Maresca Catello. Magistrato e candidato sindaco. Di destra. Al tempo di Palamara, quando non se ne può di magistrati politicizzati. Maresca Catello. Magistrato e candidato sindaco. Di destra, in una città in cui la destra è molto presente nella cronaca nera. Maresca Catello. Candidato sindaco. Dice di no, ma lo sostiene Salvini in una città che Salvini disprezza e si prepara a saccheggiare con l’autonomia differenziata. Maresca Catello. Magistrato di destra. Ha sentito una fitta al cuore, quando qualcuno ha pensato che, di fronte alla pandemia, i detenuti andassero tutelati nell’inferno carcerario. Il cuore, però, finora non ha palpitato dopo le vergogne e gli arresti di Santa Maria Capua Vetere. Domanda: Maresca Catello, i detenuti sono forse carne da macello? Maresca Catello. Candidato sindaco. Nostalgico di Berlusconi. Gli manca un pregiudicato, decaduto dal Senato e affidato ai servizi sociali. Mi fermo qui e mi domando: Maresca Catello pensa che i napoletani siano scemi?
Dopo aver letteralmente distrutto Napoli, voi, Antonio Bassolino, chiedete un voto per tornare a Palazzo San Giacomo. Giorni fa Matteotti s’è offeso, quando nella sua piazza avete radunato clientele e clienti per raccontare la storia del «perseguitato politico». Così vi siete presentato, reduce, a vostro dire, da 16 assoluzioni. La verità è che voi non siete un amministratore innocente. Vi guardate bene dal raccontarlo, però due condanne subite in via definitiva le avete avute: una ve l’ha appioppata la sezione di Appello della Corte dei Conti per una vicenda che vi riguardava come Commissario per l’emergenza idrogeologica, un’altra comportò una pena pecuniaria di oltre 3 milioni di euro. E non è tutto. Contando sulla memoria corta e sulla complicità d’una stampa squalificata, voi insistete sulla favola dell’innocenza e come lo smemorato di Collegno non ricordate più il record che avete stabilito: personaggio politico di primo piano, ex ministro, ex Presidente di Regione e per due volte sindaco di Napoli,voi siete risultato nullatenente quando, sottoposto a procedimenti giudiziari, avete corso il rischio di dover metter mano alla tasca. Potrete fare tutti i comizi che vorrete, voi passerete alla storia come l’uomo che ha trasformato Napoli in un immenso immondezzaio, gravato dai debiti per le assunzioni di potenziali elettori. Qui la politica cede il passo alla morale e l’innocenza si colloca in un quadro di valori che lei ignora. Girateci attorno finché volete, ma la vostra esperienza politica si riduce a una parola semplice e incontestabile: fallimento. Potrete provare a nasconderlo alla gente – di mascheramenti avete vissuto per decenni – ma le montagne di spazzatura sotto le quali ci avete sepolti hanno dimostrato che persino nell’arte della menzogna siete un guitto che recita da cane. Ora ci riprovate e tornate a giocare la partita in base a un’arte che non è la vostra: voi avete fallito e fallirete, ma continuate a rappresentare l’insuccesso come successo. D’altra parte, in sede di bilancio del vostro personale naufragio, persino i vostri più stretti collaboratori sono stati costretti a riconoscere il disastro. Alla vostra memoria corta e al tentativo di ridurre la questione al gioco delle tre carte, un consiglio gioverà: andate in un’emeroteca, chiedete una copia del «Corriere del Mezzogiorno» del 21 settembre 2008, leggete l’intervista di Isaia Sales e al prossimo comizio cominciate dalle sue parole: «È inutile negarlo, non ce l’abbiamo fatta a migliorare strutturalmente la città di Napoli, non ce l’abbiamo fatta a trasformare la Regione in un’istituzione autorevole e competitiva nei confronti delle migliori esperienze regionali, non ce l’abbiamo fatta a far vincere un modello alternativo alla pratica discrezionale di governo, relegando la clientela ad una eccezione e non ad una prassi corrente e abituale, non ce l’abbiamo fatta a rendere la politica e i partiti strumenti di grandi passioni civili dopo la fine di quelle ideologiche». E se non vi fidate dei vostri collaboratori, date almeno credito a voi stesso. Siete stato voi, Bassolino, a riconoscere il vostro fallimento, quando, non sapendo più a cosa attaccarvi, avete ripetutamente tirato fuori quello che ritenete un vostro grande successo: la chiusura del ciclo