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Archive for agosto 2010

In un nido di serpenti, tutto striscia e ognuno cambia pelle. Se la Francia oggi espelle e deporta, un tempo, superato l’ospitale confine, il profugo, salvo, sospirava: “ho due patrie, la mia terra e la Francia“. Se un “civile” presidente occidentale imbarbarisce, una occidentale che lotta per i diritti è minacciata. Nessun paragone: nulla giustifica la campagna d’odio contro Carla Bruni, nemmeno la campagna d’odio del marito, Sarkozy. Saggio, però, ci appariva Shakespeare, quando saggi eravamo: “La malvagità che mi insegnate la metterò in opera e sarà difficile che io non abbia a superare i maestri“. 
Qui da noi cambia pelle persino l’antica questione del Sud. Se per smodato egoismo, amor di campanile oppure impazzimento, non è chiaro, ma nel corpo del paese una ferita è aperta, la gangrena attacca ciò che resta di sano e lo corrompe. Tutto va a male e marcisce, tutto si degrada a bega di fazione, pettegolezzo di parrocchia, chiacchiericcio di comari o, se occorre, menzogna dorata di commercio televisivo.
Un esempio? Eccolo: – “Il primato degli studenti del Nord? Un certamen spazzerà via ogni dubbio. La proposta di un preside di una scuola media di Agropoli in una lettera alla ministra Gelmini”.
Così la stampa se una volta parla di scuola a un Paese drogato. Così la scuola, se parla di sé a un Paese in coma. Così. Nel silenzio depresso dei ritorni dal mare e dai monti, nel silenzio sui lavoratori precari che si lasciano morir di fame, oscurati dall’eterna sequela di pazzi omicidi e di ubriachi al volante, dai “Meteo” che garantiscono estati perenni a chi parte in settembre, mentre i marines sconfitti lasciano Bagdad dopo bagni di sangue, in una gioia che non c’è, ma se l’inventano la carta stampata e i Tg che son peggio dei “Luce”.
Non sai che accade. Straniero, perso in una terra aspra e sconosciuta, ti guardi attorno stupito, stai sul chi vive e temi per la borsa e per la vita. Non è casa tua, questa terra, e ci vivi guardandoti le spalle, stupefatto e atterrito. In giro non trovi che ladri e tagliagole, in piazza, giochi da circo equestre, presentati come visite di Stato – gli affari prima dei diritti – mentre cialtroni, guitti e velinari prostituiscono il senso del divino e l’orgoglio femminile, se ancora di orgoglio si può parlare, in un quotidiano bazar che ti ostini a chiamare “società civile”. Un orgoglio che tace, come tacciono antiche religioni, svendute in una gara confusa di Cesari da operetta e padreterni senza profeti. Rammenti Hugo e la sua disperata solitudine: “Il mondo ride, forse ho sbagliato secolo”. Il mondo, però, non ride. Il mondo piange.

Uscito su “Fuoriregistro” l’1 settembre 2010

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Otto milioni di euro all’anno gli paga la Fiat ma, se parli di diritto del lavoro, è un vero analfabeta. Qualcuno gliel’avrà certamente spiegata la regola d’oro, ma non l’ha capita: “non c’è lavoro tanto penoso che non si possa proporzionare alle forze di colui che lo compie, a patto che sia la ragione a regolarlo e non l’avarizia”. Era in fondo persino banale, ma uno dei padri della democrazia borghese la volle scrivere, a testimonianza di quel tanto di civiltà che anche al capitale fa comodo salvare. Marchionne è convinto che Montesquieu sia stato solo un fanatico bolscevico.

Otto milioni di euro all’anno, tanti gliene dà la Fiat, ma se parli di storia, è lì che ti guarda e non sa  cosa sia. Non lo sa, e non vuole saperlo, che Giovanni Giolitti minacciò di chiudere la Confindustria guidata dal primo degli Agnelli. Giolitti guadagnava decisamente meno, però aveva imparato quello che Marchionne non sa: i “greci, che vivevano in un governo popolare, non riconoscevano altra forza che potesse sostenerli se non quella della virtù. Oggi non ci parlano che di manifatture, di commercio, di finanze e persino di lusso”. Parole sprezzanti di Montesquieu – sempre lui – un rispettabile pensatore, di cui Giolitti aveva appreso la lezione. Non a caso l’uomo di Dronero riconobbe quel diritto di sciopero che Marchionne vuole distruggere. Conoscesse la storia, il canadese strapagato saprebbe che con Giolitti nacquero l’Italia industriale e il sindacato che, tutelando i lavoratori, diventa un’assicurazione sulla vita del padronato. E’ l’assicurazione che Marchionne, con le sue scelte, sta mettendo a rischio.

