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Archive for Maggio 2019

 

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Maria Olandese, foto segnaletica, Aprile 1940

Di Maria Olandese ho imparato a riconoscere calligrafia e stile epistolare e non posso sbagliare: la lettera è inedita e scritta di pugno dell’antifascista. Mentre la leggo, in questa serata che va verso l’esito di una battaglia elettorale che pare lontanissima da quegli anni e non lo è, mi viene anzitutto in mente il rapporto di una spia stalinista, che Vincenzo Delehaye mi regalò, tirandolo fuori dall’«Archivio di Stato russo di storia sociale e politica».
Per Edo Padovan – spia, prima ancora che combattente di Spagna – Maria Olandese, che ha lottato coraggiosamente contro nazifascisti e franchisti, è solo «una vecchia cantatrice  di teatro che nella sua vita artistica ha viaggiato in molti paesi compreso la Russia». Se è in Spagna, a Barcellona, assieme al marito, l’avvocato Carmine Cesare Grossi, insinua la spia, è perché «da parecchi mesi cerca di sbarcare il lunario»; entrambi infatti «tengono ancora a un tenore di vita che corrisponde ai loro titoli professionali».  E non basta. I due, prosegue Padovan, non sono antifascisti, non si sono rifugiati in Argentina perché perseguitati dal fascismo e non si sono mai occupati di politica. Il fatto è, però, che mentre la spia interpreta a suo modo la realtà, la polizia fascista conferma punto per punto il loro racconto, ripetuto dalla stampa argentina, che conosce bene la storia di Maria e della sua famiglia.
Padovan non nega che in Spagna i Grossi difendano la Repubblica e che Aurelio e Renato, i figli, combattano nell’esercito repubblicano; sostiene però che in guerra i due ragazzi ci sono andati solo perché lui e i suoi compagni li hanno «sottratti all’influenza del padre». La spia non immagina che la polizia fascista ha cercato di fermarli in tutti i modi, perché sa che sono partiti da Buenos Aires con uno scopo preciso: combattere per la repubblica spagnola. Di Aurelio, che ha perso un occhio in battaglia a Teruel, dice che «non fu accettato» dai repubblicani e di Renato, che «si portò non male», preferisce ignorare il fatto che è finito in manicomio, dove i nazionalisti francesi hanno iniziato il lavoro terminato poi dai fascisti, che di fatto gli bruceranno il cervello con gli elettroshock.
Maria Olandese si occupa dei combattenti feriti e lavora per il Partito Socialista Unificato della Catalogna? Padovan l’ha già detto: è un modo per sbarcare il lunario. Carmine Cesare Grossi lavora per il Ministero della Propaganda del Governo Repubblicano e con la figlia Ada ha dato vita a Radio Libertà, che da Barcellona è giunta in migliaia di case italiane, infiammando i cuori degli antifascisti avviliti e rassegnati? Per Edo Padovan tutto è nato dal suo «meschino odio anticomunista». Sulla radio, poi, che per la spia è solo un dettaglio trascurabile, meglio sorvolare: i russi sanno bene che l’hanno messa a tacere lui e i suoi compagni.
Perché tanto odio? Perché nel campo d’internamento di Gurs, in Francia, dove sono finiti l’avvocato con i figli Renato e Aurelio, gli stalinisti si sono garantiti tutti gli incarichi e, come riferisce l’Avanti, «centocinquanta internati italiani, portoghesi e tedeschi, di diverse tendenze politiche, stanchi delle vessazioni degli stalinisti», hanno presentato «domanda al comandante del campo per essere separati da questi ultimi». E’ nata così la «nona compagnia», che la spia, che non esita a definire «famigerata».
La lettera inedita che ho ritrovato è la prova che l’odio non s’è mai spento. Maria Olandese l’ha scritta subito dopo la sconfitta dei fascisti, per chiedere alle autorità il sussidio che le spetta come ex confinata politica. Di se stessa scrive poche parole:

«fu rimpatriata dalla Francia nell’aprile 1941, rinchiusa nelle carceri di Ventotene e poi in quelle di Poggioreale di Napoli, per essere interrogata e dalla Commissione Provinciale assegnata al confino politico per cinque anni con deliberazione del 14 maggio 1941, ed inviata a Melfi (Potenza).
Durante gli anni del confino politico, nonostante il rigido inverno ed il clima di Melfi, è vissuta a circa 700 metri sul livello del mare senza indumenti idonei e senza conforto, con la sola miserabile diaria di otto lire.
Dopo il confino politico, nessuna parola, nessun atto di solidarietà, nessun conforto, pur avendo la sottoscritta lottato contro il regime fascista sin dal suo sorgere, sacrificando quanto aveva in Italia e all’estero in una lotta leale e tenace, senza secondi fini di speculazione, ambizione e arrivismo personale, e mai si è smentita, pur nelle maggiori ristrettezze a avversità.
Con la dovuta osservanza,
Napoli, 16 ottobre 1945
Maria Olandese».

