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Archive for novembre 2011

Invano ci ammonisce Brecht: “Sia lode al dubbio”. Prima di lui, con l’ironia tagliente tipica di un tempo che s’apre al nuovo e volta pagina alla storia, Voltaire metteva in guardia dai rischi terribili delle “certezze”: «Quanti anni ha il vostro amico Christophe?» «Ventotto; ho visto il suo contratto di matrimonio, il suo certificato di battesimo; lo conosco fin dall’infanzia ne sono certo». […] Venti altri confermano la cosa, allorché vengo a sapere che il certificato di battesimo di Christophe, per segrete ragioni e per un intrigo singolare, è stato retrodatato. Quelli con cui avevo parlato non ne sanno ancora niente; tuttavia hanno sempre la certezza di ciò che non è».
Forse perché l’originale aveva un aspetto più alterato della copia manomessa, in quest’ambiguo e irrimediabile novembre c’è un’inflazione di certificati falsi che passano facilmente per documenti autentici della democrazia e giurano in tanti: tutto va bene, madama la marchesa. Non ci torno su per il gusto d’una polemica retrospettiva e nemmeno per la tentazione sciocca di marcare il confine e vincere poi l’inutile partita dei rimpianti, quando verrà il momento della soddisfazione amara e si ricorderà che “qualcuno, però, l’aveva detto”.
No. C’è dell’altro e non è cosa da poco. C’è che se n’è andato a casa un governo ch’era una vergogna nazionale e si saluta come vittoria della latitante democrazia parlamentare la nomina di un manipolo di sfingi, che ha la fiducia di un Parlamento di nominati, ma non ha mai presentato uno straccio di programma. C’è che siamo passati da un’inaccettabile vergogna a un tragico paradosso, e chi dubita della legalità costituzionale dell’oscura faccenda tocca un nervo scoperto.
“Imbecilli”, sibila Scalfari, brandendo la Costituzione come fosse una clava, però s’impappina e per quanto cavilli non cava un ragno dal buco. E’ vero, Monti guida un governo tenuto in piedi da una maggioranza predeterminata e questo, di per sé, non è un oltraggio allo Statuto. Un governo che avesse chiesto e ottenuto la fiducia per varare alcune norme spiegate a chiare lettere al Parlamento vivrebbe del voto di una sorta di “maggiominoranza”, ma sarebbe legittimo e pazienza per chi ha votato nero e finisce così rappresentato dal bianco. Il fatto è, però, che Monti, chiamato da Napolitano a guidare un governo tutto banche, banchieri e università private non ha mai comunicato cosa intende fare, sicché la “fiducia” s’è ridotta alla firma d’una cambiale in bianco. Non poteva essere diversamente. Il programma gliel’ha dettato la Banca Centrale Europea e Monti non poteva sottoporlo al Parlamento: sarebbe tornato a casa senza remissione di peccato, perché nessun partito è obbligato per Statuto ad avere vocazioni suicide.
Le divinazioni, i sortilegi, le ossessioni, sono stati per secoli la cosa più certa al mondo agli occhi dei popoli e il meccanismo, purtroppo funziona ancora. In un paese berlusconiano ben prima di Berlusconi, perché stupirsi se la pretesa vittoria ci abbaglia e non vediamo quanto berlusconismo c’è nella maniera in cui è caduto il suo governo? Ossessionati da Berlusconi, tutto ciò che ci è parso penoso, quando veniva dalla sua politica, ora ci va bene, perché viene da sedicenti “tecnici” e fingiamo di non sapere che da tempo ormai sono i “tecnici” a governare la politica. I “tecnici” sì, che invece lo sanno bene: la storia del capitalismo è la storia della pirateria organizzata da pochi che s’appropriano del lavoro di molti. Per anni, chi è sceso in piazza contro un governo che smantellava il sistema formativo in un paese che di formazione ha più bisogno che di pane, ha fatto i conti con i tecnici che sostenevano la Gelmini. Per anni, chi attaccava l’ispirazione apertamente reazionaria che spinge Marchionne a incunearsi nella condizione di profonda sofferenza della classe lavoratrice, per giocare con le vite, dividerle e sottometterle, s’è trovato contro i “tecnici” pronti a difendere la ferocia del capitale. Ora tutto è tornato a posto e non ci sono problemi. Monti riparte dalla riforma Gelmini, Marchionne prosegue nella sua cieca offensiva e dei conflitti d’interesse non parla più nessuno. Se t’azzardi a dubitare e non ti allinei non hai scampo: diventi un imbecille.
Christophe, intanto, se la ride. Lui l’ha capito, Voltaire ha perso la partita e i “lumi” sono spenti. E’ il sonno della ragione.

