Feeds:
Articoli
Commenti

Archive for agosto 2021

L’Italia «imperiale» del 1939 ha il volto del capitalismo straccione di retroguardia: è cinica, cieca e degenerata; l’odio razziale cui ha aperto la via non è un’imitazione del razzismo nazista, ai quali gli insegna che si tratta di una affermazione di superiorità realizzabile solo con la «sparizione completa di […] un nemico che si deve odiare e combattere senza quartiere»[i]. All’ordine del giorno c’è il delirio del «goliardo dalmato oppresso» che, minaccia:

«Io ringhio e il ringhiare mio non avrà fine se non quando la nostra lama avrà inchiodato nel granito adamantino delle mura di Spalato romana i profanatori dei nostri focolari, i bestemmiatori del nome sacro d’Italia»[ii].

Nelle strade complici e indifferenti manifesti ignobili mettono accomuna nel disprezzo «il nero, l’ebreo e il comunista» e Visco, Pende e Cipriani, esempi di morale e di scienza fascista, fingono di vedere in genti dai mille semi campioni ariani, purissimi e guerrieri[iii]. Pronto al cimento, nei popolari disegni di Beltrame e sulle colonne della «Domenica del Corriere», il legionario fascista, nato «corsaro e distruttor di navi», è ormai il dannunziano «protagonista di folgoranti imprese» e l’invincibile eroe che «osa l’inosato». E’ l’ora del «milite glorioso». In Aragona e Catalogna, «le avanguardie della divisione Littorio» non mancano mai d’un «arditissimo sottotenente» che si impadronisce “di un autocarro carico di dinamite, sventolando il tricolore» e insegue il nemico fatalmente «in rotta»[iv].
Quale sia stata poi la sorte degli immancabili ufficiali, la «Domenica del Corriere» e Beltrame non dicono e poco se n’è parlato in seguito, quando di quel tempo s’è intuita la vergogna. In realtà, gli eroi di tutte le guerre hanno la vita breve d’un istante di gloria sanguinosa e li ricorda il marmo d’una piazza indifferente. L’eroismo dell’Italia «imperiale» del ‘39, come accadrà per quella che oggi esporta la pace a colpi di cannone, non si legge nei disegni del «Corriere» di turno o sui cippi dei caduti. Occorre cercarla nelle pieghe oscure d’una verità che nessuno racconta: la sorte dell’eroe sopravvissuto. Si scopre così quanto passato vive ancora nel nostro presente che, non a caso, è il passato dei nostri figli.

———-

«Sopracciglia grigie, baffi brizzolati, […] statura alta, corporatura media […], viso poligonale»… In una nota informativa asciutta fino allo schematismo e per molti versi gelida, Pasquale Ilaria, ormai cinquantenne, mostra sul volto «bruno e rugoso» la trama delle «cicatrici alla regione sopraccigliare sinistra, conseguenti a ferite di pallottole di shrapnel». Sono segni evidenti del comportamento eroico nell’inferno delle trincee e, ad un tempo, il debito che la patria ha contratto con un figlio valoroso negli anni lontani della giovinezza[v].
Geometra di Caposele, «ex capitano del Regio Esercito, volontario della guerra libica ed invalido di guerra nella conflagrazione del 1915-1918, decorato al valor militare», l’Ilaria è sopravvissuto al suo eroismo e, come accade assai spesso ai reduci, tornato in abiti borghesi, non si fida più molto dei «capi», discute gli ordini e giunge a disobbedire. Ilaria non ama il fascismo e diffida del suo tentativo di costruire sulla «Grande guerra» il mito di un eroismo che supera se stesso, che è

«qualcosa di più: é una milizia, é una religione, una passione che infiamma tutti i giovani generosi italiani e con i giovani gli adolescenti ed i vecchi che non si sentono tali e che hanno raccolta la face viva riaccesa dei morti della grande guerra»[vi].