Otto milioni di euro all’anno, questa cifra oltraggiosa, passa la Fiat a Marchionne, ma se gli parli di leggi è solo un ignorante. Qualcuno gliel’avrà certamente spiegata la regola d’oro, ma non l’ha capita: “tutte le costituzioni politiche sono fatte per il popolo, tutte quelle in cui esso non conta nulla non sono che attentati contro l’umanità”. Non era Stalin, ma Robespierre, l’uomo che bene o male ghigliottinò l’aristocrazia e regalò ai borghesi la loro rivoluzione. Marchionne non lo sa, ma le cose andarono così: i francesi, stanchi di subire un prepotente, smisero di cercare la compassione dei potenti o il soccorso dei magistrati. Ognuno cercò la vendetta personale e presto si scoprì che ce l’avevano tutti con lo stesso delinquente. Le rivoluzioni scoppiano così. Tutti si rivoltano contro il potere e non c’è bisogno di passar parola. Vengono da ogni parte, ma ognuno urla con la rabbia dell’altro. Un grido terribile – racconta Robiesperre – che “giunge fino ai piedi del potere ed è ascoltato da un’intera nazione: voglio avvertire la società le cui leggi impotenti mi hanno tradito che è tempo di annientare gli abusi mostruosi e indegni che rendono i popoli infelici”. E non bastano eserciti.

Otto milioni di euro all’anno costa alla Fiat, ma non l’ha capito e non lo capirà: se una rivolta trova fondamento nella teoria dei diritti dell’umanità, non si può fermare. Un servo ben pagato dal potere innesca la miccia, poi è solo questione di tempo. Prima o poi la rabbia esplode e in un momento si fa rivoluzione. E’ legge della storia che Marchionne non ha mai studiato.

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Siamo milioni.

E’ un chiodo fisso, un’ossessione che pare pazzia, e ci sarebbe davvero da ridere se l’ossessionato non ricoprisse ruoli istituzionali delicati nella vita politica d’un Paese che pare affondare.

Milioni e milioni, ed è bene si sappia, pronti a battersi fino alla fine.

Così, con insistenza sospetta, si esprime Bossi, ministro della repubblica che minaccia la… repubblica. E, poiché non smentisce, occorrerà credergli. Fosse vero, come vero onestamente appare, Maroni, ministro della repubblica per gli affari interni – uno che, a sentirlo, ha il pallino della sicurezza – dovrebbe essere ossessionato dall’ossessione del collega di governo, capo indiscusso del suo partito. Invece tace. Il dominatore delle rotte mediterranee, lo stratega vittorioso della guerra agli immigrati, se ne sta zitto. Così stando le cose, la domanda è a dir poco lecita: quali indagini ha svolto sinora il signor ministro dell’Interno, per verificare le reali intenzioni del signor ministro delle riforme al fine di garantire la sicurezza della repubblica minacciata dal capo del suo partito?

A meno che le Loro Eccellenze non forniscano una spiegazione chiara, credibile e accettabile, le risposte possibili sembrano due. La prima – e più probabile – è che Maroni tace perché sa che il collega di governo, capo indiscusso del suo partito, minaccia a vanvera. Potrebbe esser vero ma, a questo punto, vero sarebbe anche, senza ombra di dubbio, che Bossi, se non è un pazzo pericoloso, è un pietoso buffone che guida una buffonata che si chiama Lega in un governo profondamente screditato. La seconda è che, al contrario, da bravo ministro, Maroni ha accertato che il pericolo c’è, è reale, non si tratta di un buffone e non sono buffonate. Potrebbe esser vero anche questo, ma lecita sarebbe, a questo punto, una domanda: perché il ministro, non ha allertato il Paese, non ha agito, non ha preso le distanze dal collega di governo, capo di un partito eversivo – il suo partito – dal peraltro quale non s’è n’è andato e non ha nemmeno minacciato che lo farà?

