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Archive for giugno 2012

Me lo ricordo come fosse oggi. Avevo 24 anni e i bagliori di civiltà del lungo Sessantotto aprivano ancora il cuore alla speranza. Era il 20 maggio del 1970, Fini, Gasparri, La Russa e i loro camerati portavano ancora sulle spalle il peso dell’infinita miseria morale della loro storia e l’Italia approvava lo Statuto dei lavoratori. Ci fu allora tra i giovani chi criticò; si poteva fare di più e troppi rimanevano esclusi, ma lo dico con orgoglio: senza le lotte della mia generazione non sarebbe mai stato possibile. Si disse allora – e non era retorica – che la Costituzione diventava legge anche per i padroni. Sono trascorsi 42 anni, la mia vita è giunta al capolinea. Fini è Presidente di un Parlamento che vale quanto la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, Gasparri e La Russa sono stati ministri e un ministro del lavoro, Elsa Fornero, lavora apertamente contro i lavoratori. Il fascismo, salvato dalla mancata epurazione, è tornato a governare e un esecutivo reazionario che nessuno ha eletto ha brutalmente espulso la Costituzione dai posti di lavoro. Si discute coi toni beceri dell’accademia se il lavoro sia un diritto, ma si finge d’ignorare che non ha più diritti: è il grazioso prestito riservato a chi serve, tace e acconsente, e si restituisce con gli interessi se e quando piace ai padroni. La vita ormai si gioca sui mercati ed è una vita da schiavi.

L’Italia batte la Germania a suon di gol, ma il suo centravanti nero, non sapesse tirar calci a un pallone su un prato verde, si troverebbe rinchiuso in un campo di concentramento; una banda di malfattori vende un’effimera vittoria calcistica come vittoria politica di un governo di senza patria nella partita del capitale italiano contro gli italiani. Noi non guadagneremo nulla dagli accordi che Monti ha strappato ai tedeschi. Ci guadagna tutt’al più chi ha quattrini accumulati: evasori, faccendieri,  ladri, speculatori e specialisti del riciclaggio. In cambio del permesso di respirare, il governo dei padroni impone ai lavoratori il lento strangolamento del fiscal compact. Tradotto in parole povere, il capitale italiano si salva a spese dei lavoratori, che continueranno a subire  tasse crescenti, tagli, licenziamenti, sfruttamento, svendita di beni comuni e rinuncia a ogni diritto. Il governo vende al grande capitale i ceti subalterni e la stampa alza il tricolore e fa festa. Se avessi ancora 24 anni mi procurerei le armi e lotterei per la libertà. Lo dico chiaro e non mi tiro indietro: è diritto dei popoli rovesciare governi traditori. 

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Dopo le infelici “uscite “ della Fornero, che sul lavoro si è espressa e si comporta in maniera a dir poco indecente, non mancano a sua difesa avvocati d’ufficio e azzeccagarbugli. Su Affari italiani brilla in questo senso un articolo di Gianni Pardo, il quale dovrebbe sapere – e probabilmente finge d’ignorare – che le parole “fondata sul lavoro” indicano soprattutto un connotato economico-sociale, politico e storico del tessuto costituzionale. In quanto al valore giuridico all’interno dell’articolo uno della Costituzione, che Pardo nega, esiste e non c’è nulla di demagogico. Giuridica, infatti, è anche una formula che, di fatto, vieta qualcosa. Che sia così, lo si vede chiaro leggendo ciò che affermò chi le propose, quando spiegò:  “dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio e sulla fatica altrui”. Che, guarda caso, è proprio quanto va facendo la signora Fornero, la quale non solo appare a questo punto un’emerita ignorante, ma dimostra di avere un’idea così autoritaria della sua funzione di ministro del lavoro, da risultare assolutamente incompatibile con la forma e la sostanza del dettato costituzionale. Fornero certamente non lo sa e bisognerebbe che qualcuno glielo spiegasse: la formula non fu proposta dalle sinistra ma da Fanfani, il quale sottolineò che senza creare le condizioni per dar lavoro a tutti, una comunità popolare si priva del contributo che ognuno dei suoi componenti può dare alla prosperità collettiva. E’ evidente perciò che la Fornero, favorendo i licenziamenti, invece di adoperarsi per creare lavoro, viola lo spirito della Costituzione.