Ilaria, che non si riconosce in questo «eroismo», si defila, «chiamandosi fuori» ed «esce» dal mito. C’è, in questo suo comportamento, un rifiuto istintivo, ma non del tutto inconsapevole, della funzione omologante assegnata a un eroismo «mummificato» dagli stereotipi di una società gerarchizzata. Contro questa società, scriverà anni dopo, egli si schiera quasi naturalmente, «per amor di verità, di moralità, di legalità, cioè di ordine, e per carità di patria»[vii].
Per il regime di Mussolini Ilaria è inizialmente un enigma. Uomo d’ordine per sua stessa ammissione, ma incompatibile con l’ordine fascista fondato sull’etica del manganello, il capitano che, nell’orrore del fronte, ha imparato a conoscere e rispettare l’umanità, il coraggio e la sofferenza della povera gente mandata al macello, pensa a un Paese che, senza rinunciare alla tutela della proprietà e della gerarchia, ritenga sacri i diritti civili e la dignità dell’uomo. Un uomo così, uno che non ha un partito, non è un attivista e non si propone di fare carriera politica, potrebbe apparire tutto sommato innocuo – e in fondo lo è – ma il fascismo diffida e sente di doverlo temere. Il fatto è che, senza nemmeno volerlo, semplicemente per ciò che rappresenta con la sua storia e la sua posizione sociale, l’ex ufficiale e le sue convinzioni costituiscono di fatto, per l’ordine in camicia nera, una sfida insidiosa e per certi versi intollerabile. E non si tratta solo, come potrebbe apparire, del fatto che l’uomo si colloca a destra, in un terreno politico che il regime tende per sua natura a monopolizzare. C’è dell’altro. Così com’è, vestita dei panni di un soldato valoroso, la sua idea di patria, lontana e sostanzialmente diversa da quella fascista, potrebbe trovare facilmente consensi tra ceti sociali che concorrono a formare la base di consenso del regime. In questo senso, essa non solo è alternativa ma, a ben vedere, costituisce una sorta di anomalia, una vera e propria «diversità» e, in quanto tale, fatalmente «sovversiva».
Com’è naturale, la replica è dura e immediata. Subito dopo le leggi «fascistissime», infatti, ai primi del 1927, il regime, che pure s’atteggia a patrono di invalidi e combattenti, getta la maschera e inserisce l’ufficiale decorato tra i sovversivi pericolosi da arrestare in determinate occasioni. L’inevitabile conflitto è subito duro e così difficile da gestire, che le autorità di pubblica sicurezza ricorrono subito alle maniere forti. Nel 1928, quando Ilaria è sorpreso a distribuire volantini ostili al regime, giunge implacabile la denuncia all’Autorità Giudiziaria, cui fanno da contorno la sorveglianza asfissiante, la schedatura e la minaccia di un rapido ricorso alla legge contro i «sovversivi».
Il coraggio della trincea non sempre basta ad affrontare, in tempo di pace, la guerra della vita e Ilaria, spalle al muro, cede e finisce col chiudersi in un silenzio sprezzante, ma inoffensivo. Con la resa umiliante, la vicenda sembra esaurire definitivamente la protesta antifascista dell’ex capitano del genio, ma le cose, in realtà, non stanno così. Nel 1939 Mussolini sente che l’alleanza con Hitler e l’antisemitismo inquietano piccoli e medi borghesi come Ilaria. Da anni il regime va avanti senza una filosofia della politica; tutto trasuda retorica e dietro le formule di rito e il dinamismo pseudo futurista dei gerarchi, fanno capolino una preoccupante frattura con la cultura, le tradizioni e le abitudini dei ceti popolari e un vuoto di valori coperto a stento dagli slogan d’una incessante propaganda. Mentre l’anticapitalismo di facciata non può nascondere la corruzione e i cedimenti agli interessi della borghesia capitalista, Mussolini sente che il fascismo non fa più presa; l’alleanza con Hitler e gli eccessi dell’antisemitismo inquietano la piccola e media borghesia da cui proviene Ilaria ma, invece di provare a capire, inasprisce la polemica ideologica, aggiungendo al danno la beffa. Ilaria e quanti come lui manifestano resistenze che sembrano condurre a principi di democratizzia, sono investiti così dalla strumentale «polemica antiborghese» del duce, in cui trovano spazio Rossoni, Olivetti, Malusardi, Chilanti, Orano, De Ambris, esponenti della cosiddetta «sinistra fascista», gente passata per lo più dalla militanza nelle organizzazioni o nella stampa socialista e anarchica alle strutture politiche e sindacali del regime, che trova ovviamente comodo attaccare il «vecchio fascismo»[viii].
E’ l’ora dei «poderosi cazzotti nello stomaco della borghesia italiana», del trionfo delle chiacchiere e dei formalismi, mentre gli eventi corrono veloci e sempre più incontrollabili. «Chi si ferma è perduto», recita uno slogan, che annuncia la disperazione di chi corre senza avere una meta, e il vuoto si riempie di vuoto: il passo romano di parata, l’abolizione del lei, l’uniforme per gli impiegati civili e la militarizzazione della società. «Dobbiamo liberarci della borghesia» urla il duce di fronte al naufragio dell’anima sindacale del corporativismo, ma intuisce che un filo si spezza, che gli Ilaria si moltiplicano e si volge tardivamente ai «ceti proletari». Dopo aver negato i più elementari diritti e cancellato ogni autonomia delle masse lavoratrici, c’è chi, nel regime, orchestra una strumentale babele socialistoide per accreditare un «nuovo fascismo», che di fatto ignora i bisogni veri delle classi subalterne, ma dichiara genericamente di voler porre i ceti proletari sullo stesso livello delle classi padronali[ix]. In un crescendo di menzogne che non conquistano l’operaio e disgustano sempre più i borghesi come Ilaria, al mito del soldato, prudentemente «ingessato» negli anni Venti, si affianca ora quello di lavoratori sempre più piegati ai voleri dei padroni, per i quali, promette la «sinistra», il regime prepara un futuro in cui non saranno più «merce».
Nella primavera del 1939, l’approvazione del testo unico sulle acque – e le occasioni di speculazioni più o meno lecite che la legge offre a chi è pronto a profittarne – pongono l’Ilaria di fronte all’arroganza del potere fascista[x]. L’occasione dello scontro è la cessione di alcune sorgenti del Sele all’Ente Acquedotto Pugliese da parte dell’amministrazione comunale di Caposele, coperta dalla nuova legge. Per tutelare l’antico «uso civico» delle acque da quella che si profila come una vera e propria «privatizzazione ante litteram» di un bene comune, con tutto quanto queste operazioni possono comportare in termini di torbidi interessi e rischi ambientali, Ilaria stavolta non fa calcoli, rompe il lungo silenzio e senza badare ai rischi di un’aperta contestazione prende una posizione dura e coraggiosa, che coinvolge senza fatica la popolazione del piccolo centro. Margini di mediazione però non ce ne sono e, a meno di non volersi tirare nuovamente indietro, la rottura con l’amministrazione fascista è inevitabile. Quando Ilaria prende a incontrare popolani e li organizza, gli eventi precipitano rapidamente e l’ex ufficiale finisce col trovarsi alla testa di una manifestazione pubblica che assume per il regime i connotati di una vera e propria rivolta. La misura è colma[xi].
Arrestato il 19 giugno del 1939 «per avere sobillato la popolazione di Caposele ad inscenare una dimostrazione ostile all’Amministrazione comunale», il 30 giugno l’ex ufficiale finisce davanti alla Commissione Provinciale per i provvedimenti di polizia. Una formalità che non può riservare sorprese e non lascia speranze. La Commissione, infatti, “esaminati gli atti annessi alla denunzia ed i precedenti morali e penali […], ritenuto […] che lo Ilaria Pasquale è individuo pericoloso alla sicurezza pubblica e all’ordine nazionale”, lo assegna “al confino di polizia per un periodo di anni cinque”[xii].
Come a voler riscattare il lungo e probabilmente doloroso decennio di silenzi e di sostanziale rinuncia a lottare, l’Ilaria contesta la decisione in un dettagliato ricorso, in cui denuncia il clima di illegalità che ha caratterizzato la vicenda, la violazione dei suoi diritti di imputato e soprattutto «gli atti di violenza che avevano preceduto, accompagnato e seguito la sentenza della Commissione». Tremiti, dove il regime lo seppellisce, riesce inizialmente ad atterrirlo e per sfuggire alla pena, l’uomo si affida al suo passato di soldato, presentando una domanda di arruolamento, che non viene nemmeno presa in considerazione[xiii]. La condanna al confino e il successivo rifiuto di sperimentare la via di un onorevole compromesso, accettando un ritorno alla vita militare, segnano l’inevitabile epilogo d’una vicenda che va ben oltre la questione dell’ordine pubblico e il caso personale dell’Ilaria.
Accecato dal delirio di onnipotenza del suo «duce», il regime non coglie il senso profondo e per molti versi emblematico della rottura irrimediabile che si va consumando. Eppure alla vigilia di un cimento militare decisivo per le sorti del fascismo, non sarebbe difficile capire che l’opposizione aperta dell’ex ufficiale, un eroe di guerra decorato al valor militare, capace di mettere assieme contro il regime artigiani e contadini, senza aver nulla a che spartire coi temi del dissenso «rosso», è in realtà la spia d’un malessere profondo, dal quale nasce – ed è destinato ad assumere una preoccupante consistenza – un antifascismo collocato nel campo moderato, monarchico e cattolico: l’antifascismo degli «uomini d’ordine», dell’amor patrio e del senso dello Stato, la cui coscienza morale e giuridica è sempre più incompatibile con quanto sopravvive del mondo liberale, col disprezzo delle fondamentali libertà civili, col dichiarato «razzismo» e con una politica estera di isolamento, che lega il Paese alle sorti della Germania nazista. E’ una crepa ben più profonda di quanto possa apparire, che ha radici lontane e, nel momento della crisi del regime e del tradimento dei Savoia, produrrà una «resistenza di destra», minoritaria, ma non per questo priva di un suo peso specifico nelle vicende che condurranno alla nascita della repubblica[xiv].
Certo, nello scontro col regime Ilaria esce momentaneamente sconfitto. A ben vedere, però, il suo caso diventa una testimonianza emblematica del lento ma inesorabile distacco del fascismo dalla sensibilità politica e dai principi morali di una borghesia cattolica che sa parlare alla gente e, dopo anni di consenso ambiguo e precario, matura un dissenso che, se si manifesta pubblicamente in maniera solo sporadica, preannuncia, tuttavia, l’isolamento e la crisi del regime, incapace di sopravvivere alle conseguenze della tragica avventura bellica.
Il 27 ottobre 1939, pochi giorni prima che la Commissione d’appello rigetti il suo ricorso, l’Ilaria invia «a S. M. Vittorio Emanuele Terzo, Re d’Italia e d’Albania ed Imperatore d’Etiopia» una breve lettera, in cui supplica il sovrano