Sia come sia, è difficle negarlo: la faccenda è losca. Se sono fanfaronate e chiacchiere da bar, Bossi è solo un buffone inadatto persino a quella patetica buffonata che risponde al nome di parlamento di Pontida; se tutto, invece, è vero e le minacce sono concrete, non c’è da stare allegri: mentre il Paese è allo stremo e i lavoratori pagano prezzi altissimi alla crisi del capitalismo, abbiamo due ministri inqualificabili: Bossi, che, invece di occuparsi delle riforme, minaccia di scatenare i suoi fascio-leghisti contro il governo di cui fa parte, e Maroni, ministro dell’Interno che, quando si tratta di immigrati, alza il vessillo della sicurezza ma, se si tratta di difendere la sicurezza del Paese dai suoi compagni di partito, è complice, sta zitto e lascia fare, consentendo che si minacci impunemente la repubblica. Nell’uno come nell’altro caso, traditori o buffoni, questa è gente che non vale un centesimo bucato.  

Tace per suo conto, ed è un silenzio che angoscia, la sedicente opposizione. Se ancora c’è, di grazia, batta un colpo. Uno, uno solo ne occorre, perché il carroccio scarrocci e i fanfulla di Pontida se la diano a gambe.

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Poche parole, dott. Berlusconi, quante ne meritano la tracotanza cilena con la quale lei truffa e si dichiara truffato e l’abituale piroetta con la quale domani sosterrà che a raccontare frottole ai suoi danni sono stati giornalisti rossi, Fede, Minzolini, Feltri, Belpietro e compagnia cantante, noti sovversivi di sinistra e, ad un tempo, direttori dei suoi numerosi giornali e telegiornali.
Reciti, se vuole, la tragicomica caricatura del “Caudillo” in quella sorta di “Bagaglino degenerato cui ha ridotto la nobiltà della politica. E se lo lasci dire: a ciascuno il suo. Giolitti fu, per Salvemini, “ministro della malavita“, lei più modestamente, passerà alla storia come il ministro della regia marina: ciò che dice la sera non vale la mattina. Non si faccia illusioni, però. Non si tratta, come in fondo le piacerebbe far credere, della tragica e per molti versi nobile doppiezza pirandelliana, del contrasto tra la forma e la sostanza, tra la “maschera” e il “volto“, di quel muro che talvolta separa il cuore dalla mente. Fosse così, dottor Berlusconi, lei sarebbe indotto a salvarsi dalla tragedia cui si avvia e intende condurci, in nome della pietà per l’uomo che soffre, della disperata pazzia che ci ingabbia e ci condanna ad una inevitabile solitudine.
E’ inutile che alzi cortine fumogene, dottore, lei vola basso mette la maschera del gran navigatore, ma sta sotto costa e, se minaccia tempesta, perde la bussola e ripara al sicuro nel porto. Un ottimismo amorale regola il suo rapporto con la vita, segnato da un filo rosso che, dalla ricchezza materiale, conduce direttamente ad una desolante povertà morale. C’è talvolta nel male un’ombra di grandezza: è l’unica ombra che manca alla sua vita. In tema di truffa, lei si riduce in fondo al piccolo cabotaggio. Spenna polli, fa il gioco delle tre carte e ha bisogno di pali e di qualche mazziere che prenda a pugni mediatici il giocatore se per caso ha scoperto il suo trucco. Il suo manganello è la televisione, l’olio di ricino sono i suoi giornali, ma la gente ragiona, dottore, e il Paese li ha visti e riconosciuti nella loro abiezione i quattro gatti in doppiopetto che, quando occorre, tirano fuori dossier, fango e menzogne come un tempo fascisti e carogne usavano feroci le catene e le spranghe. Pagati, suppongo, e certamente usciti dalle fogne.
Chi è che la truffa, dott. Berlusconi?
Lei vanta consensi da “Soviet Supremo” ma, all’apice della fortuna, con una legge elettorale che persino Acerbo avrebbe ritenuto immorale, non ha messo insieme più del 35 % di consensi strappati con mille male arti al 60 % che ha votato. Meno, lei lo sa bene, molto meno, della sterminata massa di chi, nauseato, s’è astenuto. Lei chiama maggioranza parlamentare un clan di nominati, una combriccola d’affaristi, un manipolo di soldati di ventura che nessuno ha votato e che non rispondono ad altri che al capo d’una fazione. Stia al suo posto, dottore, si tenga tranquillamente in porto e ricordi: l’invincibile Armada naufragò miseramente e, a Salamina, le navi della libera Grecia colarono a picco la tracotanza persiana.
Chi è che truffa, dottor Berlusconi? La gente che protesta concretamente e visibilmente, organizzandosi da sola nelle vie, nelle piazze, nelle scuole e nelle università, o lei che ripetutamente vaneggia di menzogne e manovre di una fantomatica sinistra rossa? Chi truffa, dottore, lei, che con le sue ricette rischia di ammazzare il paziente, o il Paese sempre più sofferente e stanco delle cure d’un apprendista stregone che promette miracoli e produce disastri? Chi truffa, dottor Berlusconi? E’ lei che ignora il Paese reale e recita a soggetto una parte che le sta sempre più stretta. Lei truffa, dottore, e glielo diciamo con calma e fermezza: non ne possiamo più di un Presidente del Consiglio che pretende di giudicare i suoi giudici naturali, che minaccia studenti, genitori e docenti, che smantella la formazione, criminalizza l’informazione e sfugge con tutti i mezzi ai processi che s’è meritato. Non ne possiamo più di un uomo che tiene sotto tiro i fortilizi della democrazia. E’ lei che truffa il Paese, dottor Berlusconi, lei che confonde truffatore e truffato. E sarà bene che ricordi: in un tentativo stolto e disperato d’ingannare il suo popolo, Luigi XVI riunì gli Stati Generali ma, alla resa dei conti, negò la forza della democrazia alla quale s’era appellato e non seppe leggere la limpida chiarezza dei “Cahiers des doléances“. Così, dottor Berlusconi, caddero una dietro l’altra prima la Bastiglia poi la testa del re che invano aveva scatenato la Vandea, come oggi i sui ministri minacciano di scatenar la piazza. E’ un re che nessuno rimpiange.
Stia a sentire. Non sguinzagli i suoi cani, dottore. Smetta di minacciare e si fermi. E’ solo e all’ultima spiaggia.
Non ha senso truffare se stessi.