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Quante volte Antonio, scettico e diffidente, li aveva sentiti così entusiasti i “nuovisti” convinti:
– Ah, guarda, voglio essere chiaro: l’acquisto online non è solo una comodità. E’ uno dei caratteri nuovi della modernità!
E quante volte aveva chiesto dove diavolo fosse scritto che tutto ciò ch’è nuovo è sempre buono. Una risposta non l’aveva mai avuta e non bastasse gli era piovuto addosso il coro spezzante dei “giovanilisti” scatenato a sostegno di questa sorta di neofuturismo del consumismo:
– Non te la prendere, Antonio, ma la verità e che tu non sei invecchiato, no. Tu sei nato vecchio, che è tutt’altra cosa! E’ una vita che fai il rivoluzionario, ma sei la prova provata che la tua sinistra è stata e sarà sempre la peggiore espressione della conservazione! Non sa guardare al futuro.
Tra i “neofuturisti”, poi, per rafforzare il concetto, non tutti si fermavano a quell’osservazione e c’era sempre qualcuno che, guardandolo con sconsolata desolazione, si abbandonava al turpiloquio come pare dettasse la regola del “nuovo”:
– Antò, credimi: ci hai veramente gonfiato le palle…
Quale sentimento lo avesse spinto a cambiare atteggiamento, non è facile dire e lo stesso Antonio aveva in proposito idee decisamente confuse. Forse il bisogno di non apparire l’eterno bastian contrario, oppure il dubbio che in fondo la sua orgogliosa diversità fosse solo anticonformismo radical chic. Come fare a capirlo? Forse ci aveva messo lo zampino anche una voglia inconfessata di cogliere una luce che lo riguardasse nei grandi occhi castani della signorina Maria, un’insegnate di musica che, nonostante gli anni, gli aveva risvegliato nel cuore inaridito un interesse inquietante e perturbativo di cui aveva ormai perso persino la memoria. Fosse quel che fosse, all’ombra di un platano, nel solleone di giugno che scottava benché s’annunciasse il tramonto, tra i commenti sconci dei giovanilisti quasi settantenni su cosce, culi e tette delle badanti slave, radunate tra aiuole e panchine coi loro vecchi incartapecoriti, Antonio l’aveva annunciato un po’ farfugliando, un po’ guardando di sott’occhi Maria che a quell’ora, nel parco, non mancava mai:
– Ho ordinato un libro online alla Feltrinelli!
Se l’applauso fu scrosciante, il commento risultò feroce:
– Adesso bisogna solo aspettare la brutta notizia: “Inspiegabilmente, ha chiuso Feltrinelli!”.
Di tutto, però, ad Antonio rimasero dentro il velo d’ombra che attraversò gli occhi neri, profondi e ancora limpidi di Maria e il senso di dolorosa delusione che gliene derivò. Sulle labbra una domanda che non seppe fece mai:
– Ma come, pareva che fossi la prima a criticarmi e ora mi guardi come ti avessi tradita?
Non disse nulla, Antonio. Strinse gli occhi, come un miope che non riesce a leggere, si passò lievemente la mano sulla fronte, come a scacciarne un pensiero, poi si sentì osservato e guardò immediatamente altrove. Se qualcuno avesse colto anche solo uno sguardo in più rivolto a Maria, sarebbe stata certamente la fine. Non ci vuole nulla a passare da rivoluzionario conservatore a vecchio satiro in fregola e i “giovanilisti”, che si perdonavano a vicenda i desideri più osceni sulle slave, si sarebbero coalizzati nella più feroce condanna per la più depravata condotta mai vista in vecchio dell’età di Antonio.
Si era alla metà di un luglio che tutti d’accordo, vecchi, giovani e “giovanilisti” avevano definito il più rovente a memoria d’uomo, ma il libro non si vedeva nemmeno all’orizzonte umido e grigio latte della torrida estate. L’attesa di Antonio era ormai diventata spasmodica e, in quanto al ritardo, concordavano tutti: non era incomprensibile, era la conseguenza logica d’una forzatura:
– Hai voluto fare il furbo? Tu, vecchio statalista e nemico del consumismo, hai pensato di fregare un privato come Feltrinelli? Ben ti sta! Ora lo sai: il grande fratello ti guarda e il libro a te non te la darà mai.