«di convertire l’arbitraria e provocatoria tortura del suo confino con la pena, più umana e più vantaggiosa per l’erario, della fucilazione che egli dichiara di preferire»[xv].

Da Tremiti, intanto, superato l’iniziale avvilimento, l’ex ufficiale invia a Roma un esposto durissimo ed esprime come può la sua crescente distanza dal fascismo, rivolgendo continue critiche ai rappresentanti di quelle autorità verso le quali – scrive con lucido puntiglio – «nell’attuale periodo di emergenza della nazione», non può nutrire «per principio e per convinzione […] il massimo rispetto»[xvi]. L’occasione per un giudizio definitivo e irrevocabile sul regime giunge nell’autunno del 1941, quando l’Ilaria rifiuta una «sanatoria» offerta in cambio di un gesto di sottomissione e, dopo aver brevemente accennato al suo passato di soldato che, puntualizza, «è costretto a mettere in evidenza in sua legittima difesa contro l’accusa di antinazionalità», ricorda a Mussolini che gli uomini veri riconoscono un solo padrone: la coscienza. Essa, prosegue,

«sua tiranna e sua consigliera implacabile, non gli ha mai permesso che il desiderio di liberazione dal tormentoso confino prevalesse sul dovere e sulla dignità di modesto patriota legalitario, cristiano, qual egli, con gravi sacrifizi, ha cercato di essere».

Se l’idea fascista di patria, conclude lucidamente l’Ilaria, produce un regime che perseguita ingiustamente un patriota e tenta di corromperne la coscienza, quella non è, non può essere la

«Nazione alle cui fortune anch’egli, modestamente, con la sua opera e il suo sangue, seguendo l’esempio dei Maggiori, ha cercato di dare il suo contributo disinteressatamente».
Alla patria per cui ha combattuto, un soldato può domandare «giustizia, non clemenza […], giustizia formale ed effettiva che «non può non attendere con serena fiducia».
Si consuma così, col richiamo a una giustizia che certamente verrà, sia pure a conclusione d’una tragedia, il divorzio del regime da quei patrioti che ha esaltato e tradito; e non ci sono dubbi, si può riconoscerlo onestamente: qui muore davvero la patria fascista. Prima, molto prima della sconfitta militare e dell’armistizio[xvii]. Una morte per cui non occorre autopsia: il regime affonda nel fango prodotto in vent’anni. Quei vent’anni in cui la vita di Ilaria e dei suoi mille sconosciuti compagni di lotta assume quasi il valore una risposta al pessimismo di Gobetti: il fascismo, ci dice la storia del geometra, non fu l’autobiografia di un popolo[xviii].


 

Note

[i]  Ruggero Timeus, Trieste, Gaetano Garzoni Provenzali, Roma, 1914, pag. 9.

[ii] Giuseppe Aragno, Dall’irredentismo al fascismo, in Idem (a cura di), Fascismo e foibe. Ideologia e pratica della violenza nei Balcani, presentazione di Spartaco Capogreco, La Città del Sole, Napoli, 2008.