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In principio era il caos, ma se ne venne fuori in qualche modo, narrano le sacre scritture, le memorie degli storici antichi e i più lontani pensatori. C’è chi dice che accadde per volontà d’un Dio e chi per passione civile d’una bestia che, evasa dagli antri ferini, scoprì le lacrime e il sorriso, l’amore che fa guerra all’odio, il bisogno di regole e di patti, si riconobbe umana e lottò per diventare padrona di se stessa. Se intorno alla cause il dissenso permane, filosofi, scienziati, annalisti, cronisti, tutti concordano ormai sull’esito del percorso e la memoria è oggi patrimonio universale: tra catastrofi ricorrenti, arche, diluvi, torri di Babele, isole remote di Atlante, sommerse di là della Colonne d’Ercole, e l’inesausto conflitto tra istinto e ragione, nacque così la storia: dall’orgogliosa ribellione di bestie che si scoprirono dentro la dignità dell’uomo.
E’ l’umana vicenda: cicli, picchi ascendenti e rovinose cadute, un alterno e drammatico andirivieni sulla linea del tempo, dirà l’intuizione geniale d’un provinciale e solitario pensatore, ma anche una consapevolezza che attraversa il mutare dei tempi. Da allora si sta, tra grandezza e miseria, oggi vittoriosi, vinti domani, perché nulla in eterno dura e tutto cambia, tutto nasce, poi cresce e poi muore, in un inesausto conflitto tra vittoriosi assalti al cielo e rovinosi imbarbarimenti. Consolidandosi, un’idea progressiva si fa “ordine costituito” e, come tale, conservazione, stato di fatto e arretramento; sorgono così forze di rinnovamento che premono represse, urtano, cozzano contro il passato, rinculano, ma sono il futuro e infine sfondano, dilagano e producono mutamenti fatalmente temporanei, una nuova illusione di trionfo definitivo, che porta in sé il germe di rinnovati conflitti e ripetute cadute.
Anche il futuro diventa passato.
Sicuri nell’ascesa – in questo ancora la storia e l’ancestrale memoria di ciò che fummo paiono concordare – nella caduta torniamo ai primordi e la paura ha la meglio.
Sul teatro della storia va in scena un dramma già visto, ma nessuno se ne ricorda. Dopo il tragico baccanale di notizie allarmanti, pareri oscuri e divergenti di immancabili “esperti”, la sconcertante serie di sconfitte delle legioni che furono invitte rende la paura padrona del campo e della vita dei popoli. E’ allora che giunge il “salvatore” e trova ascolto.

Come sempre accade nell’animo umano, se un evento drammatico minaccia antichi equilibri e persino le certezze che parevano intangibili prendono a vacillare, il timore suscita un istintivo bisogno di tutela, scattano meccanismi automatici, il desiderio di salvezza apre la porta alla fede e si sa: il fedele non discute e non ragiona. Se per caso ci prova, memore d’un antico orgoglio, il salvatore ha subito buon gioco. Come Sant’Agostino col bambino ingenuo, intento a versare l’acqua del mare col secchiello in una buca scavata sulla spiaggia, sorride, poi osserva, ironico e paterno: “Ma che fai? Non lo vedi com’è grande e profondo il mare che hai fronte? Non c’è spazio nella tua piccola buca!
Non lo dice, ma il messaggio è chiaro: lascia che sia io a badare a te e ammettilo, infine, tu sei troppo piccolo per poter capire. Credimi per fede, credimi. perché non hai scelta. E’ un messaggio antico che fa conto sulla superstizione, figlia naturale della paura. Al potere supremo d’un Dio sconosciuto s’inchinava, paralizzato dal terrore, l’uomo-bambino all’alba della storia. Bastava che la natura si scatenasse in un gioco di lampi accecanti nel buio della notte e lo schiocco improvviso dei tuoni lo spingeva a cercare le vie d’un salvatore. Vie infinite, ma imperscrutabili. I cicli della storia si concludono così, quando il coraggio di chi lasciò l’antro per andare alla conquista di sé stesso, pare cedere di schianto all’antica paura che lo teneva chiuso e atterrito nella sua caverna.
Cambia un ciclo. Non c’è nulla di certo, tranne che domani annalisti, storici e pensatori racconteranno la storia d’un bambino di cui il salvatore ignorò persino l’esistenza. Era troppo lontano dal cuore dell’impero traballante e del suo mondo nessuno si curava. Mentre l’arca divina accoglieva gli eletti, la storia, sempre nuova eppure sempre uguale a se stessa, rinnovava le antiche ingiustizie. Cosa volete che possa contare, mentre tutto crolla, la vicenda d’un bambino e del suo povero padre, che con due figli e la moglie da sfamare, non può mandarlo a scuola? Nulla. Non conta nulla. Nel tempo che corre tra un progresso e un regresso, non c’è spazio per tutti. O il padre piega la testa e porge l’altra guancia, come comandano Agostino e il salvatore, o ritrova in se stesso la passione civile d’una bestia divina che, uscita dagli antri ferini, si riconobbe uomo e lottò per diventare padrone di se stesso. Annalisti, storici e pensatori domani narreranno una storia. Quale sarà la fine dipende soprattutto da noi.
Tutto nasce, cresce e poi muore. Tutto, anche un ordine di cose e un modo di produzione. Abbiamo vissuto in mille modi diversi, barattando, battendo moneta, acquistando e vendendo. Siamo stati liberi e servi, ma il corso delle cose, col mutamento che si porta appresso, quello non s’è mai potuto ridurlo a merce. E’ accaduto più volte e ancora accadrà: abbiamo già messo l’oceano mare in un buco scavato nella sabbia.

