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Posts Tagged ‘Mussolini’


Non illudiamoci. Le manganellate assestate con furia cieca e impunita a chi protestava per l’orribile strage dell’esercito israeliano non vivono di vita propria rispetto al Governo, deciso a far passare una riforma costituzionale che promette esiti devastanti. In discussione sono, infatti, non solo la marginalizzazione delle funzioni del Presidente della Repubblica, ma il ridimensionamento di un Parlamento umiliato dal ruolo totalmente centrale di un Presidente del Consiglio che avrà sostanzialmente, se non formalmente, facoltà di sciogliere le Camere che gli votano contro e gli negano la fiducia.
Le manganellate anticipano quanto hanno in mente Meloni e la banda di inquietanti figuri che forma l’Esecutivo. I silenzi della Presidente del Consiglio non sono segni di imbarazzo e non servono a prender tempo. Per la Meloni sono un termometro: colpisce e misura il calore della risposta. Se la temperatura è alta, fa un passo indietro, se non è alta, si prepara a colpire di nuovo. Rassicurata dalla risposta debole della popolazione e passata la riforma, ci metterà di  fronte al fatto compiuto. Siamo vicini all’esito naturale, quasi fatale di un dato patologico che non si è combattuto: il prepotere dell’Esecutivo, rafforzato dall’aumento dei decreti d’urgenza su temi che urgenti non sono, dalla sequela ininterrotta di scelte decisive per il futuro del Paese, ripetutamente imposte a colpi di fiducia. Una vera e propria espropriazione delle funzioni del Parlamento che purtroppo ha fatto il possibile e l’impossibile per delegittimarsi.
Su binari paralleli viaggiano veloci, quasi fuori controllo, e completano il quadro, la costosa macchina degli armamenti, il ritorno alla guerra ripudiata e lo smantellamento del sistema formativo pubblico. La storia è maestra ma, se non c’è chi la ascolti, predica nel deserto.
Soprusi e violenze fecero da battistrada al fascismo e non a caso più che il fascio littorio, il simbolo dell’odioso regime di Mussolini rimane il manganello. In un Paese in cui più il tempo passa, più un governo votato da quattro gatti, nato  male e peggio cresciuto, naviga a vista, in rotta di collisione con i diritti sanciti dalla Costituzione, non è inutile ricordarlo: è un questo clima che il manganello impazza.
A partire dalla fine dell’Ancien Régime, l’arte del governare non consiste nella capacità di imporsi alla sovranità popolare scatenando nelle piazze la violenza delle forze dell’ordine; il fine del governo è uno, sacro e vincolante, pena il tradimento: eseguire un mandato cui il popolo l’ha delegato, esercitando le funzioni di tutti i poteri come doveri pubblici e non già come diritti personali.
Di fronte al disordine quotidianamente provocato dalle forze dell’ordine, non è tempo perso ribadirlo: in una democrazia parlamentare l’equilibrio dei poteri nasce dalla natura delle leggi che mirano tutte a rendere gli uomini felici e liberi. Meloni dovrebbe saperlo, lo spessore democratico di un governo non si misura dal listino della Borsa. dalle menzogne ripetute fino a farle diventare realtà, secondo la lezione nazista, e dalla violenza che imbavaglia il dissenso. Si misura da due capacità: quella di saper vincolare i cittadini all’impero del mandato ricevuto e quella che di esercitare il potere impedendo che ci sia chi possa abusarne. Il Governo prima di tutti. Fu questo uno dei grandi problemi che arrovellò politici e pensatori negli anni cruciali della rivoluzione francese e aveva ragione Robespierre: «questo è il grande problema che il legislatore deve risolvere. Questa soluzione è forse il capolavoro della ragione umana».
Un capolavoro di cui non c’è traccia nell’opera di un governo che non ha opposizione nel Palazzo e reprime il dissenso nelle piazze. Un governo che si lascia consigliare da passioni e pregiudizi personali, sicché, mentre offre continui e fondati motivi al malcontento popolare, assume malintesi ruoli pedagogici, si occupa con zelo sospetto del potere dell’Esecutivo e lascia mano libera alla polizia. Tutto ciò è tipico di un potere che si specchia in se stesso ed è fermo al tragico equivoco di chi cede a tentazioni autoritarie. Di un potere che si fa garante dell’ingiustizia, fonte del disordine, e insegue l’ordine col manganello. E’ a questa idea di ordine che guarda Meloni? E noi fin dove intendiamo lasciarci condurre?
Le domande non sono banali e le risposte hanno da essere urgenti e chiare.

Transform!italia, 28 febbraio 2024

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Uno spettro si aggira nel mondo degli storici, che in verità non fanno nulla per esorcizzarlo. Non è il comunismo, spettro in disarmo, per il quale i potenti non organizzano più cacce alle streghe, ma proprio per questo dovrebbe preoccupare. Se uno spettro non allarma la sinistra radicale, non mette sul chi vive i poliziotti, non fa paura al papa, non inquieta l’eternamente inquieta Meloni, non strappa battute acide a Renzi, stiamo attenti lettrici e lettori, vuol dire che, sotto sotto, lo spettro gli fa comodo e qualcosa di buono a casa gli porta.
Siete curiosi? Volete sapere chi è lo spettro amico dei potenti? Girate per le librerie e li trovate ovunque, il libro e il Cazzullo, accompagnati da “recensioni di scambio”, sostenuti da una potente macchina economica e da nomi notissimi; in questi giorni gli regge il moccolo persino Mario Draghi, che con la storia c’entra come i cavoli a merenda. Aldo Cazzullo vende, fa soldi a palate, aiuta la Meloni a coprire tasselli nella sua ossessiva caccia all’egemonia culturale della destra e non si ferma di fronte a nulla.
Senza addentrarvi nel labirinto tossico delle cazzullate, difendete la vostra cultura, fermatevi al titolo e non avrete dubbi: vi troverete davanti lo spettro. Come fossimo ancora ai tempi di Bruno Spampanato, Telesio Interlandi, Ugo Ojetti e dell’Istituto Luce, il Cazzullo strizza l’occhio al nazionalismo mussoliniano e torna alla favola dell’Impero Romano che non è mai morto e degli italiani che sono stati “padroni del mondo”. Nulla di stano perciò, se Mussolini ne riportò la gloria sui fatali colli di Roma.
Bravo Cazzullo, bravissimo, pensa la Meloni; tu sì che mi dai una mano, mentre sto a prendere per i fondelli il popolo di poeti, naviganti, razzisti e reazionari. Con le tue cazzullate, mi regali il raggio di sole che inutilmente mi aspetto da mio cognato Lollobrigida, uno che, se potessi, in nome della sbandierata meritocrazia, manderei con te difilato a pulire i cessi di Palazzo Venezia.   