[iii] Sabato Visco, Nicola Pende e Lidio Cipriani, docenti universitari, firmarono coi colleghi Leone Franzi, Lino Businco, Arturo Donaggio, Guido Landra, Marcello Ricci, Edoardo Zavattari e Franco Savorgnan, il Manifesto degli scienziati razzisti. Nato sotto l’egida del Ministero della Cultura Popolare e intitolato Il Fascismo e i problemi della razza, il Manifesto uscì il 15 luglio 1938 sul «Giornale d’Italia» firmato da un non meglio identificato «gruppo di studiosi fascisti, docenti nelle università italiane»; il 5 agosto 1938, però, fu pubblicato di nuovo dalla rivista «La difesa della razza» che rendeva note le firme degli autori. Per quel che riguarda la «classificazione» delle razze, esistevano due riepiloghi parziali, che non riguardavano gli ebrei, elaborati dalla Direzione generale demografia e razza, istituita da Mussolini presso il ministero dell’Interno, di cui era titolare. Un elenco dell’estate 1938 definiva non ariani arabo-berberi, armeni, indiani, mongoli, negri, palestinesi, turchi e yemeniti. Nel 1939 una circolare, che vietava i matrimoni misti, aggiungeva all’elenco cinesi, libanesi e meticci e definiva ariani gli albanesi cristiani o musulmani, gli armeni, gli indiani e gli iraniani; per gli egiziani permanevano ridicole incertezze, dovute soprattutto a considerazioni geo-politiche, che rivelano la sostanza criminale dei provvedimenti.

[iv] Eroismo italiano in Catalogna, «Domenica del Corriere», 17-4-1938.

[v] ACS, Confino, b. 531, f. “Ilaria Pasquale”, giugno 1939, foto segnaletiche e connotati.

[vi] Benito Mussolini, Scritti e discorsi, Hoepli, Milano, 1934, II, pp. 207-08

[vii] ACS, Confino, b. 531, f. “Ilaria…, cit., lettera del 19-10-1941, cit.

[viii] Edgardo Sulis (a cura di), Processo alla borghesia, Edizioni Roma, Roma, 1939. A certificare le origini socialiste e anarco-sindacaliste di alcuni di questi fascisti, c’è l’eloquente testimonianza dei fascicoli personali della polizia politica che non furono mai distrutti. Si vedano in proposito ACS, CPC, b. 1304, f. «Felice Chilanti»; b. 1633, f. «Amilcare De Ambris»; b. 1803, f. «Ottavio Dinale»; b. 2964, f. «Edoardo Malusardi»; b. 3586, f. «Angiolo Oliviero Olivetti»; b. 3597, f. «Paolo Orano» e b. 4466, f. «Edmondo Rossoni». Su Malusardi c’è ora la bella biografia di Alessandro Luparini nel Dizionario Biografico degli anarchici italiani, diretto da Maurizio Antonioli, Giampietro Berti, Santi Fedele e Pasquale Iuso, Biblioteca Serantini, Pisa, 2004, II, pp. 69-70.

[ix] Felice Chilanti, Ettore Soave, Dominare i prezzi e superare il salario, Il lavoro fascista, Roma, 1938. Edgardo Sulis, Rivoluzione ideale, Vallecchi, Firenze, 1939.

[x] La legge sulle acque è la 1497 del 29 giugno 1939.

[xi] Riportato da Enzo Santarelli, Storia del fascismo, Editori Riuniti, Roma, 1973 (II ediz.), III, pp. 113-115. Sul tema si veda anche Renzo De Felice, Mussolini il duce. Lo Stato totalitario 1936-1940, Einaudi, Torino, 1996, p.100-101.

[xii] ACS, Confino, b. 531, f. “Ilaria…, cit. Verbale della Commissione provinciale del 30 giugno 1939 e nota senza n . del 14-6-1929 da Questore a Prefetto.

[xiii] Ibidem, ricorso alla Commissione d’appello presso il Ministero dell’Interno e domanda di arruolamento dell’agosto 1939.

[xiv] Sull’antifascismo di destra si veda Giuseppe Aragno, Antifascismo popolare. I volti e le storie, Manifestolibri, Roma, 2009.

[xv] Il ricorso fu ufficialmente respinto il 7-11-1939.

[xvi] Esposto al Ministero dell’Interno del 15-10-1941.

[xvii] La lettura dell’8 settembre come «morte della patria», è di Ernesto Galli della Loggia, La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Laterza, Roma-Bari, 1996. Su questa sorta di «teorema» revisionista, val la pena di leggere l’ineccepibile riflessione di Gaetano Arfè, che ha osservato: «Chi vede in quella data la morte della patria e ne nega la resurrezione non è interprete di storia, è strumento di una offensiva ideologica che ha la Costituzione come bersaglio, nei valori cui essa si ispira, nei principii che essa afferma, nell’ethos politico che la pervade». Gaetano Arfè, Dall’8 settembre rinasce la patria, «Lettere ai Compagni», a. XXXII, n. 4, settembre 2002, ora in Idem, Scritti di storia e politica, a cura di Giuseppe Aragno, La Città del Sole, Napoli, 351-355.
Ilaria, trasferito da Tremiti ad Avigliano, in provincia di Potenza, fu liberato il 31 agosto 1943, dopo la caduta del fascismo. La ferma e coraggiosa resistenza opposta al regime in più di quattro anni di confino gli costò trenta giorni di consegna e tre mesi di carcere. In memoria della sua battaglia a difesa dell’ambiente esiste oggi un’associazione ambientalista che porta il suo nome e si è costituita come comitato di difesa del territorio di Caposele del suo fiume e delle sue sorgenti.