Uscito su “Fuoriregistro” il 31 ottobre 2008

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Piangeva il poeta e nessuno l’udiva.
Solo dall’altro l’intese il creatore
e all’angelo del cielo così disse:
È triste il poeta, conducilo qui.
Giunto in cielo quel vate
dimenticò l’umana sua tristezza.
Vibrò sublime la sua cetra d’oro
e canti eterni ancora ritrovò.
Ma poi che, spento il giorno, fu la sera,
tacque allora il poeta e non cantò.
Su dalle nubi, nel guardare il mondo,
di nuovo disperato, il vate pianse.
Signore, disse infine, sommo padre,
per i miei versi puri, la mia fede,
per l’amore che porti al tuo poeta,
se v’è d’un uomo amor che ancor ti muove,
torna fra noi, riporta la tua pace.

E ad un crocicchio Cristo fu il mendico,
che inutilmente la sua mano tese.
Fu un negro come tanti, senza colpe,
e fu braccato come un omicida.
Predicò nelle piazze e fu deriso.
Nessuno dei miracoli s’accorse.
Solo una donna gli si offrì per nulla,
eterna Maddalena senza età.
Venne la sera infine ed avvilito
nell’orto degli ulivi se ne andò.
Il volto tra le mani, a lungo pianse
e negli occhi lucenti la tristezza,
che il Golgota nemmeno mai recò,
venne a portare un velo di dolore.
Caddero l’ombre, infine, e fu la notte.
Notte di mezza estate, calda, chiara.
Tornato in cielo, al vate che chiedeva
si volse e nella voce il pianto aveva:
Ormai per me non serbano gli umani
nemmeno più l’oltraggio d’una croce.

