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Napoli, 19 maggio 1879 – 28 dicembre 1931
Nel 1893, quando si iscrive alla «sezione impiegati» del Partito Socialista, è ancora uno studente ma frequenta sovversivi e si nutre di libri e giornali rivoluzionari che, secondo la polizia, hanno saputo «guastargli il cervello». Troppo giovane per valutare i rischi che corre, il 9 agosto 1894, mentre Crispi soffoca violentemente i moti contadini in Sicilia, si reca in Questura e firma un atto di fede nell’anarchia. Una perquisizione domiciliare consegna così alla polizia una lettera in cui scrive di voler diventare un «santissimo Caserio», l’anarchico che ha ucciso il Presidente della repubblica francese Sadi Carnot. Interrogato, spiega di volere davvero ammazzare Crispi, causa di rovina per tanti uomini, ma aggiunge di non essere capace di uccidere. Denunciato per «apologia di delitto», il 28 agosto è affidato al padre in «libertà provvisoria».
Chiuso in collegio, il ragazzo conserva le sue idee e durante le vacanze frequenta i soliti compagni di fede. Il 6 agosto 1897, disperato per l’isolamento in collegio, tenta il suicido, ma si salva e dopo il liceo si iscrive alla Federazione Socialista. Nelle manifestazioni è così attivo che, profittando dei moti per il pane, il 10 maggio 1898 la polizia lo include tra i «sovversivi pericolosi» e lo arresta. Il 13 giugno è condannato a sei mesi di domicilio coatto a Ischia, ma evade e si consegna a novembre, quando, cessato lo stato d’assedio, può tornare libero. Controllato con cura, il giovane si fa prudente e se prova ad agire, è subito colpito. Il 4 giugno 1899, infatti, «festa dello Statuto», è arrestato per «un manifestino sovversivo diretto all’esercito e stampato alla macchia».
Contrario all’intesa tra Giolitti e Turati, festeggia il primo maggio 1900 con un gruppo di socialisti dissidenti. Nel 1901 entra nel Comitato di lotta al domicilio coatto ma è così vicino ai libertari, da essere segnalato tra gli anarchici italiani in contatto con quelli argentini. Arrestato per oltraggio al papa ed eletto segretario della «Lega di resistenza dei camerieri di caffè e ristoranti», nel 1902 rompe coi socialisti. Decisa a zittire un militante che trova ascolto tra i lavoratori, la polizia intanto forza la mano. Nel 1903 è ripetutamente arrestato: perché porta bandiere anarchiche ai comizi socialisti, turbando l’ordine pubblico, perché si agita in un corteo contro l’Austria, causa incidenti tra il pubblico al Consiglio Comunale, oltraggia Pio X e incita all’odio di classe. Nel 1904 è fermato perché viola la legge di P.S., è in prima linea negli incidenti di settembre per lo sciopero generale e diffonde volantini non autorizzati alla elezioni politiche di novembre.
La repressione rende Vanguardia prudente, finché il 29 marzo 1906 pubblica «La Voce dei Ribelli», che i tipografi, impauriti dalla polizia, rifiutano di stampare. Scritto a mano e diffuso alla macchia, il giornale chiede cambiamenti politici e sociali e tocca temi ancora attuali: la questione morale e una «legalità» estranea alla giustizia sociale, che lascia impuniti coloro che, politici in testa, «rubano […] scappano e portano via parte della ricchezza nazionale». I toni sono violenti – «se occorre distruggervi, […] senza esitare contribuiremo» – ma è una violenza figlia della cecità del potere. Alla «Voce dei Ribelli» fa seguito «I Ribelli», giornale di cronaca e dibattito teorico, che dopo due numeri diventa «Il Picconiere», ma è subito chiuso.
Nel 1907 Vanguardia, presente al Congresso Anarchico di Roma, vive a Milano, è redattore della «Protesta Umana», e tiene conferenze sul domicilio coatto e sull’antimilitarismo. Il 13 novembre parla al comizio di Milano per le vittime politiche, poi è segnalato a Vigevano, Pavia, Santhià, Biella e Lugano. Rimandato a Napoli con foglio di via a febbraio del 1908, fonda il «Sorgete», un gruppo comunista «libero», ostile a ogni organizzazione politica, ma aperto a un sindacalismo di base, fondato sull’azione diretta. Tra i temi di fondo, i diritti negati e il parlamentarismo, che non solo limita la libertà di riunione e di pubblico comizio, ma giunge al sequestro preventivo e alla soppressione dei giornali, all’arresto dei cittadini «per delitto di pensiero» e alle fucilate sul popolo affamato.
Il 7 ottobre 1909, «Sorgiamo!», nuovo giornale di Vanguardia, individua i nemici del popolo – «lo Stato, il Capitale, la Chiesa […] i giudici, gli sbirri, le carceri, i codici, i soldati» – e minaccia di «demolire» il «vecchio e decrepito assetto sociale» che la storia condanna a sparire. Una minaccia che il 13 ottobre 1909, durante le proteste per la condanna a morte di Ferrer, Vanguardia realizza simbolicamente, facendo esplodere un innocuo petardo nella chiesa di Montesanto. Un gesto per cui è condannato a quindici mesi di carcere. Uscito in libertà provvisoria, Vanguardia torna alla lotta sindacale, guidando una vertenza dei tessili della «Wenner» di Scafati, che nel novembre 1910 sfocia in aspri scontri e in una denuncia per mancato omicidio di un poliziotto. Nel 1911 è l’anima del movimento contro il caro-casa e partecipa a vari scioperi. Ad aprile del 1912 è segretario della «Lega dei lavoratori dell’Arte bianca», che guida fino al 17 agosto, quando lo ferma l’esecuzione della condanna per il petardo di Montesanto; tornerà libero per uno sconto di pena l’11 marzo 1913. Il tentativo di dar vita a «La Battaglia», un giornale subito censurato, e due arresti segnano il ritorno alla militanza di Vanguardia, che il 25 gennaio 1917 è sulla linea del fuoco, dove la morte è il volto della guerra. All’orrore delle trincee, reagisce organizzando diserzioni e falsificando licenze, finché il 10 gennaio 1918, scoperto, resta in carcere fino al 15 marzo 1919, quando è assolto per mancanza di prove.
Tornato a Napoli, diventa dirigente della Camera del Lavoro e segretario della «Lega panettieri», che guida in una dura vertenza su orari di lavoro, salari, ufficio di collocamento e igiene dei panifici. Complici le Autorità, i padroni rispondono con l’esercito che fa il pane e la polizia che difende forni e panetterie, ma Vanguardia forma squadre di panettieri che sorprendono il servizio d’ordine e attaccano i crumiri. Scontri e arresti non domano la protesta, che assume un significato emblematico, diventando una ideale «linea del Piave» in un conflitto sul ruolo delle classi sociali e sui costi della guerra che la borghesia ha voluto e ora scarica sulla povera gente. La portata e il significato degli eventi in una città inquieta, allarmano il Prefetto, sicché, quando il pane scarseggia, i militari sbaraccano e Vanguardia ottiene l’apertura di punti vendita comunali a prezzo politico. Il giovane al quale le idee rivoluzionarie avrebbero guastato il cervello, ha dimostrato un grande equilibrio e ha vinto, lottando coraggiosamente per i diritti della povera gente.
La vittoria, che il 10 dicembre 1919 i lavoratori salutano come la prima di una lunga serie, in realtà ha spaventato i padroni, ma i Fasci di Combattimento, nati a marzo, non preoccupano ancora. Ai primi del 1921 però, mentre lo squadrismo dilaga, Vanguardia crea il «Circolo popolare» e la «Lega Inquilini» che ostacola le pretese esorbitanti dei padroni di case, tentando di dare forza al malcontento e opporre agli squadristi propaganda e lotta sindacale. La violenza fascista vanifica però il tentativo. Benché denunciato per un manifesto clandestino e arrestato per lesioni a vigili urbani, a luglio del 1922 Vanguardia guida la «Lega panettieri» in una vittoriosa vertenza su salari e lavoro notturno, ma il fascismo giunto al potere lo ferma. Il primo maggio 1924, l’anarchico si reca con alcuni compagni in una bettola, sale su un tavolo e con grande dignità canta l’Internazionale e si fa arrestare.
Il 22 novembre 1926, con le leggi «fascistissime», giungono la condanna a quattro anni di confino e il viaggio disumano che lo conduce a Pantelleria, sfinito e incatenato ad altri confinati. Ritenuto pericoloso, l’anarchico è esposto all’arbitrio dei militi e la sorella, per sottrarlo a quell’inferno, chiede al duce di perdonare «le colpe giovanili di un italiano», che al tempo della guerra «ha esposto la vita sul campo dell’onore». L’Alto Commissario Castelli, convinto che Vanguardia sia fermo nelle sue idee, esprime parere contrario e mentre l’istanza è archiviata, il confinato finisce a Ustica, dove l regime di polizia è più spietato. L’isola gode di una fama sinistra: vi impazza, ricorderà anni dopo Aldo Garosci, un aguzzino, brutale e neuropatico. Non bastasse, Cesare Mori, il «prefetto di ferro» inviato a Palermo con pieni poteri per risolvere il problema dei rapporti tra regime e mafia, ritiene che la colonia, in cui vivono in media 360 sovversivi ritenuti pericolosi, possa fare da base a un pericoloso movimento. Per controllare i confinati, Mori utilizza Vincenzo Picone, un finto confinato politico e un confinato vero, Riccardo Fidel, sedicente comunista, che all’insaputa del Picone fa da provocatore.
Per ottenere la libertà a spese dei compagni, Fidel fa credere a Picone che i confinati preparano una rivolta e la fuga. Ingannate dalle spie, le Autorità di polizia si convincono che una nave si è già accostata all’isola e poi allontanata tenendo una rotta inconsueta. Il 30 settembre 1927 Mori mette l’isola a soqquadro con perquisizioni da cui non emerge uno straccio di prova, ma sostiene che i confinati, d’accordo «con sovversivi del Regno e dell’estero», hanno un piano «di evasione e ribellione contro i poteri dello Stato». E’ così che 56 confinati, tra cui Vanguardia, sono denunciati al Tribunale Speciale. Il 10 ottobre 1927, accusato di attentato alla sicurezza dello Stato, l’anarchico finisce in carcere duro a Palermo e poi a Napoli. Per mesi, interrogatori brutali si alternano a offerte «vantaggi» in cambio di «collaborazione». Vanguardia, però, non non compra la libertà vendendo la dignità. Negli anni delle prime battaglie aveva orgogliosamente affermato: «Non varranno prepotenze e violenze […]; respingeremo senza esitazione qualsiasi mezzo voi adotterete». É stanco e malato, quando, assolto per insufficienza di prove, agli inizi del 1929 è trasferito a Ponza, dove la salute peggiora di giorno in giorno. Quando possono, i tiranni evitano di trasformare in eroi le loro vittime; Mussolini perciò non ha dubbi: l’ora della liberazione non deve coincidere con quella della morte.
L’uomo che l’1febbraio 1930 torna a Napoli è molto sofferente. Non è in grado di nuocere, ma il regime, che lo ritiene ancora pericoloso, lo tormenta con frequenti perquisizioni; il 27 ottobre 1930, per l’ottavo anniversario della marcia su Roma, lo tiene in cella per una giornata. É il 10 novembre del 1931, quando torna in Questura per una bomba esplosa nella zona del porto. Di lì a poco, il 28 dicembre 1931 muore nella sua abitazione al n. 45 di via Bernini.