[xviii] Piero Gobetti, Elogio della ghigliottina, «La rivoluzione liberale», n. 34/1922.

classifiche

Read Full Post »


Vi chiederete perché, parlando di elezioni amministrative, tiri fuori l’articolo 116 della Costituzione che riguarda le regioni e la loro autonomia. Un po’ di pazienza e mi direte poi se sono fuori tema.
Prima della sciagurata riforma del Titolo V, voluta da Massimo D’Alema, in tema di potere delle Regioni, la Costituzione era chiarissima: «Alla Sicilia, alla Sardegna, al Trentino-Alto Adige, al Friuli-Venezia Giulia e alla Valle d’Aosta sono attribuite forme e condizioni particolari di autonomia, secondo statuti speciali adottati con leggi costituzionali». L’on. Meuccio Ruini, antifascista, perseguitato politico e padre Costituente, nella  sua relazione al progetto, aveva spiegato la scelta, precisando che «la Regione non sorge federalisticamente. Anche quando adotta con una legge lo statuto di una Regione, lo Stato fa atto di propria sovranità». Pur non potendo sapere che alcuni decenni dopo ci saremmo trovati di fronte alle folli richieste leghiste, Meucci e i padri Costituenti pensavano di porre così un argine a ogni egoismo locale e all’avventurismo di gente come Salvini e i suoi camerati leghisti.
Contro questa impostazione storicamente fondata nelle radici di un Paese ridotto a «una espressione geografica» dalla lunga vicenda degli Stati regionali, lo sguardo corto di D’Alema e degli uomini che oggi formano il PD, modificarono l’articolo 116, sicché oggi la legge ordinaria può attribuire alle regioni «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia». Unico limite – di fatto formale – un’intesa fra lo Stato e la regione interessata. Com’era prevedibile, quando la bibbia neoliberista ha scatenato una dietro l’altra le crisi disgreganti che attraversiamo, per fare pressioni sullo Stato, alcune delle Regioni che, dall’Unità a oggi, più hanno preso e meno hanno dato a un processo di armonico sviluppo sociale ed economico della Repubblica, hanno assunto iniziative che fanno a pugni con lo spirito Costituente chiarito da Ruini all’alba della nostra storia repubblicana.  
E qui il legame tra la cosiddetta «autonomia differenziata» e le imminenti elezioni amministrative di Napoli diventa chiaro. Tranne la Clemente, che ha apertamente dichiarato la sua totale avversità a questo scellerato cambiamento, i candidati che chiedono un voto perché «amano Napoli» provengono tutti da partiti o aree politiche che sono invece favorevoli. Promettono di dare un futuro alla città, ma sanno che chi li presenta e li sostiene non glielo consentirà.
Prendete Maresca, a parole tutto cuore e passione napoletana, nei fatti sostenuto dalla Lega di Matteo Salvini e Luca Zaia presidente della Regione Veneto, così interessato alla sorte dei napoletani, del Sud e in generale dell’Italia, che nel 2014 ha addirittura tentato di indire un referendum dichiarato illegittimo dalla Consulta. Di che si trattava? dell’indipendenza del Veneto. E’ inutile tornare a leggere. Non avete sbagliato. L’amante di Napoli, ci ha riprovato nel 2017, quando ha chiesto ai veneti di votare sì o no a un nuovo referendum, rivelatore dei rapporti che i ricchi autonomisti intendono instaurare con i poveri napoletani: il Veneto vuole tenere per sé una percentuale non inferiore all’ottanta per cento dei tributi pagati annualmente dai suoi cittadini all’amministrazione centrale in modo che venga utilizzata nel territorio regionale in termini di beni e servizi; vuole che la Regione mantenga almeno l’ottanta per cento dei tributi riscossi nel territorio regionale e, «dulcis in fundo», pretende che il gettito derivante dalle fonti di finanziamento della Regione non sia soggetto a vincoli di destinazione.
Lo Stato immaginato dagli amici di Maresca, quindi, non può e non deve attuare il principio costituzionale che consente di destinare alle autonomie territoriali risorse aggiuntive per promuovere lo sviluppo economico e a fini di coesione e solidarietà sociale. Gli squilibri economici e sociali? L’esercizio concreto dei diritti della persona? La formazione? La salute? Il Veneto e la Lombardia, che l’ha seguito a ruota, se ne infischiano. Gli amici e sostenitori di Maresca con la loro « autonomia differenziata » sono una dichiarazione di guerra a Napoli e al Sud.
Si può sperare sul rettore ed ex ministro Gaetano Manfredi? Purtroppo no. Il PD di Manfredi è d’accordo con la Lega di Salvini e il referendum non l’ha nemmeno fatto. In Emilia Romagna, infatti, sono stati più spicciativi e l’Assemblea legislativa ha incaricato di avviare il negoziato con il Governo il Presidente della Regione, Stefano Bonaccini, un trasformista passato da Bersani a Renzi, collocabile senza forzature nelle file della destra del PD, il principale responsabile dello sfascio del Paese e del Sud in particolare. Ho dimenticato Bassolino? No. Rientra perfettamente nel gruppo dei distruttori.
Di fronte a questa situazione, le elezioni amministrative non sono mai state così politiche e su questo tema Alessandra Clemente e la sua coalizione hanno la possibilità di fare a pezzi i candidati avversari, chiamandoli a un confronto serrato e ricordando ogni giorno agli elettori la loro funzione di cavalli di Troia, che si presentano in pace, ma sono pronti a massacrare la città.

classifiche

Read Full Post »