è stata forse negativa, avete sibilato, il decollo non c’è stato, però voi non avete mai ceduto il governo della Campania e della città al centro destra. Una verità che equivale a un suicidio. Non l’avete ceduto, infatti, perché per anni il vero centro destra siete stato voi, i vostri uomini e le vostre politiche. Voi siete un falso comunista e un autentico liberista. Per voi il PIL e tutto quello che riguarda l’economia sono articoli di fede. Invece di raccontare favole in una piazza sacra per la democrazia, dite alla gente quello che sapete: alla fine del vostro disastroso governo, la Campania aveva messo assieme una serie di numeri negativi: quasi sempre agli ultimi posti nelle classifiche regionali, un PIL in decrescita costante rispetto alle altre regioni, crollato a livelli negativi ben prima del fatale 2008. Avete governato per quindici anni vantando successi inesistenti, mentre un’anemia perniciosa metteva in ginocchio il nostro tessuto produttivo e l’annoso problema della disoccupazione di aggravava. Di scuola e formazione, meglio non parlare. Con voi abbiamo raggiunto tassi di dispersione da terzo mondo. Con voi la delocalizzazione si è fatta devastante e gli investimenti si sono ridotti a speculazione ed elemosina. I cumuli di immondizia con i quali ci avete disonorati sono stati la chiusura del cerchio e la prova tangibile d’un degrado inenarrabile. Con questa storia alle spalle, voi vorreste tornare a Palazzo San Giacomo?
Una linea sottile sulla fronte larga e stempiata. Null’altro. A guardarla da fuori, la terribile tempesta del dubbio era tutta lì: una ruga che segnava la pelle. Federico aveva un aspetto ancora giovanile, e ti colpiva per gli occhi di un intenso verde acquamarina, il sorriso dolce e senza età sulle labbra sottili, il naso greco e il sereno, armonioso disegno del viso. – Sicuro, Lina, certo, sicurissimo e non pensare, per favore, che sicurezza e dubbio siano davvero così alternativi, da essere incompatibili. Si può aver certezza di un dubbio. Sai volare più alto tu. Lina sprofondò le belle mani inquiete nelle larghe tasche del suo camice bianco e sussurrò in un sospiro: – Nei patti che ci hanno uniti, quando questa impresa disperata è iniziata, c’era anche questo, ricordi? Uno sarà il dubbio dell’altra anche quando la certezza apparirà non solo ragionevole, ma sostenuta dalle prove di laboratorio possibili in queste condizioni. Era stanchissima. Mentre poggiava la schiena sul muro, se ne rese conto e respirò profondamente. Uno specchio le avrebbe restituito di sé l’immagine dei giorni bui: il viso troppo lungo, il naso lievemente aguzzo, gli occhi, solitamente fulminanti, ora lenti e un po’ spenti, le labbra carnose serrate in una smorfia e in testa – per guardare lì non bastava uno specchio – in testa quell’idea parassita e insistente del sogno: «Sto dormendo, dormo… tra poco mi sveglio di soprassalto e tutto cambia. Sto dormendo, sì, sto solo sognando…». Federico la conosceva così bene ormai, che seppe leggerle il pensiero dietro l’insolita opacità delle pupille: – E smettila di pensare che sogni, smettila di fuggire o tentare di evadere… – Smettila di dubitare, lo interruppe Lina con la voce spezzata dall’ansia. Questo vorresti. Che smettessi di dubitare, per non farti ancora domande alle quali non sai dare risposte. Lascia dormire per una volta la ragione, mi dici, riconosci che sei impotente. Non saremo mai certi, mai, se non metteremo alla prova la nostra scienza. E’ questo che vuoi? Federico ebbe un moto di stizza e per un attimo sembrò meno giovanile e sereno. Levò lo sguardo dalle carte che aveva continuato a studiare, mentre Lina parlava, e replicò solo apparentemente calmo: – Sono io che decido, lo sai. – Giochi d’azzardo – sibilò la donna, guardandolo di sbieco, con gli occhi improvvisamente stretti e taglienti. Nella voce, però, non c’era disprezzo. – Non ti racconto perché siamo ormai a questo. Conosci ogni cosa meglio di me. – Certo che so, la interruppe Federico scostando la lampada accesa nella penombra del laboratorio. Come tu sai che stavolta la scelta è assolutamente obbligata. – Un po’ di tempo, Federico, un poco forse ne avremmo ancora… – Non faremo in due giorni quello che in tanti non hanno potuto o saputo fare in due secoli. Quando sfiorò