Fonti e bibliografia:
Archivio Centrale dello Stato, fascicoli intestati a Vanguardia in Casellario Politico Centrale, b. 5312 e Confino, Fascicoli Personali, b. 1046. Archivio di Stato di Napoli, Questura, Gabinetto, I parte, II serie, 1888-1901, b. 86 bis, «Fascio dei lavoratori. Iscritti»; b. 86 ter, f. «Federazione Socialista Napoletana» e b. 110, «Camerieri di caffè e ristoranti»; Schedario politico, fascicoli intestati a Vanguardia in Sovversivi annuali, b. 96 e Sovversivi deceduti, b. 110. Rosa Spadafora, Il popolo al confino, La persecuzione fascista in Campania, I, pp. 512-13; Giuseppe Aragno, Siete piccini perché siete in ginocchio. Il Fascio dei Lavoratori, prima sezione del PSI a Napoli, (1893-1894), Bulzoni, Roma, 1989, pp. 110-112;  Idem, biografia in AA. VV., Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani, II, (I-Z), Biblioteca Serantini, Pisa, 2004, pp. 648-49. Idem, Antifascismo e potere, Storia di storie, Bastogi, Foggia, 2012, pp. 23-40; Fabrizio Giulietti, Umberto Vanguardia. Azione e propaganda di un anarchico napoletano, (1879, 1931), Galzerano, Casalvelino Scalo, 2009.

