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Archive for Maggio 2012

Comanda lui. Gli elettori lo sbatterono fuori dal Parlamento, ma comanda lui, il maggiore esponente d’un ceto politico squalificato. Ciampi lo ripescò con un ceffone agli elettori e lo fece senatore a vita; aveva illustrato la patria, ma nessuno se n’era accorto e ora comanda lui. Non lo fermano ormai nemmeno il terremoto, una strage di operai e il collasso d’un Paese che dal 1953, come dirigente di partito, deputato, senatore, ministro e presidente della repubblica, ha condotto al disastro.

Parla, straparla, ricopre tutti i ruoli, sta in campo e sugli spalti, applaude, fischia, mostra il cartellino giallo per ammonire, tira fuori quello rosso per l’espulsione, è raccattapalle, arbitro, guardalinee, quarto uomo e giocatore.

Comanda lui, il sedicente comunista, che aveva il lasciapassare per gli Usa, quando il rosso faceva diventare tori gli americani. Comanda lui e oggi, da vero capo del governo, ha riunito Mario Monti, l’uomo di paglia di banche e affini, e le alte cariche dello Stato e ha deciso che sì, la parata militare va fatta, costi quel costi, nonostante i danni del terremoto, il lutto degli emiliani, il sospetto delle responsabilità padronali per l’uccisione di undici lavoratori e la rabbia della gente tenuta a bada ormai solo dalle manganellate delle forze dell’ordine. Va fatta, tanto pagano i contribuenti.

Comanda lui, Napolitano. Non lo fermano ormai nemmeno il terremoto, una strage di operai e il collasso del Paese. C’è in Italia qualcuno disposto e spiegargli che è giunta per lui l’ora di ritirarsi a vita privata?

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Basta con le vostre maledette menzogne – gridò Ernesto, saltando su dal divano con impensabile agilità – BASTA!
L’urlo liberatorio sembrò calmarlo e tornò a sedersi, mormorando:
Eccola la bomba più terribile di tutte, la televisione. Bell’idiota che sono a darti retta
A poco a poco, nella solitudine del vecchio salotto, il desolato soliloquio riusciva in qualche modo a diventare dialogo col mondo virtuale che aveva di fronte; come l’avesse davanti in carne ed ossa, l’uomo faceva il verso alla giovane cronista che, microfono in mano e tono di allarme commosso, ripeteva il suo mantra: “Mai accaduto! Una bomba davanti a una scuola… mai!”
Così t’hanno istruita, certo, ma tu non sai nemmeno di che parli. E’ comoda questa tua “prima volta”, si capisce, ma è anche schifosamente falsa. Chi ti passa veline lo sa, ma non gliene frega niente. A lui la “prima volta ” serve a intimidire chi ascolta, ma non è la prima volta, cara la mia giornalista. Non è andata così. L’hanno già fatto due volte a Trieste, davanti a una scuola elementare slovena e l’antiterrorismo lo sa. Nel 1969, l’anno di Piazza Fontana, qualcosa per fortuna s’inceppò e non ci furono morti; nel 1974, invece, la bomba fece il suo mestiere ma trovò la scuola chiusa e si evitò la strage. Era aprile, però, me lo ricordo bene, e a maggio il botto di Brescia fece morti e feriti in Piazza della Loggia. No, non è la prima volta e la mafia non c’entrava nulla. La mafia fa saltare saracinesche e auto se non paghi il pizzo e se mira più in alto c’è un potere “legale” a coprirle le spalle.

Gracchiava da un’ora la televisione. Le esclamazioni, le note banali e i dettagli più atroci, messi lì per solleticare interessi morbosi, si alternavano al cordoglio degli immancabili “servitori dello Stato”, pronti al rito composto, ma stranamente sconcio, delle dichiarazioni ufficiali, tutte uguali tra loro, tutte segnate da una sapiente miscela di lutto, commozione e insinuazioni. Mafia e terrorismo in ogni possibile salsa: o piste alternative, che si escludevano a vicenda, o un pericoloso intreccio per l’eterno attacco al cuore di uno Stato innocente per definizione e pronto a reagire con la forza e la severa maestà della giustizia. Ci sarebbe voluto ben poco a cogliere i tratti d’una scontata retorica, i dettagli “scollati” dai fatti e le falle di ricostruzioni che non stavano in piedi, ma i giornalisti se ne stavano zitti – “la gente è ormai carta assorbente“, rifletteva Ernesto – e si capiva che ormai bastava davvero poco a montare e smontare cervelli: parole dietro parole, senza un serio costrutto, senza la spina dorsale d’un cenno storico e d’una nota critica, senza il salutare tarlo del dubbio. Il solito copione: verità presto smentite da successive e più vere certezze, rivelazioni, ritrattazioni e un susseguirsi di effetti speciali, un incrociarsi di flash che accecavano un popolo di “senzastoria”. Cose sperimentate probabilmente da esperti prezzolati in terre sventurate. Chi muoveva i fili non cercava più la disinformazione. In campo c’erano progetti più ambiziosi e ad Ernesto il colpo pareva da tempo pienamente riuscito.