Maria morì pochi anni dopo, nel silenzio feroce dei partiti di sinistra. Se ne andarono poi Carmine Cesare e Renato e non ci fu nessuno che li ricordasse. Prima che li seguissero Ada e Aurelio, le carte di archivio mi hanno condotto a loro e ne ho raccontato l’esemplare vicenda. Tutto è documentato, secondo le regole del mestiere di storico. Nel 2009, con la passione di un comunista e l’affetto profondo che provavo per Aurelio e l’indimenticabile Ada, ho cancellato la pena del silenzio cui erano stati condannati. Sono orgoglioso di averlo fatto e non m’importa nulla se per, quello che scrissi, la «Rinascita Comunista»,  il giornale di Diliberto ormai prossimo alla fine, trovò modo di dire che avevo scritto un bel libro, ma era davvero un peccato che fossi il… solito  anticomunista.
Lo sapevo da tempo ormai, ma quelle parole furono una conferma: perché cominci una nuova storia della sinistra, occorre che sia definitivamente conclusa quella vecchia. Con le sue luci splendenti, ma con le antiche ombre che si sono purtroppo allungate oltre ogni limite tollerabile. Quando non so, ma accadrà ed è per questo che da un po’ scrivo a futura memoria.

https://www.agoravox.it/Maria-Olandese-la-lettera-inedita.html

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Il 16 maggio 2019, si è svolta la riunione costituente dell’Organo di garanzia di Potere al popolo. All’ordine del giorno c’erano i punti seguenti.
1. Elezione del presidente
2. Elezione del segretario
3. Prima analisi del caso relativo all’assemblea territoriale di Bari, giunto in email il 6 maggio scorso
4. Decisione circa la data della prossima riunione “di persona”

Alle 21:55 inizia la riunione.
Sono presenti Giuseppe Aragno, Virginia Amorosi, Didier Contadini, Federica Illiano, Pierluigi Luisi, Francesco Piccioni, Giulia Venia. Risultano assenti per problemi di connessione Biagio Borretti e Massimiliano Tresca. Risultano assenti con comunicazione preventiva Monica Natali e Maria Rachele Via.
Per quanto riguarda il primo punto, Giulia Venia propone l’elezione a presidente di Giuseppe Aragno. L’assemblea approva all’unanimità.
Giuseppe Aragno ringrazia e propone l’elezione a segretario di Pierluigi Luisi, che l’assemblea approva all’unanimità.
Al termine della riunione si decide di darsi un appuntamento di persona il giorno precedente a quello dell’assemblea nazionale. La prossima riunione è quindi fissata in presenza a Roma il 22 giugno prossimo, al pomeriggio.
L’ordine del giorno sarà trasmesso nei giorni precedenti la stessa riunione.

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115_Tvk8jthumbSalvini non è un uomo colto. Non a caso fino al 2018 ha vissuto come cittadino di un Paese che non c’è – la Padania – e ha diretto un partito che ne chiedeva la separazione dall’Italia: la “Lega Nord per l’indipendenza della Padania”.
Cresciuto nella convinzione che la Liguria, il Piemonte, la Lombardia, l’Emilia e le Venezie costituissero una comunità di valori armonici, un’unica realtà geografica, economica, storica e – ciò che più conta – etnica, si è poi convertito a un tragicomico nazionalismo italico, cambiando così cittadinanza e razza. Oggi infatti non è più figlio dell’inesistente etnia padana, con i suoi codicilli celtici, transpadani e cispadani, la sua identità economica, produttiva e linguistica.
Svanito il razzista secessionista, è nato dal nulla il difensore dell’etnia italiana, minacciata da fantomatiche orde di barbari immigrati. Ministro di polizia della Repubblica ieri rinnegata, Salvini è ossessionato dalla difesa dell’identità culturale italiana e se la prende con l’Europa alla quale, in realtà, è molto più vicino di quanto creda. Certo, per secoli l’Europa ha affermato il diritto di emigrare e Kant riconobbe quello di immigrare, facendo appello a una universale ospitalità garante di una pace perpetua. Quell’Europa, però non esiste più e oggi l’antico diritto è diventato un delitto.
Salvini non lo sa, ma non inventa nulla. Dice semplicemente, con la brutalità di un ignorante, ciò che pensano le classi dirigenti dell’Unione Europea, imbarbarita da una sempre più iniqua distribuzione della ricchezza: il diritto di emigrare non è mai stato un principio di civiltà, ma la copertura legale del colonialismo. Oggi, che i popoli colonizzati premono ai confini dei privilegi occidentali, quel diritto è ovunque negato, costi quel che costi, anche un ritorno al nazifascismo.
Il capo degli autonomisti settentrionali non è in grado di fare ragionamenti complessi, ma lo guida l’istinto; non  sa, ma sente che le ragioni profonde del suo razzismo – ieri padano, oggi italiano – non derivano dall’emigrazione, ma nascono dalla necessità feroce di difendere privilegi. E’ per questo che ripete la solfa del negro stupratore, punta il dito sulla minaccia dei Rom, cavilla sul clandestino economico, lancia quotidianamente lo slogan dello straniero pericoloso e se occorre fa esplodere il caso della docente che non ha sorvegliato gli studenti. Da perfetto ignorante, si affida all’istinto: guai se gli insegnanti riusciranno a far capire agli studenti che il razzismo è un’invenzione del capitalismo, un’esigenza del neoliberismo che difende il diritto di sfruttamento.
Se il leghista istintivamente capisce che la sinistra si è suicidata quando ha inseguito la destra sui temi della formazione e attacca chi fa scuola come si deve, a noi tocca difendere in ogni modo Rosa Maria Dell’Aria: la sola via d’uscita dalla tragedia che viviamo passa per la capacità che avremo di coltivare intelligenza critica e libero pensiero. E’ questa la prima e forse l’ultima trincea.