con la punta dell’indice il piccolo monitor che aveva davanti, Lina si arrese. – Non ci hanno lasciato scelta, esclamò disperata.Federico non rispose. Non c’era più nulla da dire. Il pianeta disseminato di scorie nucleari andava incontro al suo destino. Non c’era più nulla da dire e non c’era più tempo, le scorie stavano distruggendo ogni involucro protettivo. Due secoli prima, la sicurezza mai matematica di una scienza orgogliosa fino all’arroganza, sollecitata da interessi economici e oscure questioni politiche, aveva ritenuto d’avallare la scelta d’una nuova energia nucleare. Studiosi di ogni tendenza – Federico e Lina di quel tempo – s’erano scontrati in un dibattito che aveva fatalmente assunto i caratteri ideologici di contrapposte crociate. Erano tempi in cui la più terribile ideologia consisteva nella negazione delle ideologie e non c’era stato scampo: s’era smarrita la consapevolezza che la terra non è un laboratorio e l’umanità non può essere ridotta a cavia. Ciò che soprattutto s’era persa era la consapevolezza d’un rischio inaccettabile: scaricare sugli ignari pronipoti il peso d’un egoismo miope e miserabile. Due secoli dopo, la storia si ripeteva al contrario. I due scienziati potevano litigare, ma non avevano scelta. Due giorni ancora e sarebbe finita per sempre. Federico si preparò a dare le ultime disposizioni. Attorno a lui non vide segni di panico. Solo rassegnazione. E fu Lina a rompere un silenzio che le pesava come una lastra di piombo. – Non so chi abbia ragione, Federico, tu con la tua certezza dubbiosa, io con i miei dubbi timorosi. Lo vedremo tra poco. Prima, però, dimmi cosa pensi: se andrà bene, comincerà davvero una nuova storia? – Ricordi quello che hai detto poco fa, parlando del patto che ci ha condotto a questa impresa disperata? Uno sarà il dubbio dell’altra anche quando la certezza gli apparirà ragionevole. In tempi di disperazione, questo patto ha funzionato. Se oggi riusciremo, la disperazione svanirà. Verrà il tempo delle certezze… Una ruga sottile segnò l’ampia fronte di Federico e un’ombra velò per un attimo i suoi occhi più verdi del mare.
Il comunicato è secco e si riduce all’essenziale, ma evidentemente non teme smentite: «Ucciso da un camion il nostro Coordinatore dei SiCobas Novara Adil durante lo sciopero nazionale in corso alla Lidl di Biandrate. A differenza di quanto sta girando sulla stampa, il camion ha forzato il presidio all’esterno del magazzino investendo i lavoratori, tra cui Adil». Adil Belakhdim, di origini marocchine, aveva 37 anni, svolgeva attività sindacale da alcuni anni ed era coordinatore interregionale dei SiCobas. L’ha ucciso volontariamente l’autista di un camion, dopo una breve discussione: voleva forzare il blocco e il sindacalista ha provato a fermarlo. E’ accaduto stamattina a Biandrate, nel Novarese, nei pressi del deposito territoriale Lidl, dove era appena cominciata una manifestazione di lavoratori indetta dal SiCobas nell’ambito di uno sciopero nazionale della logistica. La vittima,lascia due figli di 15 e 17 anni. Come ricorda «Contropiano», siamo di fronte alla «stessa dinamica, fotogramma per fotogramma, dell’omicidio di Abd El Salam, operaio egiziano e sindacalista Usb, ucciso da un Tir durante un picchetto davanti alla Gls di Piacenza, il 14 settembre 2016». Com’è sembrato evidente la settimana scorsa alla FedEX, dove un presidio di lavoratori è stato aggredito con estrema violenza da squadristi sedicenti vigilantes al servizio dell’azienda, siamo tornati al clima in cui mosse i primi passi il fascismo. Coperta da un governo legato a filo doppio agli interessi padronali, l’offensiva ha nel mirino i diritti fondamentali, conquistati col sangue dal mondo del lavoro nel corso della sua storia: organizzarsi, lottare e scioperare. In discussione è la democrazia, sempre più lontana e fastidiosa per Governi padronali, decisi a scaricare in ogni modo, anche con la violenza, la crisi e la miseria prodotte dal capitalismo neoliberista sulle classi lavoratrici. Di fronte a tutto questo, non si può stare a guardare. E’ giunto il tempo della solidarietà concreta, dell’unità e della resistenza. Il tempo di una risposta all’altezza della minaccia. Bisogna accettare la sfida e dirlo chiaro: questo nuovo fascismo non passerà!