Per istinto più che per una ponderata riflessione, tutto era ben chiaro a Ernesto, il professore che in testa, sotto la neve candida dei capelli ancora folti, si portava un’idea di società che più il tempo passava, più era contraddetta e sconfitta dalla realtà, più gli cresceva dentro con la forza singolare della ragione che non si piega alle ragioni della forza. Non si trattava certo di un vecchio sognatore incapace di adattarsi ai cambiamenti. Aveva sessant’anni ma, a guardar bene oltre il velo delle lenti, gli occhi si mostravano così vivi e accompagnavano con tanta armonia di sfumature le parole e i moti dell’animo inquieto, che l’intelligenza, benché affaticata dagli anni e da una vita amara, s’intuiva lucida e penetrante. Così penetrante, che quando la cronista si avventurò in un’apologia della democrazia, con un brutto arnese che a Genova s’era distinto per la brutalità, le oppose subito parole taglienti:
E’ una verità scomoda e forse la conosci, ma io voglio dirtela. Nella tua santa democrazia il criterio quantitativo causa inevitabili storture: spesso la ragione sta dalla parte di sparute minoranze. Lo vedono tutti e ne sono convinti, ma quando ci si conta entrano in ballo i più svariati interessi e un torto evidente diventa ragione.

Le televisione gli dava ormai la nausea e si sentiva impotente, benché, per difendersi dalla valanga di menzogne, ricorreva a un suo sistema di difesa, forte di meccanismi logici così sperimentati da essere ormai automatici. Da anni s’era abituato a credere che quando il baraccone mediatico ti indirizzava al no, dovevi puntare sul sì; da anni faceva di ogni esclamativo un punto interrogativo e nella verità del potere cercava la menzogna che si voleva coprire. Stavolta il vecchio professore era partito da una riflessione apparentemente balzana: la scuola era da tempo nel mirino del potere e l’attentato che aveva dilaniato corpi, puntava a cancellare un più atroce massacro.
No, non è come racconti. Questa bomba che non è stata la prima come ci vuoi far credere, diceva a se stesso, questa bomba che ha dietro una storia di bombe mai punite, esplose ogni volta che si trattava di farci ingoiare medicine amare, questa bomba ha obiettivi più tragici di quello centrato. Ha dilaniato delle povere ragazze sventurate, ma ha anche levato un immenso polverone attorno a ciò che è accaduto alla scuola e ai giovani in questi ultimi anni…
Qui si fermava, quasi consapevole del suo isolamento e critico con se stesso. Gli pareva di sentirli gli eventuali interlocutori e le loro accuse di dietrologia e di becero complottiamo, ma mentre il diavoletto critico che gli viveva dentro pareva imporgli un pensiero parassita sulla valenza estetica di parole come dietrologia, egli si richiamava all’ordine e non smarriva il filo del ragionamento.

Quando i giovani hanno scoperto la reale portata della rapina e si sono accorti che tra formazione privatizzata, pensioni cancellate e precarietà levata al rango di feticcio, gli hanno rubato i sogni, sono comparse prima le solite squadre nere, poi son venute le bombe.
“Quali bombe?” avrebbe dovuto chiedergli la cronista dal maledetto televisore, ma non poteva e, d’altro canto, muta com’era persino quando poteva parlare, figurati se avrebbe pensato di fargli una domanda ora che le era impossibile intervenire. Per Ernesto, però, anche quell’obbligato mutismo era un modo di interloquire e rispose perciò alla domanda come se davvero gliel’avessero fatta:
E sottrarre fondi alla scuola pubblica per passarli ai privati non è stato un attentato gravissimo? La continuità didattica ammazzata, il diritto allo studio negato e i professori “fannulloni”, investiti da campagne di stampa che ne hanno fatto mangiapane a tradimento, tutto questo non è stato un sanguinoso massacro? Chiunque abbia messo una bomba oggi davanti a una scuola viene a completare un lavoro iniziato da tempo e cala una pesante cortina di paura su tutto e su tutti: qui c’è un pericolo immediato, si urla, e lo si fa per coprire il pericolo più grave, quello che non fa rumore, non esplode, non dilania e non brucia. Annichilire con la paura la coscienza critica – si diceva da tempo Ernesto – è l’obiettivo del terrorismo vero. Così è con la crisi. Avete vissuto al di sopra delle vostre possibilità, ci ripetono ogni giorno, è ora di pagare. Anche questa è un bomba – pensa ora Ernesto – un colpo sparato nel mucchio, senza lasciare scampo. Ne ha fatto e ne farà di morti, questa paura, perché la gente dignitosa e onesta si lascia morire piuttosto che vivere nella vergogna.