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Del Presidente Napolitano si dice che è “uomo di grande probità, di estrema correttezza, di grande prudenza“. Nel diluvio degli aggettivi qualificativi, tra “grande” ed “estrema“, fa capolino il paragone: un Presidente, si annota “che, nonostante l’indole diversa, al pari di Pertini ha saputo toccare il cuore e la testa degli italiani, ottenendone una universale stima e un vastissimo consenso; un presidente che in questi tempi torbidi si è qualificato come modello di correttezza istituzionale, di serietà, di impegno civico e morale“. 

Naturalmente anche la probità sta la passo coi tempi e l’uomo che invita ai sacrifici e al rigore, si può anche distrarre. Ecco, quindi, che il giornalista impertinente, quello tedesco, s’intende, che dalle nostre parti nessuno s’azzarda,  fa domande e pretende risposte. E l’uomo probo perde la pazienza. Da noi, però, l’intervista non giunge. Va così. Come? Date uno sgrado e saprete:     

http://oknotizie.virgilio.it/go.php?us=60f400a81c2a0953

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Voglio passar per pazzo. Approntate la nave dei matti che un tempo navigava senza soste sui corsi d’acqua tedeschi e ospitava chi non s’integrava. Mandatemi a spasso per fiumi e per laghi, ma lo scrivo. Era nell’aria, ma ci rifiutavamo di crederci. Manca forse la psicopolizia, ma la staranno di certo organizzando. Orwell ha fatto scuola: la verità è ormai rappresentazione e la rappresentazione manipola il passato e “ricostruisce” il presente. Nelle biografie di Giorgio Napolitano la notizia è stata accuratamente cancellata, ma c’è chi ricorda e occorrerà curarlo: gli elettori lo hanno sbattuto fuori dalle Camere. Ci è tornato solo perché Ciampi, ignorando la volontà del popolo, ce lo ha riportato a viva forza, nominandolo senatore a vita. Le drammatiche conseguenze di quel ceffone alla democrazia sono sotto gli occhi di tutti, ma nessuno lo dice – la verità ormai è figlia naturale del tempo e due più due fanno quattro, fanno cinque o fanno tre. Decide il potere.

Avevamo un Parlamento di nominati, ma un governo eletto. Bello o brutto, aveva un regolare mandato elettorale. Oggi, un senatore a vita bocciato dagli elettori, eletto presidente della repubblica da un Parlamento di nominati con una legge incostituzionale che la destra ha voluto e la sinistra ha mantenuto, un nominato da nominati, o se volete un signor nessuno, ha aperto la via a un governo che nessuno ha votato e ha la fiducia di un Parlamento che nessuno ha eletto.