Estate del 1972

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Il giornale

Solo il tremito incontrollato del labbro inferiore rivelava la tempesta. Il tremito e il pallore innaturale di Maurizio che resisteva persino al rosso della rabbia, mentre il sangue saliva alla testa e martellava le tempie, senza trovare sbocchi nelle parole ormai controllate:
D’accordo, direttore, se insisti… L’edizione sarà davvero straordinaria…
Nonostante il tono ironico, per i dubbi non c’era più spazio: bandiera bianca. Era una resa senza condizioni.
Il direttore, che un attimo prima aveva minacciato persino il licenziamento, pensò che fosse sufficiente.
Vedo che ci siamo intesi, Maurizio, e mi basta. Tu sei giovane e hai molto da imparare. Togliti dalla testa l’idea pericolosa che un giornale nasce per informare e contaci: farai strada.
Si ravviò i capelli lisci e brizzolati, accuratamente divisi dalla fila al centro e li tirò indietro con le mani lisce e ben curate. Poi, mentre poggiava sul naso i costosi occhiali di titanio, sospirò con aria stanca ma soddisfatta:
Sono certo che non lo sai. Le lenti bifocali le inventò un famoso politico americano, Benjamin Franklin. E non è un caso. Il politico di razza nasce bifocale e sa che, se vuoi vedere più lontano degli altri, devi avere chiaro quello che hai vicino.
Si fermò, lasciò trascorrere alcuni attimi per godersi fino in fondo il punto interrogativo che s’era disegnato sul viso affilato di Maurizio, poi riprese:
Quando l’hai chiaro, però, devi fare in modo che gli altri vedano coi tuoi occhi. La concorrenza non la batti perché hai ragione. La ragione e la forza delle idee, di cui tu ti riempi troppo spesso la bocca, non servono a un cazzo. Gli avversari li batti se vedono solo ciò che vuoi che vedano. Ecco a che serve il costoso baraccone dei media. Se ci vuoi stare, impara la lezione.
Li batti se l’accechi… L’ho capita la lezione. Mica sono scemo.
Brutale, ma corretto!
Il direttore sorrise, si aggiustò il nodo della cravatta di cashemire, osservò compiaciuto la sua bella giacca in flanella verde sfumato e disegno scozzese appesa all’attacapanni, poi si alzò. Maurizio, che andava recuperando il colorito e non tremava più, lo vide aggirare con noncuranza la scrivania di noce e lasciò che gli poggiasse amichevolmente il braccio sulla spalla.
Non ti mancano i numeri, Maurizio. Sostieni cause perse, ma la tua penna fa miracoli. Ricordalo però, perché non te lo dirò un’altra volta. La morale è una temporanea e mutevole serie di cazzate che servono a proteggere l’immoralità. La verità non conta niente, la gente non la capisce e non se ne interessa. E’ vero solo quello che un bugiardo racconta in maniera convincente. Non ci sono cose giuste o sbagliate, vere o false. Ci sono cose utili a un progetto. Quando accettano di farne parte, allora sì, allora quelli come te, gli ex illusi, le facce pulite che si sono vendute, servono più di tutti e vanno pagati.
Maurizio trasalì. Per un attimo il labbro sembrò di nuovo tremare, ma stavolta lo inchiodò al suo posto e, senza volerlo, pensò: Questo verme ha ragione. Non me la gioco la carriera per un principio. La mia parte l’ho avuta, ho già pagato.
Per il direttore non fu difficile leggergli il pensiero nello sguardo. Lo sapeva bene e ci contava. Il padre di Maurizio aveva perso tutto per non stare al gioco e l’avevano lasciato solo come un cane. Carriera distrutta, famiglia rovinata e alla fine il suicidio.
Questa è la mia strada, esclamò Maurizio. Ex illuso, faccia pulita di venduto. Tutti hanno un prezzo. Tra un’ora il caso esplode, non temere.
E non ti pentirai. Il capo ti mostrerà la sua gratitudine.
Se n’era andato al tramonto e non tremava più. A piedi, tra la gente, per valutare la reazione. Di politica ormai non parlava quasi più nessuno, ma di scandali e corruzione, la strada ribolliva. Il sasso lanciato nello stagno aveva già scatenato la tempesta
Tutti uguali, tutti ladri! urlava viperina una donnetta scatenata.
Faceva il santo, ‘sto disgraziato! Replicava un ragazzo, velenoso.
Si vede che il padrone non l’ha accontentato! Ripetevano in tanti con l’aria di chi conosce la vita e la sa lunga.
Ma a voi un padrone sta bene? Azzardò stizzito un vecchio che aveva addosso una tuta fuori moda.
Lo sommerse un coro:
La politica è questo, si mangia, si ruba. Non si salva nessuno. Meglio uno solo, meglio un padrone, che finalmente mette a posto tutti!
S’era formato un crocchio e in piazza un gazebo raccoglieva firme. In lontananza un cordone di celerini fronteggiava un corteo. Tra le bandiere rosse, un megafono urlava:
Libertà di stampa! Libertà di stampa!
Maurizio si strinse nelle spalle. Meglio uno solo, pensò. E’ quello che avrete. Uno che fotterà tutti. Fermò un taxi con la mano:
Va per dove ti pare, fa la strada che vuoi, ma fa presto, usciamo dalla piazza.
Di corsa, sono un lampo! fece il tassita, poi subito attaccò:
Ha sentito? E parlava di legalità… Voleva solo un posto in prima fila. Quello voleva! Un paese che affonda! Ma è meglio che lo sanno, la parola torna al popolo e noi siamo pronti. Non ci faremo imbrogliare!
E chi vuoi che c’imbrogli? Noi siamo il popolo sovrano…, rispose ironico Maurizio. Ma era cupo e non aveva voglia di parlare.