Si sentiva in colpa il vecchio professore. Non perché avesse mai davvero vissuto prendendo più di quanto dava. In banca aveva un conto disperato e dopo quaranta e più anni di lavoro non possedeva praticamente nulla. Il suo primo stipendio superava di poco le 100.000 lire e l’ultimo, misurato in euro, sfiorava la miseria. In quanto alla pensione, che da un po’ figurava sui giornali come un furto ai danni di figli e nipoti, non gli sarebbe bastata a campare. Nella vita Ernesto non aveva guadagnato nemmeno la millesima parte di ciò che toccava in un anno ai mille Soloni che da qualche tempo andavano cancellando diritti, in nome d’un delirio chiamato mercato, però si sentiva in colpa.
Buona parte dei delinquenti che occupano oggi i posti di comando – si diceva con vera amarezza – l’abbiamo formata noi, io e i miei colleghi.
Si confortava, però, ricordando a se stesso che per decenni aveva tirato su tantissime intelligenze. I più s’erano poi distinti all’università e nelle libere professioni; i figli degli operai erano saliti su fino ai piani alti della società o avevano trovato lavori dignitosi. Non era vero nulla, pensava, il treno dei diritti aveva fatto onestamente la sua corsa. Era stato l’altro a truccare la corsa, il treno dei privilegi, che aveva continuato a viaggiare su un binario parallelo. Se tornava indietro e rifaceva il viaggio per intero tutto era chiaro: ogni volta che il treno dei diritti, aveva soprapassato quello dei privilegi era scoppiata la bomba. I criminali erano lì, su quel treno occorreva cercare fabbrica e proprietario delle bombe.
La televisione, intanto consumava con sperimentata perizia l’assurdo rituale di accuse sparate a caldo. I soliti anarchici, naturalmente, e l’anarchico Ernesto, che si sentiva d’un tratto chiamato in causa, sorrideva per vincere l’inquietudine. Al posto del “ballerino” Valpreda, era comparso ora un nuovo tipo di mostro: un sessantenne “asociale”.
Va a capire che vuol dire asociale, si chiese per un attimo Ernesto. E io, che di natura sono schivo e me ne sto da parte perché in questo condominio della malore si mangia pane e regolamento e non si vive senza sparlare dei vicini, io che sono?
“Un asociale” gli rispose qualcuno o qualcosa nascosto chissà dove nella sua testa. Un asociale.

La tragedia era nell’aria, pensò, e la televisione, pronta, lo confermò
“Qualcuno ha pensato bene di preannunciarla”, azzardava un funzionario di polizia, fermato al volo dal microfono infuocato dell’instancabile cronista. “Dopo il colpo di pistola tirato a un manager giorni fa, è apparso chiaro a tutti che non ci saremmo fermati a quel gesto folle. Non si tratta di bande armate. Sono anarchici di sicuro, ma, gente isolata , cani sciolti che agiscono da soli. Gente inserita tranquillamente nei gangli vitali della società. Magari un insegnante. Uno di quelli frustrati dal clima nuovo, che fa la battaglia di retroguardia contro la valutazione e la società del merito”.
E giù l’elenco inconsistente dei soliti indizi buoni per tutto e per niente: la lettera con polvere di esplosivo, il riferimento a Moro, Falcone e Borsellino, un incidente in cui s’era trovato coinvolto un mezzo dei carabinieri. Tutte cose che, chissà perché, a dar retta al funzionario, facevano pensare all’immancabile anarchico, che nell’intervista diventava d’un tratto proprio come occorre che un anarchico sia per la polizia. Non un tizio che si fa domande e ha un’opinione politica. No. Un mistero glorioso, uno che non si vede, non si sente e nessuno conosce tranne gli anarchici come lui e la polizia. Se l’opinione pubblica aveva bisogno di un uomo “geneticamente” colpevole, l’intervista ne aveva fornito un vero identikit. Tutti e nessuno tra i dissidenti, i diversi e gli strampalati.
L’anarchico così come lo hanno descritto, potrei essere tranquillamente io, si disse Ernesto, mentre si rendeva conto di non avere lo straccio di una alibi. E il suo sorriso intelligente si fece un po’ più teso. Si consolò, però:
Due voli dalla finestra d’una questura sarebbero certamente troppo anche per loro. La pelle la salvo. E tornò alla televisione non senza una spiacevole sensazione d’inquietudine.
La testa ora, chissà perché, s’applicava ai particolari. E’ un inestricabile groviglio, pensava. Una povera ragazza uccisa e mille contraddizioni. Mafia dice la televisione, ma il luogo e il movente sono fuori contesto. La mafia salda i conti in Sicilia, e le altre organizzazioni criminali non fanno attentati su commissione. E Moro, poi. Cosa c’entra l’omicidio di Moro con Borsellino? E’ la prima volta che si colpiscono ragazzi… Ma chi lo dice? I morti a Trieste si volevano fare e prima ancora si fecero a Portella della Ginestra; quanti ragazzi colpiti, in quella tragedia, pensò, scuotendo il capo. Anche una madre incinta. E non se ne parla. No, nemmeno una parola.
“Un maledetto imbroglio”, gli sussurrò il solito inquietante pensiero parassita. E aveva ragione. Chi spara nel mucchio, si disse, non sa chi prende e, a essere onesti, anche un anarchico lo deve ammettere: le Brigate Rosse tiravano. prendendo la mira.
“Ma è proprio per questo che serve un anarchico”, fece allora la voce parassita. Ed era vero. Non a caso, l’ordigno era rudimentale – la rozzezza dei mezzi sta nell’idea di anarchia – e se vuoi creare dal nulla un colpevole se cerchi di depistare un’indagine perché c’è da coprire qualcuno, l’anarchico è il meglio che passa il marcato. E’ la parola stessa che fa pensare ai mostri, c’è una storia pregressa, un percorso già fatto. E la gente si accontenta di poco. Basta scatenare la paura e subito si rintana, ti chiede che gli porti al più presto il capro espiatorio e crede in qualunque fandonia. Tu rivendichi e tuoi e i suoi diritti, ammise, ma quella ci rinuncia, ti guarda con sospetto e giunge a volerti morto.
“E’ un’operazione classica, da antologia della provocazione”, gli fece d’un tratto il pensiero parassita. Poi qualcuno bussò alla porta. Ernesto si fece di ghiaccio.