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La prima volta che ho incontrato Angelo Mariano Molinari, ero a Roma, nell’Archivio Centrale dello Stato e tentavo di ricostruire l’esperienza umana e politica di «sovversive» e «sovversivi» che dal 27 settembre al primo ottobre 1943 avevano chiuso i conti col regime, combattendo contro i nazifascisti nelle «Quattro Giornate di Napoli».
Molinari mi colpì subito, perché, pur essendo vice Brigadiere dei Carabinieri e comandante della Stazione di Soccavo, era inserito tra i membri di una banda formata da tre antifascisti della zona di Soccavo – Francesco Baiano, il fratello Pietro e la sorella Giovanna – ai quali s’erano uniti dodici combattenti, anch’essi più o meno noti antifascisti. Dei Baiano, Francesco era il capo, Pietro passava per un «cospiratore», che non aveva esitato a contrastare gli uomini del regime quando tutti avevano paura del Partito fascista, Giovanna, incinta, era l’elemento più attivo del gruppo.
Non era la prima volta che incontravo carabinieri coinvolti nell’insurrezione, ma non mi era mai capitato di trovarne uno associato a un gruppo di «sovversivi». A rendere più particolare, se non addirittura anomala, la figura di Angelo Mariano Molinari, contribuiva il fatto che il vice brigadiere non era presente nell’elenco dei combattenti – non aveva mai presentato la domanda per essere riconosciuto partigiano – ma aveva certamente avuto un suo ruolo nella Resistenza napoletana. In un vecchio foglio ormai ingiallito, infatti, il Molinari non solo era stato inserito da Francesco Baiano tra coloro che avevano militato nel suo gruppo, ma – ecco un nuovo dettaglio singolare – ne aveva fatto parte sin da quando la banda si era formata. E poiché il gruppo risultava operativo dal 9 settembre al primo ottobre 1943, Molinari era stato attivo nella banda che aveva aperto per prima il fuoco contro i nazifascisti ed era stata l’unica ad averlo fatto appena ventiquattr’ore dopo l’armistizio.
La data d’inizio dell’attività della banda – e di conseguenza dell’attività «partigiana» del vice Brigadiere – mi sembrò subito molto rilevante: essa dimostrava, infatti, che il gruppo Baiano non solo aveva cominciato a combattere i nazifascisti prima dell’insurrezione, ma addirittura prima dell’occupazione. A rendere più affascinante la vicenda c’era un dato di fatto: Molinari era un nome senza storia, uno sconosciuto giunto per vie ignote alle Quattro Giornate dopo venti giorni di un’esperienza incredibile, che ricordava la trama di un film d’avventura, più che un evento realmente accaduto all’alba della guerra di liberazione e della Resistenza.
Poiché la Storia non è semplicemente conoscenza del passato, ma anche – e forse soprattutto – chiave di lettura del presente, per individuare le ragioni profonde di eventi così difficili da spiegare, occorreva porsi domande e poi tornare indietro, sperando di trovare risposte nei documenti disponibili. In questo caso, una domanda sorgeva spontanea: cosa c’era stato tra i fascisti e la famiglia Baiano? Quale ferita profonda aveva trasformato una contrapposizione politica in un’ostilità così irriducibile, da indurre tre giovani a rischiare tra i primi la vita in uno scontro armato che per giorni e giorni poi vedrà una città affrontare senza alcun aiuto esterno i fascisti e i loro spietati alleati nazisti? Come accade assai spesso durante una ricerca, una domanda suscita subito un nuovo interrogativo e occorre dare una risposta: mentre la guerra colpiva la popolazione con inaudita ferocia e la sconfitta militare appariva inevitabile, quali erano i reali rapporti tra nazisti e forze dell’ordine? In altri termini, cosa poteva aver indotto Angelo Mariano Molinari, sottufficiale dell’Arma, a collaborare con «sovversivi» noti come i Baiano? Se, tornando indietro nel tempo, avessi trovato documenti utili, probabilmente sarebbe stato possibile individuare non solo le cause della tempesta che l’armistizio aveva scatenato nei Baiano, ma anche le ragioni di un’intesa apparentemente inspiegabile.
Bisogna provare, mi dissi, e fui fortunato.
Per Molinari, la ricerca diede subito risultati significativi. Senza tornare troppo indietro nel tempo, infatti, scoprii che dal gennaio del 1943 i Carabinieri tentavano coraggiosamente di mettere sull’avviso le Autorità fasciste: il morale della popolazione è depresso – scrivevano –   e non serve illudersi, non sarà certo «alleviato dai commenti con cui, attraverso la radio o la stampa, si cerca credito per un recupero». Molinari e i suoi colleghi più attenti e consapevoli conoscevano quindi da tempo le ragioni per cui la gente, che non tollerava più la propaganda del regime, era diventata invece sensibile a quella «sovversiva»: gli antifascisti chiedevano pace, pane e lavoro e davano concretamente voce alla disperazione di chi soffriva. E non era tutto. Molinari sapeva, come certo sapevano tutti i carabinieri, che almeno dal settembre 1942 tra la città ridotta allo stremo e l’incorruttibile Wermacht, che alimentava il «mercato nero» e ne accresceva la fame, la tensione cresceva di giorno in giorno. Tra silenzi smarriti delle Autorità fasciste e arresti di «pesci piccoli», un’inchiesta aveva infine rivelato che il Gruppo Aeronautico nazista era implicato in traffici di «merce razionata».
Troppo tardi – e troppo debolmente – il governo, timoroso e sconcertato, aveva cercato di intervenire per arginare lo scandalo e mettere un freno all’arroganza tedesca: alle minacce non erano seguiti i fatti, i nazisti avevano continuato nella loro attività, e le precauzioni non erano bastate. La città affamata aveva scoperto infine che i borsari procuravano ai piloti del Reich maiali vivi e carni macellate. A maggio del 1943, al Corso Meridionale, al Vasto e nei pressi della Stazione Centrale, dove alloggiava la Bahnhof Wache, la guardia ferroviaria tedesca, incuranti di ordini e intimazioni del nostro governo, i nazisti avevano smentito la decantata disciplina prussiana, arraffando viveri di ogni genere e facendo man bassa di calzature e biancheria, acquistate al Corso Umberto e in via Bologna. A pochi mesi dalla rivolta, d’intesa con i borsari, la Wermacht continuava ad alimentare un suo mercato nero e i generi razionati venivano poi esportati in Germania mediante militari tedeschi che viaggiano indisturbati con le tradotte che partivano da Napoli Centrale.
Come non bastassero gli affari illeciti con la malavita, ad accrescere la tensione provvedeva la soldataglia, che si comportava ormai da truppa di occupazione. Mussolini era ancora il capo, quando, il 19 giugno 1943, per divertirsi, alcuni soldati picchiarono due adolescenti; di lì a poco, toccò a un operaio, mentre a Fuorigrotta nazisti accampati in una masseria si diedero al saccheggio per tre giorni; a Casoria, poi, i militari addetti alla contraerea, cessato l’allarme, se la spassavano, sparando come folli, mentre la gente, terrorizzata, tornava di corsa nei ricoveri. Nella città, esposta a una terrificante offesa aerea, al Nuovo Rione San Pasquale, la gente si accorse che i nazisti utilizzavano alcuni locali per imbottirli di munizioni. Mentre un esposto giunto all’irresoluto Prefetto, si rivelava del tutto inutile e una “santabarbara” piena di bombe e carburante emergeva al Quadrivio di Arzano, al Vomero, in via Tito Angelini, al palazzo Miramare, veniva fuori una vera polveriera.
Era il 6 luglio, quando tre soldati entrarono in una casa per violentare una ragazza. Il coraggio del fratello salvò la donna, ma in due mesi si contarono altri cinque stupri e fu così superato anche il confine della violenza carnale. Tuttavia, benché le Autorità si mostrassero sempre più inette e servili, i tedeschi non agivano mai in una città disposta a piegarsi. Il 24 luglio, per esempio, mentre il regime crollava, una nuova violenza carnale, stavolta di gruppo, vedeva i tedeschi in fuga e i carabinieri pronti a usare le armi. In questo clima, la gente denunciava inutilmente i nazisti, che come se «il nostro territorio fosse terra di occupazione», puntavano «le armi in risposta alla minima osservazione». Una condizione, scrisse coraggiosamente un ignoto collega del vice Brigadiere Molinari, che metteva «a durissima prova la pazienza». Si riferiva evidentemente a uno stato d’animo che non riguardavo solo la popolazione, ma lo coinvolgeva personalmente, Ed era certamente quanto pensava e sentiva da tempo anche il Molinari.
La tempesta si annunciava ormai in mille modi, ma non s’era mai vista minacciosa e vicina, come il 7 settembre, al Corso Garibaldi, dove il «nemico» assunse un aspetto duplice e terrificante: un Giano Bifronte, col volto degli angloamericani, che scatenavano l’inferno dal cielo, e quello dei nazisti che senza esitare, tra case inermi e pericolanti, indirizzavano il fuoco infernale dei loro carri armati contro i velivoli, suscitando l’ira della gente. Per un po’ la folla indignata e i tedeschi, armati fino ai denti, si fronteggiarono. La gente fremeva, si accalcava, metteva mano ai sassi e sbarrava il passo a carri e soldati furibondi, che urlavano di sgombrare. Chi aveva più paura, i nazisti o i napoletani? Non lo sapremo mai, ma solo quando i mitra puntarono ad altezza d’uomo chi protestava si disperse lentamente. Non fu una fuga, però. Solo due giorni dopo, la banda Baiano scatenò il suo attacco. Perché Molinari giunse ad accordarsi con loro ora appare più chiaro: la disumana ferocia dei nazisti e la viltà dei fascisti avevano colmato la misura oltre la quale non pareva esserci via di salvezza, se non quella di una disperata, ma coraggiosa lotta di popolo.
Per quanto riguarda il passato dei Baiano, occorre tornare al 28 gennaio del 1927, alla data in cui Ruggiero, padre dei tre antifascisti, nonostante le idee politiche, ottenne la gestione della sezione staccata di Pianura del Mercato agricolo di Napoli. Quali furono negli anni successivi i rapporti che l’uomo fu costretto a intrattenere coi fascisti locali è difficile dire, ma certo non fu un idillio; col passare del tempo la situazione peggiorò sensibilmente e nel 1934 divenne ingestibile. Fu Vincenzo Marrone, il fiduciario fascista di Pianura a provocare un incidente che sfociò in aggressione armata ai danni di Ruggiero Baiano. Spalleggiato da un camerata,  il Marrone avrebbe avuto di certo la meglio, se Francesco Baiano, intervenuto coraggiosamente in difesa del padre, non avesse messo in fuga i due fascisti.
Erano tempi in cui il coraggio di opporsi alla prepotenza e all’ingiustizia costava sempre caro. Valutato il caso, i fascisti trovarono subito un accordo: non potevano permettere che uno di loro fosse impunemente umiliato. Scartata l’ipotesi di un’aggressione meglio organizzata, che sarebbe risultata molto impopolare – si trattava di colpire gente onesta e stimata – si scelse un’implacabile rappresaglia: revocata la concessione ed estromessi dal mercatino, ai Baiano si negò ogni possibilità di trovare lavoro. Come ricorderà anni dopo Pietro Baiano, la brutale soppressione del lavoro da parte dei fascisti significò la perdita dell’unica fonte di vita di una famiglia ridotta così alla fame. Il solo patrimonio che il regime non poté sottrarre ai Baiano – la ricchezza della coerenza – divenne però solidarietà e ammirazione della gente. Fu quella ricchezza che l’8 settembre 1943 consenti ai Baiano di radunare e armare alcuni antifascisti, decisi a rendere difficile la vita a nazisti e fascisti.
Probabilmente trovare compagni di lotta fu per i Baiano più facile di quanto immaginassero. Dopo decenni di ingiustizie, soprusi e violenze, mentre la tragedia della guerra si trasformava in una catastrofe senza precedenti, poteva mancare gente autorevole e stimata, in grado di reclutare e motivare persone disposte a combattere, organizzare la lotta e individuare obiettivi; non mancava di certo, invece, chi fosse pronto ad affrontare i nazifascisti. Quanto alle armi, la fuga degli ufficiali superiori e la disgregazione delle forze armate, ne aveva reso disponibili quantità impensabili. Si trattava solo di sapere dove a chi rivolgersi. A queste condizioni di apparente favore si dovette subito aggiungere una convinzione: temendo che l’avanzata degli Alleati verso Napoli e lo sbarco a Salerno potessero costringerli a una sanguinosa guerriglia urbana, i tedeschi avevano deciso di lasciare la città.
A confermare questa ipotesi c’era il continuo passaggio di convogli colmi di prigionieri di guerra fortemente scortati, in transito lungo la via che da Agnano conduce a Miano. Quella convinzione imponeva però una scelta di carattere etico, prima ancora che militare e politico. Se il rapido e inatteso spostamento dei prigionieri di guerra dal Sud verso il Nord del Paese era l’inizio della ritirata – dovettero chiedersi gli antifascisti – qual era il loro compito? Starsene a guardare, o intervenire per aiutare i prigionieri e ostacolare a ogni costo il piano tedesco? I Baiano non ebbero dubbi. Contattati nella notte e convinti ad agire i compagni più fidati, occorreva raccogliere subito armi e munizioni, in modo che la mattina del 9 settembre il gruppo di fuoco strappasse prigionieri ai tedeschi.
Anche Molinari, che conosceva di certo i Baiano e sapeva ciò che stava accadendo, era ormai giunto a un bivio. Le colpe della Corona e il contegno vergognoso dei nazisti interrogavano anche la sua coscienza. Che avrebbe dovuto fare? Fingere d’ignorare ciò che accadeva, o denunciare i Baiano? Fino a che punto un giuramento di fedeltà poteva vincolarlo, se a tradire erano le Istituzioni? Mentre tutto sembrava crollare, qual era il suo dovere? Trincerarsi dietro una legalità che rinnegava la giustizia, o schierarsi con chi si preparava a lottare per restituire alla legalità il valore della giustizia e recuperare la libertà negata?Non possiamo esser certi che, in vista dell’attacco, i Baiano abbiano cercato un’intesa con Molinari, ma è significativo che nelle sue dichiarazioni Francesco Baiano, capo della banda, abbia inserito il sottufficiale tra quelli che operarono con lui dall’inizio e, quindi, sin dal 9 settembre del 1943. A conti fatti, è molto probabile che i Baiano abbiano immediatamente coinvolto Molinari nel loro piano. Che senso avrebbe avuto tacere? I rischiosi contatti avuti per il reclutamento di combattenti, la necessità di preparare un piano e procurasi delle armi, che costrinse i Baiano a una serie di spostamenti notturni, non sarebbero certamente sfuggiti al comandante della Stazione dei Carabinieri. La sua complicità o, per dir meglio, il suo aiuto attivo e il suo coraggio erano necessari più dell’aria. Per non fallire in maniera disastrosa, agli antifascisti occorreva avere le spalle coperte e il nome del sottufficiale era un lasciapassare in grado di aprire porte altrimenti chiuse.