Così stando le cose, sono costretto a dar ragione a Scilipoti e alla Mussolini; sono in pessima compagnia, me ne vergogno, ma è così: questo governo non c’entra nulla con la democrazia. Se questo è il frutto avvelenato dell’antiberlusconismo, occorre dirlo, la sedicente sinistra di suo ci ha messo molto. Parigi val bene una messa, lo so, ma la vergogna è infinita. Aveva ragione Monicelli poco prima di porre fine ai suoi giorni, quando lo disse chiaro: non c’è altra via che la rivoluzione. La gente, però, ha paura, non vuol capire, ora è complice di uno, ora di un altro e non si può fare. Ci attendono anni bui, peggiori di quelli fascisti. Siamo passati dal conflitto d’interesse alla guerra di classe che si muove dall’alto. Non c’è da farsi illusioni: l’uscita dalla crisi sarà necessariamente traumatica e peserà sui giovani. Tocca a loro tirarsi fuori dalla tragedia in cui li abbiamo cacciati.

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Pare che Monti abbia fatto il castigamatti con Microsoft. Pare anche, però, che il rettorato del neoministro Profumo sia stato caratterizzato, a Torino, dalla forte spinta alla collaborazione con diverse aziende internazionali, prima fra tutte Microsoft. A parole, l’opposizione guidata da Bersani ha sempre sostenuto che la riforma Gelmini fosse un vero disastro. Nei fatti, oggi Bersani appoggia il governo guidato da Monti, che ha sempre sostenuto la Gelmini, e un ministro come Profumo che, sul tema spinoso del rapporto  tra pubblico e privato, si limita a dichiarare “Io credo che la scuola sia la scuola”. Una scoperta che vale l’uovo di Colombo.     

Il teatro comico ha mille volti e si può esser d’accordo: ci sono buffoni seri e tragiche buffonate. Così, se il Parlamento di Pontida è una “comparsata” per comici scalcagnati e le barzellette di Berlusconi danno la misura della miseria morale del Paese che l’ha votato, la commedia a Palazzo Madama ha avuto ieri i toni dell’avanspettacolo. Monti fa offesa alla sua intelligenza, quando ci rassicura sul “complotto” dei poteri forti. Ma chi parla di complotto? Per carità, qui tutto accade alla luce del sole e sono fatti chiari: un Parlamento di nominati vota la fiducia a un governo che nessuno ha votato. Questo è un fatto grave e Monti lascia il tempo che trova con le sue smentite. Se il fatto poi sia di per sé complotto, il problema è di Monti e, con tutto il doveroso rispetto, di Napolitano che l’ha incaricato.

E’ un dato reale: per il ruolo che ha svolto, Monti è tra i responsabili della crescita malata di un organismo politico pensato per i popoli e diventato nemico dei popoli. Che l’Unione Europea sia sull’orlo della catastrofe non è invenzione di fantasie morbose o di un risorto estremismo che se la prende senza ragion veduta con una rinnovata congiura demo-pluto-giudaico-massonica. Questi purtroppo sono fatti concreti, come i percorsi e le carriere di uomini che stanno decidendo del futuro dell’Italia e della Grecia, per limitarsi agli ultimi avvenimenti. Non è colpa dei cittadini e non è una congiura, è un dato di fatto: Mario Monti al governo qui da noi, Luca Papademos in Grecia e Mario Draghi alla Banca Centrale Europea a Buxelles sono giunti tutti, passando prima per la Goldman Sachs, la Commissione Trilaterale di Rochefeller e il Gruppo Bilderberg.

In questo contesto si pone la chiave di lettura di eventi che sarà la storia a ricostruire, ma è un fatto, non un complotto, che solo pochi giorni fa il Passera banchiere, oggi ministro, dichiarava a nome di Banca Intesa: “Come banca […] siamo […] direttamente e indirettamente uno dei più grandi sottoscrittori di debito pubblico italiano”. A noi oggi tocca credere per fede che il Passera ministro, fino e ieri leader di una della più grandi banche italiane, si occuperà degli operai e non farà mai gli interessi del gruppo che ha guidato per dieci anni. Tocca credere, e la fede dovrà essere grande, che il banchiere Passera, che s’è occupato a lungo di trasporti, ha acquistato per la sua banca il 10 % della nuova Alitalia e c’entra molto coi treni privati di Montezemolo e Della Valle, da ministro delle attività produttive e delle infrastrutture, tutelerà dalla concorrenza le Ferrovie dello Stato sui binari dell’alta velocità.  