Uscito su “Fuoriregistro” il 28 maggio 2012

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GIUSEPPE ARAGNO
ANTIFASCISMO E POTERE
Storia di storie

Bastogi Editore
p. 152,  € 15,00

 Nella cornice della “grande storia” – guerra, rivoluzione, passioni e conflitto sociale – uomini e donne in lotta per la dignità. L’antifascismo popolare, la scelta di lottare e resistere, tra coraggio e disperazione, in otto storie attraversate da un filo rosso: la cieca ferocia della “ragion di Stato” e l’assurda razionalità dell’ordine costituito. Senza rinunciare al rigore della ricerca, il saggio colloca i fatti nella loro dimensione umana, restituisce la parola a chi non l’ha mai avuta e acquista così i ritmi della narrazione e i toni del romanzo. Ne nasce un processo al potere che ha per protagonisti voci sconosciute e volti dimenticati in cui il lettore ritroverà qualcosa di se stesso e riconoscerà il presente in un passato che chiamiamo Storia.

 

(Due parole dell’autore, fuori da regole e convenzioni. E’ appena uscito. Acquistatelo, ne vale la pena: è un bel libro e mantiene ciò che promette. Non dovrei essere io a dirlo, ma non amo la falsa modestia e le inutili ipocrisie. L’ha pubblicato un editore vero, uno che non ti chiede soldi, ti fa un contratto, ti dà la percentuale sulle vendite e per entrare in libreria deve lottare. E’ raro che sia così  e questo per me è un valore aggiunto, una piccola, ma significativa vittoria. Il “mercato” è in mano agli editori ricchi e alle grandi catene di distribuzione. Andate a chiederlo perciò a Feltrinelli, Mondadori e soci, li costringerete così a ospitarlo e se proprio non la spuntate, rivolgetevi a librerie “alternative” o acquitatelo on line. Aiuterete il libro a fare la sua strada. Non ve ne pentirete, prometto: due pagine di premessa, un cambio di marcia e non vi fermerete più fino alla fine).

Ecco il link per acquistare libro dall’editore:
http://www.bastogi.it/cedola.html

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Testimone d’un viaggio

Penso molto
e tutto presto si perde,
come l’orma d’un piede
in riva al mare.
Scrivo poco
e se qualcosa poi resta,
né bella, né brutta,
è testimone d’un viaggio.
No, non sono stato tra voi
come un turista.