Aderisco pienamente convinto alla manifestazione indetta autonomamente dai docenti per il 30 agosto a Roma e sento il bisogno di motivare la mia scelta solidale.
E’ storia antica: quando la crisi della democrazia apre la porta all’autoritarismo, nel laboratorio sperimentale della repressione la scuola diventa immediatamente la provetta più preziosa, quella da cui il potere si aspetta i risultati migliori. Sarà che, per quanto la massacri, come s’è fatto da Berlinguer a Renzi, non puoi cancellare del tutto la sua funzione di fucina del pensiero critico e la sua natura geneticamente «sovversiva»; sarà che annichilire la scuola, per il «migliore» di turno significa poter contare su un popolo di «senzastoria» ridotto a gregge elettorale; sarà quel che sarà, ecco che ci risiamo: fatte le debite proporzioni, l’esperimento repressivo in atto ricorda le pagine più buie della nostra storia, i tempi in cui qualcuno aveva «sempre ragione» e chi non era d’accordo pagava con lo stipendio e il posto di lavoro. Non è previsto ancora il manicomio, perché nei brevi anni di un vichiano «corso positivo» sono stati chiusi. Draghi incarna però il «corso negativo».
Qualcuno dirà che esagero, ma l’obiezione, più che demoralizzarmi, mi spinge a entrare nel dettaglio della mia posizione favorevole agli insegnanti non vaccinati e radicalmente ostile alla scelte vessatorie e illegali del cosiddetto Governo Draghi. Cominciamo da una domanda: vaccinarsi è diventato un obbligo? Quando? Dov’è la legge che lo impone? Esistono circolari, disposizioni con valore di legge, ordini di servizio ignorati? No, non c’è nulla di tutto questo. Ci è stato detto che vaccinarsi è una libera scelta e noi abbiamo liberamente scelto. In democrazia le opinioni hanno pari valore e non è scritto da nessuna parte che io debba essere d’accordo con le vili cretinate di Draghi.
Dirò di più. Mi sono vaccinato due volte con un vaccino che ha diviso il sedicente «mondo scientifico», che l’ha prima bloccato, poi riabilitato e gli ha attribuito miracoli in relazione a un’età che non era mai la stessa. L’ho fatto, accettando di firmare un documento vergognoso, in cui mi assumevo le responsabilità dei guai presenti e futuri che me ne sarebbero derivati. Anche di quelli ignoti che potrebbero capitarmi di qui a qualche anno. Draghi ha pensato così di evitare di risarcire le vittime del vaccino. L’ho fatto perché a parole era in piedi un patto di reciproco rispetto: da un lato la mia libertà di scelta, dall’altro le difficoltà del momento e la collaborazione Istituzioni – cittadini in un momento difficile della nostra storia.
Mettere in campo discriminazioni, lasciapassare, sospensioni di stipendi, licenziamenti e altre scelte vergognose e campate per aria rompe quel patto e il governo diventa così la caricatura di un esecutivo mussoliniano: si muove nell’illegalità, sperpera quattrini in armamenti, se ne infischia della formazione e della salute e poi, consapevole delle sue infinite responsabilità, colpisce non a caso la scuola. Tutti i regimi autoritari partono di là. Invece di colpire gli insegnanti, Draghi e i suoi ministri – faccio fatica a usare queste parole per certa gente – dovrebbero avere il coraggio di dimettersi. Quest’anno, nonostante l’infuriare della pandemia, il signor nessuno, descritto come un padreterno, ha messo in bilancio quasi 25 miliardi di euro per la Difesa, soprattutto per sistemi d’arma. Non è da escludere: geniale com’è, il banchiere che capisce solo di soldi e in tutto il resto è semianalfabeta, pensava forse di far guerra al Covid a colpi di cannone.
Quanto ha speso per la salute? Un miliardo e mezzo, che lascia tutto com’era. E per la formazione? Venticinque volte meno che per le armi. Se non ci fosse da piangere, verrebbe da ridere. Mentre tutto resta com’era – classi pollaio, strutture fatiscenti e giù, giù, persino carenza di carta igienica – che si fa? Si va all’attacco degli insegnanti. Tutti i cialtroni investiti di potere sanno bene che se non intimiditi pesantemente, i docenti spiegheranno agli studenti le ragioni del disastro e indicheranno i nomi di chi l’ha causato.
Un senatore romano consiglierebbe a Draghi moderazione, motivando il suo consiglio con la scienza della politica: «ne cives ad arma ruant». Draghi però non capirebbe. La sua scienza è prigioniera di una tragica ignoranza: quella dei mercanti: Il rischio è perciò concreto: ridotti spalle al muro, i cittadini metteranno mano alle armi in difesa della libertà. I prepotenti non ci credono mai, però succede.
E’ una costante della Storia.

Fuoriregistro, 22 agosto 2021; Agoravox, 26 agosto 2021

classifiche

Read Full Post »

MITI D’OGGI
Marino Niola

QUELLE PAROLE SONO PASSWORD SCADUTE


Ci sono momenti in cui le parole non stanno al loro posto e non riescono più a descrivere quel che veramente ci accade. Questo svuotamento del linguaggio è uno del primi sintomi di una crisi. Sociale, culturale, economica. Come quella che stiamo attraversando. Lo dicono Tiziana Drago ed Enzo Scandurra, classicista l’una e urbanista l’altro, che per Castelvecchi hanno curato un bel  libro con una densa prefazione di Piero Bevilacqua. Il volume, (Contronarrazioni, pp.148, euro17,50), ingaggia una battaglia contro quelle che gli autori definiscono «narrazioni tossiche».
Al loro appello ha risposto una schiera di studiosi, scrittori, analisti economici, da Laura Marchetti a Mario Fiorentini, da Patrizia Ferri a Salvalore Cingari, da Anna Angelucci a Giuseppe Aragno, da Ilaria Agostini a Velio Abati ed altri ancora.
Gli autori del volume, dedicato al compianto Franco Cassano, smontano luoghi comuni del pensiero unico, cominciando dal vocabolario e dalle parole mainstream come “crescita”, “sostenibiltà”, “partecipazione”, “resilienza”, “performance”,“competitività”, “lavoro”, “Sud”. Termini che aprono qualsiasi porta ma che hanno ormai l’insignificanza delle password. Le ripetiamo, anzi le digitiamo,senza interrogarci sulla loro verità e sulla loro capacità di descrivere la realtà. Sono parole condivise proprio perché non significano più niente. Ma formattano la nostra capacità di giudizio che impedisce di vedere i veri problemi e confonde menti e coscienza con una real-fiction che ha la stessa inconsistenza dei talk show. Insomma, crediamo di parlare, ma in realtà siamo parlati da questo linguaggio porta a porta. Che inquina il  dibattito pubblico, le relazioni umane, producendo conformismo, insicurezza, chiusura in noi stessi.
Il rimedio?
Ricominciare a pensare criticamente per ridare alle parole un nuovo senso.