D’altro, canto, non è credibile che, senza poter contare su un intervento del Molinari, la notte dell’8 settembre 1943 Francesco Baiano e Vincenzo Onotri, componente della banda appena nata, si fossero presentati alla caserma di cavalleria di Bagnoli con un carretto e un cavallo, per tornarne poi, senza incontrare ostacoli, con casse di bombe a mano, una mitragliatrice, 40 moschetti e il relativo munizionamento.
Poche ore di un riposo agitato e dopo la notte delle decisioni difficili la mattina del 9 settembre illuminava il giorno del coraggio. I nazisti, ignari, risalivano tranquilli la strada che conduceva a Nord. Nei pressi della masseria Onotri, in una zona coperta da una selva estesa e intricata, chiamata «Sperduto», sul bordo dalla strada, che si allungava pochi metri più in basso, dove la via si prestava a un agguato, assieme ai tre Baiano, appostati, armi in pugno, c’erano Vincenzo, Gennaro, Giovanni, Salvatore, Pietro e  Luigi Onotri, Vittorio Pasini, Nicola Monti, Antonio Cannavacciuolo, Pompeo Pisani e un militare rimasto sconosciuto. L’attacco iniziò al passaggio di una colonna di prigionieri inglesi. Mentre i tedeschi, sorpresi, badavano anzitutto a uscire vivi dalla trappola, Francesco Baiano, con ampi gesti, invitava gli inglesi a correre dalla sua parte, mentre i fratelli Onotri, calavano delle scale facilitando la fuga di venti prigionieri, che fuggirono nella Selva.
Se la convinzione che i tedeschi si ritiravano non fosse risultata infondata, probabilmente tutto sarebbe finito lì. Presto invece fu chiaro che, pur essendo nato dall’impossibilità di continuare la lotta, l’armistizio era stato considerato un tradimento. Fermati da Hitler, i nazisti tornavano indietro per eseguire un ordine feroce: occupare la città e ridurla a un terrificante esempio di vendetta tedesca. Per la banda Baiano – civili che avevano attaccato soldati del Reich – si trattava ormai di gestire una situazione disperata. Organizzata in tutta fretta, nella convinzione di dover agire per poche ore, la banda non sembrava più in grado di proseguire la lotta: non poteva disperdersi, per non tradire gli inglesi liberati e non aveva alcuna speranza di salvarsi, consegnandosi a un nemico inferocito.
Superato l’iniziale sconforto, i Baiano scelsero l’unica via che offriva deboli, ma ragionevoli speranze: nascondersi nella Selva che dai Campi Flegrei al bosco di Capodimonte univa in un unico bosco le Conche dei Pisani, di Soccavo e di Pianura, la Selva di Chiaiano, il Vallone di San Rocco e lo Scudillo; attendere in quel rifugio gli Alleati ormai vicini e, se necessario, lottare, resistere a ogni costo e sperare che il corso degli eventi mutasse la situazione. Come fu subito chiaro, però, quella decisione poteva condurre alla salvezza solo se qualcuno tra i componenti della banda fosse riuscito a svolgere bene compiti difficili e pericolosi. Dopo aver combattuto con grande coraggio durante l’agguato, solo Giovanna Baiano, l’unica donna del gruppo, poteva avventurarsi fuori dalla Selva. lo fece e, nonostante i rischi, dimostrò spirito organizzativo, sangue freddo e una straordinaria capacità di muoversi per le vie sconvolte della città senza dare destare sospetti, evitando di condurre nemici all’accampamento; riuscì così a procurare munizioni, trovare acqua, cibo ormai quasi irreperibile e alimentare per oltre venti giorni ex prigionieri e compagni.
Da sola, tuttavia, Giovanna Baiano, non avrebbe potuto sciogliere i mille nodi che chiudevano in trappola la banda. Era impensabile, infatti, che il nemico rinunciasse a stanare i compagni. Raccogliere perciò ogni possibile notizia sui movimenti del nemico era la maggiore garanzia di sopravvivenza per i combattenti. Decisivo in questo ruolo risultò il lavoro svolto dal vice Brigadiere Molinari. A partire dal 10 settembre, infatti, mentre i nazisti si impadronivano della città, soffocando nel sangue l’eroica resistenza della popolazione e dei militari che non si erano dati alla fuga, i contatti di Giovanna con il sottufficiale dei Carabinieri furono preziosi e frequenti. Rischiando ripetutamente la vita, Molinari, che, per la sua funzione era in contatto con tedeschi e nazisti e riusciva a conoscerne piani e movimenti, informava con cura la donna, agevolando così il compito dei combattenti. Naturalmente non riuscì a evitare tutti gli attacchi e i rastrellamenti, ma seppe sempre a indicare soluzioni o vie di fuga.
Nei giorni successivi all’agguato del 9 settembre, i nazifascisti individuarono talora i nascondigli della banda, che, tuttavia, grazie al Molinari, riuscì a sbaraccare prima di essere attaccata e anche quando non poté evitare il contatto, gli assalitori non giunsero mai del tutto inattesi; sotto il micidiale fuoco delle mitragliatrici, gli uomini della banda e gli ex prigionieri – per lo più fanti indiani – riuscirono a sganciarsi, dopo aver opposto una breve ma coraggiosa ed efficace resistenza.
Le giornate nella selva erano lunghe e snervanti. Inizialmente Molinari, molto preoccupato, informò Giovanna che la selva rischiava di diventare insicura. Dopo l’agguato, infatti, un proclama tedesco affisso per le vie della città invitava a consegnare i prigionieri Alleati o a denunciare chi si ostinava ad aiutarli; in cambio si promettevano viveri e un premio di 2000 lire. Probabilmente molti napoletani sapevano cos’era accaduto il 9 settembre, qualcuno conosceva chi aveva organizzato l’attacco e dov’era nascosto; benché un secondo proclama avesse aumentato le somme promesse, denunce non ce n’erano state. I nazisti passarono allora dai premi alle minacce e un nuovo proclama promise stavolta la pena di morte immediata per i renitenti. Le minacce, però, non ottennero risultati migliori delle lusinghe.
Col passare dei giorni, l’iniziale prudenza cominciò a cedere il passo a scelte pericolose. Per accontentare i militari dell’esercito inglese, che chiedevano insistentemente di capire in quale parte del Paese i loro compagni combattevano con i tedeschi, correndo il rischio di essere fucilato, Francesco Baiano si recò ripetutamente presso compagni antifascisti che ascoltavano clandestinamente Radio Londra, per riferire poi ciò che riusciva a sapere. Per evitare nuove imprudenze, si decise infine che Giovanna comprasse carte geografiche e topografiche della zona in si combatteva, in modo che gli inglesi potessero intuire l’esito degli scontri che il vice Brigadiere si incaricava di comunicare alla Baiano.
La difficile situazione in cui il gruppo versava tornò improvvisamente chiara, quando nuovi attacchi dimostrarono che i tedeschi non avevano smesso di dare la caccia alla banda. Spesso il gruppo sfuggì al nemico perché, esponendosi a rischi gravissimi, Molinari fornì a Giovanna Baiano le informazioni raccolte, alleggerendo la pressione sugli uomini rifugiati nella selva e consentendo che essi si spostassero rapidamente e sfuggissero alla caccia dei nazifascisti. A rendere più grave la situazione e ad esporre la Baiano al rischio crescente di essere catturata, si aggiunse la necessità di acquistare medicinali per curare Mohd Sadia, sergente dell’esercito inglese, nato a Rawalpindi, nel Punjab. Anche in questo caso la donna riuscì nel suo intento, ma non c’erano dubbi: più il tempo passava e più i rischi per lei aumentavano.
Presto i continui fallimenti dei loro piani, spinsero i nazisti a interrogarsi: com’era possibile che gli uomini nascosti nella selva riuscissero ad alimentarsi e – ciò che destava più sospetti – a prevenire sistematicamente le loro mosse? Una breve riflessione e d’un tratto si resero conto di ciò che accadeva: la banda non solo aveva complici all’esterno della selva, ma si trattava di gente in grado di fornire informazioni tempestive e sicure. Nonostante la prudenza con cui si era mosso fino a quel momento, a quel punto i sospetti si addensarono sul Molinari, che fu sottoposto a interrogatori stringenti. Lo scopo dei tedeschi era duplice: capire se l’informatore della banda fosse il vice Brigadiere e accertare se, a sua volta, il sottufficiale poteva fornire informazioni sui ricercati e sull’ubicazione dei loro rifugi. Consapevole del grave rischio che correva, Molinari, al quale non mancavano certamente coraggio ed esperienza, non si lasciò intimidire, superò abilmente la prova e riconquistò la fiducia dei nazisti. Profittando della situazione favorevole, di lì a poco, con la complicità dei militari che erano al suo comando, nascose nella caserma due dei prigionieri alleati, liberati dai Baiano.
Qualora ce ne fosse stato bisogno, l’incidente coi tedeschi dimostrò al vice Brigadiere che la rischiosa situazione nella quale si muoveva assieme a Giovanna Baiano, non poteva durare a lungo. Non a caso, il 21 settembre, toccò alla donna, fermata da tre fascisti sul Ponte di Soccavo, mentre portava rifornimenti ai compagni. Benché duramente picchiata e minacciata di fucilazione, decisa a morire piuttosto che parlare, Giovanna si mostrò eccezionalmente lucida e coraggiosa, negò di essere diretta alla Selva e sostenne ostinatamente che i viveri servivano alla famiglia. Il sangue freddo con cui affrontò il brutale interrogatorio, convinse i fascisti, che la lasciarono libera. Salvò così se stessa e i compagni, ma perse la creatura che portava in grembo.
I due interrogatori erano stati il momento peggiore di quei giorni terribili, ma proprio quando sembrava superato, il 23 settembre, dopo uno scontro mortale, uno dei militari nascosti nella Selva, sorpreso da un tedesco mentre cercava di raggiungere i compagni da cui si era allontanato, fu ucciso sul Ponte di Soccavo.
Mentre nella selva gli scontri continuavano, in città, dove focolai di rivolta si erano accesi a Fuorigrotta e nei pressi della Stazione Centrale, l’avanzata degli Alleati ormai vicini accresceva la tensione. Sottovalutando i rischi di una reazione dei napoletani, i tedeschi li esasperavano con furti, violenze e con la vandalica distruzione delle fabbriche, del porto e di ogni centro di vitale importanza per la metropoli. In questo clima di speranze e timori, una notizia giunta nella Selva grazie al Molinari e alla Baiano, riaccese l’entusiasmo ormai spento: al Vomero, in una masseria situata in località Pagliarone, un gruppo di giovani si preparava a cogliere di sorpresa i tedeschi. L’ora della riscossa stava ormai per suonare, Il gruppo non esitò: la ricerca di un’intesa era naturalmente rischiosa, ma occorreva uscire dall’isolamento, unirsi a quei giovani e prendere parte all’attacco.
Pietro Baiano, incaricato di stabilire contatti, incontrò Vincenzo e Alessando Sacco, Giuseppe Giannini Fortunato ed Enzo Stimolo e concordò un’azione simultanea. La sera del 26 alcuni capi dei gruppi vomeresi riuscirono a prelevare una mitragliatrice nascosta a Soccavo. Di lì a poche ore. la mattina del 27 settembre, Vincenzo Sacco diede ordine di attaccare. La scintilla dell’insurrezione si diffuse così in tutta la città. In appoggio ai combattenti del Vomero, il gruppo Baiano attaccò più volte gli automezzi tedeschi in transito tra il Ponte di Soccavo e via Pigna, finché la sera del 29, riuscendo a congiungersi con chi operava intorno al Campo Sportivo del Vomero, contribuì all’accerchiamento di un forte reparto di tedeschi asserragliati nel campo.
Convinti dell’arrivo di rinforzi, i nazisti assediati si difendevano accanitamente, ma uomini e mezzi giunti in aiuto furono bloccati dagli insorti nella zona della Pigna e mentre si lottava con violenza, il gruppo Baiano, col quale combatteva un capitano inglese, attaccava alle spalle i tedeschi e, pur registrando il ferimento di due combattenti, li costringeva a ripiegare. La sera del 30, cessata ogni resistenza, i nazisti si ritirarono; alle 20,30, alzando bandiera bianca in segno di resa, l’ultimo carro armato attraversava il ponte di Soccavo. Il 2 ottobre infine, al n. 38 di via Tarsia, i Baiano consegnarono i prigionieri alleati liberati al comando inglese.
Subito dopo l’insurrezione, le tracce dei due principali protagonisti dell’impresa si erano già perse. Come capitò a tante altre donne che, armi in pugno, avevano partecipato alla resistenza e alla liberazione della città, Giovanna Baiano, che aveva combattuto con bombe a mano e un vecchio moschetto modello 91, non ottenne la qualifica di partigiana ma quella di «Patriota». Anche il vice Brigadiere Angelo Mariano Molinari si perse nell’ombra. Per ben venticinque giorni aveva rischiato la vita, salvando quella dei combattenti. Senza il suo coraggio e le sue preziose informazioni, gli uomini della banda Baiano non sarebbero usciti vivi dalla Selva di Soccavo.
Col passare del tempo, una lettura minimalista dell’insurrezione, fece delle Quattro Giornate una inesistente rivolta di «scugnizzi», tipica dello stereotipo della «città di plebe». Mentre molte decorazioni andavano a piccoli eroi inconsapevoli, il Molinari, che oggi potrebbe essere uno di quei modelli positivi di cui la nostra gioventù ha un disperato bisogno, non chiese riconoscimenti e sparì dalla storia.
Lo studioso ha provato a consegnare la sua memoria alle pagine di un libro. Questo è il suo compito. Può sperare, però, questo sì, che un gesto di gratitudine per un eroe ritrovato, giunga in ritardo e può aggiungere alla sua speranza una certezza: sarebbe certamente meritato.