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 A Napoli la cronaca della città pone domande inquietanti: i miei giovani amici studenti, i miei compagni di lotta, i sindacati di base, sono tutti tornati d’un tratto “sovversivi”? A dar retta all’allarme dei cronisti e alle denunce, si direbbe di sì e anzi, com’è nella tradizione d’un Paese che non sa o non vuol fare i conti con la sua storia, sono diventati ormai “pericolosi”. Se dico “tornati”, non è per sopraggiunta demenza senile. E’ il contrario. E’ che la memoria, invece, è ancora buona e ricordo perfettamente che, per fare un esempio, qui a Napoli, i ragazzi del “Collettivo Autorganizzato Universitario” sono stati “sovversivi” già nel dicembre del 2010, quando sul “Mattino” Massimo Martinelli scriveva cupo e allarmato che i giovani studenti serrati “i ranghi con gli attivisti dei centri sociali e con gli eredi dell’anarcosindacalismo” s’erano messi “contro lo Stato”. Oggi nessuno se ne ricorda e i ragazzi hanno poi smentito coi fatti Martinelli e soci, ma in quei giorni, secco come una fucilata, il giornale titolava: “Studenti e centri sociali: ecco il patto del terrore“. Niente spazio per i dubbi: una condanna senz’appello. In quanto al “Messaggero”, un modello di giornalismo liberale, citando un rapporto dell’antiterrorismo, “riservato” per tutti, non per il suo cronista, descriveva addirittura la “galassia” del terrore. Una “riservatezza” violata, dio sa come, anche dal “Mattino”, scatenato a sua volta nei dettagli su un fronte del “terrore” formato, guarda caso, dalle espressioni del mondo della scuola, che era in piazza ogni giorno coi ricercatori universitari; proprio loro, sì, i ricercatori, che come tutti sanno hanno antiche tradizioni bakuniniste. Gli uomini dell’antiterrorismo, poi, che a quanto pare avevano tracciato la “mappa del terrore” per passarla ai giornali, riferivano che “a Torino, Milano, Padova, Bologna, Genova, Firenze, Roma e Napoli c’erano studenti e ricercatori, ma anche attivisti dei centri sociali, identificati dall’occhio attento delle Digos cittadine”. Non mancavano gli onnipresenti “duri del sindacalismo di base, convinti che le azioni di massa, come le manifestazioni o gli scioperi generali, servano soprattutto ad attirare sulle barricate le categorie dei lavoratori scontenti, […] i ragazzi delle università, […] i centri sociali e le organizzazioni studentesche che fornirebbero le teste pensanti al vertice del Movimento”. Equitalia non c’entrava nulla – all’epoca il problema era Gelmini – ma i “sovversivi” a Napoli erano quelli di oggi: studenti del “Collettivo Autorganizzato Universitario” e attivisti del Laboratorio Insurgencia, che di lì a poco, però, folgorato sulla via di Damasco, si sarebbe schierato con Luigi De Magistris, al quale tutto si può rimproverare, meno che frequenti “sovversivi”.

Perché non dirlo? I “terroristi” io li conosco bene. Nell’infocato autunno del 2010, circondato da agenti-fotografi che, in quei mesi, mi “scortarono” attivamente, ero con loro tutti i giorni nelle assemblee di giovani che avevano serie ragioni per protestare: gli avevano rubato il futuro. Posso dirlo in coscienza: non c’era una sola verità in ciò che raccontava certa stampa. Tra noi, nessun accordo segreto e nessun terrorista. C’erano studenti, ricercatori e spesso artisti, gente di cultura, che si batteva contro la sciagurata “riforma Gelmini” dietro i loro illuminanti striscioni: “Noi la crisi non la paghiamo!”. Nell’atrio del Teatro di San Carlo, in un’allucinante sera di dicembre, ho visto coi miei occhi manipoli di agenti scatenati – il solo pericolo vero presente nel tempio della musica – manganellare a tutto spiano studenti, docenti e persino gli artisti impegnati nelle prove e venuti a parlare con noi e a solidarizzare. Gente così inerme che, non ci fosse stata di mezzo la divisa, avresti avuto buoni motivi per pensare a un’improvvisa pazzia. Pazzia, però, purtroppo non era.

Approvata la riforma, misteriosamente sparì la “sovversione” e per due anni il silenzio è caduto tra noi. D’un tratto, giorni fa, per opera e virtù dello Spirito Santo, i presunti sovversivi si sarebbero svegliati. Che è accaduto? Perché questo improvviso ritorno di fiamma? Attentati, rapimenti, espropri proletari? No, nulla di tutto questo. Uova marce e vernice ad Equitalia, cariche immediate e qualche scaramuccia. Ci sono stati eccessi? Deprechiamoli, ma la storia dei “sovversivi pericolosi” è l’eccesso più grave.