Agoravox e Fuoriregistro, 21 maggio 2019

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Spyware-Android-768x432Pochi giorni fa, a Napoli, al tavolo di lavoro che Pap ha dedicato al sistema formativo, la presenza di collettivi studenteschi disposti a dialogare coi docenti ha suscitato una motivata soddisfazione; non è mancato, tuttavia, chi ha osservato che quella particolare circostanza non modificava una realtà in cui gli studenti che partecipano sono pochi, così come, per quanto riguarda i docenti, gli «anziani» prevalgono sui giovani.
Per cogliere le ragioni profonde che hanno determinato questa situazione sarebbe stata probabilmente utile una riflessione sulle condizioni in cui versano oggi università e ricerca, argomenti di cui però finora Pap si è occupata davvero poco. Eppure da tempo l’università è il laboratorio in cui il neoliberismo crea i suoi «intellettuali», forma i futuri docenti alla sua filosofia e ne fa preziosi veicoli di quel «pensiero unico», che essi poi insegnano nelle scuole alle giovani generazioni. Com’è ovvio, i contenuti di questo insegnamento sono quelli consentiti da un sistema di valutazione che, di fatto, costituisce uno strumento di controllo sulla cultura.
Quando diciamo Invalsi, sappiamo bene di che parliamo e non a caso lottiamo. Molto meno nota è l’Agenzia di valutazione del sistema universitario, l’Anvur, l’equivalente dell’Invalsi a livello universitario; figlia di questa scarsa conoscenza è la sottovalutazione del ruolo decisivo che l’agenzia svolge non solo per quanto riguarda l’Università, ma anche per la scuola. L’Anvur, l’invisibile gabbia che imprigiona la ricerca e i ricercatori, ha un ruolo centrale nell’attuale sistema formativo, perché costruisce sacerdoti del pensiero unico, che non hanno alcuna capacità di organizzare resistenza. Il principio ispiratore dell’Anvur è semplice e pericoloso: la quantità della produzione scientifica è la misura della qualità dei testi che le commissioni valutano senza leggere. Per l’Anvur, un lavoro vale se l’editore conta molto – meglio se straniero – se c’è chi lo cita –  gli anglosassoni sono i più quotati – se l’autore «produce» molto e partecipa a convegni internazionali.
Grazie al criterio della «misurazione quantitativa», una commissione ha regalato una cattedra a una sorta di «speedy gonzales» della ricerca che dalla laurea al concorso, in tredici anni, ha firmato otto saggi e «curato» nove libri; in quei tredici anni, moltiplicando il valore del tempo come Cristo moltiplicò i pani e pesci, il giovane ha firmato due voci enciclopediche e trenta tra contributi in volume e articoli in rivista. A conti fatti, rigo più rigo meno, 200 pagine all’anno per tredici anni. Un impegno che non gli ha impedito di organizzare undici convegni, dire la sua in ventinove simposi e festival nazionali, dodici seminari e workshop internazionali, svolgere il ruolo di revisore per valutare «prodotti di ricerca» su riviste italiane ed estere, presentare quattro progetti di rilevanza nazionale e internazionale e, dulcis in fundo, trovare modo di partecipare alle attività di otto comitati scientifici. La commissione, che non ha letto alcun libro dell’enfant prodige, avrebbe dovuto porsi la domanda cruciale: quanto tempo il candidato ha potuto dedicare alla ricerca? Non l’ha fatto e anzi l’ha premiato.

Poniamocela noi qualche domanda. A che serve questo meccanismo in base al quale lo Stato finanzia la ricerca e quali effetti produce sull’insegnamento? Perché l’Anvur, con la sua logica produttivistica, impone alla ricerca vincoli temporali, se i progetti di qualità richiedono spesso anni di lavoro e tutti sanno che il valore reale della ricerca è la qualità, che si misura in relazione alla metodologia, all’originalità, alla capacità innovativa e alla ricchezza creativa?
Le risposta sono semplici e illuminanti: l’Anvur sa che il forte legame tra «grandi editori» e «baroni» che ne dirigono le collane e scelgono i testi da pubblicare, impedisce ai ricercatori di occuparsi di alcuni indirizzi di ricerca. Se decido di studiare gli anarchici, per esempio, è difficile che trovi grandi editori; rischio di non pubblicare i risultati delle mie ricerche e quindi di non vincere concorsi. Così stando le cose, è naturale che io scelga di studiare altro, ma è chiaro anche che di questo passo nessuno insegnerà più il significato e il valore storico dell’anarchia. Non diversamente vanno le cose a chi si occupa di salute mentale; se sceglie di seguire la scuola di Basaglia e Piro, non ha speranze di ottenere cattedre perché con le sue ricerche non troverà editori. O rinuncia o si rassegna a battere la via organicistica e farmacologica della «malattia mentale». La conseguenza è un ritorno a scelte repressive, narcotici e letti di  contenzione e una università dai cui insegnamenti sparisce l’esperienza di psichiatria democratica e del sofferenza mentale come male sociale.
Si potrebbe continuare, ma credo sia chiaro. Valutare con i criteri scelti dall’Anvur, vuol dire anzitutto controllare, imporre dall’esterno «obiettivi di valore», selezionare temi, decidere ciò che dicono e ciò che non devono dire i libri di testo; significa soprattutto creare docenti che – quanto consapevolmente conta davvero poco – formati ai principi e agli insegnamenti del pensiero dominante, tutelano potere e mercato. La conseguenza più seria di questo processo di sedicente valutazione sono scuole sempre meno capaci di formare intelligenze critiche e giovani incapaci di sfuggire alla conoscenza prescritta dal potere. E’ da qui che occorre partire, per capire e cambiare davvero. Se il pensiero è sotto stretto controllo, se i giovani che si danno alla carriera universitaria devono rinunciare a fare ricerca su argomenti sgraditi al potere, la minaccia non grava solo sugli studenti, ma è direttamente rivolta contro la libertà della Repubblica.