In quanto all’istruzione, non è certo un complotto: Monti ha sostenuto la Gelmini e il neoministro Profumo è uomo molto vicino al cardinal Bagnasco. Tutto ci tranquillizza, tutto. In tempi di conflitto sociale, un prefetto al Ministero dell’interno era tra i nostri sogni e, mentre si decide chi paga la crisi, un ammiraglio alla Difesa ci rassicura. E s’è visto subito, d’altra parte: Monti parla dell’Ici sulla prima casa. Le spese militari non si toccano. Non fanno debito, no, quelle sono risparmi. 

Uscito sul “Manifesto” del 20 novembre 2011 col titolo Monti & Co, Neoliberismo alla luce del sole

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Tragicommedia. Non poteva che finir così. C’è davvero l’Italia di oggi nei cori sprezzanti dei tifosi contrapposti, nei cortei che si schierano davanti ai palazzi d’un potere sempre più estraneo, come fedeli davanti agli altari, in attesa dell’immancabile “miracolo”. Nell’incredibile confusione tra “liberazione” e “rito liberatorio“, c’è la comica tragedia d’un Paese che non s’è mai veramente “liberato“. Che il fascismo sia stato, come scrisse lucido Gobetti, l’autobiografia degli italiani, ora sì, ora si vede chiaro in questo surrogato di “liberazione“, che ci fa più servi in un inevitabile crepuscolo della democrazia. E’ vero, Berlusconi cade – e questo fa certamente bene – ma a chi torna ai ritmi del poeta latino – “nunc est bibendum” – il vino va alla testa e tutto si confonde nel gioco delle parti. Cade, sì, ma per mano di lanzichenecchi della finanza e di squallidi capitani di ventura, suoi pari, come Sarkozy e la Merkel, che l’hanno detto chiari e minacciosi a Papandreu: se si rompe il giocattolo, si torna all’Europa dei conflitti. Cade e l’Italia fa festa o protesta; in piazza c’è chi l’ha combattuto per anni, impotente, inascoltato e tradito da opposizioni complici che non l’hanno mai inchiodato al conflitto d’interesse, e chi l’ha liberamente eletto, esaltato e spesso idolatrato; strati sociali così vasti e così variamente connotati, che parlare ancora di “società civile” pare non abbia più senso. Brinda, fa festa o protesta, l’Italia, ma è un’Italia avvilita che non trova rappresentanza politica e cerca invano una classe dirìgente capace di arrossire, che mostri senso del pudore e quella capacità critica che distingue gli uomini liberi dai servi sciocchi. Canti, cori, dirette televisive e l’eterno salotto buono, con Di Pietro, folgorato sulla via di Damasco, che non parla più di “macelleria sociale“, Concita De Gregorio, pronta a sostener la tesi insostenibile che è stato il governo a scatenare la crisi economica nata negli Usa, Casini berlusconiano per due e più lustri, Fini capobanda fino all’anno scorso e il solito Floris con una batteria di servizi terroristici sui bancomat in tilt e i soldi sequestrati in banca per effetto del fallimento. Un polverone sollevato ad arte per coprire la miseria morale di una “uscita” dalla crisi di governo che, da qualunque parte la si guardi, non va d’accordo coi principi della democrazia e, quand’anche fosse l’unica, amara e necessaria medicina, non meriterebbe certo una festosa accoglienza.
Morto il re, viva il re, ma operai e docenti stiano allerta. Il “nuovo che avanza” ha già detto basta alla nefasta influenza marxista e al suo “arcaico stile di rivendicazione che è un grosso ostacolo alle riforme” e “finisce spesso per fare il danno degli interessi tutelati“. La ricetta è il solito veleno – il “vincolo della competitività” – e quanto sia efficace s’è “visto di recente con le due importanti riforme dovute a Mariastella Gelmini e a Sergio Marchionne. Grazie alla loro determinazione, verrà un po’ ridotto l’handicap dell’Italia nel formare studenti, nel fare ricerca, nel fabbricare automobili“.
In fabbrica, quindi, flessibilità e mano libera al signor padrone e, in quanto alla formazione, basta col valore legale del titolo di studio e via con l’incubo americano: il figlio del ricco borghese che studia a Milano vale il doppio del cocciuto figlio di poveracci che va a scuola a Canicattì. Che ci va a fare? Lo studente non conta niente, vale il “nome” dell’istituto. Ci sono lauree e pezzi di carta in un mondo in cui chi ha i quattrini per farlo si costruisce la scuola e l’università. Chi decide è il mercato…
Così, Mario Monti, sul Corriere della Sera del 2 gennaio scorso. Altro che nuovo! Monti al governo – un “governo tecnico“, s’intende, di colpo di Stato non si parla più – è una fucilata sparata a bruciapelo sulla democrazia! Lo sanno tutti, Napolitano, gli “scamiciati” del Governo di Unità Nazionale, il rosso Vendola con la formula diplomatica del “Governo di scopo“, Bersani e i suoi, stretti attorno alla bandiera tricolore di un “Governo di transizione” che ci porta difilato al patibolo della Bicciè. Lo sanno tutti, ma fingono di non sapere: dopo un lungo scontro, c’è una resa incondizionata e tutto avviene nello stesso campo: la trincea è quella del peggior capitalismo. Nulla a che vedere coi diritti e la fatica della povera gente, costretta con un colpo di mano a pagare il prezzo d’una crisi per cui Monti è responsabile più o meno quanto Berlusconi. Monti, sì, che, guarda caso, è stato International Advisor della “Goldman Sachs“, ha libero acceso al chiuso “Gruppo Bildeberg, è membro stimato della “Commissione Trilaterale” creata da Zbigniew Brzezinski e Rockefeller e ha partecipato in prima linea, come Commissario europeo per l’economia, alla creazione del mostriciattolo che ci si ostina a chiamare “Unione Europea”.