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C’è puzza di bruciato: Leghisti e forzisti rispondono a Napolitano a muso duro perché hanno paura, sono terrorizzati e un animale impaurito è molto pericoloso. Per carità, intendiamoci. Nessuno s’illude che Bersani, Fini e Casini siano diventati d’un tratto seri statisti. Il fatto è che la stragrande maggioranza della  gente, costretta ad affrontare una crisi economica senza precedenti, non regge più Cicchitto Capezzone, Feltri e compagnia cantante. Non è una questione politica, che pure sarebbe sacrosanta. Forse è peggio. E’ un problema di stomaco: il vomito è continuo, inarrestabile e resiste anche al classico Plasil. Nella sinistra che non c’è, in quell’ectoplasma di irresponsabili che ora si definiscono  “area della responsabilità”, credono in pochi, ma la banda di puttanieri, mignotte, mariuoli e pennivendoli che minaccia la piazza ha disgustato poveri e  ricchi, cristiani, musulmani e persino domineddio, che non vuole aver nulla a che spartire con una sorta di aborto che non avrebbe voluto creare. Putroppo anche un padreterno può sbagliare:  l’aborto gli è sfuggito di mano e lo sputtana nei consessi celesti, tra divinità e profeti. Siamo al punto che Buddha, Confucio e Allah non gli rivolgono più nemmeno la parola e Manitù, sdeganto, dopo tre “augh“, s’è ritirato infuriato tra i bisonti. In paradiso è crisi di regime: il padre contro il figlio, lo spirito, non più santo, contro padre e figlio. Pare che Sant’Ambrogio rifiuti la cittadinnaza della Padania e San Gennaro minacci di sospendere il celebre miracolo. E c’è pure chi teme un golpe di San Pietro.

Il padreterno, mormorano i santi, è un modello perfetto di “fannullone” brunettiano. Se nella sola settimana di lavoro vero che ha vissuto in tutta sua eterna vita di creatore non avesse scelto il sabato fascista – “il settimo giorno riposò” dicono le scritture – avrebbe avuto tempo per riparare i guasti e oggi non sarebbe il disastro. Figlio di quel malaccorto riposo, giurano con filosofiche ragioni Agostino e Tommaso, sono senza dubbio Bossi, Maroni e la Padania razzista e sconsacrata. Fosse stato attento, li avrebbe certamente fulminati. E non è tutto. Figli naturali del suo divino fannullonismo, mormorano angeli, arcangeli, santi e beati,  sono Brunetta, Gelmini, Sacconi e la Carfagna e ognuno si lagna. In quel fatidico “settimo giorno” vissuto da scioperato, il Signore Celeste ha dato vita più o meno eterna al venditore di tappeti alloggiato nel miniparadiso di Arcore. Stanco senza ragione – un vero sfaticato, sostiene il demonio che è molto interessato alla faccenda – per godersi l’eterno riposo del “settimo giorno”, quando la morte, sua figlia prediletta, gli ha portato finito il verde Bossi, ha dovuto mollarlo: il padreterno non aveva voglia di giudicarlo e il diavolo se l’è visto sfuggire dalle grinfie. Com’è naturale, l’inferno è in sciopero generale e qui a terra siamo a questo: mancano all’Italia – nel delirio del riposo non li ha messi al mondo – personaggi irrinunciabili. E’ incredibile, si trova tutto, anche se costa un occhio della testa, non viene fuori un Cassio nemmeno se lo cerchi col lanternino e non trovi Bruto neanche a pagarlo a peso d’oro. Li avesse creati, potrebbero coronare il sogno di Berlusconi: avere finalmente qualcosa in comune con Giulio Cesare. Allora sì, allora i  nostri tempi sarebbero degni della grande storia romana e il miniduce potrebbe stare alla pari col grande Cesare almeno in una cosa: le classiche trentatre pugnalate finali. Voi ve li immaginate Capezzone e Cicchitto nei panni di Ottaviano e Marco Antonio?

