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Posts Tagged ‘Catullo’

Latino americano

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Quando quel maledetto convegno sul fascismo terminò, non ne potevo veramente più. Invitato come ospite, l’avevo scoperto solo quando era cominciato: i relatori utilizzavano esclusivamente l’inglese e non c’era traduzione simultanea, perché, mi era stato poi detto con falsa cortesia, “di questi tempi tutti gli storici capiscono certamente l’inglese”.  Senza scompormi, avevo risposto che tutte le regole hanno un’eccezione e avevo preso posto. 
La giornata fu lunga, noiosa e sonnolenta. Non capii una parola, ma mi rassegnai. Per la bontà di un giovane ricercatore seppi che l’ultima comunicazione, aveva un titolo che mi sembrò decisamente sconcertante: “Il Fascismo regime inclusivo”. Ci misi un po’ a capirlo, poi mi convinsi che non sbagliavo: lo storico che stava parlando era stato da giovane un militante convinto della sinistra estrema rivoluzionaria e bolscevica. Riscosse consensi unanimi e concluse l’intervento ricevendo l’abbraccio plateale di un gigante che per poco non lo stritolò. Il ricercatore gentile, notando il mio sguardo stupito, mi disse che il colosso era un “maestro” americano. Alzai le braccia in segno di resa e il ricercatore mi regalò un sorriso decisamente enigmatico.
Un’ora dopo, a cena, il gigante era seduto di fronte a me. A farci compagnia c’erano due portaborse impacciati e ossequiosi, pronti a fare salamelecchi anche a me. Secondo la loro scienza, infatti, se ero seduto al tavolo del “maestro”, non potevo essere certamente l’ultimo della compagnia. Eravamo in Italia e col cameriere non ebbi problemi. Con i commensali, che utilizzavano invece rigorosamente l’inglese, feci scena muta, finché il “maestro” americano non manifestò, tradotta dai portaborse, la sua meraviglia: “esistono storici che non conoscono l’inglese?”.
Ricevuto il messaggio, chiesi ai due sconcertati compagni di cena la cortesia di tradurre la mia risposta per l’americano, al quale non giunse così solo la conferma della mia “ignoranza”, ma anche una domanda: “il professore non conosce l’inglese, ma parla il francese. C’è modo di comunicare?”. L’anglosassone, preso chiaramente in contropiede, pregò i portaborse – che avevano assunto d’un tratto un’aria da zerbino – di farmi sapere che non conosceva la lingua di Napoleone.
Dopo questo breve scambio di notizie, il “maestro” tacque. Intanto, ritrovato l’italiano, gli zerbini mi chiesero garbatamente chi fossi. Probabilmente stavano cercando di definire una gerarchia e stabilire quale contegno tenere. Mentre i due calcolavano le rispettive misure, guardai il “maestro” silenzioso e il viso, che non conosce lingue ma si legge molto facilmente, mi disse che l’eguaglianza ristabilita – io non conoscevo l’inglese, ma a lui mancavano francese e italiano – non andava a genio all’americano. Pochi minuti dopo, infatti, ritrovati i modi sicuri del maestro, l’uomo parlottò con i portaborse e assunse un’aria chiaramente furba. Un po’ incerti, ma pronti a tutto fare per non scontentare il capo americano,  i due tradussero in coro quella che si presentava come un’offerta originale e persino geniale, ma puntava invece molto probabilmente a ripristinare l’iniziale presunta distanza: “il professore chiede se lei conosce il latino. Lui lo parla e l’ha spesso utilizzato come strumento di comunicazione”.
Mi avevano posto la domanda così ad alta voce, che dai tavoli circostanti qualche grande nome si avvicinò incuriosito. L’offerta nascondeva evidentemente un’insidia e molti sperarono di godersi la mia inevitabile figuraccia. Per la prima volta in quella maledetta serata sorrisi divertito. Poiché, tranne la ricerca storica, non ho mai amato nulla più dei versi di Catullo veronese, mi sembrò che l’americano mi avesse offerto una splendida occasione di riscatto. Per nulla intimorito, chiesi ai due zerbini di manifestare il mio consenso, sottoponendo al “maestro” generoso il significato profondo che aveva avuto per me quella giornata. Non dissi ai traduttori  che si era trattato per me di una squallida e sconcertante ostentazione di potere; affidai il messaggio a un piccolo foglio di carta su cui scrissi a memoria le immortali parole del mio Catullo:

Nil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere,
nec scire utrum sis albus an ater homo.