Giuseppe Aragno, Notiziario Storico della’Arma dei Carabinieri. La Quattro Giornate Di Napoli, Anno VIII – Speciale 80° Anniversario

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Molti in Italia credono che la parola democrazia si possa conciliare con un governo di  reazionari che proibisce gli scioperi e paga fior di pennivendoli perché raccontino un Paese che non c’è.
Molti in Italia credono che la parole democrazia si possa conciliare con una sedicente Commissione di garanzia degli scioperi che invita l’Unione Sindacale di Base a rinunciare allo sciopero di 24 ore, indetto dopo la strage di cinque operai morti di lavoro, e a seguire l’esempio dei sindacatoni, che hanno invece dichiarato uno sciopero-barzelletta di quattro ore. Bene ha fatto l’USB a confermare le sue ventiquattro ore, ma la situazione non cambia: la democrazia continua a rantolare.
Prima di proseguire, non sarà male ricordare che in quest’anno sventurato abbiamo registrato finora 430 morti sul lavoro, ai quali va aggiunto un incalcolabile numero di feriti. Quattrocentotrenta volte abbiamo ascoltato Mattarella fingere indignazione, promettere provvedimenti che non sono venuti e ripetere come un disco inceppato che quello che succede da noi è un oltraggio alla convivenza civile. Come accade sempre quando la buona volontà si scontra con la ferocia impunita dei padroni, l’Unione Popolare ha chiesto per l’ennesima volta l’assunzione di 10.000 ispettori che consentano un controllo concreto ed efficace sulla piaga dei subappalti, regolati dalla logica del profitto e agevolati in ogni modo possibile dal governo reazionario della Meloni. Come accade sempre, quando non si sa da dove cominciare, nel momentaneo gruppo dirigente dell’Unione si è aperta per un istante una discussione sulla necessità di raccogliere firme per una legge d’iniziativa popolare che istituisca il reato di omicidio volontario a danno dei lavoratori. Raccogliere firme per leggi popolari non serve a nulla , ma qualcosa bisogna pur fare.
Credo che nessun movimento sia favorevole a un aumento di leggi che nel migliore dei casi muoiono prima di nascere o, se hanno la ventura di nascere, vengono utilizzate a fini puramente repressivi.
Bisognerebbe ricordare che il massimo della pena prevista per un datore di lavoro colpevole della morte di una lavoratrice o di un lavoratore ammonta a 5 anni. In Italia nessun padrone è mai finito in carcere per la morte a cui ha condannato operaie e operai. Il massimo della pena è stato di un anno, con i benefici, eccetera, eccetera. Un anno mai scontato in carcere.
Nell’Italia reale, quella dei padroni impuniti e del codice del fascista Rocco, le cose vanno così: se ammazzi un/a dipendente, il giudice ti dà una pacca sulla spalla e ti dice di non farlo più. La stampa, dominata da pennivendoli, ti saluta come un perseguitato politico e chi s’è visto s’è visto.
Se invece sei un giovane che ha la testa calda e – udite udite – assieme a due o tre compagni e compagne, durante una manifestazione, rompi un bancomat perché ci vedi un simbolo del capitalismo, ecco che il fascista Rocco diventa severissimo. Hai ucciso un bancomat? Sei un feroce assassino e non hai scampo: 14 anni di carcere per devastazione e saccheggio. Era così ai tempi di Mussolini, è così ai tempi di Mattarella: la vita di un/a vittima dei padroni vale un anno con la condizionale, mentre quella di un bancomat ti costa 14 anni.
Va beh, mi direte infastiditi, ma è così sulla carta! Sbagliate. I 14 anni per omicidio di un bancomat sono stati dati e scontati. Cambiamo la legge? Ne chiediamo una nuova? Non serve e non è possibile. Per me dovremo cambiare il Paese e la sua pseudo classe dirigente. Con le buone, se possibile (ma mi pare improbabile) con le cattive se necessario.