Antonio cominciava a credere che avessero ragione, ma non sopportava lo sguardo di compatimento che gli rivolgeva Maria. In un modo o nell’altro, col libro o senza libro, sperava ardentemente che quella situazione trovasse una conclusione. Più del caldo, bruciava la distanza che la maestra di musica aveva messa tra loro. Con tutti era pronta a far sentire la sua voce armoniosa e calda, con lui solo taceva.
Con Feltrinelli protestò inquieto, e l’asettica, ma a suo modo tranquillizzante comunicazione del “servizio clienti”, che aveva persino un nome e si chiamava Cecilia, lo rasserenò:
” Gentile cliente, si è purtroppo trattato di un disservizio tecnico. Il fornitore non ha mai ricevuto informaticamente il nostro ordine. Il testo è stato riordinato e arriverà presso il nostro magazzino all’inizio della prossima settimana. Contiamo quindi di evadere il suo ordine entro pochi giorni e ci scusiamo per il disservizio”. Seguivano i saluti e la firma informatica della misteriosa Cecilia. Antonio lesse subito la missiva agli amici, sopportò i loro commenti sull’efficienza del privato, ma lo ferì l’occhiata di una Maria silenziosa, che gli sembrò sprezzante, sotto la crocchia di capelli ondulati ringiovaniti dalla tintura rosso tiziano. Si sarebbe offeso, se la fossetta sulle guance sopra le labbra carnose e sorridenti, non gli avessero provocato, va a capire perché, si domandò – pensieri terribilmente dolci.
Da uomo mite, non fece inutili polemiche con l’accattivante Cecilia del “servizio clienti” che almeno non lo disprezzava.
– Con te che polemica faccio? – pensò – e a che servirebbe? Tu non risponderesti e non hai il volto irritante di un impiegato statale.
Irritante, aveva pensato, ma poi s’era sentito in colpa. Irritante e magari “fannullone”, s’era detto correggendo il tiro, però costretto a stare dietro uno sportello a far da parafulmine alle proteste per i regali elargiti ai privati da tutte le aquile stakanoviste che vivono di politica e ci stanno affamando. Tenne per sé le osservazioni sul mitico “privato” che meglio non si può e sull’abolizione del servizio pubblico come panacea di tutti i mali e rispose conciliante: “Non importa, capita nelle migliori famiglie. Cordiali saluti e buon lavoro”.
Non c’era dubbio. La pressione neofuturista e l’inspiegabile disapprovazione dell’ombrosa Maria gli stavano causando una crisi d’identità. Non si riconosceva più. E poi, diavolo, bisognava pure che si decidesse: o era vecchio, come aveva pensato negli ultimi anni e la faccenda di Maria era a dir poco ridicola, o avevano ragione i giovanilisti e allora…
Era impegnato in queste riflessioni complicate, quando, tre giorni dopo lo scambio conciliante con la Feltrinelli, partita addirittura prima dell’alba, alle 4,05 – il privato, si sa, lavora anche la notte – gli giunge una nuova, inquietante comunicazione: il suo sventurato ordine era stato dichiarato d’un tratto “non evadibile”, perché – teneva a spiegargli il marziano che non si chiamava più Cecilia, ma era trincerato dietro l’anonimo Ufficio Clienti – il suo libro non era risultato reperibile nonostante l’avessero cercato presso tutti i loro fornitori”. Nessun cenno al risarcimento del danno per il tempo perso, però, se avesse voluto informazioni più chiare, il marziano era a sua “disposizione dal lunedì al venerdì (9.00-13.00 | 14.00-18.00) al numero verde 199.515.317, oppure all’indirizzo e-mail”.
– L’orario di lavoro s’è misteriosamente accorciato, pensò Antonio. A quanto pare, la notte per fortuna non c’è chi lavori più come uno schiavo e il sabato s’è convertito al fascismo. Quando però ne parlò con gli amici, fu vermanete il coro:
– Ma che dici? commentarono i “neofuturisti”. Non azzardare paragoni! Feltrinelli è privato! Tu chiami e ti spiega tutto.
