un fronte democratico e laico nel Paese in difesa dei tanti diritti civili che rischiano di essere messi fortemente in discussione da pericolosissime spinte ideologiche reazionarie”.
Nel 1965, vent’anni dopo la fine di Mussolini, Renzo De Felice, iniziando la sua nota biografia del “duce”, tiene a precisare: non può essere che politica. “Dove, ben s’intende, per «politica» non intendiamo […] «fascista» o «antifascista» che […] vorrebbe dire cercare di riportare artificiosamente in vita una realtà definitivamente morta”.
Non sarò io, più di cinquantanni dopo il mio antico maestro, a tentare di leggere un movimento politico contemporaneo secondo categorie valide per un passato storicamente concluso. Niente fascismo e antifascismo, quindi. Proverò, questo sì, a ricordare quanta sinistra ci fosse nel movimento dell’ex socialista Mussolini nel ’19. Ricordare – talvolta è necessario quasi quanto respirare – per capire in che senso e mediante quali strumenti il “duce” e i suoi interpretarono e deformarono una indistinta necessità di rinnovarsi, reagire, far qualcosa; necessità che, di fronte alla crisi del dopoguerra, spinse verso i Fasci di Combattimento la disperata insofferenza per il presente dei disoccupati, degli artigiani, dei contadini e degli operai. Gente che spesso proveniva da una sinistra che prima li aveva illusi e poi delusi. Una insofferenza che Mussolini condusse fino alle estreme conseguenze, ad un punto – per intenderci – che non aveva più nulla da spartire con i valori della sinistra che pure quelle masse si portavano dentro. Un modo di pensare che non gli apparteneva, “le tradizionali forme” che, per dirla con Cantimori, erano delle destre: “patriottiche e di odio contro qualsiasi straniero e forestiero”.
In fondo non sono meccanismi straordinari, ma le vie ordinarie di fuga, quando la disperazione incalza e la memoria storica è diventata corta. Certo, erano stati rivoluzionari, ma rinunziavano solo a un po’ della loro rivoluzione; erano stati socialisti, ma sacrificavano solo qualcosa del loro ideale per un “progresso generale” e una modernizzazione dell’antica fede. Così come inconsapevolmente si è poi passati da Marx a Keynes e si è giunti al neoliberismo. Lo specchietto per le allodole funziona bene: basta lotte e polemiche, basta divisioni ideologiche e che mai sarà? Destra e sinistra non sono forse categorie superate dalla Storia?
Fermiamoci a riflettere, al di là della morte del fascismo storico. Da un punto di vista “tecnico” o, se volete, “comunicativo”, nel programma di San Sepolcro non era forse questo il messaggio dell’uomo di Forlì, del rivoluzionario in cerca del reazionario? Non poté contare su una significativa presenza di socialisti, anarchici, sindacalisti e repubblicani? “Chi scorra i nomi degli intervenuti alla riunione milanese del marzo 1919 e al primo congresso dei Fasci di combattimento dell’ottobre successivo a Firenze e li confronti con quelli che presero parte al congresso […] napoletano dell’imminente vigilia della «marcia su Roma»”, scrive non a torto De Felice, “non può non notare come il gruppo dirigente pareva si fosse trasformato radicalmente e non […] per l’immissione di nomi nuovi […]. Nelle due serie di nomi è già sintetizzato tutta l’evoluzione – involuzione del fascismo”.
Si era partiti però da un inno alla libertà e da una presa di posizione contro l’imperialismo. Definitisi giudici nel “processo alla vita politica di questi ultimi anni” – ecco una scelta incredibilmente attuale – e rifiutato il ruolo di “parafulmini” della borghesia, gli uomini del nuovo movimento si dichiaravano favorevoli alle istanze dei lavoratori: otto ore e persino sei, pensioni di invalidità e vecchiaia, ruoli dirigenti per i lavoratori, a patto – ecco il tarlo che scaverà – di rispettare “la realtà della produzione e quella della nazione”. Via così, articolo su articolo, sino alla minaccia per gli “industriali che non si rinnovano dal punto di vista tecnico” e al rifiuto “di ogni forma di dittatura”.