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Lo dico molto umilmente, perché sono confuso.
La sinistra ha colpe gravissime e ha creato i presupposti che ci conducono a ieri. Distrutto il sistema formativo, cancellato lo stato sociale, ha seminato ignoranza e disperazione. Il programma delle destre è stato realizzato dalle sinistre, un tempo marxiste, oggi neoliberiste.
Per suo conto, il neoliberismo, con la sua religione del mercato, ha prodotto crisi devastanti, che hanno colpito un popolo di senza storia, ridotto a un gregge, privo di coscienza critica.
Viviamo su un vulcano prossimo a una probabile eruzione. Se il tappo dovesse saltare, in testa a un movimento di popolo troveremmo certamente chi ieri ha misurato la febbre alla democrazia e sa che è molto malata. L’attacco è stato portato non solo al sindacato, ma si è provato anche a entrare nel Parlamento, alla maniera di Trump.
Il fascismo è stato ed è il regime politico ideale per il capitalismo finanziario e da questo governo, che ha dentro i colletti bianchi di una destra eversiva ed è guidato da un banchiere, non potremmo aspettarci una reazione di quelle eroiche alla Allende.
La sinistra, dopo aver messo i semi della tempesta si è praticamente dissolta. Auguriamoci che nei prossimi giorni chi ieri ha retto i fili della pantomima rivoluzionaria, si dimostri una tigre di cartone, che non può contare su un Mussolini. Se dovesse uscirne uno, il pericolo sarebbe enorme e comunque i processi ai «sinistri», per quanto necessari, oggi sono tardivi.
Abbiamo bisogno di tempo per organizzarci dal basso, parlare alla gente in senso lato, dagli autentici democratici ai preti di base. Credo che questo ci consentirebbe di essere pronti, se possibile,  per una lotta politica. Se la parola dovesse invece passare alla forza, avremmo gettato le basi per una resistenza di popolo.
Se ho esagerato o detto sciocchezze, perdonate, ma tenete anche presente che per un uomo della mia generazione ciò che è accaduto ieri è stato un trauma violento.