Maria come al solito stette zitta, ma sì lasciò sfuggire un sospiro che pareva consigliargli di abbandonare la partita; Antonio non volle crederci, ma gli sembrò un sospiro di nostalgia. Era come se Maria volesse dirgli che era molto meglio l’Antonio di pochi giorni prima, quello che se la prendeva coi “giovanilisti” e non faceva acquisti on line perché sosteneva che tutto serviva a indurli a consumare. Dimentico di se stesso, tuttavia, non badò a Maria e chiamò i marziani. Per un’intera giornata una suadente voce femminile prima gli ricordò che poteva informarsi on line della situazione del suo acquisto, poi gli offrì due opzioni: premere il tasto uno o premere il due… Antonio pigiò l’uno e quella ricominciò: prima gli ricordò che poteva informarsi on line della situazione del suo acquisto, poi gli offrì due opzioni: premere il tasto uno o premere il due. Quando scagliò il telefono contro il muro, era ridotto a uno straccio. Agosto s’annunciava più torrido di luglio e le librerie avevano chiuso. C’erano aperti solo i negozi della Feltrinelli, ma lì non sarebbe andato. Temeva di fare sciocchezze.
Quando Maria annunciò che s’era decisa a lasciare definitivamente la città per andarsene a vivere dalla sorella in Liguria, Antonio era alle prese con una nuova comunicazione dei marziani.
Aveva mandato alla Feltrinelli una mail piccata con cui esprimeva il suo disappunto:
– Come potrete controllare sul vostro stesso sito, aveva scritto, il libro che vi ho chiesto è presente nei vostri negozi in mezza Italia. Com’è possibile che il libro sia per voi introvabile? Non mi pare un’affermazione degna di un’azienda seria come la vostra. E non è tutto. Come vi ho già scritto, ho chiesto una copia dello stesso libro a Hoepli la settimana scorsa per fare un regalo. Il libro è giunto al destinatario in cinque giorni, senza problemi e voi, dopo ritardi incalcolabili e l’ammissione di un vostro disguido, voi sostenete oggi che il libro non è reperibile. Sarei lieto di sapere se posso ancora contare su di voi per i miei acquisti on line. Conto su una vostra sollecita risposta. Dopo due giorni di silenzio il marziano gli aveva risposto:
– Gentile cliente, l’addebito sulla carta di credito utilizzata per il suo ordine su LaFeltrinelli.it non è andato a buon fine. Per sbloccare la spedizione dell’ordine verifichi i dati della carta nella sua Area Personale (può eliminare una carta scaduta e sostituirla inserendone una nuova). Appena effettuata l’operazione la invitiamo a darcene riscontro rispondendo a questa e-mail oppure contattandoci telefonicamente.
Seguivano i cordiali saluti del servizio clienti LaFeltrinelli.it. Cecilia era svanita nel nulla. In quanto a Maria, non lo aveva nemmeno ringraziato per il libro. In una mail gli aveva però scritto con tono accorato:
– C’è stato un Antonio semplice e coerente, che mi ha affascinato; un uomo che diceva ciò che pensava e agiva di conseguenza, senza darla vinta all’oscena tribù dei suoi vecchi amici. Gli occhi di quell’Antonio erano lo specchio d’un cuore gonfio di amore. Quell’uomo non c’è più. E’ sepolto sotto le comunicazioni d’un acquisto on line. Sopportavo la gente nel parco, perché speravo che Antonio capisse che l’amore non ha età.e rimanesse se stesso. Non è andata così. Con gli uomini io non ho avuto mai fortuna.
Una violenta scossa, un vero elettrochoc.
Nel parco i “nuovisti” convinti non si accorsero nemmeno che Antonio e Maria non si vedevano più. Era autunno ormai, ma i giovani quasi settantenni continuavano a fare pesanti apprezzamenti su cosce, culi e tette delle badanti slave radunate tra aiuole e panchine coi loro vecchi incartapecoriti. Qualche vecchio non c’era più, se n0era andato per sempre, ma chi se n’è accorto? Chissà perché, ci sono uomini per cui la morte riguarda esclusivamente gli altri. Vivono come fossero eterni. Una eternità che non sarebbe facile accettare. Per fortuna la vita finisce.
Di Antonio non si seppe più niente. Pare però che girasse per la Liguria come un automa. Casa dopo casa, paese dopo paese. Maria, però, non riuscì più a trovarla.