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Napoli, gennaio 1893. La disoccupazione, cresciuta oltre il tollerabile, minaccia l’ordine pubblico e la pace sociale. La Società del Risanamento, che lavoro ne dà, si è mangiata tutto ciò che poteva, anche il suo capitale e non riesce a gestire il conflitto con i proprietari che difendono la rendita da significative quote di case popolari e giocano al rialzo con l’indennità di esproprio, ritenuta sempre troppo bassa.
Benché vicino a Giolitti che governa, il Comune cerca d’impedire che il potere centrale intervenga nella gestione della traballante immobiliare, ma il ciclo d’espansione si è esaurito da tempo e occorre ridimensionare i programmi. Sotterraneo, ma duro, lo scontro tra potere locale e centrale prosegue per mesi, finché a luglio, complice la sinistra come sempre divisa, la Giunta cade su un tema apparentemente marginale: il rinnovo della convenzione con la Società dei trams, che prevede l’espansione della rete.
Mentre la crisi morde più feroce che mai, le Destre, dai cattolici ai crispini, ai liberali legati alla camorra hanno tutto l’interesse a creare problemi al Ministero, perché la Giunta è filogiolittiana e non intendono perdere l’occasione per mettere le mani sulla città.
In un clima confuso, in cui i partiti sono incapaci di guardare oltre i propri interessi, la tensione sale, alimentata dalla fame, dalla rabbia e dalla disoccupazione. Sono i giorni in cui lavoratori francesi hanno fatto strage di crumiri italiani ad Aigues Mortes, il Paese è in subbuglio e anche a Napoli ci sono accese reazioni a carattere nazionalista. Da giorni, al suono della marcia reale, cortei patriottici partono dal “Gambrinus”, il caffè della “bella gente”, al grido di “Viva Crispi! Viva l’Esercito! Abbasso Giolitti!” e si scontrano con la polizia.
Il 23 agosto scendono improvvisamente in sciopero i cocchieri, danneggiati dall’estensione della rete tranviaria. Nessuno se l’aspetta, ma l’industria delle carrozzelle è in mano alla “bassa camorra”, quella che raccoglie i voti per i politici, e i cocchieri, evidentemente organizzati, si passano la voce, uno incita l’altro a ritirare la carrozzella e lo scopo è subito chiaro: coinvolgere la popolazione e far nascere disordini.
In breve cominciano gli assalti ai tram e alle carrozzelle che non si ritirano e violentissimi scontri con la polizia. Si va avanti così fino al 24, quando la polizia uccide Nunzio De Matteis, un adolescente, figlio di un operaio dell’Arsenale, che i dimostranti portano in giro per la città incitando alla rivolta. Dai vicoli accorre gente, prende alle spalle la polizia e la circonda. Si lotta, tra cariche di cavalleria e scritte di varia provenienza: “Abbasso la Francia! Vogliamo la guerra!”, “Morte ai poliziotti! Viva Bovio!”.
Dopo tre giorni di violenze e assalti ai negozi con insegne straniere – si devasta ma non si saccheggia – la protesta si spegne. Si sono visti assieme qualche sovversivo, popolani inferociti e individui sospetti. Ha fatto da mediatore il deputato Alberto Agnello Casale, notoriamente legato alla camorra.
Chi ha mosso le acque? E’ la prima domanda in queste circostanze, quella che spesso cancella la domanda più utile e necessaria: quali saranno le conseguenze della rivolta?
Quello che oggi importa ricordare, per rispondere alla domanda che nessuno si pose in quei giorni, è che la rivolta, nata dalla crisi dell’economia del vicolo, aprì la via alle Destre e alla reazione. Di lì a poco la polizia colpirà le organizzazioni operaie e arresterà soprattutto anarchici e socialisti. Pochi mesi dopo, subentrato a Giolitti, Crispi metterà fuorilegge il Partito Socialista.

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Costretti agli arresti domiciliari da un’epidemia che dilaga soprattutto a causa delle politiche dissennate dettate dall’UE e dalla Confindustria, che hanno distrutto la Sanità Pubblica, assistiamo impotenti alle scelte incerte d’un governo, sottoposto al ricatto dei padroni. Ieri l’ultimo atto della tragica pantomina; mentre si dà la caccia all’untore e si vieta persino la corsa innocente e solitaria nei parchi, Conte modifica il decreto di chiusura delle aziende che non servono alla vita quotidiana della popolazione duramente colpita: non chiudono, lavoreranno fino al 25.
Da noi la pandemia si può combattere con ogni arma, tranne la chiusura delle fabbriche, la più adatta a tutelare la popolazione inerme. Per Confindustria chiudere le fabbriche provocherebbe danni ai titoli quotati in Borsa e potrebbe costringere gli imprenditori a pagare penali per il lavoro non consegnato. I padroni, quindi, spudoratamente hanno chiesto tempo, ancora altro tempo e non si curano dei morti che aumentano negli ospedali disarmati e infettati.
In un Paese privo di memoria storica, in cui vive ormai un popolo ridotto a gregge, qualcuno dovrebbe ricordare al governo il caso emblematico di Luigi Bonnefon Craponne, fondatore e primo presidente di Confindustria, teorico di una strategia di puro egoismo, per la quale “gli industriali non debbono restringersi alla difesa dei loro interessi economici immediati nei riguardi della classe operaia, ma saper fare pressioni tali che la legislazione sociale non proceda troppo avanti e non danneggi l’industria e i suoi interessi”.
Con questa lucida e pericolosa dottrina, nel 1913 Confindustria affrontò le richieste degli operai, impegnati in un sacrosanto sciopero a oltranza. Di fronte a tanta arroganza, Giovanni Giolitti, che non fu certo  un pericoloso bolscevico, presidente del Consiglio come oggi Giuseppe Conte, non usò mezze misure; per molto meno di quanto sta combinando oggi Vincenzo Boccia, espulse infatti dall’Italia l’eversivo capo dei padroni, Luigi Bonnefon Craponne.
Si trattava – si badi bene – di uno scontro sindacale, ma per Giolitti, il capo degli industriali, di origine francese, non solo era venuto meno al dovere di rispettare il Paese che lo ospitava, ma aveva messo a rischio la pace sociale, osando «eccitare e invelenire le agitazioni degli operai, suscettibili di gravi effetti politici e sociali».
E’ difficile immaginare cosa avrebbe fatto Giolitti a Boccia oggi, quando si gioca con la vita dei lavoratori e con il rischio di contagiare ulteriormente una popolazione messa a durissima prova dalla religione del profitto e dalle politiche neoliberiste. In tanta confusione e vergogna, tuttavia una certezza l’abbiamo: l’epidemia sta mettendo a nudo la miseria morale della peggiore classe dirigente della nostra storia.