15 agosto 2021 – Il Venerdì di Repubblica

classifiche

Read Full Post »

In genere sul mio Blog scrivo e parlo io. Raramente ospito qualcuno e se lo faccio non  vuol dire che ne sposo le tesi. L’appello del prof. Paolo Sceusa, però, Presidente emerito di Sezione della Cassazione fa riferimento a fatti sui quali c’è stato a dir poco un silenzio sospetto. 
Sceusa nel suo appello mette l’accento su una «dimenticanza» pericolosa, della quale non sapevo nulla. Si tratta delle norme UE sul Green pass che nella versione italiana risultano modificate. E’ vero, c’è stata poi una rettifica, ma così tardiva da consentire un paradosso inaccettabile e pericoloso: come cittadini italiani siamo sottoposti a restrizioni della libertà che in quanto cittadini europei non dovremmo subire. Credo che per il silenzio che hanno circondato i fatti le parole del professore vadano ascoltate con la massima attenzione. Ognuno poi si farà l’opinione che crede.
Ecco l’appello:

classifiche

Read Full Post »


Nel 2021 la spesa militare italiana si è attestata a 24,97 miliardi di euro, con un aumento dell’8,1% rispetto al 2020 e del 15,7% rispetto al 2019. La parte del leone è toccata all’acquisizione di nuovi sistemi d’arma, che probabilmente governo, parlamentari e il generale penna bianca pensano di utilizzare in una grande battaglia campale contro il Covid.
Per la formazione ci siamo dissanguati: abbiamo speso 963 milioni di euro! Per la salute ridotta alla canna del gas, si è pensato di attendere l’effetto che le costose armi acquistate avranno sui virus e si è perciò segnato il passo; per il 2021 è prevista una spesa nata nel segno dell’attesa: 1 miliardo e mezzo.
Dopo aver fissato questi numeri, il manicomio criminale che chiamiamo governo, si è posto il problema del futuro; attribuita agli insegnanti non vaccinati la colpa di un’eventuale ripresa della pandemia, li ha messi alla porta, privandoli dello stipendio.
Mentre la scienza scopre che due dosi di vaccino somministrate a sedicenti politici possono avere come effetto collaterale una grave forma di demenza fulminante, il Paese si chiede se esistano vie pacifiche per liberarsi di un governo menomato dal vaccino. Soluzioni finora non se sono ancora trovate, ma la carità di patria ha sconsigliato di trattare il governo come l’assessore leghista ha scelto di fare, sparando a un immigrato. La gente non è per la violenza. Qualcuno, però, esasperato, pensa che avanti così non possa andare e suggerisce di provare almeno con una terapia di docce scozzesi.       

classifiche

Read Full Post »


E’ vero, la foto di Mussolini e dei gerarchi uccisi ed esposti a Piazzale Loreto suscita orrore e pietà, ma sarebbe un errore gravissimo separarla dal contesto in cui nacque e dalle ragioni di cui era figlia. Certo, tra chi inveisce e oltraggia i cadaveri non mancavano colore che erano stati fascisti. Non meno certo è però che da un punto di vista morale quei morti erano giunti in quella Piazza solo per loro esclusiva volontà.
Da quando scuola e università sono state praticamente distrutte, i giudizi moralistici, i commenti delle immancabili anime pie, e si è andata affermando una ricostruzione storica che ha stravolto la feroce realtà del fascismo e ha processato e condannato una inesistente e colpevole violenza partigiana, quei giudizi e quei commenti si sono moltiplicati. Ricordare perciò cosa avvenne proprio lì, a Piazzale Loreto, alcuni mesi prima, è diventato un dovere morale. Quanti sanno, infatti, che proprio lì in quella piazza, il 10 agosto 1944 quindici partigiani erano stati massacrati dai militi repubblichini, alleati delle SS, le feroci forze di sicurezza naziste?
Le guerre non sono mai balli di gala e sono sempre feroci, Una ferocia, tuttavia, la cui prima responsabilità va messa nel conto da pagare da chi la guerra l’ha voluta. In nome di quella ferocia, pochi giorni prima, l’8 agosto, in viale Abruzzi, due bombe avevano fatto saltare un autocarro tedesco. Incredibilmente, però, i tedeschi non avevano avuto vittime, i passanti sì. E’ noto che i partigiani rivendicavano le loro azioni, ma in quel caso non lo fecero. A Milano alla testa dei Gap c’era il comunista Giovanni Pesce, combattente di Spagna, reduce dal confino politico a Ventotene e medaglia d’oro al valor militare. Un comandante esperto e coraggioso, particolarmente abile nella guerriglia urbana, che non avrebbe fallito il colpo e che l’avrebbe rivendicato se fosse stato opera sua. Non a caso del resto, nel 1999, processando in contumacia Theodor Saevecke, capo dei servizi di sicurezza tedeschi e della Gestapo, il Tribunale Militare di Milano ritenne l’attacco al camion un colpo dei nazisti, che intendeva così mettere in cattiva luce gli uomini della Resisteza agli occhi della popolazione. Saevecke, un criminale che, terminata la guerra risultò uno sterminatore di ebrei e un torturatore e assassino di partigiani, fallito il colpo, nonostante non ci fossero vittime tedesche, organizzò la rappresaglia e fece fucilare quindici partigiani italiani prigionieri.
Screditare i partigiani e dare un esempio terrificante era ancora possibile e il criminale non esitò. Dopo la fucilazione eseguita il 14 agosto, il boia di Piazzale Loreto diede ordine che i moti, definiti «assassini» da un cartello messo lì apposta per ingannare la popolazione, rimanessero nella piazza senza essere ricomposti. Com’ere prevedibile, quei poveri corpi straziati si decomposero subito sotto il sole rovente davanti agli occhi della città atterrita. Rimasero lì per venti interminabili ore, avvolta dall’odore terribile del disfacimento e da nugoli d’insetti. Un disumano oltraggio alla pietà e alla dignità umana. La gente portò dei fiori, ma passata la sorpresa, per venti ore i militi fascisti vietarono a parenti e passanti impietositi di fermarsi a pregare e di porta un fiore.
Mussolini non ebbe il coraggio di intervenire e fece solo pervenire all’ambasciatore tedesco un protesta formale e inutile. Meritatamente, meno di un anno dopo prese il posto di quegli sventurati. A distanza di decenni lo si può ricordare solo per quello che fu: un criminale. Delle vittime, invece, vanno ricordati i nomi. Nomi che conservano l’onore dei partigiani, E ricordando, dal momento che i tempi sono sempre più bui, è giusto gridare con forza:
Ora e sempre, Resistenza!
Si chiamavano Gian Antonio Bravin, Giulio Casiraghi, Renzo del Riccio, Andrea Esposito, Domenico Fiorani, Umberto Fogagnolo, Tullio Galimberti, Vittorio Gasparini, Emidio Mastrodomenico, Angelo Poletti; Salvatore Principato, Andrea Ragni, Eraldo Soncini, Libero Temolo, Vitale Vertemati.
Tre erano meridionali e nessuno di loro sapeva di morire per la libertà di gente come Salvini.