Il padreterno però s’è riposato e l’Italia rimane purtroppo quella che Dante conosceva bene: “Non donna di provincie ma bordello”.

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Noi siamo stati

In spalla una chitarra e lo zainetto.
Attenta, ha il candelotto sul moschetto!
Ma non s’è mosso nulla. Tu hai sorriso,
io mi son perso allora nel tuo viso.
Noi siamo stati musica e parole.
Tu, graziose carole,
gonne lunghe e colori di ragazza,
incontro ai celerini in una piazza.
Non portavi la borsa:
è per protesta, e poi frena la corsa…
In spalla una chitarra e lo zainetto
Attenta, ha il candelotto sul moschetto!
E per la prima volta,
la nuvola t’ha avvolta.
Non la tua borsa,
poi frenò la corsa,
ben altro ci fermò
Nostra non fu la mano che tirò.
Ricordo soprattutto lo sconcerto.
Lasciammo un libro aperto,
sogno di libertà:
leggeremo, vedrai, tempo verrà…
Ma la pagina è aperta e mai finita.
Noi siamo stati insieme per la vita
in un passato senza più futuro
e in questo tempo, persi, amaro e duro.
Ora porti la borsa,
s’è fermata la corsa.
In piazza c’è un concerto
nel cuore un gran deserto.
Ma cosa vuoi che conti, cosa importa?
Esco tra poco. Chiudo libro e porta.

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Non sono pugnalate, Fini, non è Bruto né Cassio e, nei panni di Cesare, Berlusconi fa cilecca persino come caricatura, ma trentatre sono i colpi contati, trentatre le astensioni, una raffica, e dopo la standing ovation dei fedelissimi e il patetico saluto romano, il piccolo re s’è ritrovato nudo. Nulla v’è al mondo che in eterno duri e ora sì, ora saremmo davvero alle comiche finali, se in fondo al tunnel non apparisse lo spettro del naufragio.

Mentre lo sfruttamento cresce, il razzismo dilaga, la scuola affonda, l’università agonizza e i giovani non trovano lavoro, la successione dei fatti è oscena, cupa e raggelante. Ammutoliti Bondi e Bonaiuti, Capezzone tartaglia, come un guitto che non ricorda la parte, e la Brambilla, l’equivalente meneghino del “signor nessuno“, turista della politica e ministra del turismo, persa la testa, si scatena contro il palio di Siena, consegnando la città al nemico. La barca fa acqua da ogni parte e il motore s’inceppa. Se il livore non accecasse il signor “ghe pensi mi!”, Feltri e Belpietro, che non brillano per acume, ma sono furbi scherani, terrebbero in prima pagina le previsioni del tempo, ma l’ordine è tassativo: “trattamento Boffo”. Il conto però non torna, risulta sbagliato, e il fango misteriosamente cresce nell’impatto e poi rimbalza: uno schizzo colpisce Chiara Moroni e diventa valanga, sommergendo Berlusconi; un altro s’avventura su Fini, ma si fa diluvio e affonda nella melma i colonnelli disertori Gasparri e Larussa.

Come cozza allo scoglio, Berlusconi s’attacca al “porcello”, la legge elettorale sulla quale pesa come un macigno il giudizio dell’autore, Calderoli, fascioleghista d’origine controllata, che il 18 marzo del 2006, con imprudenza pari all’arroganza, confessò scioccamente alla “Stampa”: è una porcata, “io la chiamavo affettuosamente Porcellum. La Lega merita fiducia: trasformista per vocazione, nel 1994 piantò in asso l’amico Berlusconi e lo mandò gambe all’aria. Presto finì pezzente, rischiò di sparire e, cenere in testa, si presentò a Canossa. Gente d’onore, insomma, che sputa su Roma ladrona e sui meridionali, ma prende i soldi dello stipendio dalle tasse che pagano i “terroni” e s’è specializzata in suinate. L’ultima, in ordine di tempo, la Lega di Calderoli l’ha realizzata sostenendo i furbastri delle quote latte e costringendo la gente onesta a pagare miliardi di multe di elettori leghisti.