Non so se delinquenza comune e manovalanza mafiosa ne abbiano profittato, ma il ministro dell’Interno del «governo dei migliori» l’occasione gliel’ha offerta. Martedì 8 giugno, infatti, agenti di tre diversi servizi della Polizia di Stato – Direzione centrale della Polizia di Prevenzione, Digos e Polizia postale – non hanno trovato altro da fare che perder tempo nel sequestro di documenti raccolti in anni di ricerca da Paolo Persichetti, ricercatore storico che si occupa degli anni Settanta. Per un intero giorno, i custodi del quotidiano disordine pubblico hanno ritenuto l’archivio di uno storico più pericoloso del malaffare; hanno fatto così il primo passo verso quello che potrebbe diventare il processo politico a una maniera di leggere la storia che non collima con la “verità” del Potere. Nel Paese in cui il Presidente del Consiglio non sbaglia mai e se necessario cammina sulle acque e moltiplica i pani e i pesci, le cose vanno purtroppo così: se vuol vivere tranquillo, un ricercatore storico non deve occuparsi di argomenti ormai prigionieri d‘una qualche verità di Stato. A me anni fa capitò di finire sul Corsera in un piccolo ma vergognoso elenco di “negazionisti”, perché m’ero azzardato a ricostruire la vicenda delle foibe e del confine orientale fuori dai canoni della verità di Stato. Non contenta, l’onorevole Frassinetti presentò una risoluzione rivolta contro gli studiosi che non raccontavano i tragici fatti delle foibe così come voleva la sua verità e propose l’istituzione presso il Ministero dell’Istruzione di un albo degli enti e degli studiosi “autorizzati a recarsi nelle scuole per ricordare i fatti accaduti”. La lista degli abilitati a parlare non si fece, ma si decise – all’unanimità! – che fossero i presidi a valutare (?) la serietà e la serenità dei conferenzieri. Hai ragione Paolo: da tempo ormai la ricerca storica è sotto minaccia. Io però non mi meraviglio. Qui da noi si fa ancora giustizia col codice del fascista Rocco e abbiamo una Magistratura figlia dell’amnistia Togliatti. Per chi non lo sapesse, quell’amnistia fu scritta da Gaetano Azzariti, Presiedente del Tribunale fascista della razza e poi della Corte Costituzionale! E’ la Magistratura dei Palamara, dei giudici che hanno appioppato 14 anni di carcere a Francesco Puglisi, condannato per aver messo fuori uso un bancomat, secondo regole fissate dai fascisti nel 1930: “devastazione e saccheggio”! Gli stessi giudici che non toccano i padroni, quando ammazzano i lavoratori negandogli la sicurezza. Quelli che hanno incarcerato l’ultrasettantenne Nicoletta Dosio, esponente dei NO Tav, per un danno erariale di poche centinaia di euro e applicano il principio fascista della “pericolosità sociale” a Eddi Marcucci, tenuta sotto stretta sorveglianza e sottoposta a mille privazioni di libertà perché, armi in pugno, ha difeso dai turchi di Erdogan la libertà dei Curdi. Il beato Draghi, che si avvia a diventare santo, l’ha detto chiaramente, del resto: a noi i dittatori servono. Non l’ha detto, ma è chiaro: ci dà invece molto fastidio chi li combatte e lotta per la libertà. Tu, caro Paolo, hai chiesto a giusta ragione a chi ama la storia una risposta civile, ferma, forte e indignata. Che – aggiungo io – non si limiti alle parole di circostanza e al bla bla sulla solidarietà. Per quanto mi riguarda ho un archivio pieno zeppo di malefatte di giudici servi del potere e ci ho scritto libri: Crispi che chiede ai giudici di imbastire un processo farsa per far fuori i socialisti e il processo si fa; un magistrato che si contenta della dichiarazione congiunta e bugiarda di un pool di Commissari di P.S. che raccontano Biancaneve e i sette nani su un omicidio di Stato, commesso nei giorni di fuoco della settimana Rossa e via di questo passo. Mettiamo insieme qualche libero ricercatore. Ognuno ricostruisce, in ordine più o meno cronologico, una o due pagine «nobili» di questa storia infame e facciamone un libro. Raccontiamo alla gente cosa contengono le nostre carte e vediamo quanti sequestri e quanti processi i camerati di Palamara avranno l’ardire di organizzare.