Origini di sinistra e uomini di sinistra: l’ex segretario della Camera del Lavoro di Napoli, Michele Bianchi, quadrumviro della «marcia su Roma», Edmondo Rossoni, dirigente della Camera del Lavoro di Piacenza, per l’approdo corporativo di Palazzo Vidoni e uomini come Nicola Bombacci, uno dei fondatori del PCdI, a fare da garanti. In quanti erano convinti? Tanti e a qualcuno va reso persino l’onore delle armi: Bombacci, passato da Lenin a Mussolini, non tradì e si fece ammazzare a Piazzale Loreto. E non basta. Sulla scorta di un’equivoca contiguità tra destra e sinistra, dopo la seconda guerra mondiale, i fascisti ridotti in clandestinità, si rivolsero al PCI: il fascismo ci ingannò, sostennero, noi volevamo la rivoluzione. Non commettete lo stesso errore, non respingeteci nuovamente a destra, tra liberali, qualunquisti e democristiani pronti a difendere la nostra causa. Togliatti si orientò per l’amnistia e ce li trovammo in Parlamento.
Dovremmo aver imparato la lezione. In questi giorni, invece, non si contano gli intellettuali, i militanti e i finti tonti che consegnano cambiali firmate in bianco a Casaleggio e a Luigi Di Maio: destra? Per carità, sono bravi compagni.
«Gino Strada che dà dello “sbirro” a Marco Minniti è la certificazione – ce ne fosse ancora bisogno – della morte della sinistra italiana». Così Michele Serra apre il suo epicedio per una sinistra che ha frequentato come infiltrato e di cui ignora evidentemente la storia.
Variante di “birro”, in italiano “sbirro” sta per “guardia in servizio di polizia in Comuni, repubbliche e signorie medievali e rinascimentali e indica oggi il “poliziotto” in senso spregiativo. Per il lavoro svolto nel Mediterraneo, Marco Minniti, ministro di polizia, non è semplicemente uno “sbirro” e Gino Strada è stato perciò decisamente generoso; dal momento che consegna a carcerieri e boia di Libia i “clandestini” sorpresi nel Canale di Sicilia, Minniti ricorda direttamente lo sbirro fascista, di cui l’Italia dovrebbe avere ancora vergognosa memoria.
Serra non lo sa, ma Turati chiamò “tirapiedi” i poliziotti che gli sequestravano la “Critica Sociale”, definì pubblicamente “bambino demente e scemo” il reazionario Sonnino e “teppisti di destra furono per lui i deputati ministeriali. In quanto al moderatissimo Treves, ritenne che Bresci avesse fatto benissimo ad ammazzare Umberto I, e definì l’omicidio “una bellissima cosa”.
In tema di “divisioni” tra anime inconciliabili della sinistra, a Serra conviene di non ricordarlo, ma il Psi nacque a Genova nel 1892 dall’aspra separazione tra i libertari anarchici e i cosiddetti “legalitari” e il Pci sorse a Livorno dall’inconciliabile dissenso tra riformisti e rivoluzionari. Una sinistra unita non s’è mai vista e le sinistre non sono state mai così vive, come quando hanno vissuto divise. E’ perciò che quelli come lui le vogliono unite…
Quella che Serra conserva nel suo cortile non è la sinistra. E’ la sua mostruosa degenerazione neoliberista, la sinistra degli “sbirri”, un aborto che ha il suo padre naturale nel socialismo di Mussolini.
L’articolo va letto. Dalla “sicurezza” e dal decreto Minniti, infatti, DemA prende le distanze ed esprime critiche di fondo:
Francesco Puglisi era a Genova nel luglio 2001 ma non torturò e non uccise. La Cassazione, che ha evitato il carcere agli uomini in divisa dopo la Diaz e Bolzaneto, a lui ha dato 14 anni di galera. Si sono incrementati poi ammazzamenti umanitari, bombe intelligenti e fuoco amico e chi s’è visto s’è visto. E’ stato come dire: ti prudono le mani? Bene. Percorri la via «legale» e passa all’incasso: una «guerra per la pace» o la «democrazia da esportare, tutta massacri «umanitari». E se poi centri ospedali e scuole, sta tranquillo, c’è la stampa che dice «è fuoco amico» o «nemico sbagliato». Tu rientri e fai la carriera in polizia. Lì ai modi bruschi non si fa caso: il terrorismo è un’infamia misteriosa buona per coprire altre infamie.