Non partirò da Cucchi, non griderò allo scandalo per De Gennaro sottosegretario, non dirò ciò che sarebbe bene dicessero per prime le forze dell’ordine dopo che “Diaz” e Vicari l’hanno certificato: Genova fu una vergogna nazionale. Non lo farò. Parlerò di un passato che riguarda tutti, come compete allo storico, per ricordare che da Crispi al ‘68, da Romeo Frezzi a Pino Pinelli, la storia del conflitto sociale s’è macchiata di troppo sangue innocente e s’è legata spesso a montature di pennivendoli e velinari. Dirò che Frezzi era un povero muratore innocente, morto di botte in un interrogatorio e Pinelli una staffetta partigiana. Dirò che a Milano, quando Pinelli volò dalla finestra della stanza in cui lo interrogavano – gli anarchici, sempre gli anarchici – era questore Guida, il fascista che aveva tenuto confinato Umberto Terracini, l’uomo che poi firmò la Costituzione. Dirò che a Napoli, nel giugno del 1914, con quattro manifestanti uccisi, non si trovò un colpevole e finì con un processo ai soliti ignoti armati di… moschetto e pistole d’ordinanza. Dirò che settanta morti in piazza negli anni della guerra fredda, dal ‘48 al ‘68, sono un orrore italiano che fa arrossire di fronte alle dieci vittime di Francia, Inghilterra e Germania messe assieme. Dirò che tornare sulla tragica barzelletta degli studenti “sovversivi” in un momento così difficile vuol dire far finta di non sapere che qui da noi spesso, troppo spesso purtroppo, dietro il paravento dell’ordine costituito, s’è costruita la tomba della giustizia sociale. E si è cominciato così, agitando uno spettro. 

Da “Contropiano“, 19 maggio 2012

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Un’intera classe dirigente ha così a lungo sparato sulla scuola, che prima o poi doveva accadere. Ci diranno ch’è mafia, ma noi risponderemo ch’è solo manovalanza mafiosa, gente che esegue ordini. E gli ordini chi li dà? Ci chiederanno, sospettosi. Non ci vuol molto a capirlo, diremo fuori dai denti. Chi ha ordinato gli arresti di Francoforte e ha ammanettato la democrazia, incriminando il pensiero critico. Ecco chi è che dà gli ordini. C’è un filo rosso che corre diritto tra i fatti di Germania e la Puglia insaguinata. Nel mirino un solo obiettivo: il libero pensiero, la scuola come baluardo di democrazia. Stiamo vedendo all’opera, uniti, gli inconfessabili interessi dei due rovesci d’una sola medaglia: banche e mafia.
Domani ministri e sottosegreatri reciteranno la solita farsa  e si appelleranno a una democrazia che hanno distrutto. Ricordiamocelo allora, e ricordiamolo a loro trattandoli come meritano. Tra le conquiste della rivoluzione borghese ce n’è una che si tende a ignorare, perché la borghesia rivoluzionaria è diventata ormai reazionaria; essa e già presente in Rousseau, per il quale, nel momento in cui il patto sociale viene violato, il potere politico diventa illegittimo e il diritto di resistenza e ribellione viene legittimato. Non meno chiaramente il principio si ritrova nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino e nel preambolo della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America: “quando una lunga serie di soprusi ed usurpazioni, volti invariabilmente ad un unico scopo, offrono prova evidente del disegno di un governo di assoggettare il popolo a condizioni di dispotismo assoluto, é diritto e dovere del popolo di abbattere quel governo e di creare nuove salvaguardie per la sua sicurezza futura“.
Di questo si tratta, ormai: di ribellarsi e creare le nuove salvaguardie.

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A dar retta ai soliti pennivendoli e ai servi sciocchi che siedono in Parlamento, Monti aveva schierato davanti a Napolitano un manipolo di scienziati onesti e disinteressati. In pochi mesi, due se ne sono andati travolti dagli scandali, gli altri si sono dimostrati più incapaci d’una banda di somari cocciuti e tutto si è ridotto alle lacrime indecorose e alle “paccate” d’una donnetta che recita da cane. Ha voglia di vendere fumo il presidente Napolitano, che vive di un ricco stipendio parlamentare dalla bellezza di cinquant’anni e non sa cosa significhi tirare la carretta: ogni giorno che passa va sempre peggio e tutto quello che il governo sa dire è che il peggio deve ancora venire.
Smettiamola, per favore, di correre appresso alle chiacchiere televisive e diciamo la verità. Monti ce l’avevano presentato come meglio non si poteva: il salvatore della patria, il paladino della giustizia sociale e l’uomo dell’equità, invece si è rivelato solo l’uomo dell’Equitalia.

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C’era chi pensava: se n’è andato Berlusconi, ora ci sono i professori e si migliora. A novembre c’è stato persino chi ha salutato il nuovo 25 aprile. Ingenui o utili idioti, non lo so, so che che i professori stanno… sgombrando la cultura! E per forza. La vecchia classe dirigente s’è rafforzata. Lo sanno tutti: i professori del capitale sono la quintessenza dell’ignoranza.