Gli zerbini, istintivamente preoccupati, tradussero l’italiano e consegnarono il latino al divertito americano. Per un po’ il “maestro” si mostrò fiducioso. Lesse, rilesse, si passò ripetutamente la mano tra i capelli folti e bianchi come le neve, socchiuse gli occhi, li riaprì, pensò, litigò con le sue conoscenze romane, faticò, sospirò, ma non cavò un ragno dal buco.
I “grandi nomi”, tutti suoi amici, provarono a sbirciare per suggerire, ma li fermai con l’indice puntato e non osarono riprovarci. Attesi la resa, poi tradussi in italiano i versi per gli zerbini e affidai loro l’ingrato compito di tradurre in inglese Catullo, tradotto dal latino nel mio italiano e di consegnare la loro traduzione all’americano con una mia giovanile poesia in italiano, che mi sembrò particolarmente adatta alla situazione. Agli zerbini atterriti, ma incapaci di ribellarsi, il compito di tradurre anche il commento. Sul foglio che gli affidai c’era una lezione che l’americano e i suoi amici italiani non potranno mai capire davvero, nemmeno se sostituiranno gli zerbini con traduttori miracolosi .
Prima naturalmente Catullo:

“Cesare, non faccio nulla per poterti piacere
e non voglio sapere se sei un uomo bianco o nero”.

Seguiva a ruota semplice ma, in quella occasione, micidiale quella ch’è stata la bussola della mia vita: 

“Amico, se ti compri,
pagati quanto vali.
Non un quattrino in più.
Credimi, non sentirti prezioso,
tanto nemmeno serve e poi si muore.
Ma se ti vendono un giorno per caso
e magari all’incanto,
tu non avere prezzo:
Stattene duro e il banditore
invano attenda di picchiare il martelletto”.

Non aspettai risposte. Andai via salutando la compagnia con un cenno della mano e riservai ai pallidi zerbini i primi versi d’una ironica poesiola del mio immortale Catullo: 

“Ameana puella defututa,
tota milia me decem poposcit,
ista turpicolo puella naso […].
Proprinqui, quibus est puellae curae, 
amicos, medicos convocate:
non esta sana puella, nec rogare
qualis sit solet: est imaginosa”:
(“Ammiana, fanciulla un po’ avvizzita,
 diecimila sesterzi ben mi chiese,
questa bimba dal naso bruttino:
Parenti, che alla fanciulla badate,
convocate gli amici ed i dottori:
la bimba non è sana e non chiedete
di quale male soffra; s’è ammattita).  


 

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Cesare

Catullus_at_Lesbia's_by_Sir_Laurence_Alma_TademaPossibile che, se finalmente qualcuno si muove, scende in piazza per dire che non ne può più, i soliti coltivatori diretti del proprio orticello rivoluzionario si affrettino a scomunicarlo, prendono le distanze, chiedono il certificato di sana e robusta costituzione politica, completo di attestato sulla tonalità  rosso viva del colore del sangue?
Siamo proprio sicuri che il primo passo verso un cambiamento non possa essere il silenzio sprezzante di chi occupa la piazza contro il Potere e non gli parla, sta zitto, ma dimostra di esistere?
Non so chi siano, so che rivolti a chi crede di averci in pugno lo sfidano e con il loro silenzio ripetono le antiche parola di un ribelle:

«Nil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere,
nec scire utrum sis albus an ater homo.

Non faccio nulla per piacerti, Cesare,
né m’interessa di sapere se sei un uomo bianco o nero.