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84204757_3124969030865942_254877180549398528_nLa vicenda Whirpoool rientra perfettamente nella storia dell’Italia liberista. Ai primi del secolo scorso, quando due leggi speciali di Giolitti tentarono di dare una spinta all’industrializzazione della Campania, si assicurarono a spese dello Stato forti vantaggi agli imprenditori che aprissero fabbriche nel Sud. Il concetto era più o meno quello di oggi: stendere tappeti di velluto ai piedi dei padroni e invitarli a investire nel Sud. Abituati ad approfittare dei favori dello Stato, gli imprenditori del Nord non esitarono a partecipare al banchetto. Lo Stato si impegnò a pagare per anni la materia prima e a non imporre tasse per un lungo, allettante periodo di pacchia, reso più appetibile da una mano d’opera specializzata pagata la metà di quelle settentrionale.
Com’era naturale, fu un fiorire di fabbriche. Scaduti i termini, quando e i padroni avrebbero dovuto proseguire assumendosi i rischi d’impresa, iniziò il fuggi fuggi. Intascati i profitti e scansate le tasse, i padroni del vapore, invertirono la rotta e tutto tornò com’era.
Avremmo dovuto imparare la lezione, capire che la soluzione non è quella liberista e invece di regalare quattrini della collettività a sciacalli e speculatori, creare forti aziende di Stato e nazionalizzare. Noi invece continuiamo a offrire ponti d’oro a mariuoli travestiti da imprenditori – stavolta sciacalli e vampiri vengono dall’estero, continuiamo a sopportare che un padronato rapace e senza scrupoli, si comporti come i padroni della Whirpool: prendono i nostri soldi, fanno profitto e se trovano chi gli consente di schiavizzare meglio i lavoratori, chiudono i battenti, gettano sul lastrico i lavoratori e chi s’è visto s’è visto.
In alcuni Paesi dell’UE i governi hanno messo mano alla legge e hanno provveduto a difendere i loro lavoratori. Qui da noi, dove tutti gridano “prima gli italiani”, i governi si dichiarano impotenti: non possiamo impedire a un’azienda di chiudere. Così, come dimostra il caso Whirpool, siamo diventati terra di conquista. Tu pensi che la gente dovrebbe votare soprattutto preoccupandosi di queste cose e invece no. Grazie ai media sottomessi e monopolizzati dai padroni, la gente, ipnotizzata da fuorvianti campagne di stampa su un inesistente fascismo che avanza, vota partiti e uomini responsabili della tragedia di centinaia di migliaia di lavoratori.
In questo senso, l’amara vicenda della Whirlpool è emblematica. Una grande multinazionale, con cuore e cervello negli Stati Uniti, decide di chiudere e di cancellare il futuro di 420 lavoratori e lavoratrici e delle loto famiglie in un territorio già martoriato dalla crisi. Un governo disarmato, ma sarebbe meglio dire complice dei padroni, non sa fare altro che alzare bandiera bianca di fronte ai padroni. Agli uomini e ai partiti di questo governo, però, un popolo disinformato, sempre più ignorante e ormai disperato. si affida perché, così come ce la presentano opinionisti e televisioni al soldo dei padroni, il vero, grande problema dell’Italia è il pericolo di un ritorno al fascismo.
Per fortuna, però, nuclei di resistenza si vanno formando e, come dimostra questo filmato, Potere al Popolo è in prima linea:

https://www.facebook.com/poterealpopolo.org/videos/185871316108251/

Contropiano, 31 gennaio 2020

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Prima i padroni

Prima i padroni

C’è una sapienza antica che la crisi mortale del capitalismo va cancellando. E’ la sapienza politica, se volete anche solo il senso della misura di uomini che, per quanto lontani dalle classi popolari, erano consapevoli della necessità di migliorarne le condizioni, per evitare se non altro pericolose agitazioni sociali. Sarà stato pure «Ministro della malavita», però dopo i tragici fatti del ‘98, nel celebre discorso agli elettori di Dronero, Giolitti puntò il dito contro coloro che chiedevano ancora l’uso della forza a beneficio esclusivo dei loro interessi. Essi, affermò, andavano respinti «come i peggiori nemici di quelle istituzioni che noi riteniamo inseparabili dalla causa della unità, della indipendenza, della libertà».
A proposito di memoria smarrita e di imbarbarimento, antica è la saggezza da cui nascono le regole del conflitto sindacale, in cui tutti vogliono vincere, ma nessuno stravincere. Giuseppe Santoro Passarelli, presidente della Commissione Nazionale di Garanzia sugli scioperi, non lo sa, ma più sacrifici impone alla collettività la lotta sindacale, più siamo garantiti tutti. Sono millenni che Tito Livio lo insegna col celebre apologo dell’Aventino:
«Le membra dell’uomo, visto che lo stomaco oziava in attesa del cibo, decisero di farla finita, si misero segretamente d’accordo e stabilirono che le mani non portassero cibo alla bocca e se vi giungesse comunque, la bocca lo rifiutasse e i denti non masticassero. Mentre cercavano di domare lo stomaco, gli arti indebolivano anche se stessi, sicché tutto il corpo giunse a un’estrema debolezza. Presto fu chiaro che il compito dello stomaco non è quello di essere pigro, e che anzi, quando riceve i cibi, li distribuisce per tutte le membra. Stomaco e membra tornarono in amicizia. Così, come fossero un unico corpo, il senato e il popolo muoiono con la discordia, con la concordia vivono in salute».
Intimando all’Unione Sindacale di Base di revocare lo sciopero generale indetto per il 12 aprile in virtù di un inesistente mancato rispetto dell’«intervallo minimo» che dovrebbe intercorrere tra uno sciopero e l’altro, Santoro Passarelli invita di fatto lo stomaco all’ozio, si schiera contro gli arti e ci riporta indietro fino al V secolo avanti Cristo, inserendosi nel solco della storica ignoranza dei «padri della patria italiana», che, incapaci di prendere coscienza dello squilibrio esistente nei rapporti di forza tra capitale e lavoro, trasformarono lo sciopero, da diritto qual era, in un inesistente reato.
Sarebbe difficile contare i lavoratori incarcerati e gli anni di galera scontati dall’unità al 1904, anno in cui Giolitti lasciò che in Italia il primo sciopero generale fosse realizzato senza l’intervento repressivo di questurini, carabinieri, esercito e magistrati. Fino a quel momento si era andati avanti a suon di cariche, sciabolate, arresti ed eccidi proletari, tant’è che il primo sciopero generale nacque proprio dall’esplosione della tensione accumulata nel Paese dopo le stragi di lavoratori di Castelluzzo in Sicilia e Buggerru, in Sardegna.
Seguace di Albertini, il direttore del «Corriere della Sera» che definì quelle storiche giornate di lotta «cinque giorni di follia», la Commissione di Garanzia ha ignorato lo spirito animatore dell’Assemblea Costituente, che nel dibattito sul tema e nella formulazione originaria dell’articolo 36 del progetto, passato poi nella Costituzione come articolo 40, non solo assicura ai lavoratori il diritto di sciopero, ma limita gli interventi della legge ordinaria nella sua regolamentazione a tre soli ambiti: procedura di proclamazione, tentativo di conciliazione, mantenimento dei servizi assolutamente essenziali alla vita collettiva. Benché qualcuno voleva che la Costituzione non proclamasse il diritto di sciopero, non poteva andare altrimenti: dopo la legislazione fascista, che aveva considerato lo sciopero un reato, la Costituzione della Repubblica fondata sul lavoro non poteva che riconoscerlo.
Anche l’ala moderata dell’Assemblea, del resto, rinunciò alla richiesta di vietare lo sciopero politico. Mise tutti d’accordo la formulazione di Umberto Merlin, che riconosceva il diritto di sciopero e un’unica limitazione, il cui senso e valore, tuttavia, indicava senza possibilità di equivoco al giudice ordinario, quando ricordava che lo sciopero «degli agenti di polizia, dei carcerieri, dei magistrati e degli agenti delle imposte», non avrebbe semplicemente tolto allo Stato «la dovuta forza e il dovuto prestigio», ma ne avrebbe favorito il suicidio. Furono d’accordo più o meno tutti, perché fu chiaro che il solo limite che Merlin intendeva porre al diritto riconosciuto mirava a garantire il rispetto delle esigenze fondamentali dello Stato.
Le formule pretestuose con cui Giuseppe Santoro Passarelli motiva la decisione di proibire lo sciopero generale del 12 aprile, indetto dall’Unione Sindacale di Base, quali il mancato rispetto dell’«intervallo minimo» e la «rarefazione soggettiva», non rientrano nello spirito e nella lettera della Costituzione, resuscitano gli spettri del ’98 e ci riconducono agli anni in cui Giovanni Giolitti, che non fu certo un pericoloso bolscevico, richiamava la borghesia alla necessità di porre un limite alla prepotenza e all’arroganza di classe. Non si tratta solo di una decisione grave e antidemocratica, ma di una corrispondenza di amorosi sensi tra un organo di garanzia, che calpesta la sua funzione istituzionale e un governo di estrema destra in cui Salvini, alleato dei fascisti di Casapound, sta realizzando una politica repressiva e liberticida, che colpisce con estrema durezza i lavoratori e le loro organizzazioni e criminalizza ogni forma di lotta, dall’occupazione di edifici al blocco stradale.
E’ una politica che dimostra come lo slogan nazionalista e razzista della Lega secessionista, del governo e dei suoi servi, è una volgare menzogna. Per  questa gente, infatti, non è vero che vengono «prima gli italiani». Prima, molto prima vengono i padroni.

Contropiano, 7 aprile 2019 e Agoravox, 9-4-2019.

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Pietro Raimondi giovanissimo operaio tessile ucciso durante la Settimana Rossa

Nel giugno 1914, quando i moti della Settimana Rossa scuotono il Paese, colto di sorpresa in una delicata fase di transizione, le luci si vanno spegnendo sul mito della belle époque, ma le classi dirigenti sembrano muoversi ancora sui ritmi del can can e offrono di sé un’immagine frivola e disattenta. E’ probabile, però, che a noi sia giunta la percezione deformata di una proiezione esterna. In realtà, lo strappo c’è stato e il rifiuto della mediazione giolittiana chiude un’epoca. Giolitti ha segnato la crescita e il modello di sviluppo economico, ma per la borghesia, tornata alle ambizioni imperialistiche, è ormai solo un freno. A ben vedere, i «padroni del vapore» sanno ciò che vogliono, hanno colto per tempo segnali di svolta nelle linee di tendenza della diplomazia internazionale e sono cosi determinati, da rompere con Giolitti proprio quando il vecchio statista ha avviato una politica estera di ispirazione espansionistica, adattando con accortezza e tempismo le scelte economiche e la pratica di governo al contesto interno e internazionale…

Chi è interessato a proseguire nella lettura può aprire il seguente link:

Proletari contro la guerra note in calce (ebook scaricabile dal sito “1914-2014 Cento anni di guerre