classifiche

Read Full Post »


Nel corso di una vita che tramonta ho seguito una bussola artigianale che non mi hai mai tradito.
Al nord l’ago colloca la mia unica certezza e c’è una scritta sintetica: «so di non sapere». Parole che Socrate pagò con la vita.
Al punto opposto il Sud martirizzato segna la posizione che ho tenuto rispetto al potere a ai potenti. Me la insegnò un antico maestro latino ma sotto il punto cardinale la scritta è in volgare: «Cesare, non faccio nulla per piacerti, né m’interessa sapere se sei un uomo bianco o nero».
A Est, dove sorge il sole e in qualche modo puoi immaginare un inizio, la bussola mostra un’indicazione metodologica: «sia lode al dubbio» c’è scritto e in ogni viaggio queste parole mi hanno accompagnato.
Di fronte, perpendicolare al Nord, c’è l’Ovest, l’Occidente sempre più famigerato, che la mia bussola considera in qualche modo fine del percorso. Poiché spera che sia stato un viaggio dignitoso, ci trovi un invito alla dignità: «Amico, se ti compri, / pagati quanto vali. / Non un quattrino in più. / Credimi, non sentirti prezioso, / tanto nemmeno serve e poi si muore. / Ma se ti vendono un giorno per caso, / e magari all’incanto, / tu non avere prezzo. / Stattene duro e il banditore invano / attenda di picchiare il martelletto».
Per la prima volta, mentre mi avvio ormai verso il buio dell’ultimo viaggio, non guardo la mia bussola. A che servirebbe? Non viviamo tempi da bussole e trionfano i disorientati. E’ il tempo delle contrapposizioni assurde tra oppositori di un governo liberticida, che ne difendono, però, i provvedimenti più autoritari tra quelli levati a dignità di legge, e i suoi sostenitori, che hanno sempre difeso l’assassino della democrazia, ma gli si sollevano contro e fanno addirittura quadrato attorno alla libertà, contro un provvedimento che, di fatto, hanno creato assieme ai loro complici assassini.

classifiche

Read Full Post »


Catello Maresca afferma di aver messo da parte la toga per amore di Napoli e aggiunge di candidarsi «a sindaco, con l’appoggio del centrodestra, perché i napoletani meritano di più».
Si dà il caso che la destra di cui parla è quella di Salvini, il segretario della «Lega Nord per l’indipendenza della Padania», quello che odia Napoli e i napoletani e si batte per l’autonomia differenziata, che intende ingrassare il Nord e affamare il Sud.
A cominciare da Napoli e dai napoletani!

classifiche



Read Full Post »


D’accordo, viene dall’Accademia. E tu che fai, lo condanni per questo?  Ti direbbero che non sono molti, ma ce ne sono anche di quelli non compromessi con l’andazzo dei concorsi pilotati, dei posti ereditati e delle cattedre moltiplicate come i pani e i pesci.
Tu che ne sai di Manfredi?  
E’ vero, diventò ministro, accettando di governare l’Università dopo il rifiuto di Lorenzo Fioramonti, giustamente indignato per il trattamento da Cenerentola riservato alla formazione. Manfredi non s’indignò.
Sì, non è bello, ma non è un reato…
Hai ragione, come ministro è stato un fantasma, però poi, per fare il sindaco, ha chiesto garanzie: voglio i fondi che avete negato a De Magistris. Insomma, per non tornare a fare il fantasma, ha dovuto riconoscere che contro il sindaco uscente si sono fatte scelte scorrette e vergognose.
E’ un punto a suo favore o la dimostrazione di una sconcertante pochezza?
I soldi li avrà?
Se gli consentiranno di battere moneta, probabilmente sì. Il fatto è che non solo è un neoliberista, ma a sostenerlo c’è soprattutto il neoliberista PD, che, come tutti sanno, vuole ciecamente la cosiddetta «autonomia differenziata». Hai capito bene, sì, la scelta feroce che unisce tutti i candidati contro Napoli e contro la Clemente, la sola che rifiuta di vendere Napoli al Nord, come sono pronti a fare il PD, la Meloni, i 5Stelle, l’innocente nullatenente e patetico Antonio Bassolino e naturalmente la Lega di Salvini per l’Indipendenza della Padania.
Proprio così, “indipendenza della Padania”…!!!!   
Stringi stringi, in questa situazione, due domande sono legittime e decisive:

  1. Quale credibilità può avere Manfredi, contraddittorio accusatore e allo stesso tempo avvocato d’ufficio di De Magistris?
  2. b. Quanti napoletani sono disponibili a votare un uomo pronto a pugnalarli nella schiena?   
classifiche

Read Full Post »

Older Posts »