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Una bellissima recensione di Gian Luigi Bettoli, uscita oggi su “La Storia le Storia”. Non mi nascondo dietro l’ipocrisia della falsa modestia: ringrazio l’autore per quello che ha scritto e sono orgoglioso del mio lavoro.

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Maurizio Valenzi, Incubo su Napoli, 1973

Giuseppe Aragno, Le Quattro Giornate di Napoli. storie di antifascisti, Napoli, Intra Moenia, 2018, pp. 344, € 18.

A proposito di una foto

img286-296x420La chiave del libro è tutta in quella foto di copertina, resa famosa da Robert Capa, ma probabilmente scattata dal giovane partigiano comunista napoletano Alessandro Aurisicchio De Val, che vendette per poche lire al famoso corrispondente di guerra un rullino di immagini realizzate durante la rivolta.
Quella che figura al centro sembra una scugnizza, una tra i tanti ragazzi che parteciparono alla rivolta del settembre 1943 e poi ne divennero i simboli. Si chiamava Maddalena Cerasuolo, soprannominata Linuccia. In realtà quella ragazzina, protagonista della difesa del Ponte della Sanità contro le truppe tedesche, e per questo decorata con la medaglia di bronzo al valore militare, non stava lì per caso. Operaia, era figlia di Carlo, un cuoco licenziato per rappresaglia, dopo essere stato arrestato a seguito di un incontro con un attivista del Partito Comunista clandestino. Antifascista, in collegamento con il Pcd’i, ma anche monarchico. E già questo basterebbe come ouverture ad un libro tanto complesso ed approfondito, quanto vivace e scorrevole nella lettura.
Non prima però di ricordare coincidenze che partono da assai prima, e ci portano fino ai giorni nostri.

Attorno al Ponte della Sanità

Il Ponte della Sanità – oggi intitolato proprio a Maddalena/Linuccia, che dopo aver combattuto sulle barricate fu arruolata dal britannico SOE per missioni oltre le linee nazifasciste – fu edificato in seguito all’arrivo delle truppe francesi a Napoli, dopo la Grande Révolution e le sue propaggini giacobine in Italia. La sua funzione era quella di sorpassare, passandoci letteralmente sopra, quel quartiere popolare che si arrampicava sinuoso verso le alture su cui sorge la Reggia di Capodimonte.
Ancor oggi le guide turistiche locali riproducono un plurisecolare sentimento antifrancese e danno voce al rancore suscitato da quell’invasione di oltre due secoli fa, prevalente nella memoria popolare sul ricordo delle decine di nobili e borghesi giacobini, impiccati ai pennoni delle navi dell’ammiraglio Nelson dopo la repressione della Repubblica Partenopea. Quella “direttissima” francese – spiegano – dritta come un fuso, come voleva il razionale pensiero illuminista, fu anche la causa della marginalizzazione del quartiere Sanità, trasformato in un profondo fondovalle ed espulso dal fulcro della vita cittadina.
Sopra, salendo a destra per Via Santa Teresa degli Scalzi, poco prima del ponte, c’è pure il ricordo di uno scomodo paragone tra Pordenone e Napoli. Paragone ingenerosamente negativo, come se i festeggiamenti della monarchia sabauda, con i suoi ufficialetti di cavalleria e magnati industriali “foresti” – e pure il suo ospite Emilio Wepfer, fondatore con Alberto Amman dell’omonimo cotonificio a Borgomeduna, veniva dalla Campania – potessero in qualche modo coinvolgere moralmente il proletariato della piccola “Manchester del Friuli”, che in quell’epoca stava pronunciando i suoi primi vagiti antagonisti. Si tratta della famosa frase di Umberto I, accorso precipitosamente a Napoli nel 1884 durante un’epidemia di colera, abbandonando le esercitazioni militari sui magredi a monte di Pordenone: “A Pordenone si fa festa, a Napoli si muore. Vado a Napoli”.
Ma la storia continua. Sotto il ponte, nelle catacombe di San Gaudioso sottostanti la Basilica di Santa Maria della Sanità, ed in quelle vicine di San Gennaro, è nata nel 2006 una cooperativa sociale: La Paranza, promossa dai giovani della parrocchia impegnati nella lotta per il risanamento del quartiere, contro la camorra. Una cooperativa che ha assunto cooperatori qualificati ed ha investito risorse per restaurare un importantissimo patrimonio archeologico, contribuendo così alla riscoperta di questa grande metropoli, attraverso l’autogestione dei lavoratori. Una realtà quanto mai vivace e protagonista, come dimostrano i veri e propri “comizi” con cui gli operatori spiegano ai visitatori la loro impresa, collegata ad una fondazione di partecipazione. Non può stupire che – a dimostrazione che la lotta di classe non risparmia la Chiesa Cattolica, e che comunque viene più spesso scatenata da chi possiede il Capitale – l’anno scorso il Vaticano (proprietario delle catacombe) abbia chiesto gli affitti arretrati alla cooperativa, rischiando di chiudere questa esperienza e facendo comunque una pessima figura. Non tutto ciò che luccica è oro, e Papa Francesco non esaurisce la complessità del Vaticano. Cose che capitano: a Trieste pochi anni fa era successo ad un’altra cooperativa, La Melagrana, di ricevere il benservito dai religiosi, dopo aver valorizzato il tempio mariano di Monte Grisa.