Uscito su “Fuoriregistro” il 22 giugno 2012

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S’avvicina il tramonto,
occhi stanchi e lucenti,
pellicole della memoria
nel viaggio della vita.
Così soli
si giunge alla fine,
che nessuno si trova cui donare
uno almeno
dei nostri mille lampi.

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Dopo il pestaggio di Basiano, i nostri ceti dirigenti sono tornati d’un colpo quelli che il 7 luglio 1880 persino conservatori come Sidney Sonnino misero sotto accusa: “Noi abbiamo […] legalizzata con le nostre istituzioni e con le nostre teorie l’oppressione di una classe sopra un’altra, abbiamo coperto sotto il manto della legge un processo di sfruttamento dei nostri simili”.
E’ di nuovo così. A Basiano s’è vista all’opera una milizia di parte che, gettata la maschera, ha mostrato la sua autentica funzione: garantire l’interesse dei padroni. Venti arresti, gambe spezzate, un lavoratore steso in una pozza del suo sangue e uno in coma per qualche ora; è vero, il morto non c’è stato, ma verrà. A un certo punto ho contato otto “tutori dell’ordine” – questurini o squadristi? mi son chiesto – i quali, senza nome, cognome o numero di matricola, protetti dagli elmi e sicuri dell’impunità, massacravano un manifestante inerme caduto nel suo sangue. Finita la battaglia, non ho visto un cenno di disappunto dei colleghi, non ho sentito prese di distanza. Tutti d’accordo nel silenzio omertoso: le “alte sfere” che paghiamo profumatamente, le questure, i comandanti delle legioni territoriali dei carabinieri, i commissariati, i sindacati di polizia. Non ha parlato nessuno, nessuno ha voluto condannare. Non s’è trovato un giornalista del circuito che conta, capace di andare oltre l’accenno preoccupato alle “tensioni sociali”, non s’è sentita la voce d’un sostituto procuratore che annunciasse un’inchiesta. Zitto se n’è stato il Parlamento, zitta, per suo conto, la politica a tutti i livelli, sicché chi sa ancora leggere, scrivere e far di conto non ha potuto fare a meno di ricordare Gaetano Salvemini e un celebre pamphlet, nato in un tempo in cui un intellettuale aveva cuore per scrivere di un “ministro della malavita”.
Un re ce l’abbiamo – l’hanno incoronato gli americani, ma i nostri zerbini travestiti da pennivendoli si sono inchinati zelanti – al governo dei banchieri non manca certo l’oro per la medaglia e nel Paese di Bava Beccaris, D’Annunzio e Ronchi dei Legionari, un invasato che si senta “uomo del destino” e spari a mitraglia, non è merce rara. Ormai pare evidente: giorno dopo giorno, c’è chi porta indietro le lancette, l’orologio della storia gira a ritroso una ad una le pagine più tristi della nostra storia e il calendario, come impazzito, corre difilato verso un ripetuto ‘98. Chi non usa la lente deformante del liberismo non fa fatica a vederlo: ai magazzini del Gigante, a Basiano, italiani, egiziani e pakistani, che tempo fa si guardavano tra loro in cagnesco, di fronte all’ingiustizia, stretti nella morsa della fame, vanno riscoprendo la solidarietà e la lotta, fanno fronte comune contro il padrone, mettono su scioperi, picchetti e si prendono galera a manganellate, ma scoprono di essere piccini solo perché stanno in ginocchio. Come predicavano i primi socialisti, però, più alzano la testa, più difendono i propri posti di lavoro e dicono a chiare lettere che non accetteranno condizioni di vera e propria schiavitù e più si trovano contro la legge dei padroni.
Non c’è da farsi illusioni: la lotta continuerà e si tenterà di stroncare ogni protesta. Quando si levano in piedi, i lavoratori fanno ancora paura e solo i ciechi fingono di non vedere che il capitale è a un bivio: o continua a decorare Bava Beccaris che si “fa onore” nella repressione – non è per questo che De Gennaro è sottosegretario? – e arma così la mano di un rinato Bresci, o si ferma in tempo ed evita una tragedia che già conosciamo.
Il governo dei professori bene o male sa d’economia, ma in storia dovrebbe andare a ripetizione. Un maestro elementare ben preparato gli spiegherebbe ciò che per un liberare vero è l’alfabeto: “la colpa più grave della borghesia comincerebbe oggi se non vedesse la necessità assoluta di combattere anch’essa per il miglioramento dei lavoratori”. Con queste parole, Giolitti, parlando dallo scranno che oggi occupa Monti, spiegava a chi sognava eversioni dall’alto cosa sia governare. “La libertà, ha i suoi inconvenienti – egli sostenne – talora gravi, ma passeggeri. La libertà è una grande maestra”. E in nome della libertà, ammoniva: “Il Governo non può e non deve, sotto alcuna forma, né diretta né indiretta, modificare artificialmente gli effetti delle leggi economiche che regolano i prezzi dei salari come di tutte le merci: non interviene quando il salario è troppo basso, non deve intervenire quando si chieda una misura di salario più alta”.
Era l’alba del Novecento, si sa, ma è ancora vero: impedire con la forza ai lavoratori di migliorare la loro condizione, quando lottano per una causa giusta, non significherebbe solo fare dello Stato il rappresentante di una sola classe sociale, come voleva Agnelli, quando Giolitti minacciò di chiusura la Confindustria. Vorrebbe dire spingere “le classi popolari a sentirsi nemiche naturali dell’attuale ordine di cose”. Lo diceva Giolitti che fu liberale e riformista: l’estremismo diverrebbe padrone del campo. All’orizzonte, però, non si vedono statisti. Governano Napolitano e Monti e il pericolo è perciò terribilmente concreto: la repubblica rischia davvero un Novantotto.