In che spera la cozza? Anzitutto in un meccanismo elettorale misto, in una manomissione della rappresentanza politica, caratteristica dei sistemi maggioritarî, che non rispecchiano nelle Assemblee elettive i rapporti di forza reali tra i partiti e ignorano le voci e i temi delle relazioni tra le classi sociali, e poi, in quell’imbroglio chiamato premio di maggioranza, che si giustifica con la foglia  di fico d’una promessa: stabilità politica e “governabilità”. Un inganno che non ha mai evitato la frammentazione, ha regalato il Paese a minoranze raffazzonate e pronte alla rissa. Per questo si sono creati i due sedicenti “grandi partiti” – il PD e il PDL – enormi recipienti vuoti in cui si raccolgono, a seconda degli interessi di questo o quel leader e gruppo di potere, aggregazioni disomogenee, che hanno diversa radice storica e culturale e formano articolazioni non solo molto diversificate, ma pronte alla contesa. E’ andata così con Prodi, così va col sedicente “leader maximo”.

La cozza, sostenuta da uno statista come Bossi, suscitando omeriche risate tra chi sa leggere, scrivere e far di conto, sostiene che il premier l’ha scelto il popolo, ma il “legame” tra partiti e preteso leader di una pretesa coalizione è solo virtuale: nessuno può impedire a nessuno di cambiare casacca e, in ogni caso, la repubblica presidenziale esiste solo nella testa malata di sparute pattuglie di illustri sconosciuti che, a titolo puramente personale e da nessuno mai eletti, si occupano di riforme nella spappolata maggioranza. Piaccia o meno agli storici alla Quagliarello, la Costituzione disegna il quadro di una repubblica parlamentare. E, d’altra parte, come parlare di voto, se è impossibile esprimere preferenze, se Calderoli e il porcellum hanno vergognosamente silurato la Costituzione e il parlamentare non sarà eletto dal “popolo sovrano”, come  rappresentante di sensibilità e interessi di pezzi di società, ma solo per giochi di potere e scelte del “palazzo”?

Il porcellum è un crimine. Ad esso, ridotti alla disperazione, la cozza e i suoi accoliti si aggrappano per imporre ancora una volta uno stravolgimento delle regole fondanti, per poter ancora distorcere l’articolo 49 della Costituzione, per il quale i cittadini sono i soggetti imprescindibili della vita politica e i partiti semplici strumenti di una partecipazione organizzata. Votare con questa legge criminale vorrebbe dire violare ancora una vota gli articoli 56  e 57 della Carta costituzionale, per i quali l’elezione delle Camere – deputati e senatori – è conseguenza di un voto espresso dai cittadini “a suffragio universale e diretto”. Testuale.

L’analfabetismo di ritorno, che è la principale caratteristica dell’attuale classe dirigente, impedisce alle cozze e agli scogli che hanno sconvolto le aule parlamentari che qualcuno ne faccia cenno, ma alla pagina 441 degli Atti della Costituente è riportato l’ordine del giorno Ruini, approvato dall’Assemblea Costituente, che suona oggi come un severo monito della storia: “L’Assemblea Costituente ritiene che l’elezione dei membri della Camera dei deputati debba avvenire secondo il sistema proporzionale”.

Nemmeno nel peggiore degli incubi Ruini avrebbe immaginato che a poco più di settant’anni, una legge “porcata” avrebbe espropriato i cittadini dell’espressione diretta del suffragio, per consentire la sopravvivenza d’una cozza avvinghiata allo scoglio del potere. Tocca a noi dire no a questo sconcio e se Bossi dovesse provare a suonare le trombe, faremo in modo che diventi sordo al suono delle nostre campane.

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Un tiranno ad Atene

“Un tiranno ad Atene!”…
Ancora il tempo viene
amaro della guerra?
Di sé gelosa amante, una terra
pone mano alle armi:
nel foro e per le vie si grida “allarmi!”.
A voi sembrano poche, cittadini,
e inadeguate ai fini
le nuvole improvvise, i mille nembi,
e i freddi venti sghembi
nell’azzurro chiaro e composto
del bel cielo di agosto?
Dopo il caldo e l’arsura,
sulla terra secca, bruciata e dura
l’acqua porta tempesta.
Danzate pure, ciechi, fate festa…

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