Uscito su “Fuoriregistro” il 14 novemente 2011 e sul “Manifesto” del 15 novembre 2011 col titolo “Il nuovo avanza ma il capitalismo è sempre lo stesso”.

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Sono notoriamente alieno da inutili violenze e non cammino  armato. Vi avverto, però, e badate, non scherzo. Se vi azzardate anche solo a parlarmi di un “grande cambiamento” col centrosinistra al governo guidato da una sentinella del capitale finanziario come Monti, beh, non ci penso due volte: vi tiro una sberla con tutte le forze che ancora mi ritrovo. Con Monti, si profila uno spettro: il governo Marchionne. Va finire che Berlusconi e Gelmini sono stati un capolavoro.
Un “grande cambiamento”? Lo faccio: vi tiro una sberla.

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Il governo è caduto all’estero, per mano straniera, in uno scontro tra capitalismi, ma l’opposizione fa festa. “Credevo che ci fosse un limite a tutto“, ha scritto giorni fa, con sconsolato e stupefatto realismo Rossanda Rossanda, sotto un titolo che era un capolavoro ‘ironica amarezza: “Perché non sciogliere il popolo?” La risposta l’ha data Napolitano, incoronando Monti che s’è portato in Senato il programma di governo dettato dalle banche. Il programma che fuori dal Parlamento non troverebbe un cane disposto a votarlo. Il popolo non si scioglie, cara Rossanda, ha spiegato così il presidente, lo si porta legato mani e piedi al macello e si dice che questa è democrazia. Questa: un presidente bocciato dagli elettori e ricondotto in Parlamento come senatore a vita, nessuno sa bene per quali meriti speciali, un economista che l’ex parlamentare rifiutato dagli elettori porta in Senato, benché sia notoriamente e profondamente compromesso nel tragico fallimento morale e politico dell’Unione Europea, e un “governo tecnico” di macellai stile Grecia, per il quale l’opposizione “responsabile” si offre di fare da lama affilata pronta a colpire alla schiena il “popolo sovrano“. Non li ha votati nessuno, ma questa tragica farsa è la democrazia.

Le elezioni verranno, occorre aver fiducia. I popoli possono e devono votare, nessuno s’azzarda a negarlo, ma lo fanno quando e come decidono banche, padroni e sedicenti “grandi“, se converrà a monsieur Brunì, macellaio di Libia, un misto di grandeur e xenofobia incalzato da madame Le Pin, e Angela Dorothea Merkel la “donna più potente del mondo“, erede diretta della grande scuola di democrazia germanica. I popoli voteranno, ma si tratta di un rito che non ha più valore di scelta politica. Anni fa, quando s’è deciso di far votare un testo ambiguo, contrabbandato per “Costituzione europea“, il voto c’è stato. Era il 2005. La risposta dei popoli di Francia e dei Paesi Bassi è stata secca, tagliente e sprezzante: no, hanno detto i “popoli sovrani“, questa miserevole pagliacciata che copre sporchi accordi noi non la vogliamo. Questa rapina che chiamate Costituzione, fatta su misura per imbrogli di banche, banchieri, sfruttatori e negrieri, noi non la vogliamo.