Uscito sul “Manifesto” il 13 giugno 2012

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L’ultimo saggio dello storico Giuseppe Aragno: biografie inedite di uomini e donne annientati dalla ragion di Stato

Antifascismo e potere, storie di otto eroi per caso

Si fa presto a parlare di “ragion di Stato”. Qualcuno una volta scrisse che «ha fatto più morti lei delle crociate». E se Benedetto Croce la descrive come la legge motrice di un Paese, cosa accade però se la ragion di Stato rispecchia l’ideologia di un regime? Chi sono i buoni? Chi i cattivi? Ne parla lo storico e giornalista Giuseppe Aragno nel suo ultimo saggio “Antifascismo e potere”. E lo fa ripescando otto biografie inedite, una «storia di storia», tramortite dagli interessi di Stato totalitari del Novecento.
Nomi non “grandi”, quindi dimenticati, di eroi per caso che scelsero da che parte stare, militando nell’antifascismo europeo. E pagandone ogni conseguenza. Aragno li riporta in vita, descrivendo per prima Clotilde Peani figlia della “Italia liberale” di Depretis e Crispi. Torinese. e ben lontana dal cliché di signorinella pallida e buona madre frequenta già da adolescente i circoli socialisti, bollata subito dalle autorità come donna «audace e pericolosa». Prova allora a ripara­re a Londra, entrando in contatto coi fermenti dell’anarchismo internazionale d’inizio Novecento. La sua vita di militante e attivista è condannata dal sistema repres­sivo fascista. Clolilde sarà epura­ta come “schizofrenica”. così co­me tanti altri suoi compagni, improvvisamente ritenuti «mentalmente instabili», quindi rinchiusi a vita in manicomio; morirà nel 1942 nell’Ospedale psichiatrico di Napoli.
Stessa sorte, ma dai risvolti più drammatici. tocca a Renato Grossi. Nel 1939 segue in Spagna il padre. Carmine Cesare. principe del foro di Napoli, assieme, alla madre Maria Olandese e i fratelli Aurelio c Ada por unirsi alle truppe di resistenza contro l’avanzata nazionalfascista. Con la vittoria franchista però, la fami­glia ripiega verso i Pirenei, mitra­gliata dai caccia italiani inviati in aiuto al Generalissimo, tentando la fuga in Francia. Qui Renato ha un tracollo psicologico. Rinchiu­so nell’ospedale di Lannemezan e marchiato come italiano (quin­di figlio dell’odiato regime), sarà trattato dai medici come una ve­ra e propria cavia, vittima di inauditi trattamenti a base di pesanti iniezioni giornaliere d’insulina, con conseguenze disastrose e permanenti, E morto a Napoli in una clinica di Miano nel 2001.
lnteressante anche la storia di Nicola Patriarca, beffato da ben due ”ragioni di stato: “la russa pri­ma, l’italiana poi. Nato infatti a Voronez (non distante dal confine ucraino), Kolia. così come sua moglie Varia ama soprannomi­narlo, è fedele al Partito comuni­sta sovietico, ma viene “purgato” dal governo staliniano nel 1937 semplicemente per la sua «nazio­nalità inaffidabile». Rifugiatosi a Napoli, accolto nel Real Albergo dei Poveri, ben presto i suoi idea­li gli causano l’internamento da parte delle camicie nere al confino di San Costantino Calabro. Ar­restato nel 1939,.si perdono le sue notizie nel 1941, proprio a pochi mcsi dalla fine della sua pena. ar­rivata grazie all’insperata amnistia sovietica. Ma non sappiamo, né potremo mai sapere se sia riuscito a tornare a casa.