Napoli, 19 maggio 1879 – 28 dicembre 1931 Nel 1893, quando si iscrive alla «sezione impiegati» del Partito Socialista, è ancora uno studente ma frequenta sovversivi e si nutre di libri e giornali rivoluzionari che, secondo la polizia, hanno saputo «guastargli il cervello». Troppo giovane per valutare i rischi che corre, il 9 agosto 1894, mentre Crispi soffoca violentemente i moti contadini in Sicilia, si reca in Questura e firma un atto di fede nell’anarchia. Una perquisizione domiciliare consegna così alla polizia una lettera in cui scrive di voler diventare un «santissimo Caserio», l’anarchico che ha ucciso il Presidente della repubblica francese Sadi Carnot. Interrogato, spiega di volere davvero ammazzare Crispi, causa di rovina per tanti uomini, ma aggiunge di non essere capace di uccidere. Denunciato per «apologia di delitto», il 28 agosto è affidato al padre in «libertà provvisoria». Chiuso in collegio, il ragazzo conserva le sue idee e durante le vacanze frequenta i soliti compagni di fede. Il 6 agosto 1897, disperato per l’isolamento in collegio, tenta il suicido, ma si salva e dopo il liceo si iscrive alla Federazione Socialista. Nelle manifestazioni è così attivo che, profittando dei moti per il pane, il 10 maggio 1898 la polizia lo include tra i «sovversivi pericolosi» e lo arresta. Il 13 giugno è condannato a sei mesi di domicilio coatto a Ischia, ma evade e si consegna a novembre, quando, cessato lo stato d’assedio, può tornare libero. Controllato con cura, il giovane si fa prudente e se prova ad agire, è subito colpito. Il 4 giugno 1899, infatti, «festa dello Statuto», è arrestato per «un manifestino sovversivo diretto all’esercito e stampato alla macchia». Contrario all’intesa tra Giolitti e Turati, festeggia il primo maggio 1900 con un gruppo di socialisti dissidenti. Nel 1901 entra nel Comitato di lotta al domicilio coatto ma è così vicino ai libertari, da essere segnalato tra gli anarchici italiani in contatto con quelli argentini. Arrestato per oltraggio al papa ed eletto segretario della «Lega di resistenza dei camerieri di caffè e ristoranti», nel 1902 rompe coi socialisti. Decisa a zittire un militante che trova ascolto tra i lavoratori, la polizia intanto forza la mano. Nel 1903 è ripetutamente arrestato: perché porta bandiere anarchiche ai comizi socialisti, turbando l’ordine pubblico, perché si agita in un corteo contro l’Austria, causa incidenti tra il pubblico al Consiglio Comunale, oltraggia Pio X e incita all’odio di classe. Nel 1904 è fermato perché viola la legge di P.S., è in prima linea negli incidenti di settembre per lo sciopero generale e diffonde volantini non autorizzati alla elezioni politiche di novembre. La repressione rende Vanguardia prudente, finché il 29 marzo 1906 pubblica «La Voce dei Ribelli», che i tipografi, impauriti dalla polizia, rifiutano di stampare. Scritto a mano e diffuso alla macchia, il giornale chiede cambiamenti politici e sociali e tocca temi ancora attuali: la questione morale e una «legalità» estranea alla giustizia sociale, che lascia impuniti coloro che, politici in testa, «rubano […] scappano e portano via parte della ricchezza nazionale». I toni sono violenti – «se occorre distruggervi, […] senza esitare contribuiremo» – ma è una violenza figlia della cecità del potere. Alla «Voce dei Ribelli» fa seguito «I Ribelli», giornale di cronaca e dibattito teorico, che dopo due numeri diventa «Il Picconiere», ma è subito chiuso. Nel 1907 Vanguardia, presente al Congresso Anarchico di Roma, vive a Milano, è redattore della «Protesta Umana», e tiene conferenze sul domicilio coatto e