Quando quel maledetto convegno sul fascismo terminò, non ne potevo veramente più. Invitato come ospite, l’avevo scoperto solo quando era cominciato: i relatori utilizzavano esclusivamente l’inglese e non c’era traduzione simultanea, perché, mi era stato poi detto con falsa cortesia, “di questi tempi tutti gli storici capiscono certamente l’inglese”. Senza scompormi, avevo risposto che tutte le regole hanno un’eccezione e avevo preso posto.
La giornata fu lunga, noiosa e sonnolenta. Non capii una parola, ma mi rassegnai. Per la bontà di un giovane ricercatore seppi che l’ultima comunicazione, aveva un titolo che mi sembrò decisamente sconcertante: “Il Fascismo regime inclusivo”. Ci misi un po’ a capirlo, poi mi convinsi che non sbagliavo: lo storico che stava parlando era stato da giovane un militante convinto della sinistra estrema rivoluzionaria e bolscevica. Riscosse consensi unanimi e concluse l’intervento ricevendo l’abbraccio plateale di un gigante che per poco non lo stritolò. Il ricercatore gentile, notando il mio sguardo stupito, mi disse che il colosso era un “maestro” americano. Alzai le braccia in segno di resa e il ricercatore mi regalò un sorriso decisamente enigmatico.
Un’ora dopo, a cena, il gigante era seduto di fronte a me. A farci compagnia c’erano due portaborse impacciati e ossequiosi, pronti a fare salamelecchi anche a me. Secondo la loro scienza, infatti, se ero seduto al tavolo del “maestro”, non potevo essere certamente l’ultimo della compagnia. Eravamo in Italia e col cameriere non ebbi problemi. Con i commensali, che utilizzavano invece rigorosamente l’inglese, feci scena muta, finché il “maestro” americano non manifestò, tradotta dai portaborse, la sua meraviglia: “esistono storici che non conoscono l’inglese?”.
Ricevuto il messaggio, chiesi ai due sconcertati compagni di cena la cortesia di tradurre la mia risposta per l’americano, al quale non giunse così solo la conferma della mia “ignoranza”, ma anche una domanda: “il professore non conosce l’inglese, ma parla il francese. C’è modo di comunicare?”. L’anglosassone, preso chiaramente in contropiede, pregò i portaborse – che avevano assunto d’un tratto un’aria da zerbino – di farmi sapere che non conosceva la lingua di Napoleone.
Dopo questo breve scambio di notizie, il “maestro” tacque. Intanto, ritrovato l’italiano, gli zerbini mi chiesero garbatamente chi fossi. Probabilmente stavano cercando di definire una gerarchia e stabilire quale contegno tenere. Mentre i due calcolavano le rispettive misure, guardai il “maestro” silenzioso e il viso, che non conosce lingue ma si legge molto facilmente, mi disse che l’eguaglianza ristabilita – io non conoscevo l’inglese, ma a lui mancavano francese e italiano – non andava a genio all’americano. Pochi minuti dopo, infatti, ritrovati i modi sicuri del maestro, l’uomo parlottò con i portaborse e assunse un’aria chiaramente furba. Un po’ incerti, ma pronti a tutto fare per non scontentare il capo americano, i due tradussero in coro quella che si presentava come un’offerta originale e persino geniale, ma puntava invece molto probabilmente a ripristinare l’iniziale presunta distanza: “il professore chiede se lei conosce il latino. Lui lo parla e l’ha spesso utilizzato come strumento di comunicazione”.
Mi avevano posto la domanda così ad alta voce, che dai tavoli circostanti qualche grande nome si avvicinò incuriosito. L’offerta nascondeva evidentemente un’insidia e molti sperarono di godersi la mia inevitabile figuraccia. Per la prima volta in quella maledetta serata sorrisi divertito. Poiché, tranne la ricerca storica, non ho mai amato nulla più dei versi di Catullo veronese, mi sembrò che l’americano mi avesse offerto una splendida occasione di riscatto. Per nulla intimorito, chiesi ai due zerbini di manifestare il mio consenso, sottoponendo al “maestro” generoso il significato profondo che aveva avuto per me quella giornata. Non dissi ai traduttori che si era trattato per me di una squallida e sconcertante ostentazione di potere; affidai il messaggio a un piccolo foglio di carta su cui scrissi a memoria le immortali parole del mio Catullo:
Nil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere,
nec scire utrum sis albus an ater homo.
Gli zerbini, istintivamente preoccupati, tradussero l’italiano e consegnarono il latino al divertito americano. Per un po’ il “maestro” si mostrò fiducioso. Lesse, rilesse, si passò ripetutamente la mano tra i capelli folti e bianchi come le neve, socchiuse gli occhi, li riaprì, pensò, litigò con le sue conoscenze romane, faticò, sospirò, ma non cavò un ragno dal buco.
I “grandi nomi”, tutti suoi amici, provarono a sbirciare per suggerire, ma li fermai con l’indice puntato e non osarono riprovarci. Attesi la resa, poi tradussi in italiano i versi per gli zerbini e affidai loro l’ingrato compito di tradurre in inglese Catullo, tradotto dal latino nel mio italiano e di consegnare la loro traduzione all’americano con una mia giovanile poesia in italiano, che mi sembrò particolarmente adatta alla situazione. Agli zerbini atterriti, ma incapaci di ribellarsi, il compito di tradurre anche il commento. Sul foglio che gli affidai c’era una lezione che l’americano e i suoi amici italiani non potranno mai capire davvero, nemmeno se sostituiranno gli zerbini con traduttori miracolosi .
Prima naturalmente Catullo:
“Cesare, non faccio nulla per poterti piacere
e non voglio sapere se sei un uomo bianco o nero”.
Seguiva a ruota semplice ma, in quella occasione, micidiale quella ch’è stata la bussola della mia vita:
“Amico, se ti compri,
pagati quanto vali.
Non un quattrino in più.
Credimi, non sentirti prezioso,
tanto nemmeno serve e poi si muore.
Ma se ti vendono un giorno per caso
e magari all’incanto,
tu non avere prezzo:
Stattene duro e il banditore
invano attenda di picchiare il martelletto”.
Non aspettai risposte. Andai via salutando la compagnia con un cenno della mano e riservai ai pallidi zerbini i primi versi d’una ironica poesiola del mio immortale Catullo:
“Ameana puella defututa,
tota milia me decem poposcit,
ista turpicolo puella naso […].
Proprinqui, quibus est puellae curae,
amicos, medicos convocate:
non esta sana puella, nec rogare
qualis sit solet: est imaginosa”:
(“Ammiana, fanciulla un po’ avvizzita,
diecimila sesterzi ben mi chiese,
questa bimba dal naso bruttino:
Parenti, che alla fanciulla badate,
convocate gli amici ed i dottori:
la bimba non è sana e non chiedete
di quale male soffra; s’è ammattita).