Paolo De Luca, “Repubblica”, Napoli, 9 giugno 2012

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Per carità, nessuna maliziosa discendenza. Giulio Terzi non c’entra nulla con quel criminale di Giulio Secondo, il “papa guerriero e terribile” di un’Italia che fu “non donna di provincie ma bordello“, ma non c’entra niente nemmeno con le aspitazioni politiche della sventurata Italia contemporanea, che vuole abolire le provincie e rimaner bordello. Se si fosse votato, nessuno l’avrebbe voluto, ma guida la Farnesina, è ministro degli Affari Esteri nel governo Napolitano e s’è messo in testa di far guerra alla Siria.  Che dire? Non so se Giulio Terzi, marchese, conte, barone, cavaliere del Sacro Romano Impero e signore feudale di Sant’Agata, abbia figli maschi. Mi attendo da lui, però, che sia pronto ad invitare tutti i membri della sua famiglia in grado di metter mano alle armi ad arruolarsi per primi, soldati per la guerrra che l’imperiale cavaliere intende fare.

Sono curioso. Sarei lieto di sapere se nelle molte guerre in cui ci hanno cacciato lui e i suoi compari, ha mai indossato una divisa e affrontato un nemico, il cavaliere Terzi; mi piacerebbe sapere da lui, che con l’Afghanistan c’è entrato molto, se la notte riposa tranquillo, sapendo che la guerra è illegale, la Costituzione la vieta e sulla coscienza di chi l’ha voluta pesa un enorme numero di vittime innocenti. L’eroico nobiluomo saprà certamente che, grazie alla sua guerra, negli Usa, tra i soldati, quest’anno si è registrato finora un sucidio al giorno. E saprà anche da dove tirar fuori i quattrini per la sua guerra, lui, ministro di un governo che ogni giorno piange miseria e rapina la povera gente.

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Non illudiamoci. Le ennesime manganellate, quelle assestate a Trento con cieca e impunita furia sui corpi di chi legittimamente intendeva contestare la Fornero, non vivono di vita propria rispetto al Governo e anzi, a ben vedere, sono uno dei rovesci della medaglia. Col cuore in gola, preso da incomprensibili affanni, i “tecnici” eletti da Napolitano e il Parlamento dei nominati che nessuno ha mai votato portano avanti precipitosamente una legge di riforma costituzionale che promette esiti devastanti: in discussione sono, infatti, non solo la marginalizzazione delle funzioni del Presidente della Repubblica, ma il ridimensionamento di un Parlamento mortificato dal ruolo assolutamente centrale di un Presidente del Consiglio che ha facoltà di sciogliere le Camere se votano contro una sua legge e gli negano la fiducia.

Napolitano e Monti fingono d’ignorare che un così profondo mutamento della legge fondante della Repubblica trasforma, di fatto, in una spuria e pericolosa Assemblea Costituente la raccogliticcia banda di inquietanti figuri che tiene in piedi l’Esecutivo. Non bastasse l’anomalia della procedura, il colpo giunge senza una discussione vera, senza la partecipazione dei cittadini, convenientemente informati e messi in condizione di dire la loro. E’ la logica del “fatto compiuto”, l’esito naturale e per molti versi fatale di un dato patologico che non si è combattuto: il prepotere dell’Esecutivo, rinforzato dall’incremento della decretazione d’urgenza su temi che urgenti non sono, dalla sequela ininterrotta dei provvedimenti decisivi per il futuro del Paese, ripetutamente imposti a colpi di fiducia; per dirla tutta, di una vera e propria espropriazione delle prerogative di un Parlamento che, per suo conto, ha fatto il possibile e l’impossibile per delegittimarsi. Su binari paralleli, ormai fuori controllo, viaggiano a tutta velocità – e completano il quadro fosco – la costosa macchina degli armamenti, la scelta di tornare alla guerra ripudiata e il devastante smantellamento del sistema formativo pubblico. Non a caso, l’ineffabile Profumo vibra pugnalate, inserendo per decreto i suoi provvedimenti sulla “meritocrazia”, il cavallo di Troia di una privatizzazione che, sul limitare delle malconce porte Scee, poste a difesa di quanto sopravvive della Pubblica Istruzione, non trova neppure il monito sventurato di un Laocoonte. Sarà pur vero che la storia non insegna nulla, ma qui docenti e storici siamo chiamati in discussione direttamente e va detto: di errori ne abbiamo fatti.