A chi sa di storia, il «caso Genova» e Francesco Puglisi ricordano gli eterni «spettri del ’98», i processi politici costruiti ad arte contro gli operai e Giovanni Bovio, l’avvocato che in Tribunale parlava per gli imputati e ammoniva le classi dirigenti:
«Noi chiediamo di rimuovere gli ostacoli che fanno il lavoro impossibile e voi ci rispondete con aspre sentenze e i figli armati contro i padri. Per carità di voi stessi, giudici, per quel pudore che è l’ultimo custode delle società umane, non fateci dubitare della giustizia. Noi fummo nati al lavoro, non fate noi delinquenti e voi giudici!».
I tribunali li «fecero delinquenti» e tali sono stati per sempre. Umberto I, che aveva premiato le fucilate sul popolo inerme, pagò con la vita. La violenza del potere genera violenza e il tribunale nazista che volle morti i cospiratori della «Rosa Bianca», quello repubblicano che da noi assolse i responsabili morali del delitto Rosselli, benché legalmente costituiti, non hanno legittimità storica. Tra Bruto e Cesare la storia non cerca colpevoli ma registra un dato: il tiranno arma la mano dell’uomo libero.
Sul terreno della giustizia siamo fermi a Crispi che, accusato di violare la legge proclamando lo stato d’assedio, antepose la sicurezza alla legalità: «una legge eterna impone di garantire l’esistenza delle nazioni; questa legge è nata prima dello Statuto». Un principio eversivo, che fa dell’eccezione la regola, ignora la giustizia sociale, unica garante della sicurezza dello Stato e di fatto ispira ancora i nostri legislatori in materia di ordine pubblico e conflitto sociale. Nel 1862, all’alba dell’Italia unita, la legge Pica sul cosiddetto «brigantaggio», mezzo «eccezionale e temporaneo di difesa», prorogato però fino al 31 dicembre 1865, apre l’eterna stagione delle leggi speciali. Di lì a poco, in una riflessione affidata a un volantino sfuggito al sequestro, Luigi Felicò, un internazionalista che conosce la galera borbonica, non ha dubbi: con l’unità, la sorte della povera gente e del dissidente politico è peggiorata.
Normativa emergenziale, come figlia naturale di una vera e propria cultura della crisi, indeterminatezza e strumentale confusione tra reato comune e reato politico, sono diventati così i perni della gestione e della regolamentazione del conflitto sociale. Un’impostazione che nemmeno il codice Zanardelli, adottato nel gennaio nel 1890, sceglie di abbandonare. Certo, per il giurista liberale la sanzione deve rispettare i diritti dell’uomo. Di qui, libertà condizionale, abolizione della pena capitale e discrezionalità del giudice nella misura dell’effettiva colpevolezza del reo. Non sarebbe stata un’inezia, se Zanardelli, però, non avesse affidato la tutela dello Stato nei momenti di crisi sociale a un «Testo unico» di Polizia, cui regalò basi teoriche forti e strumenti pericolosi quanto efficaci: istigazione all’odio di classe e apologia di reato, crimini imputati a chi esaltava «un fatto che la legge prevede come delitto o incita alla disobbedienza […], ovvero all’odio tra le varie classi sociali in modo pericoloso per la pubblica tranquillità».
La definizione volutamente vaga del reato fornisce agili strumenti repressivi e lo Stato, che non dà risposte al malessere delle classi subalterne, può criminalizzarne le lotte, in nome di norme che sono contenitori vuoti, pronti ad accogliere le strumentali “narrazioni” di una polizia per cui anche il generico malcontento e una marcata diversità rispetto alla cultura dominante è «pratica sovversiva». Nei fatti, istigo al reato e poi condanno. Tra crisi, indeterminatezza e natura emergenziale della regola – un’emergenza spesso creata ad arte e più spesso figlia legittima dello sfruttamento – diventavano così dato storicamente caratterizzante di una giustizia fondata su una “legalità ingiusta”, sulla tutela di privilegi a danno dei diritti, mediante un insieme di norme che consentono di tarare la repressione sulle necessità e sugli interessi dei ceti dirigenti.