La realtà dell’antifascismo contro il mito dell’insurrezione spontanea

L’ultimo libro di Giuseppe Aragno segue altre opere dedicate alla meticolosa ricostruzione dei percorsi dell’antifascismo popolare durante il ventennio fascista. Un programma di lavoro che trovo – mutatis mutandis, se mi è permesso paragonare la minuta realtà friulana con la vulcanica capitale morale del Sud – molto simile a quello che altri, tra cui buon ultimo il sottoscritto, stanno conducendo, sia nelle motivazioni che nell’approccio alle fonti. E proprio tante simiglianze in una così stridente differenza ecologica sottolineano alcune riflessioni comuni.
Differenza che non è mai lontananza, come dimostra l’emergere, tra i protagonisti della narrazione di Aragno, del comandante partigiano Federico Zvab da Sesana, sloveno compaesano di Danilo Dolci, che crea sotto la copertura dell’Ospedale degli Incurabili un’intera rete militare, cui fanno capo il futuro dirigente del movimento di liberazione croato dell’Istria Giuseppe Matas e l’udinese Giuseppe Colombaro. E, come altri antifascisti del “nord” e stranieri sbarcati a Napoli dal confino di Ventotene, il futuro deputato comunista Giordano Pratolongo: un triestino eletto alla Costituente e riconfermato al Parlamento nel 1948, rispettivamente otto e sei anni prima del ritorno della città giuliana all’Italia, checché possano berciare gli “italianissimi” nazionalisti sull’orientamento del Pci al proposito. Pratolongo morirà nel 1953 dopo un pestaggio fascista subito a Monfalcone, in 30 contro uno: otto anni dopo la Liberazione! A dispetto di chi ritiene che i conti con il fascismo siano finiti tra il 25 aprile ed il 10 maggio 1945 e pensa che al “confine orientale” ci fossero solo trinariciuti titini infoibatori.
Fin dall’introduzione, Aragno polemizza fortemente con l’anestetizzazione politica compiuta a discapito della più grande tra le prime insurrezioni popolari antifasciste e antinaziste dell’Italia meridionale dell’autunno 1943. Infatti, prima di Napoli e dell’organica costruzione di un movimento resistenziale in tutta l’Italia occupata, occorre ricordare Matera, la prima città che si libera da sola, e ad ai primi di ottobre Lanciano, dove combatterono insieme insorti italiani e prigionieri di guerra jugoslavi… sempre a proposito degli “italianissimi” e della loro paranoia antititina. Le Quattro Giornate di Napoli sono state generalmente retrocesse, anche da grandi storici della Resistenza, ad insurrezione spontanea e naturalistica di una plebe priva di coscienza politica, interpretata da ragazzini al limite del mondo delinquenziale, e quindi priva di ogni significato politico; degna semmai di quel Meridione di “lazzari” incapaci di prendere in mano le loro sorti, se non in improvvisi ed irrazionali scoppi di violenza ribellistica, destinati inesorabilmente per rifluire nelle file della reazione sanfedista.
L’autore ricostruisce, attraverso i vari archivi della polizia fascista e del movimento resistenziale, le storie di chi non si era mai arreso alla dittatura, dei figli cui era stato trasmesso familiarmente il patrimonio politico antifascista, di chi si era distaccato dal regime, delle donne che non rinunciano al protagonismo politico, anche al momento della scelta delle armi. Fili tessuti ostinatamente, che nel settembre 1943 si riannodano insieme per combattere nelle vie di Napoli: spesso insieme padri e figli e madri e figlie. Percorsi biografici ancora parzialmente in fieri, più numerosi di quelli cristallizzati dalle autorità postbelliche al fine della corresponsione dei benefici agli ex partigiani – moltissimi combattenti delle Quattro Giornate si rifiutarono di fare richiesta, per motivi politici – e riassunti al termine del libro in un abbozzo di futuro dizionario biografico ricco di centinaia di schede, che integrano le notizie riportate nel testo.
Ricostruendo i percorsi familiari degli antifascisti, Aragno inoltre porta un ulteriore tassello alla decostruzione del mito ideologico defeliciano del “consenso” al fascismo, testimoniando le tante adesioni per necessità – dettate dalla necessità di sopravvivere per venti interminabili anni di dittatura, violenza e sofferenze di ogni genere, non ultima la discriminazione a lavorare e guadagnare per mantenere la famiglia – terminate con la partecipazione non a quattro, ma a ben più di venti giornate di lotta, durate dall’occupazione nazista dell’8 settembre fino alla cacciata del 1° ottobre. Perché non ci sono solo i 4 giorni di insurrezione popolare armata che caccia i nazisti ed i loro servi fascisti, ma ci sono le bande – anche in questo caso, costituite da napoletani, antifascisti sbarcati dalle isole di confino e prigionieri alleati liberati – che iniziano precocemente a resistere fin dai giorni dell’armistizio e della vergognosa resa della monarchia e delle autorità militari e civili. Accompagnando con le loro iniziative resistenziali il dispiegarsi della violenza tedesca, che certamente contribuisce a scatenare la reazione popolare, fino all’insurrezione che anticipa l’arrivo degli alleati; questi ultimi fermi nella sacca di Salerno, dopo uno degli infelici sbarchi nell’Europa occupata e tenuta fermamente dall’esercito tedesco fino all’estate 1944. Alla fine della lotta, Napoli si ritroverà in gran parte distrutta dalla violenza nazista e dai non meno terroristici bombardamenti angloamericani, con decine di migliaia di morti (23.000 secondo Maurizio Valenzi: cfr. il libro citato oltre, a p. 121) e di senza tetto, ridotta alla fame. Ma l’antica capitale del Regno delle Due Sicilie avrà lanciato all’Italia occupata l’esempio dell’insurrezione popolare liberatrice, che si ripeterà progressivamente, anticipando per gran parte delle città del centro-nord l’arrivo dell’esercito alleato.