Prevaricazioni e prepotenze fecero da battistrada al fascismo e non a caso, più che il fascio littorio, il simbolo dell’odioso regime di Mussolini rimane il manganello. Non sarà inutile rammentarlo, in un Paese in cui più il tempo passa, più un “governo tecnico”, nato  male e peggio cresciuto, naviga a vista, in rotta di collisione con i diritti sanciti dalla Costituzione e il manganello impazza. Dove non regna la giustizia sociale, a regnare sono le passioni dei magistrati: è l’alfabeto della politica e non c’è tecnico, sia pure bocconiano, cui sia consentito d’ignorarlo. Piaccia o no a Monti e Napolitano, in democrazia, i governi, quale che sia lo loro forma, sono istituiti dal popolo per il popolo; la fonte dell’ordine è la giustizia e non c’è norma che possa legittimamente trasformarne la gestione in proprietà privata delle Istituzioni, la cui ragion d’essere vive nella volontà del popolo sovrano. Quella volontà della quale esse sono serve. Tutte, anche il ministero dell’Interno cui tocca badare all’ordine pubblico, ma rispondere anche del loro evidente disordine.  

Sembra strano doverlo fare col “governo dei professori”, ma con l’acquisto di De Gennaro, il buio ritorno di sedicenti anarchici e il mistero della bomba brindisina, è bene ricordarlo: a partire dalla fine dell’Ancien Régime, l’arte del governare non consiste nel piegare la maggioranza a vantaggio d’una minoranza, scatenando la violenza delle forze dell’ordine, e il fine del governo è uno, sacro e vincolante, pena il tradimento: eseguire un mandato cui il popolo l’ha delegato, esercitando le funzioni di tutti i poteri come doveri pubblici e non già come diritti personali.
Di fronte al disordine quotidianamente provocati dalle forze dell’ordine, non sarà tempo perso ribadirlo: in una democrazia parlamentare l’equilibrio dei poteri nasce dalla natura delle leggi che nirano tutte a rendere gli uomini felici e liberi. Monti dovrebbe saperlo, la tenuta democratica di un governo non si misura dal listino della Borsa, ma da due capacità: quella di trovare l’energia per assoggettare gli individui all’impero del mandato popolare ricevuto e quella che gli consente di impedire, tuttavia, che possa abusarne. Fu questo uno dei grandi problemi che arrovellò politici e pensatori negli anni cruciali della rivoluzione francese e, piaccia o no, non aveva torto Robespierre a sostenere che “questo è il grande problema che il legislatore deve risolvere. Questa soluzione è forse il capolavoro della ragione umana”.
Un capolavoro di cui non c’è traccia nell’opera di un governo che non ha opposizione nel Palazzo e reprime il dissenso nelle piazze. Un governo che si lascia consigliare da passioni e pregiudizi personali, sicché, mentre offre continui e fondati motivi al malcontento popolare, assume malintesi ruoli pedagogici, si occupa con zelo sospetto del potere dell’Esecutivo e lascia mano libera alla polizia. Tutto ciò è tipico di un potere che si specchia in se stesso ed è fermo al tragico equivoco di chi cede a tentazioni autoritarie. Non a caso, Monti garantisce l’ingiustizia, fonte del disordine, e insegue l’ordine col manganello. Ma qual è l’ordine cui pensa Monti, e dove intende condurci?
La risposta incute timore.

Uscito su “Fuoriregistro” il 5 giugno 2012

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