Chiudere Macao è l’espressione del disordine mentale che c’è in Italia, la classe dirigente è isolata, guarda questi ragazzi come sono civili, come sono armoniosi, guardali. La classe politica è alle corde, lo capisce ed ha paura perché sanno che domani potranno non esserci più. Questi ragazzi sono straordinari, ai miei tempi si cercava anche la rissa. Questi ragazzi non la cercano la rissa, vogliono solo esprimersi” (dichiarazioni alla stampa di Dario Fo).

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Le scrisse Pintor e sono parole che scuotono: «Non ci vuole una svolta, ma un rivolgimento. Molto profondo. Niente di manicheo, ma bisogna segnare un altro confine e stabilire una estraneità riguardo all’altra parte». Mi vengono in mente, mentre leggo sul Manifesto la lettera aperta a Rossi Doria, che quel confine lo ignora, e mi pare evidente: siamo figli delle nostre scelte.
Voglio crederci: si può accettare di entrare in un governo come quello di Monti nella pia illusione di dare un qualche contributo positivo alla crisi che ci uccide. Non è giusto, ma è umano. Inaccettabile è, invece, conservare l’illusione dopo la riforma delle pensioni e del mercato del lavoro e la maniera scelta per affrontare la crisi e produrre così, tra l’altro, la catastrofe del nostro sistema formativo. Purtroppo non si tratta solo dell’Invalsi, di cui non a caso Urbani, sottosegretaria e collega di Rossi Doria, è stata finora esponente di punta. Il punto è che questo governo non solo è completamente appiattito sulle scelte del ministro Gelmini, ma ne prosegue, con metodica e per molti versi feroce determinazione, il lavoro di smantellamento della scuola e dell’Università dello Stato, intese come presidi di democrazia e strumenti di formazione del pensiero critico. Tutto va nella direzione voluta dal precedente governo, tutto si inserisce in una concezione autoritaria e iperliberista del ruolo della formazione, a partire dalla messa in discussione del valore legale del titolo di studio, dalle scelte in tema di valutazione della ricerca, per giungere al rifiuto di fare della scuola e dell’università il perno attorno a cui ruoti un progetto di crescita non solo culturale ma economica del Paese.
Il “collega” Rossi Doria sa bene che la scuola italiana ha organici insufficienti e risorse finanziarie inesistenti, conosce perfettamente l’esito devastante della precarietà del personale scolastico e di una “razionalizzazione” di ispirazione aziendalistica che qui produrrà superfetazioni tentacolari, lì indebolirà la presenza della scuola sul territorio e colpirà soprattutto le scuole che operano dove ci sono più poveri, dove più a rischio sono i giovani e più grave è il disagio sociale. Il sottosegretario non ignora gli esiti disastrosi di un’autonomia a risorse zero che mentre ti emancipa ti fa servo. L’INVALSI non è semplicemente un tormentone; è uno strumento di controllo che eleva al rango di criterio unico di valutazione del lavoro di un docente la “competenza” di uno studente “astratto”, separato da ambiti territoriali, contesti ambientali, estrazione sociale, capacità, punto di partenza e punto di arrivo; una competenza che assume un significato univoco, smette di essere l’esito di un processo e mortifica quei docenti di cui volutamente ignora le qualità innovative in tema di programmazione formativa dell’istruzione. L’obiettivo è chiaro: confondere l’abilità con la “conoscenza”, ricondurci alla trasmissione acritica del pensiero dominante, custodito dai sacerdoti del potere nei santuari del sapere. “Valutati” così gli studenti, è molto facile rendere ricattabile il docente e scoraggiarne ogni tentativo di formare intelligenze critiche. Un progetto liberticida, quindi, che segna un confine invalicabile e una frattura irrimediabile. I docenti non chiedono nulla al Governo. Difendono la scuola dello Stato e con essa la democrazia.
Lo dirò ancora con Pintor: senza badare a fede, nazionalità, razza e formazione politica, la scuola mira a costruire persone, «individui, ma non atomi, che si incontrano e riconoscono quasi d’istinto ed entrano in consonanza con naturalezza». Su questo un docente pretende di esser valutato. Perché ciò avvenga, però, è necessario che si riconosca il diritto dei docenti a valutare. Noi insegnanti della Repubblica abbiamo torti e ragioni, ma veniamo da lontano e siamo consapevoli del nostro ruolo. Voglio ricordarla qui, la nostra via, cercando tra le mie carte di vecchio studioso. “Scuola e Resistenza”, numero unico del Comitato di Liberazione Nazionale della Scuola, uscì quando la sorte del fascismo stava per compiersi. Nella copia che ho davanti mentre scrivo, la data non si legge ma il giornale fu certamente stampato alla macchia fra giugno e luglio del 1945. Quattro facciate dense di articoli: il ricordo commosso di insegnanti caduti lottando contro la barbarie fascista, la questione ormai attuale dell’«epurazione dei libri di testo fascistizzati» e l’invito a sfidare il regime morente, «macabro fantasma» che si sforza di delinquere per credersi e affermarsi vivo: «Non giurate! […] Insegnanti! Opponete un incrollabile rifiuto» – il sogno di «un’Italia risorta» in cui la scuola «sarà il fondamento, l’elemento innovatore» e l’insegnante «rivestirà una missione augusta: perché l’educazione forma l’uomo vero ed eleva il popolo; essa è l’unica condizione di libertà e di eguaglianza e di progresso».