Attraverso lo studio dei percorsi degli antifascisti, si giunge ad una conclusione anche statistica: una percentuale oscillante attorno ad un decimo degli insorti è costituita da antifascisti di lunga durata e dalla loro rete amicale e familiare. Chiunque sappia come funziona un’organizzazione, può riconoscere in questa la percentuale media su cui si assesta un gruppo dirigente con la sua struttura organizzativa.
Aragno ricostruisce la pluralità dell’antifascismo: le forze storiche del movimento operaio – comunisti e socialisti – ma anche movimenti spesso sottovalutati, come gli anarchici ed i repubblicani e – particolarità soprattutto napoletana – i comunisti di sinistra fedeli ad Amadeo Bordiga (ed a Leone Trozki), intrecciati con la giovane generazione liberalsocialista di Giustizia e Libertà, non trascurando le componenti monarchiche: i vecchi liberali crociani ed i giovani che hanno maturato il distacco dalla dittatura durante la catastrofica esperienza bellica. L’analisi di questa pluralità di contributi arricchisce un quadro altrimenti incomprensibile: come può la prima grande metropoli italiana insorta contro il nazifascismo votare poi per re Umberto il 2 giugno 1946, e consegnare a lungo il governo cittadino ad una destra continuista, traghettata attraverso il partito monarchico di Achille Lauro?
L’autore analizza in particolare le vicende dell’associazionismo degli ex combattenti delle Quattro Giornate, e della contrapposizione di molti tra loro e le organizzazioni politiche che si formano dopo la liberazione della città. Ne emerge un quadro complesso, in cui vengono frustrate le spinte di rinnovamento, trasversali tra i vari gruppi politici, di fronte ad una normalizzazione governata dalle truppe di occupazione e costretta nelle troppe mediazioni della “nuova” politica dei governi antifascisti; in particolare dopo la “svolta di Salerno” con cui la direzione comunista di Palmiro Togliatti gestisce la mediazione con la monarchia ed il suo rappresentante politico, maresciallo Badoglio. Si tratta di una fase che la sinistra pagherà duramente, sia con la stessa scissione della Federazione del Pci, che con quella del sindacato, ma che soprattutto sarà segnata dalla emarginazione della forte componente bordighiana del comunismo napoletano, che aveva partecipato sia alla cospirazione antifascista che all’insurrezione (e proprio la normalizzazione del Pci comporterà la damnatio memoriae dei comunisti di sinistra napoletani, ad iniziare dal loro massimo dirigente e primo segretario del Pcd’i). Questa debolezza della sinistra – secondo Aragno – sarà anche favorita dalla marginalizzazione di componenti estranee al movimento operaio, sia sul fronte repubblicano che su quello monarchico, con una delusione e distacco che andrà a tutto vantaggio della destra. Insomma: i combattenti napoletani – molti dei quali proseguiranno il loro impegno resistenziale andando al Nord, in Jugoslavia oppure arruolandosi nelle ricostituite forze armate della monarchia – verranno “cancellati” dal “Vento del Nord” (come lo definì Pietro Nenni), così unilaterale e miope nei confronti di quel precoce “Vento del Sud” che si era espresso con forza nel settembre 1943.
Si archivia così una fase in cui giovani di estrazione borghese e liberale si erano incontrati nella clandestinità con militanti comunisti, insieme avevano combattuto e addirittura, nella fase immediatamente successiva, avevano lavorato alla costruzione di un modello di sindacato libero da quei partiti che avrebbero firmato poi il “Patto di Roma”, affidando il governo della nuova CGIL unitaria ai tre “partiti di massa” (Pci, Psi e Dc), escludendo deliberatamente le componenti operaiste e gielliste, emarginate insieme alla loro prima “CGL rossa” del Sud. Mentre i compromessi politici avrebbero lasciato spazio ad opportunisti in carriera – come lo storico Aldo Romano, passato da spia dell’Ovra a storico di fiducia del Pci – ed ai quadri di partito giunti dall’esilio. Prefigurando così un fenomeno tipico di altre esperienze politiche: lo scontro tra le nuove generazioni cresciute nella clandestinità e nella lotta contro i regimi e le “vecchie guardie” all’estero (come nella Grecia degli anni della dittatura dei “colonnelli”, che vide prodursi nel 1968 la scissione del partito comunista KKE, da parte del KKE “dell’interno”, nucleo di quella che oggi è Syriza). Si posero così le basi per la mancata defascistizzazione e la continuità istituzionale, che garantì tra guerra e dopoguerra la conservazione dei rapporti di classe e delle strutture di potere in Italia.
E’ interessante mettere a confronto l’analisi di Aragno con la tarda testimonianza, relativa ai mesi immediatamente successivi alla rivolta, di un protagonista delle vicende del Pci napoletano come Maurizio Valenzi (dalla cui copertina abbiamo tratto l’immagine in evidenza: un quadro dello stesso autore). Un testo memorialistico, appunto – anche se basato sul materiale d’archivio conservato da Valenzi – che riproduce la versione togliattiana di questo inizio di dopoguerra italiano, ma che è soprattutto interessante per i tardivi ripensamenti sulle vicende di allora, definite pomposamente i “cento giorni che cambiarono l’Italia e che cominciarono con il ritorno di Palmiro Togliatti”. Ripensamenti tipici dei dirigenti comunisti, soprattutto dopo la fine del loro partito, e che ritornano su errori di settarismo e su debolezze e cedimenti di allora. Un rimpianto su quello che avrebbe potuto essere, e non fu, e che ebbe luogo a Napoli, tra la fine del 1943 e l’inizio del 1944.