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Elettoralismo? Astensionismo? Autonomia del sindacato o cinghia di trasmissione del partito? Riformisti? Rivoluzionari? Teorie o bibbie? Ricordare chi siamo e da dove veniamo ci aiuta a capire che fare, senza tornare a problemi che sembrano attuali e sono invece il nostro lontano passato…
Una biografia lunga, ma anche una storia che farà bene leggere.

Nato a Scafati il 25 aprile 1895, Cecchi trascorre l’infanzia in una casa confinante con la Camera del Lavoro, luogo di comizi domenicali e lavoratori che parlano di salari da fame e disoccupazione e si sente socialista sin da bambino. Nel 1911 fa parte dei giovani del PSI e diventa corrispondente del giornale socialista napoletano «La Propaganda». Nel 1912 si sposta con la famiglia a Castellammare di Stabia, dove conosce Ruggiero Grieco e Oreste Lizzadri e frequenta il Circolo «Carlo Marx», fondato a Portici da Bordiga, di cui sarà amico per tutta la vita.
Tra novembre del 1915 e ottobre del 1916 è eletto prima Segretario regionale e poi nazionale dei giovani socialisti, ma si dimette inspiegabilmente pochi giorni dopo. Chiamato alle armi nel 1917 e tornato a Castellammare il 21 marzo 1919, contribuisce alla nascita di una Camera del lavoro, di cui diventa segretario e ne fa un’organizzazione così temibile che, per umiliarla, gli industriali rendono lavorativo il I maggio. La risposta operaia spaventa i moderati. In una piazza gremita, infatti, la Camera del lavoro espone la bandiera rossa, chiama alla lotta lavoratori, donne e studenti e diventa una sorta di «Soviet», che impone un prezzo politico ai negozi di alimenti esposti al saccheggio. Mentre il PSI è fermo e la CGL non coinvolge i contadini, la paura della rivoluzione unisce le forze della reazione e a settembre la cavalleria, caricando un corteo e ferendo lavoratori inermi, mostra quali sono i rapporti di forza.
Tra il 1919 e il 1920 Cecchi entra nel Comitato Centrale della frazione astensionista di Bordiga ed è eletto Segretario della Camera del lavoro di Napoli in un momento di dure lotte. Poiché PSI e CGL non sostengono le fabbriche occupate e i padroni reagiscono, spalleggiati dai fascisti, per uscire dall’isolamento, Cecchi si oppone all’astensionismo elettorale ed è sospeso dalla Frazione Comunista. Il 1921 nasce all’insegna di scontri e licenziamenti, con padroni e fascisti scatenati. Quando a Castellammare un carabiniere muore in un conflitto, Cecchi, accusato di aver causato gli scontri, sente la bufera vicina e minaccia: «Per una istituzione operaia violata, cento palazzi borghesi grideranno il nostro odio e la nostra ferma vendetta». In realtà il sindacato è debole e diviso.

Tornato nei ranghi, il 29 gennaio Cecchi diventa dirigente della neonata sezione del PCdI e ad aprile è rieletto segretario della Camera del Lavoro, ma è ben presto isolato. I socialisti infatti non tollerano l’egemonia comunista e per i comunisti Cecchi non segue la linea del partito. Il 3 febbraio 1922, nonostante la debolezza del sindacato e le minacce fasciste, è costretto a uno sciopero generale che si rivela un fallimento. Quando chiede una discussione collettiva sull’autonomia del sindacato, giunge l’attacco personale: Cecchi, opportunista a caccia di stipendi, ama il lusso e bada anzitutto ai propri interessi. Di lì a poco, un’inchiesta sul tenore di vita del sindacalista, voluta da Ugo Girone, dirigente e futura spia, termina con l’esonero da ogni incarico.

Cecchi va via senza difendersi. Riprende gli studi e nel 1924 si laurea in legge. Nel 1925, però, una iniziativa per i martiri del fascismo, la presenza a un incontro tra Bordiga e Gramsci e l’assalto fascista alla sua abitazione, mostrano un militante attivo e spiegano la condanna al confino del 2 dicembre 1926 e l’accusa di sovversione che un anno dopo lo conduce al carcere di Siracusa, da dove, assolto dal Tribunale Speciale, torna al confino ad agosto del 1928.
Liberato il 7 dicembre 1929 e sottoposto a una stretta vigilanza e a mille angherie, sposa l’ostetrica Tullia Tommasi, si stabilisce a Napoli con la moglie e si laurea in lettere e filosofia. Dopo una breve esperienza da procuratore legale, la scelta di insegnare, avversata dal regime, lo condanna a una vita precaria, vissuta con quanto ricava da lezioni private e segnata da arresti e perquisizioni. Nel 1935, per evadere dalla sua invisibile prigione, scrive al Duce, che – afferma – sente vicino come nel 1914, quando colpì i massoni. Da anni vive di rinunzie e miserie. Se si fosse piegato, scrive, diploma e lauree gli avrebbero garantito una vita tranquilla, ma non l’ha fatto e ha voluto capire. Ritorna al duce perché esprime «il diritto, l’onore e la forza rinnovatrice dell’Italia». Troppo repentinamente «fascista», l’ex sindacalista non convince l’Alto Commissario Pietro Baratono, che gli allenta però la vigilanza.
Nel 1938, in vista di un concorso magistrale, Cecchi firma con uno pseudonimo un libro di lezioni per i futuri maestri «della nuova Italia» e a marzo del 1940 chiede la tessera al partito fascista, che il 25 gennaio 1941 gliela rifiuta per indegnità politica. Il 18 marzo, benché il partito si opponga, è radiato dall’elenco dei sovversivi. In realtà, Cecchi non si è mai convertito. Nei ricordi di autorevoli compagni di lotta, confermati da studi di vari studiosi, dal 1932 l’ex sindacalista e gli uomini della frazione intransigente vicina a Bordiga sono anzi tra i militanti che collegano tra loro gli antifascisti dispersi dalla reazione. Entrato poi in un gruppo clandestino, Cecchi scrive e diffonde con Antonio Baldaro, i fratelli Ennio e Libero Villone ed Eugenio Mancini, due opuscoli sulla situazione politica mondiale. Nel 1937, a conferma di ideali mai negati, l’Ovra segnala alcuni militanti «organizzati attorno a Cecchi come sezione della Quarta Internazionale».