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La logica, se di logica si può parlare senza coprirsi di ridicolo, è quella dello Stato autoritario o, se preferite, di una repubblica delle banane. Gli estremi spesso si toccano e Fabio Garagnani, con la sua criminale proposta, conferma la regola: “Professori politicizzati sospesi per 3 mesi“.
Ognuno la prenda come vuole. Chi spera in un miracolo che non verrà, chi si trincera dietro il “delirio” di una minoranza di estremisti che forza le regole del gioco, per affidarsi ai lamenti generosi e impotenti del Capo dello Stato, si accomodi. Meglio sarebbe però dirsi le cose per quelle che sono e regolarsi di conseguenza. E’ ora di piantarla. Siamo stanchi di subire e non abbiamo paura.

La proposta di Fabio Garagnani è una sfida aperta a ogni idea democratica della politica, così come la concepirono non i bolscevichi di Zinoviev, ma i borghesi di Montesquieu. In quanto tale, è una sfida persa in partenza, che un politico vero non si sarebbe azzardato a lanciare. Un politico, anche il più mediocre, sa bene che l’uso e la scelta delle parole sono di per sé, ad un tempo, uno strumento ineludibile di formazione e una questione profondamente politica. Per spiegare ai suoi studenti cosa sia una moderna dittatura, un buon professore non farà certo il nome di Berlusconi; parlerà a lungo e in maniera ineccepibile di storia e diritto romano. Zola col suo “j’accuse” sarà più che sufficiente, perché una classe intenda cosa sia il razzismo. Garagnani dovrebbe saperlo e se non lo sa lo impari: lo Spilberg non poté impedire che Pellico costasse all’Austria più di una guerra perduta; i famosi, mussoliniani vent’anni in cui il cervello di Gramsci non avrebbe dovuto pensare, videro nascere le pagine di quei “quaderni” che ancora oggi inchiodano il fascismo alla colonna infame dei suoi crimini, fanno argine contro ogni tentativo autoritario e spiegano a chi voglia capirlo cosa sia stato nel nostro paese quel comunismo di cui Berlusconi ciarla e straparla.

Il pensiero non s’ingabbia. C’è, nella libertà d’insegnamento, la forza pacifica e incoercibile che invano gli ateniesi provarono a spegnere con la cicuta imposta alla suprema dignità di Socrate. Ci sono Foscolo, che umiliò col rifiuto l’arroganza asburgica, pronta comprarne l’animo libero, e morì nella miseria londinese lasciando incancellabile il suo testamento: “io professo letteratura“. Non basterebbe all’illusa prepotenza di Garagnani eliminare Dante dalla scuola. Messo a tacere quel suo invito alla rivolta del pensiero – “nati non fummo a viver come bruti” – si troverebbe dinnanzi l’ironico e tagliente Catullo: Nil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere, / nec scire utrum sis albus an ater homo. Non m’interessa nulla di poterti piacere, Cesare, né di sapere se tu sia un uomo bianco o nero.

Il sapere è libero e la libertà è politica. Se il partito di Garagnani è autoritario e illiberale, torni a scuola e ricominci a studiare.

Uscito su “Fuoriregistro” il 12 maggio 2011 e su “il Manifesto” il 17 maggio 2011

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Sono anni che Bossi prende soldi a palate per governare l’Italia che intende affondare. A Roma fa il ministro della repubblica, a Pontida, il “padre della patria” d’una barzelletta che chiama Padania e smania, minaccia sfracelli e promette macelli. Come la gru di Chichibbio sta in equilibrio precario: nessuno sa se ha due zampe o una sola. In quanto alla testa è piuttosto modesta. A Pontida protesta ma a Roma è ortodosso, si veste da fesso e domanda perdono se la spara più grossa. Ce l’ha duro a Milano e s’ammoscia per lo scirocco romano. A Pontida è guerriero feroce, A Roma si tace, a Bergamo pare Brighella, sui colli fatali è un gran Pulcinella, a Strasburgo domanda insistente un brevetto per l’inesistente. E’ un delirio che prende i padani, la repubblica dei ciarlatani a spese dei contribuenti italiani. Ogni giorno fa guerra il carroccio, ma in pace, da vero fantoccio, si tace rapace quando mette i piedi e le mani nei salotti e gli affari romani.