sull’antimilitarismo. Il 13 novembre parla al comizio di Milano per le vittime politiche, poi è segnalato a Vigevano, Pavia, Santhià, Biella e Lugano. Rimandato a Napoli con foglio di via a febbraio del 1908, fonda il «Sorgete», un gruppo comunista «libero», ostile a ogni organizzazione politica, ma aperto a un sindacalismo di base, fondato sull’azione diretta. Tra i temi di fondo, i diritti negati e il parlamentarismo, che non solo limita la libertà di riunione e di pubblico comizio, ma giunge al sequestro preventivo e alla soppressione dei giornali, all’arresto dei cittadini «per delitto di pensiero» e alle fucilate sul popolo affamato. Il 7 ottobre 1909, «Sorgiamo!», nuovo giornale di Vanguardia, individua i nemici del popolo – «lo Stato, il Capitale, la Chiesa […] i giudici, gli sbirri, le carceri, i codici, i soldati» – e minaccia di «demolire» il «vecchio e decrepito assetto sociale» che la storia condanna a sparire. Una minaccia che il 13 ottobre 1909, durante le proteste per la condanna a morte di Ferrer, Vanguardia realizza simbolicamente, facendo esplodere un innocuo petardo nella chiesa di Montesanto. Un gesto per cui è condannato a quindici mesi di carcere. Uscito in libertà provvisoria, Vanguardia torna alla lotta sindacale, guidando una vertenza dei tessili della «Wenner» di Scafati, che nel novembre 1910 sfocia in aspri scontri e in una denuncia per mancato omicidio di un poliziotto. Nel 1911 è l’anima del movimento contro il caro-casa e partecipa a vari scioperi. Ad aprile del 1912 è segretario della «Lega dei lavoratori dell’Arte bianca», che guida fino al 17 agosto, quando lo ferma l’esecuzione della condanna per il petardo di Montesanto; tornerà libero per uno sconto di pena l’11 marzo 1913. Il tentativo di dar vita a «La Battaglia», un giornale subito censurato, e due arresti segnano il ritorno alla militanza di Vanguardia, che il 25 gennaio 1917 è sulla linea del fuoco, dove la morte è il volto della guerra. All’orrore delle trincee, reagisce organizzando diserzioni e falsificando licenze, finché il 10 gennaio 1918, scoperto, resta in carcere fino al 15 marzo 1919, quando è assolto per mancanza di prove. Tornato a Napoli, diventa dirigente della Camera del Lavoro e segretario della «Lega panettieri», che guida in una dura vertenza su orari di lavoro, salari, ufficio di collocamento e igiene dei panifici. Complici le Autorità, i padroni rispondono con l’esercito che fa il pane e la polizia che difende forni e panetterie, ma Vanguardia forma squadre di panettieri che sorprendono il servizio d’ordine e attaccano i crumiri. Scontri e arresti non domano la protesta, che assume un significato emblematico, diventando una ideale «linea del Piave» in un conflitto sul ruolo delle classi sociali e sui costi della guerra che la borghesia ha voluto e ora scarica sulla povera gente. La portata e il significato degli eventi in una città inquieta, allarmano il Prefetto, sicché, quando il pane scarseggia, i militari sbaraccano e Vanguardia ottiene l’apertura di punti vendita comunali a prezzo politico. Il giovane al quale le idee rivoluzionarie avrebbero guastato il cervello, ha dimostrato un grande equilibrio e ha vinto, lottando coraggiosamente per i diritti della povera gente. La vittoria, che il 10 dicembre 1919 i lavoratori salutano come la prima di una lunga serie, in realtà ha spaventato i padroni, ma i Fasci di Combattimento, nati a marzo, non preoccupano ancora. Ai primi del 1921 però, mentre lo squadrismo dilaga, Vanguardia crea il «Circolo popolare» e la «Lega Inquilini» che ostacola le pretese esorbitanti dei padroni di case, tentando di dare forza