Caduto Mussolini, firma un appello per la pace e la democrazia contro le misure di ordine pubblico volute da Badoglio e giunge alle Quattro Giornate col gruppo «Spartaco» e con legami clandestini che vanno dagli uomini vicini a Bordiga, al prof. Giacomo Cicconardi, primario degli Incurabili, legato a Federico Zvab. La sera del 30 settembre 1943, alla fine delle Quattro Giornate, Cecchi assiste interdetto all’incontro tra i partiti e Leopoldo Piccardi, redivivo ministro di Badoglio e quando giunge Giuseppe Cenzato, Presidente dell’Unione Fascista degli Industriali fino alla caduta del regime, indignato, lo mette alla porta. Si scontra così con Eugenio Reale, segretario del PCI, che difende Cenzato ed è pronto a ricevere il prefetto Soprano, che ha consegnato la città ai tedeschi. Il dissenso sull’epurazione, sui rapporti con Badoglio, gli Alleati e la Democrazia Cristiana e sul ruolo del sindacato, causa una breve ma indicativa scissione. Per i futuri togliattiani, Cecchi e i suoi, «notoriamente bordighisti», seguono una via «diametralmente opposta a quella del Partito Comunista». Per Cecchi, invece, il PCI scende a patti con le forze borghesi, impone dirigenti calati «dall’alto», ignora la democrazia interna e il valore della rappresentanza degli iscritti. Lascia perciò il partito, che sente lontano e si dedica al sindacato.
A novembre del 1943 azionisti, comunisti e socialisti dissidenti, riunite varie categorie di lavoratori, riaprono la Confederazione Generale del Lavoro, che rifiuta di salvare fascisti, ha dirigenti eletti dalla base, Camere del Lavoro e strutture sindacali che non sono cinghia di trasmissione dei partiti; un sindacato che afferma il valore costruttivo del lavoro e chiede di partecipare alle scelte di politica economica, per impedire che il governo regali alla borghesia industriale cifre incontrollabili, che peseranno di certo sul proletariato. Cecchi torna alla Camera del Lavoro di Castellammare di Stabia, ma lo scontro si riapre nel sindacato. Si giunge al punto che, nella primavera del 1944, quando Norman Lewis, agente dei servizi segreti inglesi e sincero antifascista, irritato da un insolito interesse del PCI per l’epurazione, chiede i nomi di fascisti clandestini, Eugenio Reale gli consegna un foglio con «i nomi dei quattro uomini più pericolosi di Napoli e quello di un giornale sovversivo che andava soppresso». Purtroppo, scopre poi contrariato l’ufficiale, il giornale è «Il Proletario», pubblicato dai comunisti di sinistra e i nomi sono quelli «di Enrico Russo, capo dei trozckisti e dei suoi luogotenenti, Antonio Cecchi, Libero Villone e Luigi Balzano».
L’ultimo intervento di Cecchi quale dirigente sindacale risale all’agosto del 1944, quando presenta due ordini del giorno in cui chiede invano un’organizzazione apertamente classista, garante di una reale unità dei lavoratori, che affermi il principio dell’autonomia delle Camere del Lavoro. La sua «CGL rossa», confluisce però nella CGIL. Per non perdere un autorevole dirigente del movimento operaio, Di Vittorio tenta di trattenerlo, ma il vecchio militante lascia il sindacato.
Nell’autunno del 1944, per unire i gruppi di opposizione, Cecchi fonda con Enrico Russo la Frazione di Sinistra dei Comunisti e dei Socialisti Italiani, che raccoglie circa mille iscritti. Ostile alla politica d’unità nazionale, dopo la liberazione del Nord entra in contatto col Partito Comunista Internazionalista, poi lentamente scivola ai margini della vita politica. Con la consueta coerenza, però, a marzo del 1945 rifiuta l’incarico di Commissario prefettizio dell’Azienda Autonoma di Cura e Soggiorno, che gli offrono il Prefetto e il Comitato di Liberazione, Istituzioni che ha combattuto.

La vita di Cecchi nella «Repubblica nata dalla Resistenza» è fatta di stenti e dignità: lezioni private, l’aiuto economico della moglie e finché non si scinde, la militanza nel gruppo bordighiano di sinistra, nato a Napoli nel Partito Comunista Internazionalista l’1 settembre 1951. Docente precario fino al 1956, insegna da incaricato materie letterarie e giuridiche in varie scuole di Napoli e della Provincia. Nel 1962, per giungere al minimo della pensione, ottiene di insegnare fino al 1965, quando compirà 70 anni. Frequenta «gruppi d’irriducibili in un bar di Piazzetta Matilde Serao, trasformato in un covo di rivoluzionari», fino alla morte, giunta l’1 ottobre 1969.
Sull’immaginetta stampata dalla famiglia per ricordarlo, si legge: «grande idealista, studioso di problemi politici e sociali, fu combattente per la libertà, per l’emancipazione delle classi lavoratrici e per il progresso sociale. Subì persecuzioni e sofferenze che […] affrontò con forza e serenità […]. Professore di Lettere, di Filosofia e di Diritto, […] fu amato e venerato dai discepoli che ne esaltarono l’ingegno e la cultura».

Fonti e bibliografia
Archivio Centrale dello Stato, Confino Politico, b. 229, ad nomen e Casellario Politico Centrale, b. 1219, ad nomen. Archivio di Stato di Napoli, Schedario Politico, Sovversivi deceduti, b. 16, ad nomen. Ivi, Gabinetto di  Prefettura, II Versamento, b. 588, f. «IV-7-2-198- 1944-45», sf. «Torre Annunziata. Camera del Lavoro»; Anteo Roccia, (pseudonimo di Antonio Cecchi), L’attività del gruppo Spartaco contro il fascismo e la guerra durante il periodo mussoliniano e fino all’armistizio, «Il Pensiero Marxista», Bari, 2-7-1944; Rocco D’Ambra, dattiloscritto senza titolo conservato in ANPI Napoli, b. 2, f. «D’Ambra Rocco»; Raffaele Colapietra, Napoli tra dopoguerra e fascismo, Feltrinelli, Milano, 1962; Pasquale Schiano, La Resistenza nel Napoletano, C.E.S.P., Napoli, Foggia-Bari, 1965;  Nicola De Janni, Operai e industriali a Napoli tra Grande guerra e crisi mondiale: 1915-1929, Librairie Droz, Ginevra, 1984, passim; Norman Lewis,Napoli ’44, Adelphi, Milano, 1998; Rosa Spadafora, Il Popolo al confino. La persecuzione fascista in Campania, I, Athena, Napoli, 1989, p. 130; Alexander Höbel, L’antifascismo operaio e popolare napoletano negli anni Trenta. Dissenso diffuso e strutture organizzate, in Gloria Chianese, Fascismo e lavoro a Napoli. Sindacato Corporativo e Antifascismo popolare, Ediesse, Roma, 2006, Francesco Giliani, Fedeli alla classe. La CGL tra occupazione alleata del Sud e “svolta di Salerno” (1943-45), produzione propria, 2013; Giuseppe Aragno, Le Quattro Giornate di Napoli. Storie di antifascisti, Intra Moenia, Napoli, 2017; Raffaele Scala, Antonio Cecchi, Storia di un rivoluzionario.

«Nuovo Monitore Napoletano», 21-06-2019.