In un Paese normale Bossi e compagni sarebbero il paranormale, un fenomeno da baraccone, la rissa d’un ubriacone. Qui da noi governano l’Italia per conto della Padania, con un grande programma nazionale: la graduatoria regionale dei docenti, non importa se deficienti, bambini neri affamati nella scuola privatizzata, un ghetto per alunni stranieri in una scuola specializzata in negrieri, sputi alla bandiera, campi di concentramento e l’obbligo d’insegnamento della lingua di Cassano Magnago, Verona, Pastrengo e Legnago. Il programma è centrato sui discorsi politici di Bossi, sul federalismo targato Cota, sulla musica e il folclore di Zaia governatore, sulla politica delle integrazioni pensata dal geniale Maroni.

Ameana puella defututa
Tota milia me decem poposcit,
[…] Propinqui, quibus est puella curae,
amicos medicosque convocate:
non est sana puella…

Amici e voi che avete la ragazza in cura, i medici convocate! E’ malata, si vede, non è sana, è impazzita davvero la fanciulla.

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Berlusconi, annotano Vespa e soci per la futura “vita del santo martire“, perdona lo “squlibrato” e non c’è dubbio, l’investimento è buono: poca spesa e molto guadagno. L’uomo di Arcore capitalizza l’indulgenza – i papi ci costruirono San Pietro – ignora, per il momento, la zelante richiesta d’una legge che impedisca ai monumenti di volare – l’aveva sibilata prontamente l’avvocato Gelmini – e si contenta della crociata televisiva di Fede, Minzolini e compagnia cantante. Al tirare delle somme, per un’ammaccatura sempre più chiaramente provvidenziale, il futuro beato intasca inchini e riverenze d’una opposizione vestita Bersani, targata D’Alema e maritata Casini, colta a metà del guado in un balletto osé tra riflessioni universali sull’inciucio produttivo, calcoli da pallottoliere sulla resa elettorale dell’antiberluscnismo, e il “centomilesimo ultimatum” all’amico-nemico Di Pietro.
Questi tempi viviamo e ognuno ha il Cesare che s’è guadagnato. Quello antico e romano affidò nome e onore alla limpida grandezza dei “Commentarii“, al “veni, vidi, vici” con cui stupì il Senato e andò incontro al pugnale mentre riformava profondamente la società e il modello di governo repubblicano. Nessuno saprà mai con certezza se lui fu il rinnovatore e Bruto e Cassio i conservatori o viceversa, ma non ci sono dubbi: ebbe nemici e ne fu consapevole. Gli epigrammi di Catullo consegnavano alla storia un’immagine bieca di lui e dei suoi amici “opprobria Romulei Remique“, “disonore di Romolo e di Remo“, per cui veniva voglia di morire: Quid est Catulle? quid moraris emori?“, “Che c’è Catullo? A che tardi a morire? / […] per governare spergiura Vatinio / Che c’è Catullo? A che tardi a morire?“. Parole sanguinose, ma Cesare non intervenne, “perdonò” e lasciò che parlasse per lui la sua vita anche quando il grande poeta lo sfidò apertamente: “Nil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere, / nec scire utrum sis albus an ater homo” – “non mi sforzo di piacerti, Cesare, / né di saper se uomo sei bianco o nero“.
Ahimè, a noi il perdono viene da Bossi e Berlusconi e, quel ch’è peggio, ci tocca sperare che da questa tragedia ci tirino fuori D’Alema e Bersani. Una cosa davvero preoccupante. “Amicos medicosque convocate: / non est sana puella“, direbbe Catullo, “I medici e gli amici convocate / la ragazza sta male“.
E mal gliene verrebbe: le aquile di “sinistra” lo trascinerebbero in tribunale.

Uscito su “Fuoriregistro” il 23 dicembre 2009.

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Nascosi rabbia, vergogna e disperazione in un angolo buio del cervello e andai avanti senza un’idea precisa. Per un po’ confusi il passato col futuro e vissi senza presente. Il tempo della vita non coincideva col tempo della logica e il modo della certezza presentava evidenti paradossi.
Imparai a diluire la tristezza nelle fatiche ostinate di traduzioni notturne e quando la mia Lesbia mi sostituì col più odioso scienziato del liceo, piansi più volte con Catullo e non volli mettere in versi italiani il suo lacerante “fulsére tibi quondam candidi soles”.