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verso-la-democrazia-10-638Quando fu sancita l’incostituzionalità della legge elettorale da cui nasce l’attuale Parlamento, un moderato come Zagebrelsky non usò mezzi termini: la Consulta aveva assestato un ceffone alle Camere. Erano giorni di caos. Grillo chiedeva la cacciata degli «abusivi» e c’era chi, non a torto, si interrogava sulla legittimità costituzionale e giuridica di gente che nessuno aveva eletto. Un dato di fatto feriva le coscienze democratiche: dopo aver tenuto in vita il Codice Rocco di mussoliniana memoria, la Repubblica antifascista assisteva ora alla macabra riesumazione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, col rischio paradossale che fossero proprio loro a mettere mano alla Costituzione antifascista.
La ferita era profondissima: Il colpo infatti era stato portato direttamente al rapporto tra il «potere delegato» e il «delegante», vale a dire al fondamento della sovranità e alla sua fonte, il popolo cioè, cui essa appartiene per dettato costituzionale. Per uscire dal vicolo cieco in cui ci avevano cacciato l’indigenza culturale, la miseria morale e una buona dose di malafede dei sedicenti «grandi partiti di governo», si cercarono punti fermi ai quali ancorarsi, per evitare un penoso naufragio. Per il «principio di continuità dello Stato» – si disse – la legge elettorale non potrà più essere applicata, ma le leggi volute nel frattempo dagli «abusivi» conservano la loro legittimità. La sopravvivenza dello Stato come Ente necessario sembrò l’unico possibile baluardo contro il caos e si accettò un principio giuridico indiscusso, ma non privo di paradossi: per evitare il caos, era necessario lasciare al loro posto tutti, anche chi l’aveva causato.
Si fece buon viso a cattivo gioco e si prese atto: una sentenza non retroattiva, in una condizione di agonia di quelle Istituzioni, che – osservarono i costituzionalisti d’ogni parte politica e scuola di pensiero – risultavano totalmente discreditate sia sul versante etico, che politico e democratico. Il triste «pannicello caldo» che settant’anni prima, sommandosi a una scellerata amnistia, aveva consentito alla classe dirigente fascista di rifarsi una verginità – la «continuità dello Stato» – poteva e doveva salvarci nell’immediato. Fu subito chiaro, però, che quella soluzione comportava rischi molto seri e poteva diventare addirittura un colpo mortale per la democrazia, se non si fosse poi giunti al rapido scioglimento delle Camere e ad elezioni non solo immediatamente possibili, ma indiscutibilmente doverose. Anche su questo tema non ci furono divisioni tra i costituzionalisti. La legge c’era – si disse – era la proporzionale come veniva fuori chiara dalla sentenza della Consulta e non c’era alcun bisogno che il Parlamento discreditato intervenisse per farne un’altra. Bastava sciogliere le Camere, che rappresentavano solo se stesse, e tornare a votare, anche perché la famigerata «continuità dello Stato», applicata a scelte pregresse, costituiva di fatto una «ferita necessaria» ma, trasformata in passaporto per una «legislatura costituzionale», sarebbe diventata uno strumento di distruzione della legalità repubblicana e un’arma pronta a colpire a tradimento la Costituzione. D’altro canto, se si fosse giunti a tal punto alla nascita della repubblica, i membri dei Fasci e delle Corporazioni, di fatto, avrebbero conservato il loro seggio in Parlamento.
Sembrava impossibile che accadesse, ma è andata invece proprio così. I «nominati», moralmente discreditati e politicamente delegittimati, stanno cambiando la Costituzione e – tutelati da una «continuità dello Stato» trasformata in oscena ipoteca sul futuro – i sedicenti «grandi elettori», che nessuno ha mai eletto, si sono scelti persino un Presidente della Repubblica, la cui legittimità politica e democratica, al di là del valore personale, è pari a quella di chi lo ha mandato al Quirinale.
Dopo Crispi, gli stati d’assedio illegittimi e la tragedia di Adua il tentativo golpista di Rudinì e Pelloux cozzò contro il muro dell’ostruzionismo parlamentare attuato d’intesa dai socialisti e dai «liberali di sinistra» guidati da Zanardelli e Giolitti. Una via parlamentare, quindi, è storicamente esistita, ma l’anemia perniciosa che affligge la rantolante democrazia ha fatto sì che nemmeno l’ostruzionismo fosse più consentito. Il secondo esperimento autoritario della nostra storia, quello fascista, finì come si sa: liquidato da una terribile guerra partigiana. Cosa accadrà stavolta non è facile dire ma, chiusa definitivamente la via parlamentare, la violenza del colpo assestato ai diritti metterebbe i nostri giovani davanti a una tragico dilemma: o una servitù rassegnata o una durissima e orgogliosa disobbedienza. La via d’uscita c’è: sciogliere le Camere, restituire la delega al delegante e consentirgli di esercitare la sovranità nelle forme prescritte dalla Costituzione. Mattarella ha un’occasione irripetibile per tornare alla legalità repubblicana e conquistare una legittimità che questo Parlamento non poteva e non può dargli.

Da Fuoriregistro, 19 febbraio 2015 e Agoravox, 20 febbraio 2015

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A Carpineto Romano, cittadina in provincia di Roma, la nostra “grande democrazia” ha dato ancora una volta forfait. La presentazione dell’ultimo libro di Barbara Balzerani, intitolato Lascia che il mare entri, prevista per il 21 agosto, è stata downloadannullata. La giunta comunale formata da SEL e PD, dopo averla patrocinata, ci ha ripensato per «evitare strumentalizzazioni di ogni genere o manifestazioni che possano turbare la tranquillità della nostra comunità». Così si legge in un comunicato che annuncia la disordinata Caporetto dell’Amministrazione di fronte alle polemiche dell’opposizione di destra, sostenuta da un giornale locale. Per salvare la faccia, poi, i liberi pensatori del sedicente centrosinistra hanno ribadito «la loro ferma contrarietà ad ogni forma di terrorismo e violenza nei confronti delle Istituzioni Democratiche».
La civiltà dell’Occidente e l’inesausta lotta al terrorismo si arricchisono così di un nuovo, originale e nobile principio: chi si azzarda a presentare un romanzo sul tema della donna fiancheggia pericolosi piani sovversivi che al momento non esistono, ma nessuno può escludere possano nascere. Per l’amministrazione comunale di Carpineto Romano, quindi, Barbara Balzerani, dopo ventinove anni trascorsi dietro le sbarre e in semilibertà per la sua militanza nelle Brigate Rosse, non ha diritto di parola. La pena scontata? La libertà riacquistata da tre anni? Siamo in guerra col terrorismo e la Costituzione è sospesa.
Chi si meraviglia della ferocia è un ingenuo. Un Paese che si scioglie nella retorica del Risorgimento, ma dimentica Mazzini morto clandestino in patria, sotto falso nome e Garibaldi circondato di spie e questurini, quand’era ormai vecchio e quasi paralitico, è un Paese nato male e destinato a vivere peggio. Lo so, i “democratici” alleati dell’estrema destra, i benpensanti per vocazione e i cialtroni di professione si scandalizzeranno per la bestemmia – la “terrorista” e i “padri della patria” – ma le cose stanno così e Mazzini e Garibaldi, per chi ha memoria corta o fa il finto tonto, ieri furono rivoluzionari e oggi sarebbero “terroristi”. Questo è un Paese geneticamente destinato a sostenere Crispi, che sputacchiò sul Parlamento fino al disastro di Adua, e a vantare tra i suoi “grandi statisti” Giovanni Giolitti, che Salvemini definì “ministro della malavita”. Un Paese che non s’è mai vergognato del suo passato fascista e dei suoi generali criminali; un Paese oggi targato Renzi e governato di fatto da un pregiudicato per reati comuni che, invece di eleggere domicilio tra Rebibbia e Regina Coeli, frequenta Palazzo Chigi e il Quirinale e cambia la Costituzione antifascista, accoppando diritti costati sangue. Piero Gobetti sostenne che il fascismo è stato l’autobiografia degli italiani e non aveva torno. Un Paese così, nato male e cresciuto peggio, non può comportarsi diversamente e gli pare normale: il pregiudicato che  sconta la risibile pena può governare, la scrittrice libera deve invece tacere.
Per ignorare la decomposizione della sua coscienza civile,  un Paese così in fondo non ha che una scelta: disprezzare tutto ciò che è insorto a difesa della dignità e della giustizia sociale e negare quel tanto di buono che ha saputo e sa dare. Lo so, beghine, cattocomunisti e benpensanti mi scomunicheranno, ma questa è la realtà: se ogni cosa marcisce e tutto si corrompe, la degenerazione diventa regola. Così Berlusconi frequenta Napolitano e un pensiero libero è imbavagliato.
A Barbara Balzerani, ieri brigatista, oggi scrittrice di forte sensibilità, si rinfacciano scelte lontane, benché i suoi conti con la giustizia siano chiusi e quelli con la storia, tutti ancora da sistemare, non è detto che risultino in passivo. In realtà, la condanna morale del passato è un alibi immorale che non sta in piedi; ciò che davvero non si tollera sono la coerenza d’una vita e l’umanità che traspare dalla scrittura. Una donna come Barbara Balzerani, di fatto, è un quesito inquietante e un involontario ceffone assestato in pieno viso a quanti – e sono tantissimi ormai – si trovano nella tragicomica condizione di chi fa il moralista, ma s’è venduto e ogni giorno si vende al migliore offerente. La gente che vive così accetta la più disumana cialtroneria, ma diventa immediatamente feroce con le manifestazioni di umanità.