Quell’Italia risorta è oggi sotto processo. E’ un’Italia scomoda. Storici improvvisati versano lacrime strumentali sul “sangue dei vinti”, leader d’una presunta sinistra recitano il mea culpa per le foibe, la Costituzione nata dalla Resistenza è calpestata ed è passata una riforma della scuola, per la quale davvero si potrebbero usare le parole che scrivevano nel 1945 gli insegnanti che si armavano per l’ultima battaglia contro la dittatura: «reazione e fascismo con demagogica sagacia intuirono che l’istruzione è la vera liberatrice dello spirito umano, che eleva e libera l’uomo e lo rende conscio dei doveri, dei diritti, delle sue fondamentali rivendicazioni; ma il fascismo temeva il popolo; voleva il gregge, la massa, la folla, da sfruttare, da gettare al macello. Allora comprò letterati e falsi profeti, per traviare l’opinione e tarpare le ali al libero ricreatore insegnamento, lo soggiogò, lo volle dominare e dirigere e la costituzione sociale fascista, fondata unicamente sulla potenza del denaro, offerse un mezzo sicuro all’oppressore. L’insegnante fu asservito e domato colla miseria, col bisogno diuturno; fu ridotto a un paria, dalla vita grama e stentata, che mortifica e alla fine immiserisce anche i più arditi: la professione fu angustia, conformismo e, alfine, rinuncia. E l’insegnamento fu come la classe dominante imponeva e la gioventù crebbe informata a principi falsi, a ideologie assurde e funeste come si voleva; e l’attuale catastrofe è l’ineluttabile risultato».
Gli articoli sono tutti anonimi – era in gioco la vita – tranne l’ultimo, un “Appello alle maestre” in cui Luisa, maestra a sua volta e partigiana, si rivolge alle compagne di lavoro per incitarle alla lotta: «Uniamoci, ribelliamoci, seguiamo l’esempio delle colleghe più ardite, aiutiamole nella loro e nostra lotta, altrimenti saremo indegne di partecipare alla vita della futura scuola dell’Italia libera».
Non saprò mai chi fosse Luisa, ma ci giurerei: tornerebbe a scriverlo oggi questo suo coraggioso appello e muterebbe solo poche parole. «Per difendere il futuro dell’Italia libera», scriverebbe. E occorrerebbe ascoltarla questa nostra dimenticata e coraggiosa maestra. La maniera in cui si tratta la scuola dopo la riforma Gelmini chiama alla resistenza.

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Il vero modello di Giorgio Napolitano sembra il essere il suo conterraneo Giambattista Marino, poeta che lascia traccia di sé non per i suoi versi, ma per la funzione che attribuisce alla poesia nell’intento testardo e malcerto di rompere con la manierata compostezza della tradizione classica, in cui pure s’è formato, e assecondare le “esigenze nuove”. Lontani secoli tra loro, Napolitano e Marino condividono l’obiettivo:

E’ del poeta il fin la meraviglia,
parlo dell’eccellente e non del goffo,
chi non sa far stupir, vada alla striglia!

Smanioso di stupire, ma proprio per questo fatalmente attratto da una crescente e stucchevole esuberanza formale, Marino guadagna in lucentezza quanto perde in umanità e s’innamora di se stesso, della musica di parole che più cedono al ritmo, più perdono di profondità. Non diversamente Napolitano, messo al suo posto per garantire la Costituzione e ridotto ad essere l’unico italiano che la Costituzione ancora garantisce. L’uno poeta, l’altro politico, i due vedono entrambi ciò che non c’è e ignorano puntualmente ciò che tutti vedono. Marino vede l’arte in un artificio, Napolitano, che non ha visto la crescita clamorosa del movimento di Grillo, vede però in Parlamento una maggioranza politica che non esiste e che gli elettori chiamati a votare hanno implacabilmente bocciato.
Potesse mettere ancora penna in carta, Marino non avrebbe dubbi e coglierebbe certamente al volo l’occasione per stupire i lettori con la “Napolitaneide“, un’ode in centomila strofe tutte dedicate alle traveggole del presidente.

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