al malcontento e opporre agli squadristi propaganda e lotta sindacale. La violenza fascista vanifica però il tentativo. Benché denunciato per un manifesto clandestino e arrestato per lesioni a vigili urbani, a luglio del 1922 Vanguardia guida la «Lega panettieri» in una vittoriosa vertenza su salari e lavoro notturno, ma il fascismo giunto al potere lo ferma. Il primo maggio 1924, l’anarchico si reca con alcuni compagni in una bettola, sale su un tavolo e con grande dignità canta l’Internazionale e si fa arrestare. Il 22 novembre 1926, con le leggi «fascistissime», giungono la condanna a quattro anni di confino e il viaggio disumano che lo conduce a Pantelleria, sfinito e incatenato ad altri confinati. Ritenuto pericoloso, l’anarchico è esposto all’arbitrio dei militi e la sorella, per sottrarlo a quell’inferno, chiede al duce di perdonare «le colpe giovanili di un italiano», che al tempo della guerra «ha esposto la vita sul campo dell’onore». L’Alto Commissario Castelli, convinto che Vanguardia sia fermo nelle sue idee, esprime parere contrario e mentre l’istanza è archiviata, il confinato finisce a Ustica, dove l regime di polizia è più spietato. L’isola gode di una fama sinistra: vi impazza, ricorderà anni dopo Aldo Garosci, un aguzzino, brutale e neuropatico. Non bastasse, Cesare Mori, il «prefetto di ferro» inviato a Palermo con pieni poteri per risolvere il problema dei rapporti tra regime e mafia, ritiene che la colonia, in cui vivono in media 360 sovversivi ritenuti pericolosi, possa fare da base a un pericoloso movimento. Per controllare i confinati, Mori utilizza Vincenzo Picone, un finto confinato politico e un confinato vero, Riccardo Fidel, sedicente comunista, che all’insaputa del Picone fa da provocatore. Per ottenere la libertà a spese dei compagni, Fidel fa credere a Picone che i confinati preparano una rivolta e la fuga. Ingannate dalle spie, le Autorità di polizia si convincono che una nave si è già accostata all’isola e poi allontanata tenendo una rotta inconsueta. Il 30 settembre 1927 Mori mette l’isola a soqquadro con perquisizioni da cui non emerge uno straccio di prova, ma sostiene che i confinati, d’accordo «con sovversivi del Regno e dell’estero», hanno un piano «di evasione e ribellione contro i poteri dello Stato». E’ così che 56 confinati, tra cui Vanguardia, sono denunciati al Tribunale Speciale. Il 10 ottobre 1927, accusato di attentato alla sicurezza dello Stato, l’anarchico finisce in carcere duro a Palermo e poi a Napoli. Per mesi, interrogatori brutali si alternano a offerte «vantaggi» in cambio di «collaborazione». Vanguardia, però, non non compra la libertà vendendo la dignità. Negli anni delle prime battaglie aveva orgogliosamente affermato: «Non varranno prepotenze e violenze […]; respingeremo senza esitazione qualsiasi mezzo voi adotterete». É stanco e malato, quando, assolto per insufficienza di prove, agli inizi del 1929 è trasferito a Ponza, dove la salute peggiora di giorno in giorno. Quando possono, i tiranni evitano di trasformare in eroi le loro vittime; Mussolini perciò non ha dubbi: l’ora della liberazione non deve coincidere con quella della morte. L’uomo che l’1febbraio 1930 torna a Napoli è molto sofferente. Non è in grado di nuocere, ma il regime, che lo ritiene ancora pericoloso, lo tormenta con frequenti perquisizioni; il 27 ottobre 1930, per l’ottavo anniversario della marcia su Roma, lo tiene in cella per una giornata. É il 10 novembre del 1931, quando torna in Questura per una bomba esplosa nella zona del porto. Di lì a poco, il 28 dicembre 1931 muore nella sua abitazione al n. 45 di via Bernini.