Gian Luigi Bettoli,  La Storia, le Storie, 9 maggio 2019.

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6 Maggio – Regolamento della Commissione di Garanzia di Potere al Popolo!

Comunicato
La Commissione di Garanzia ha approvato all’unanimità il suo Regolamento. Lo mette a disposizione delle compagne e dei compagni di Potere al Popolo, ricordando che l’indirizzo da utilizzare per contattarla è il seguente:
commissionegaranzia@poterealpopoli.org.

REGOLAMENTO DELLA COMMISSIONE DI GARANZIA DI POTERE AL  POPOLO!

Art. 1: Costituzione della Commissione

1.1 Composizione
La Commissione di Garanzia di Potere al Popolo! è composta da undici membri eletti dall’Assemblea Nazionale tra coloro che hanno riportato il maggior numero di voti su due liste divise per genere. I membri rimarranno in carica 2 anni.
1.2 Operatività, revoche e sostituzioni
I membri della Commissione di Garanzia possono essere revocati dall’Assemblea Nazionale, dopo ampio dibattito e votazione a maggioranza (50%+1 dei votanti).
In caso di dimissioni di un membro effettivo o di impedimento a svolgere le funzioni della carica o qualora un componente della Commissione faccia registrare tre (3) assenze ripetute e ingiustificate o reiterate inadempienze che pregiudichino il corretto l’esercizio della sua funzione statutaria, la Commissione interviene con richiamo formale alla necessità di compiere il proprio dovere in un termine dato. Di fronte al superamento di tale termine, o al ripetersi delle omissioni, la Commissione può deliberare la decadenza del suo componente inadempiente.
Per la sostituzione di membri decaduti si provvede mediate una nuova votazione, com’è previsto per i membri del Coordinamento. Qualora più membri della Commissione fossero dimissionari o decaduti, la Commissione resterà pienamente operativa e titolare dei compiti ad essa assegnati con un minimo di sette membri.

Art. 2:  Modalità di Funzionamento

 2.1 Convocazione
Il Presidente convoca la Commissione di Garanzia in seduta plenaria con almeno cinque giorni di anticipo.
La convocazione avviene mediante strumenti di comunicazione certi e concordati con la Commissione.
La Commissione può decidere anche di riunirsi periodicamente in una data concordata e prefissata. Per le riunioni è prevista anche la modalità in streaming.
2.2 Delibere
La Commissione è regolarmente costituita con la presenza di almeno sette membri. Essa delibera a maggioranza dei voti disponibili consentendo che si partecipi al voto in remoto.
Se per motivi eccezionali e urgenti il presidente non potesse partecipare alla riunione si eleggerà un membro della commissione che ne farà le veci.
In caso di parità tra voti favorevoli e voti sfavorevoli, prevale il voto del Presidente.
2.3 Designazioni interne
La Commissione di Garanzia nella sua prima seduta elegge un/una Presidente e un/una Segretario/a, scelti tra i suoi membri ed eletti con la maggioranza assoluta dei suoi componenti.

Art. 3 – Competenze

3.1 Compiti di vigilanza e sanzione
La Commissione di Garanzia è l’organo incaricato di vigilare per il rispetto dei diritti delle persone iscritte all’Associazione e per il rispetto dei principi fondamentali e le norme di funzionamento dell’organizzazione.
Essa interviene per sanzionare il comportamento degli associati e li esclude per motivi di manifesta indegnità o di incompatibilità con il senso del progetto.
La Commissione di Garanzia vigila sulla concordanza dell’azione di membri ed organi dell’Associazione con lo Statuto, i regolamenti e gli accordi previamente stabiliti.
3.2 Presidenza e segreteria
Al Presidente tocca convocare e presiedere la Commissione, coordinarne il lavoro, curare il rapporto con il Coordinamento Nazionale.
Al Segretario spetta la redazione dei verbali delle sedute, la raccolta della documentazione e la custodia degli atti prodotti dalla Commissione.
3.3 Partecipazione agli Organi Statutari
Il Presidente della Commissione di Garanzia o, in sua assenza, un altro membro dalla Commissione incaricato, partecipa di diritto ai lavori del Coordinamento Nazionale, durante i quali può prendere la parola, ma non ha diritto di voto.
I membri della Commissione di Garanzia, possono essere presenti ai lavori del Coordinamento Nazionale in qualità di osservatori
3.4       Regolamento della Commissione
La Commissione definisce e delibera il presente Regolamento che, una volta approvato, potrà essere modificato con la maggioranza dei due terzi dei Componenti.