Il fascismo al potere sterilizza molte norme progressiste introdotte da Zanardelli, poi nel 1930 vara codice «suo», firmato da Alfredo Rocco, che incredibilmente sopravvivere al regime. La repubblica, infatti, sacrifica alla «continuità dello Stato» l’idea di tornare a Zanardelli e conferma Rocco, “tecnicamente” più moderno, ma soprattutto molto più autoritario. In attesa – si dirà – di un nuovo codice che, però, non si farà. Delusa la legittima attesa, la conseguenza di quella grave scelta consente oggi, in un clima di nuovo autoritarismo, di tornare al reato di «devastazione e saccheggio» e spezzare così la vita di un giovane, senza che in Parlamento una voce denunci la natura classista dell’operazione e i «caratteri permanenti» che segnano trasversalmente le età della nostra storia contemporanea: nessuna risposta alla sofferenza di chi paga la crisi, criminalizzazione del dissenso, indeterminatezza di norme volutamente discrezionali e impunità assicurata alla «genetica devianza» di alcuni corpi dello Stato. Senza contare lo stretto rapporto tra politica e malavita organizzata. Ormai non c’è una voce libera che domandi perché il codice penale italiano, che non prevede in modo serio il reato di tortura, consente al torturatore di perseguire il torturato che si ribella.
Oggi, mentre si leva la bandiera della democrazia, si continua a ignorare il nodo che la soffoca, un nodo mai sciolto, nemmeno col mutare della vicenda storica; un nodo che ha impedito cambiamenti radicali persino nel passaggio dalla monarchia alla repubblica: liberale, fascista o repubblicana, in tema di ordine pubblico, l’Italia ha un’identità che non muta col mutare dei tempi. Da un lato, infatti, l’uso intimidatorio e per certi versi terroristico dell’emergenza legittima la ferocia delle misure repressive presso l’opinione pubblica, dall’altro l’indeterminatezza della norma lascia mano libera a una repressione generalizzata. E’ una sorta di blando «Cile dormiente», che si desta appena una contingenza negativa fa sì che, per il capitale, soprattutto quello finanziario, metta in discussione mediazione e regole democratiche, che pretenderebbero di controllarlo: sono, afferma, merci costose che non hanno mercato. Su questo sfondo si inseriscono le più o meno lunghe fasi repressive – lo stato d’assedio nel 1894, le cannonate a mitraglia nel maggio ‘98, la furia omicida in piazza durante i moti della Settimana Rossa, il fascismo, Avola, e, per giungere ai nostri giorni, Genova 2001. In questo quadro si spiegano l’indifferenza per la tortura, le impunite morti «di polizia» e i loro tragici connotati: Frezzi ammazzato di botte in una caserma di Pubblica Sicurezza, Acciarito torturato, Passannante ridotto alla pazzia, Bresci «suicidato» e il suo fascicolo sparito, Anteo Zamboni linciato dopo un oscuro attentato a Mussolini, che consente di tornare alla pena di morte, e via via, Pinelli, Giuliani e i torturati di Bolzaneto e della Diaz, Cucchi, Uva, Aldrovandi, Magherini e i tanti sventurati che nessuno paga.
Non è questione di momenti storici. Se nel 1894, mentre lo scandalo della Banca Romana svela i contatti mai più interrotti tra politica e malaffare, per colpire il PSI, Crispi si «affida» all’esperienza di un prefetto per un processo che non lasci scampo – e il processo truccato si farà; più abile, la repubblica cancella mille verità col segreto di Stato. In ogni tempo, indeterminatezza e discrezionalità della legge consentono di colpire il dissenso come e quando si vuole. In età liberale a domicilio coatto ti manda la polizia, col fascismo il confino non riguarda i magistrati e il «Daspo» che Maroni e la Cancellieri, avrebbero invano voluto estendere al dissenso di piazza, con Minniti c’è ed è sanzione amministrativa e di polizia. Quale criterio regoli da noi il rapporto legalità, tribunali, miseria e dissenso emerge da dati che non ci parlano di età liberal-fascista, ma pienamente repubblicana: dal 1948 al 1952, mentre nei grandi Paesi europei si contano in piazza da tre a sei morti, qui la polizia fa sessantacinque vittime. Nove furono poi i morti nel 1960, in due caddero ad Avola nel 1968 e si potrebbe proseguire. Nel 1968, quando una legge poté infine deciderlo, l’Italia scoprì che la repubblica aveva avuto quindicimila perseguitati politici con pene carcerarie dure come quelle fasciste. Di lì a poco, all’ennesima emergenza – stavolta è il terrorismo – si replicò col fermo di polizia, la discrezionalità della forza pubblica nell’uso delle armi e barbare leggi sulla detenzione, nate per essere eccezionali, ma ancora vigenti, quasi a dimostrare che di «normale» da noi c’è stata solo la stagione democratica nata con la Resistenza. Anche quella seguita da innumerevoli processi, condanne e internamento in manicomio di numerosi partigiani.