Come ladri colti sul fatto, gli esponenti della “grande democrazia occidentale“, hanno subito provveduto. Dove s’è potuto, una burocratica ratifica parlamentare ha “silenziato” il “popolo sovrano”. Repubblica Ceka, Danimarca, Irlanda, Polonia, Portogallo e Regno Unito, dove i referendum erano stati indetti e il Parlamento non poteva più pronunciarsi, hanno chiuso la bocca ai cittadini e si sono annullate le consultazioni. Di soppiatto, poi, il primo dicembre del 2009, un trattato firmato a Lisbona ha tagliato la testa al toro e di Costituzione non s’è più parlato.
La democrazia, in nome della quale bombardiamo dovunque ce lo chiedano” – scrive Rossanda e le rubo le parole perché meglio non so dirlo – la democrazia “non conta là dove si tratta di soldi. Sui soldi si decide da soli, fra i più forti, in separata sede. Davanti ai soldi la democrazia è un optional“. Prendiamone atto e ricordiamo: i popoli non hanno bisogno di studiare Montesquieu per saperlo: “può avvenire che la Costituzione sia libera e che il cittadino non lo sia“. Quando accade, non bastano Monti o la Merkel, non serve Sarkozy: lo Stato che non sa cambiare correggendo si corrompe. E’ così che comincia la fine.

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Lei chiacchiera, Presidente, e non le costa nulla. Io guardo angosciato Genova che lotta per la vita e mi prende un senso di ribellione. Io lo so bene e chi legge lo sa. Sepolti i morti, cominceranno le polemiche di sempre, sinistra contro destra, parole e fantasmi, perché tutti insieme che ci hanno governato si portano il disastro sulla coscienza. Tutti, nessuno escluso, nemmeno chi dall’alto ogni giorno continua a chiedere che c’impicchiamo alle regole d’un gioco truccato e ci rassegniamo a pagare con la salute e con la dignità. Pagare cosa? Pagare chi? E pagare perché? Per tornare a menare una danza che non ha senso?

 C’è una domanda che incombe e mette paura, perché paura ci vogliono fare: chi ci salverà? E’ una domanda stringente, mentre il fango corre, attraversa le vie, devasta, uccide. Una domanda alla quale non sembra si trovi risposta. Ci sono “salvezze” più mortali del pericolo da cui si scampa e banalmente si può dire che all’orizzonte si vedono solo di qui la padella e di là la brace. Si fanno ragionamenti sui numeri d’una presunta maggioranza, che fino a ieri è stata opposizione; ci si appella a una minoranza “responsabile”, che tante volte è stata maggioranza, e sembra un delirio: governo tecnico con la tutela della banche, il Fondo monetario, i numeri, le chiacchiere sui conti…

E la gente? La gente che v’ha detto come ha potuto, coi referendum, andatevene a casa, la gente che non ne può più e sa fare benissimo da sola, la gente dov’è? La gente, che usate per strumento ma chiamate popolo sovrano, la gente che trasecola per le indecenti pazzie sull’aspettativa di vita, sulla disoccupazione giovanile che “sì, davvero è un problema che va risolto”, la gente dov’è? E cosa c’entra col Paese che onora i debiti? I debiti di chi?

 Ieri, mentre ai greci stremati veniva tolta la parola e le “grandi democrazie” decidevano senza consenso, ieri c’era chi ricordava che è già accaduto: la tentazione di far fuori un nemico piccolo ha scatenato quelli grandi e la mano è passata alle armi. Non s’è trattato certo di salvezza. Due guerre mondiali. Di una s’è voluta far la festa oggi e anche questo la dice lunga sul panorama di idee e sul sistema di valori che ci ha governato e ci governa in questi anni. Chi ci salverà! Lo scrivo col punto esclamativo, perché la domanda si fa tagliente e suscita la rabbia.