Uscito su Agoravox il 25 agosto 2014

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$_35Boschi e Renzi sembrano ignorarlo – il “Piccolo Bignami di Storia Contemporanea” non forma statisti – ma il vituperato ostruzionismo parlamentare ha scritto pagine nobili nella storia della nostra democrazia, firmate da uomini come Giolitti e Zanardelli. Intestando ai due grandi esponenti dell’Italia liberale la tessera del “Partito dei frenatori gufi”, i leader del “nuovo che avanza” dimostrano una povertà culturale che spiega da sola l’abisso in cui precipitiamo.
L’ostruzionismo nasce in Italia nel cuore di una gravissima crisi sociale e politico-istituzionale che, per dirla con Banti, ebbe il suo epicentro “in quel tremendo Far West dei poveri che era diventata la pianura padana tra fine Ottocento e inizio Novecento”; una crisi che riguardava buona parte di un Paese in cui la gente si dannava per trovare un lavoro e sopravvivere agli stenti con poche lire di salario al giorno. Incapaci di dare risposte concrete alla crisi e preoccupati anzitutto di salvaguardare privilegi di classe e interessi economici dell’ala più retriva della borghesia, le classi dirigenti tentarono di far pagare ai ceti subalterni il costo delle crisi, giocando la partita sulla riduzione delle libertà politiche e puntando tutte le loro carte su una riforma dello Stato che rafforzasse i poteri del governo a spese del Parlamento. In rapida successione, sia il governo Rudinì che quello guidato poi dal generale Luigi Pelloux tentarono di far passare leggi di stampo repressivo, ispirate a una concezione autoritaria dello Stato, che mirava soprattutto a contenere le rivendicazioni sociali e le aspirazioni democratiche di cui erano portavoce le opposizioni parlamentari.
Allora come oggi, una legge elettorale iniqua e autoritaria, che produceva squilibri profondi tra governabilità e rappresentanza, aveva generato un Parlamento che restituiva un’immagine deformata della composizione sociale del Paese, ma a Montecitorio autorevoli esponenti della maggioranza mordevano il freno e nel Paese i cattolici, superato lo stallo della “questione romana”, si organizzavano politicamente in un partito che si ispirava alla dottrina sociale della Chiesa.
Come spesso accade, i grandi temi della democrazia – riconoscimento delle libere associazioni dei lavoratori e tutela del lavoro, riduzione delle spese militari, disarmo generale e libertà di stampa – crearono uno schieramento trasversale che andava ben oltre l’Italia piccola e meschina rappresentata in Parlamento. Quando Pelloux, come fa oggi il malaccorto Renzi, scelse la prova di forza, presentando una serie di provvedimenti legislativi che minavano alla radice i principi fondanti dello Stato liberale, le opposizioni parlamentari che, grazie alle legge elettorale, erano minoranza alla Camera e maggioranza nel Paese, reagirono con grande decisione. Per la prima volta nella storia del nostro Parlamento si fece ricorso all’ostruzionismo, cui aderirono senza esitare i gruppi della sinistra liberale, capitanati da Giolitti e Zanardelli. Invano il governo, incurante della crisi economica che strangolava il Paese, inchiodò l’attività politica al suo progetto reazionario, invano tentò d’imporre i suoi provvedimenti, imbavagliando le opposizioni. Non bastarono decreti, appelli all’amor patrio e intimidazioni. Il 18 maggio 1900 Umberto I sciolse le Camere e i cittadini, chiamati al voto nel giugno successivo, nonostante la pessima legge elettorale, liquidarono l’ottusa reazione. Nacque così l’Italia democratica, pugnalata poi alla schiena da Mussolini e risorta, con tutti i suoi i limiti, ma con infinità dignità, sui monti dei partigiani. E’ l’Italia che Renzi e Boschi, un personaggio oscuro mai votato e una “nominata” senza storia, tentano di sacrificare a meschine ambizioni personali e ambigui interessi si parte.
Le opposizioni parlamentari si sono appellate a Giorgio Napolitano, custode della legalità costituzionale. C’è da augurarsi che il Presidente della Repubblica sappia essere all’altezza del re savoiardo. Allora come oggi, in discussione c’è la democrazia.