Così stando le cose, con una protesta di piazza che costa a un giovane quattordici dodici anni di galera, mentre un poliziotto che uccide per strada un ragazzo inerme se la cava con nulla, una domanda è d’obbligo: perché si fanno carte false per archiviare la Costituzione antifascista e nessuno si preoccupa di cancellare il codice fascista? Perché così si può mandare in galera un barbone, cui peraltro non si è mai dato un aiuto, o per colpire il dissenso e assolvere ladri di Stato e mafiosi in veste di statisti?
Ci diranno che è necessario, che ci stanno difendendo… E’ una menzogna!
Ci diranno che la Costituzione consente… Non è vero, è una colossale bugia!
Ci diranno che non dobbiamo preoccuparci, che tanto ci sono loro… Così dicono sempre dittatori, fascisti e banditi della politica!
Un governo privo di ogni legittimità, un Parlamento di nominati e abusivi, inchiodati alle loro responsabilità da una Sentenza della Corte Costituzionale e dai risultati del Referendum del 4 dicembre, smantellano la Repubblica e cancellano diritti conquistati col sangue.
Ogni giorno, centimetro dopo centimetro, misuriamo la distanza che ci separa da un abisso senza ritorno. La nuova Repubblica di Salò si vede ormai sempre più chiara all’orizzonte.
Mentre mio figlio si prepara a cercare ancora una volta il pane fuori dai nostri confini, perché qui ai padroni si consente tutto, mentre sotto i miei occhi va in scena lo spettacolo indecente di Questure tornate alla tradizionale e autentica vocazione fascista, mi domando qual è il dovere di un uomo della mia generazione. Raccontare ai giovani frottole sulla “legalità”, tenere a freno la loro rabbia, vergognarsi, perché un vecchio adagio popolare giustamente condanna chi dice “armiamoci e andate”? Qual è oggi il compito che ci tocca, mentre il tempo della vita è finito e ci resta forse solo la coscienza tormentata?
Forse è venuto il tempo di parlar chiaro e prendersi la responsabilità di dirlo: abbiamo di fronte un nuovo autoritarismo. Non sarà, Crispi, non sarà Mussolini, ma qui è nato il fascismo e ce l’avevamo prima ancora delle camicie nere. E’ un autoritarismo più pericoloso e più vile di quello che abbiamo battuto con la guerra di liberazione. Un regime che lascia vivere, svuotati di ogni contenuto e valore, i simulacri della democrazia.
Forse è venuto il tempo di dire che noi non ci stiamo. Che dovranno fermarci con la violenza aperta e gettare la maschera.
Come faremo a uscirne? Non è facile dirlo, ma esiste una bandiera a cui nessuno può rinunciare – si chiama dignità – e c’è un primo passo da muovere. E’ urgente, necessario, come l’aria che respiriamo: stare uniti e lottare. Con le buone se possibile, con le cattive, se non ci si lascia scelta. Non partiamo da zero. Abbiamo dalla nostra molti dubbi, ma due preziose certezze: è vero, i diritti non si conquistano per sempre, ma nessun regime autoritario è durato in eterno. Nemmeno quando pareva impossibile scardinarlo.
Ci parlano ogni giorno di terrorismo, ma è il terrorismo ce l’abbiamo in casa; ha fatto e fa molti più morti dell’Isis. Basta contare i morti affogati nel Mediterraneo, i lavoratori uccisi sul lavoro e quelli che si tolgono la vita perché il lavoro non ce l’hanno.
Di questo alla fine si tratta, non di altro: di delinquenza parlamentare.