Fonti e bibliografia: Archivio Centrale dello Stato, fascicoli intestati a Vanguardia in Casellario Politico Centrale, b. 5312 e Confino, Fascicoli Personali, b. 1046. Archivio di Stato di Napoli, Questura, Gabinetto, I parte, II serie, 1888-1901, b. 86 bis, «Fascio dei lavoratori. Iscritti»; b. 86 ter, f. «Federazione Socialista Napoletana» e b. 110, «Camerieri di caffè e ristoranti»; Schedario politico, fascicoli intestati a Vanguardia in Sovversivi annuali, b. 96 e Sovversivi deceduti, b. 110. Rosa Spadafora, Il popolo al confino, La persecuzione fascista in Campania, I, pp. 512-13; Giuseppe Aragno, Siete piccini perché siete in ginocchio. Il Fascio dei Lavoratori, prima sezione del PSI a Napoli, (1893-1894), Bulzoni, Roma, 1989, pp. 110-112; Idem, biografia in AA. VV., Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani, II, (I-Z), Biblioteca Serantini, Pisa, 2004, pp. 648-49. Idem, Antifascismo e potere, Storia di storie, Bastogi, Foggia, 2012, pp. 23-40; Fabrizio Giulietti, Umberto Vanguardia. Azione e propaganda di un anarchico napoletano, (1879, 1931), Galzerano, Casalvelino Scalo, 2009.
Io dico no senza sperare a chi vende parole, a chi compra la fame, ai facili versi d’amore che a volte il mio cuore mi detta. Senza sperare io dico no a chi si guarda intorno e poi si arrende, a chi uccide tacendo, a chi muore in silenzio, alla pace che sento se scrivo. Ma il mio passato con me morirà.
L’innocenza di don Antonio Bassolino è diventata un articolo di fede, che non tiene conto del fatto che un personaggio politico di primo piano, ex ministro, ex Presidente di Regione e per due volte sindaco di Napoli, sia risultato nullatenente allorché, sottoposto a procedimenti giudiziari, ha corso il rischio di dover metter mano alla tasca. Qui la politica cede il passo alla morale e l’innocenza si colloca in un quadro di valori che la politica sembra aver dimenticato. Intendiamoci, pensare per tempo alla famiglia non è un reato e a nessuno si può imputare di avere bene in mente un sacrosanto sentimento, ispirato alle parole di Cristo: «In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli». Bassolino ha scelto di essere cammello e – novello San Francesco – in vista di possibili condanne e relativi esborsi – s’è spogliato di ogni bene materiale. In realtà, come ha scoperto la mai smentita «Voce delle Voci», che scrive contro storie d’Italia e racconta quello che non conosci, non hai mai letto e non hai mai visto, prima di indossare il saio francescano, il nostro politico «nullatenente» non aveva rapporti facili con la cristiana cruna dell’ago. Per quanto è dato sapere, possedeva, infatti, un appartamento nella romana via Fiume, di cui ha tenuto per sé solo metà dell’usufrutto (l’altra è toccata alla moglie), mentre la nuda proprietà è intestata ai figli, ai quali sono passati due appartamenti romani, del quartiere Monti, acquistati nel ’92 dai compagni dell’Unità, e andati in liquidazione nel 1994 al prezzo di 243 milioni ciascuno, ottenuti, secondo il «Fatto Quotidiano», grazie a un mutuo con la Banca Popolare dell’Etruria, reduce da un crac, pagato col risparmio e la vita sconvolta di azionisti e obbligazionisti. In seguito alla conversione francescana Bassolino risultò nullatenente e perciò, in caso di condanna, era materialmente impossibilitato a far fronte agli eventuali debiti milionari nei confronti dello Stato. Va bene così. San Francesco merita rispetto. Però smettiamola di parlare d’innocenza, perché due condanne subite in via definitiva ci sono state: una decisa dalla sezione di Appello della Corte dei Conti per una vicenda che vide il nostro francescano in veste di Commissario per l’emergenza idrogeologica, obbligato a risarcire con 21.000 mila euro Sla Regione, e un’altra che comportava una pena pecuniaria di 3 milioni e 200.000 mila euro. L’allevo di San Francesco è oggi candidato sindaco a Napoli. C’è da sperare che gli elettori tengano conto della nullatenenza e diventino cruna di un ago invalicabile per i francescani opportunisti.