 Lo sanno tutti: la storia non è altro che un ventaglio di scelte. E ce n’è una che ci pone subito davanti alla necessità di scegliere la nostra via. A chi ci offre la “salvezza” d’un prestito usuraio, per ridurci alla mercé di padroni ad un tempo ignoti e ignobili, possiamo dare solo due risposte. Un sì, che sarebbe la fine, un no che aprirebbe uno scontro incerto, estremo, eppure necessario. Ecco chi  potrà salvarci: la nostra capacità di scegliere tra una salvezza bugiarda, dietro la quale si celano il torrente di fango che travolge Genova e le catene d”una nuova barbarie, o il rischio consapevole d’una battaglia onorevole che mostra la luce d’un porto oltre il mare in tempesta. Noi siamo molto più forti di quanto pensiamo. La nostra forza sta nella capacità che avremo non solo d’indignarci, ma di scegliere, come che sia, la via della dignità. Uniti si può andare allo scontro. L’unità, tuttavia, è un valore solo se ognuno si spoglia di una parte della propria identità e riconosce che uomini e donne liberi possono unirsi o divedersi sull’invalicabile confine della dignità. Di qui si passa, questa è la via della salvezza. E mi conforta una fiducia che confesso cieca: la stessa che spinse Rosselli a scrivere come testamento universale della democrazia le sue immortali parole: “non vinceremo in un giorno, ma vinceremo”. Me lo ripeto, mentre guardo angosciato la morte che corre impazzita nel fango per le vie di Genova disastrata. Il pugnale fascista, che uccise i fratelli Rosselli, si spezzò contro la loro fede serena. Questo ci salverà, ma occorre dire no. Costi quel costi. E non facciamoci illusioni: i padroni che ci presentano il conto sono peggiori del peggior fascismo.

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Nessuno se n’è accorto, ma i black bloc hanno cambiato colore. Ieri, come sempre irriconoscibili, avevano caschi azzurri e, invece del classico passamontagna, si coprivano il viso con una celata di plastica trasparente che ti fa vedere tutto senza che nessuno ti veda in viso. Non c’è dubbio: gente che sa il fatto suo. Abbandonati i sampietrini, si son portati appresso i più efficienti manganelli ed eccoli abilmente mimetizzati. A vederli, sembravano proprio tutori dell’ordine a cui d’un tratto aveva dato di volta il cervello: cariche violente contro cortei di studenti inermi che, a mani alzate e volto scoperto, urlavano il loro dichiarato pacifismo.
Carica dopo carica, i black bloc mimetizzati hanno avuto progressivamente la meglio sui sogni democratici dei nostri studenti e si son viste scene di sapore vagamente cileno: ragazzi a mani in alto, fotografati, identificati e probabilmente schedati in un “Casellario Politico” raccolto chissà perché dagli anarco-insurrezionalisti. Sfilavano uno dietro l’altro, come prigionieri di guerra, tra due file di black bloc dai fiammanti caschi azzurri ormai padroni del campo, mentre la Costituzione repubblicana sembrava sospesa e non c’era l’ombra d’un carabiniere che mettesse un po’ d’ordine in quell’incredibile sceneggiata delle inafferrabili primule nere che indossavano gli azzurri caschi della polizia.
Diciamola tutta. Dell’oscura vicenda la nota più inquietante non viene dall’isolamento dei pacifisti – gli studenti erano soli, ma si sa, l’indignazione della sedicente “società civile” vive di lampi improvvisi e subito s’acqueta – e non veniva nemmeno dalla paura dei genitori che, recuperati i figli malconci nelle piazze, si guardavano bene dal dare del “fascista” ai black bloc travestiti dal poliziotti. Il dato inquietante, quello che più preoccupa e colpisce, è la muta afasia della politica. Nessuno, nemmeno Di Pietro, ha invocato stavolta la Legge Reale e si direbbe quasi che i black bloc abbiano addirittura agito, forti di un incredibile consenso istituzionale.
Violenza“, si dice ogni giorno, “guardiamoci dalla violenza“. Un monito sacrosanto. C’è, però, chi si chiede come mai stamattina i grandi giornali non abbiano aperto con le foto e i filmati dei teppisti da identificare. Sembra quasi che la violenza si giudichi ormai dal colore: nera e coi passamontagna è caccia all’uomo, azzurra e coi manganelli passa sotto silenzio.
La commedia è finita, se v’è piaciuta, applaudite“, recitavano un tempo giullari e scavalcamonti, che mettevano in scena la ferocia del potere. Non c’è nulla di più vivo e vero che la finzione del teatro, ma quando cala il sipario e si fa buio sulla ribalta, chissà perché lo spettatore si tranquillizza, ingannando se stesso: la vita non è teatro. Eppure lo vediamo: non c’è tragedia recitata su un palcoscenico che non viva nelle case e nelle piazze che popoliamo. E’ che noi non vogliamo vedere.

Uscito su “Fuoriregistro” il 4-11-2011 col titolo Gli studenti contro i black bloc e sul “Manifesto” il 5-11-2011 col titolo.

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