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Leggo da più parti che un governo Draghi potrebbe aiutarci se non altro a liberarci di una menzogna che da tempo va per la maggiore: la destra «antisistema» e  «sociale», quella in qualche modo più vicina alla povera gente, è solo una volgare bugia.  Io sarei più prudente e proverei ad andare più a fondo, per capire.  
Si dice spesso che Mussolini si sarebbe affermato per il timore di una minaccia rossa. Fu davvero così? Ci sarebbe di che riflettere, anche per provare a capire meglio il presente. Certo, il fascismo fu l’arma del Capitale locale, che lo utilizzò, però, quando si vide costretto a difendere i giganteschi profitti di guerra e dovette dare risposta a un problema – quello sì minaccioso – sui costi della guerra. A chi toccava pagarli? I padroni avevano di fronte un proletariato forte e organizzato e un governo Giolitti che nel 1913 aveva esiliato il Presidente di Confindustria, tutt’altro che disposto a sostenere fino in fondo le richieste dei padroni. Un governo che rifiutò di usare l’esercito per restituire ai padroni le fabbriche occupate. Certo, le cose poi cambiano, e lo Stato sta con i fascisti, ma a rifletterci con attenzione e senza pregiudizi, alla fine non è il pericolo della rivoluzione, ma la minaccia rivoluzionaria campata per aria a far spazio al fascismo, dividere pericolosamente la sinistra e a decidere la partita.
Il fascismo, che mette insieme i cocci di una sinistra sconfitta anche e soprattutto per la sua incapacità di «leggere» la crisi, fa presa su masse sbandate grazie anche alla sua capacità di dare una speranza ai disperati. L’anima sociale della destra, sia pure ingessata nella gabbia corporativa, è un forte strumento nella crescita del consenso. Piaccia o no, il fascismo costituisce per anni un «modello» che prova ad affermarsi nel mondo e in parte ci riesce, costituendo i «Comitati per l’Universalità di Roma», che avranno una loro funzione, finché non saranno superati dal prevalere del nazismo, che, tuttavia, inizialmente si ispirò apertamente al fascismo.
Non è un caso se nel 1936 (cito a memoria e posso sbagliare l’anno, ma siamo lì) quando l’esercito italiano giunge ad Addis Abeba, il Pci scrive un manifesto intitolato «Per la salvezza dell’Italia. Riconciliazione del popolo italiano», firmato col proprio nome da tutti i dirigenti del partito sparsi per il mondo, da Mosca agli USA a Parigi a quelli in carcere o al confino, molti dei quali non avevano alcuna possibilità di firmarlo. Quel documento, passato alla storia come «Appello ai fratelli in camicia nera», giunge a vedere nel «programma fascista del 1919» la base comune per una unità di azione tra fascisti e antifascisti contro industriali, finanziari e agrari, che ricavavano profitto dalla nascita dell’«Impero». Importa poco se Togliatti, che poi definì l’appello una «coglioneria», sapesse o non sapesse. Come affermò Paglietta, il partito nel suo insieme «mirava alla riconquista dell’elemento nazionale alla lotta operaia e rivoluzionaria». L’appello dimostra che gli operai erano lontani dal partito e attratti dall’anima sociale del fascismo, che era sistema ma si presentava come antisistema.
Con il passare degli anni, la destra – anche quella di età repubblicana – più che nei panni dell’antisistema, si è presentata come sistema alternativo. Oggi perciò quello che occorre davvero, se si parla di destre che aderiscono all’eventuale governo Draghi, è provare a capire se e come le vicende che stiamo vivendo si inseriscono in questo antico progetto. In quanto al voto «utile», certamente ha avuto e potrà avere una sua funzione, ma tutto sembra dirci che ormai – quando non è minaccia per «peones» e partitini – il voto tende a trasformarsi nella «foglia di fico» che copre l’agonia della democrazia.  

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renzi-dittatorePace all’anima sua, per consentirci di votare, c’è stato che si è fatto ammazzare.
Per onorare e ringraziare i nonni combattenti, milioni di italioti hanno deciso poi di non votare, tanto non serve e sono tutti uguali.
L’anno scorso qualche meridionale, bisognoso di cure urgenti, a votare c’è andato, ma ha scelto una banda di mariuoli padani che gli sputavano e gli sputano in faccia mattino pomeriggio e sera.
Gli ultimi arrivati, fanatici di un comico genovese, si sono mescolati a genialoidi disertori della fu sinistra e hanno votato per dispetto, a scatola chiusa; sono stati però così zelanti, che quando il comico ha candidato cani, gatti e scimpanzé, non ci hanno pensato due volte e hanno trasformato l’aula sorda e grigia in un autentico giardino zoologico.
In quanto all’immancabile pattuglione dei sadomasochisti, decisi a farsi e a far del male, chissà, forse per soddisfare inconfessabili pruriti sessuali, hanno scelto il partito del pupo toscano.
Cessata l’orgia, ora trovi ovunque elettori disperati che si battono il petto e si strappano i capelli, urlando terrorizzati: “stavolta torna Mussolini!”.
A parte il fatto che, se mai c’è stato, un Mussolini buono a governare oggi non lo si trova in giro nemmeno a peso d’oro, tutto quello che c’è, se ti vuoi arrangiare è la versione molto economica e commerciale rappresentata da Matteo Salvini, un guitto che non ha il fisico del ruolo e alla prova dei fatti ha già fallito. Diciamocelo francamente: si può stare tranquilli. Anche se ci fosse, un dittatore vero, serio, capace e dignitoso, si vergognerebbe di governarci, perciò, qualunque scemo arrivi, zitti e mosca: ci meritiamo il peggio.

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downloadNel 1926 non poteva certo saperlo, ma dopo aver fatto approvare le sue “leggi fascistissime”, Mussolini s’era già messo irrimediabilmente sulla strada che lo avrebbe condotto a piazzale Loreto.
Certo, non saranno rose e fiori, ma c’è qualcosa di nuovo oggi nell’aria, anche se appare cupa come non mai. E’ che a poco a poco nelle coscienze più avvertite si fa largo una consapevolezza che orienta l’ago delle bussola e indica la rotta.
Quando il potere definisce sicurezza l’omicidio premeditato delle regole che si è dato e sulle quali ha liberamente giurato, ladri, corrotti e prepotenti esultano festosi. La gente onesta no. La gente onesta si sente invece molto più insicura e minacciata, ma proprio per questo comincia ad avvertire chiaro il bisogno di difendersi. Un bisogno che prima o poi diventerà resistenza.
E’ legge della storia: contro la sicurezza promessa da governi liberticidi i popoli ritrovano la loro antica sapienza e una dignità che non è possibile piegare, quanti che siano i gendarmi tracotanti, le leggi inique e le violenze “legali”.

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Quali rischi corra il Paese con questo Governo lo sapevamo, ma in tutta sincerità non pensavamo che la conferma potesse giungere così presto. Le dichiarazioni rilasciate al “Corriere della Sera”  dal neo ministro della famiglia Lorenzo Fontana sulle “famiglie arcobaleno” e aborto sono inaccettabili, rivelatrici e preoccupanti. Per la prima volta nella storia della Repubblica, infatti, un governo prende una posizione così oscurantista su temi dai quali si misura il grado di civiltà del Paese.

Noi non sappiamo in quale realtà viva Fontana, ma non abbiamo dubbi: non è quella di un Paese civile. Ci chiediamo perciò – e chiediamo a Fontana – come faccia un Ministro della Repubblica a ignorare che il mondo Lgbt esiste e che esistono i figli delle coppie che a quel mondo appartengono. Essi sono parte integrante della nostra società, sia per la qualità dei rapporti umani che intrattengono nelle scuole con i loro coetanei, sia sul piano giuridico, come attestano le sentenze della Corte Costituzionale e della Cassazione.

Le dichiarazioni del Ministro non sono solo un segnale di profonda barbarie, ma appena 24 ore dopo la nascita del Governo Conte ci riconducono  agli anni bui del ventennio fascista, quando Mussolini tentò di negare al mondo Lgbt e ai loro amori persino il diritto di esistere.

demA, esprimendo la sua piena vicinanza umana e politica a quanti sono colpiti dalle gravi parole di Fontana, il quale dovrebbe ricordarsi di essere Ministro di tutti gli italiani e di tutte le italiane, e di aver giurato da poche ore sulla Costituzione antifascista per la quale tutti i cittadini e tutte le cittadine sono uguali nei loro diritti e nei loro doveri. demA è consapevole che questo primo segnale dimostra che il Governo appena nato potrebbe costituire una minaccia per tutti i diritti civili del nostro Paese e chiede pertanto a tutti i Parlamentari, che si rivedono nei valori della nostra Carta Costituzionale,  di bloccare immediatamente le profondissime derive razziste, misogine e omotransfobiche di alcuni neo Ministri della Repubblica. demA, pertanto, è pronta a costruire un fronte democratico e laico nel Paese in difesa dei tanti diritti civili che rischiano di essere messi fortemente in discussione da pericolosissime spinte ideologiche reazionarie”.

Coordinamento demA

 
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