Art. 4 – Attività

4.1 Attivazione della Commissione
La Commissione di Garanzia ha l’obbligo di procedere, su segnalazione di singoli iscritti, di organismi del Movimento o di propria iniziativa, all’esame dei casi per i quali viene richiesto un parere secondo quanto previsto dallo Statuto Pap e dall’art. 3.1 del presente regolamento.
Il singolo iscritto può sempre adire la Commissione quando ritenga violato, compresso o mortificato un proprio diritto. Qualora invece si intenda agire contro altri perché si pensa che stiano violando lo Statuto o assumendo comportamenti scorretti, illeciti o incompatibili con le nostre regole associative occorre che il ricorso sia sostenuto da un numero minimo di tre (3) associati.
Le richieste di attivazione devono essere sempre circostanziate e verificabili.
La commissione di Garanzia può decidere di non accettare una segnalazione ove si sia già deciso su una segnalazione analoga.
4.2 Attività istruttorie
Espletata ogni necessaria attività istruttoria e sentite le parti, la Commissione ha facoltà di archiviare il caso o di avviare un procedimento disciplinare; se accoglie l’istanza può disporre atti istruttori, accedere alla documentazione associativa, acquisire pareri, ascoltare testimonianze.
La Commissione di Garanzia può articolarsi in sottocommissioni per espletare azioni specifiche o istruttorie che andranno relazionate alla Commissione in seduta plenaria.
4.3 Criteri di presa in esame delle segnalazioni
Il Presidente programma l’esame dei casi seguendo il criterio cronologico, dettato dalla data di segnalazione o di rilevazione del caso.
Qualora la metà più uno dei componenti della Commissione di Garanzia ritenga che i fatti segnalati o autonomamente rilevati siano così rilevanti che un ritardo nelle decisioni possa procurare danni gravi all’immagine del Movimento o rendere irrimediabile il danno, la Commissione può decidere per motivi di urgenza di dare la precedenza al caso, decidere misure cautelari e avviare immediatamente il procedimento disciplinare.
In via eccezionale, qualora sia impossibile riunire tempestivamente la Commissione, il Presidente è obbligato ad informare (via email o PEC) tutti i membri della commissione che quanto prima e comunque entro 48 ore sono tenuti ad esprimersi con gli stessi mezzi. Soltanto in ultima istanza, osservato l’obbligo di informazione collegiale, la Commissione decide a maggioranza delle risposte ricevute.
Alla prima riunione e in ogni caso entro 30 giorni dalla loro adozione, i provvedimenti devono essere sottoposti a ratifica della Commissione.
4.4 Comunicazione delle delibere
Ogni parere o decisione è notificata ai richiedenti o agli interessati in forma scritta e motivata. La Commissione di Garanzia ha l’obbligo di pronunciarsi o deliberare nel termine massimo di 60 giorni dalla data di richiesta del parere o dall’apertura del procedimento disciplinare. Con decisione motivata, la Commissione di Garanzia può rinviare di ulteriori 60 giorni la sua decisione.
Le delibere della Commissione di Garanzia sono immediatamente esecutive.
4.5 Riservatezza degli atti
Gli atti relativi al funzionamento interno della Commissione sono riservati, l’accesso a tali atti è consentito solo ai suoi componenti. I membri della Commissione sono tenuti alla massima riservatezza.
4.6 Provvedimenti disciplinari
La Commissione può intervenire per sanzionare il comportamento degli associati o per escluderli, per motivi di manifesta indegnità o di incompatibilità con il senso del progetto.
Le sanzioni, secondo la gravità del caso, sono le seguenti:

  1. il richiamo scritto;
  2. la sospensione dell’iscrizione e quindi l’allontanamento temporaneo dagli eventuali incarichi nell’Associazione;
  3. la revoca dell’iscrizione e la decadenza definitiva da ogni incarico o ruolo.
  4. lo scioglimento di un “gruppo di azione” o di una “assemblea territoriale” qualora sia in grave contrasto con quanto sancito nello statuto

Art. 5 – Facoltà di impulso e applicazione dello Statuto

Qualora riscontri casi di inerzia del Coordinamento Nazionale in relazione all’attività di attuazione dello Statuto, la Commissione ha potere d’impulso, essa può, su richiesta degli iscritti o di propria iniziativa, far pervenire pareri agli organi politici, sottolineare problemi, chiedere adempimenti statutari.

Ps: La Commissione attuale ritiene che l’incarico di componente della Commissione di Garanzia sia incompatibile con incarichi o ruoli legati all’attività del Movimento. La candidatura a cariche amministrative o elettive, dunque, dovrebbe comportare la decadenza dal ruolo di componente della Commissione. Poiché non è nella disponibilità della Commissione di Garanzia di assumere decisioni regolamentari diverse da quelle dello Statuto – che non contempla questa incompatibilità – la Commissione propone di introdurla in Statuto quando quest’ultimo andrà alla prevista “verifica” di congruità sui singoli punti.

Virginia Amorosi, Giuseppe Aragno, Biagio Borretti, Didier Contadini, Federica Illiano, Pierluigi Luisi, Monica Natali, Francesco Piccioni, Massimiliano Tresca, Giulia Venia, Mariarachele Vai.

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