Uscito su Fuoriregistro e su Libertà e Giustizia il 25 luglio 2014 e su Agoravox il 28 luglio 2014

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Manifesti per il 1° maggio sequestrati nel 1892

Manifesti per il 1° maggio sequestrati nel 1892

Cominciò così: manifesti incollati di notte sui muri, riunioni più o meno segrete per evitare l’arresto e la decisione di astenersi dal lavoro.
La risposta dei padroni non si fece attendere:

Nota n. 1838 Urgente e riservata alla persona
Agli Uffici dipendenti
Oggetto: Agitazione pel 1° maggio.
Le SS.LL. sapranno già come da varii gruppi di affiliati ai partiti sovversivi si studii con ogni sorta di maneggio di animare l’agitazione pel 1° maggio che, secondo i disegni dei più arrischiati, dovrà, come essi dicono, segnare una data memoranda nella storia di queste agitazioni.
Al gruppo di questi ultimi appartengono tra gli altri i noti anarchici Mariano Gennaro Pietraroia, Vincenzo Petillo, Giovanni Bergamasco, Attilio Volpi, Gerolamo Tommasoni (fatti questi due rimpatriare, ma che potrebbero da un giorno all’altro tornare) Augusto Tralascia e Luigi Perna. Ad essi si è collegato l’altro noto socialista-repubblicano Luigi Alfano, rappresentante il Circolo «Gioventù Operosa», giovane turbolento ed audace.

Circolare segreta della Questura di Napoli

Circolare segreta della Questura di Napoli per il 1° maggio 1892

Costoro, riunitisi in comitato segreto tendono a organizzare pel 1°, maggio un movimento rivoluzionario ed a prepararsi, intanto, il terreno adatto, eccitando gli animi degli operai con la propaganda dei loro principii e col formulare il malcontento verso gli attuali ordinamenti sociale e politico.
Mentre sarà mia cura di tener dietro alle segrete macchinazioni di costoro per prevenirne a tempo gli effetti, desidero intanto di richiamare su di essi la speciale attenzione della SS. LL. perché con attiva ed oculata vigilanza li seguano nei loro maneggi presso gli operai. E se avvenga loro di sorprenderli in mezzo agli operai stessi, (avvertendo cessi si mischiano a preferenza tra i disoccupati e nei luoghi ove questi sogliono raccogliersi nella speranza di essere chiamati al lavoro) poiché non potrebbe cader dubbio sullo scopo della loro presenza tra essi, cioè di sommuoverne gli animi e spingerli a tumultuare, vorranno, senz’altro, disporne l’accompagnamento in quest’ufficio per quegli ulteriori provvedimenti, che fossero del caso!
A contrastare poi alle mene di costoro e di quanti altri tendano a turbare per l’occasione suddetta l’ordine pubblico, Le prego di usare, nei modi che più crederanno convenienti e conducenti allo scopo, della loro personale influenza presso le locali società operaie, affinché le mene e le insinuazioni degli agitatori, i quali devono essere in questi giorni, anche più del solito, personalmente e strettamente vigilati, non abbiano presa su di esse.
Dalla solerzia delle SS. LL. mi attendo, in questo servizio di somma importanza, la più attiva e ed accorta cooperazione nel supremo interesse del mantenimento dell’ordine pubblico. Gradirò un cenno di ricevuta della presente che dev’essere tenuta segreta.
Il Questore
“.

Gli operai chiedevano le otto ore – in Italia se ne facevano anche 14, donne e bambini compresi – ma i padroni sostenevano che la richiesta era una pazzia, perché non avrebbero potuto sostenere la concorrenza. La repressione scattò immediata e violentissima: manifesti sequestrati, arresti preventivi, piani militari dettagliati, mappe con i punti in cui nascondere le truppe, città presidiate con la cavalleria e infine, il 1° maggio, cariche, arresti, denunce per associazione sovversiva, disobbedienza alle leggi e istigazione all’odio di classe. Il potere s’illuse che  la lotta dei lavoratori fosse stata sepolta sotto secoli di galera, ma vennero, invece, ancora “feste del lavoro”.
Nel 1894, Crispi sciolse il Partito Socialista e segregò nelle isole del soggiorno obbligato e nei penitenziari migliaia di lavoratori. I proletari, però, non si fermarono e si fecero di nuovo “feste del lavoro”. A maggio del 1898, il generale Bava Beccaris sparò a mitraglia sulla folla disarmata e il re lo decorò come fosse un eroe. I proletari, però, non si arresero e Rudinì ricorse agli stati d’assedio e ai tribunali di guerra. Secoli di domicilio coatto non bastarono a “ricondurre all’ordine il Paese”. Muro contro muro, finì che Gaetano Bresci vendicò i morti del ’98 e l’oltraggiosa medaglia al generale assassino, uccidendo Umberto I. La violenza è figlia del malgoverno e la sola possibile guerra preventiva si combatte con le armi della giustizia sociale. Nel 1892, Giovanni Bovio, difendendo gli operai arrestati per le manifestazioni del 1° maggio lo aveva avvertito lucidamente, quando, rivolto ai giudici, aveva urlato a nome degli imputati:

per carità di voi stessi e per quel pudore che è l’ultimo custode delle società umane, non ci fate dubitare della giustizia. Io fui nato ad esser cavaliere e tu mi hai fatto malfattore, ed ora ti fai giudice! Così gridò il figlio a Nicolò III estense, provocatore e parricida. A quelli che ci chiamano fratelli e poi ci processano noi ricordiamo che fummo nati al lavoro e li avvisiamo: non fate noi delinquenti e voi giudici!”

Un monito inascoltato, ma chiaro e più che mai attuale, così come attuali sono tornati i manifesti e la propaganda di quel lontano 1892. Giolitti, Turati e la necessità della pace sociale a garanzia della crescita costrinsero i padroni alla resa, ma oggi troppi diritti sono di nuovo calpestati, troppa gente è senza lavoro, troppi salari non bastano a cancellare la fame. Ovunque ormai il lavoro non ha né orari, né tutele e non è tempo di primo maggio in piazza San Giovanni con canzoni e chitarre. Il pupo analfabeta e i suoi pupari possono anche pensare di ricondurre le masse al 1892, ma devono sapere che, così facendo, preparano un nuovo ’98. Oggi come allora non basteranno questori, circolari segrete, reggimenti in piazza, stati d’assedio e tribunali di guerra.

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