Cercai un lavoro – quale che fosse, tre soldi per non sentirmi un peso – e mi disposi a cogliere in ciò che m’accadeva solo i toni di rosa: questione di sopravvivenza. Iniziai dallo sportello d’una “sala corse”, raccogliendo scommesse, e ci conobbi un “grossista” distributore di medicinali che “non scommetteva per soldi” e cercava un “ragazzo sveglio” per un suo ufficio al centro. Alto, snello, elegante, coi capelli crespi sotto il cappello scuro, aveva un viso tagliente che incuriosiva per il contrasto tra le labbra sottili e il naso largo e schiacciato in mezzo agli occhi neri e un po’ assenti, i modi spicci di chi si è “fatto da sé” e un’aria vagamente schietta che lo rendeva affidabile. Mi feci avanti e lui non perse tempo: referenze, competenze, titolo di studi: nulla di tutto questo. Non giunsi a dirmelo, ma andò così: per un po’ sentii vacillare le mie convinzioni sugli imprenditori – “razza padrona” a qualunque livello – e pensai a “sistemarmi”.
Pochi giorni, quanto bastava per mettermi alla prova, poi il “grossista” annunziò:
– Nessuna carta scritta. Sia ben chiaro!
Mise in fila gli impegni da rispettare, le multe per le inadempienze e chiuse con la paga: molto più che alla sala corse, molto meno di quanto mi sarebbe spettato per fatica e responsabilità. Non ci fu trattativa ovviamente. Avrei accettato per molto meno e, in ogni caso, poter mettere in ordine i conti con me stesso fu un sollievo. Non avevo più dubbi: un vero pescecane, pensai mentre si faceva d’un tratto paterno e mi dava un consiglio:
– Ricordatelo bene e mi ringrazierai. Guarda più in alto che puoi e impara la scienza sociale: prima di tutto te stesso, così non pesi su nessuno. E’ bene solo quello che ti va bene.
– Una regola d’oro
– replicai e soggiunsi ironico – diffonderla però è uno strappo pericoloso.
Finse di non cogliere e lasciò che gestissi da solo vendite e consegne in un bugigattolo d’ufficio situato sopra un ampio locale sotterraneo nel quale giacevano accatastati in un ordine approssimativo medicinali d’ogni tipo.
Di dove giungesse la merce non ebbi mai idea.
– Si “carica” di notte per evitare fastidi e perdite di tempo Traffico, parcheggio. Questa città è impossibile.
Andava bene così. Lavoro nero, certo, sei giorni alla settimana per otto e più ore, ma in perfetta autonomia. La mattina ricevevo telefonate, scovavo la merce, preparavo conti e il pomeriggio facevo brillantemente fronte all’andirivieni di ragazzi in camice nero che ritiravano i pacchi di medicinali in cambio di ricevute da firmare. Il sabato veloce rendiconto: il titolare giungeva dopo pranzo, allegro e puntuale, intascava le ricevute firmate e mi pagava.
Durò tre mesi.
Un sabato l’uomo non venne e non chiamò. Il lunedì, mentre aprivo, si presentarono due agenti e mi ritrovai in questura. Un interrogatorio rapido e ironico. Ero solo un idiota: me lo ripeterono per ore poi mi lasciarono tornare a casa. Per qualche tempo sui giornali tennero banco indagini su medicinali rubati e farmacie implicate in non so quale scandalo presto soffocato. Attesi a lungo il mandato di cattura, ma nessuno mi cercò.


Quando i giornali presero a occuparsi di altro, uscii da un incubo e mi guardai attorno con gli occhi del bisogno.
La città mi sembrò subito diffidente e pericolosa: tutta domande e mai una risposta. Un’anima scura ovunque mi girassi ed una consapevolezza disperata: non è vero che il mondo cambia, siamo noi che lo vediamo diversamente.
Non me n’ero accorto. La gente, che fino a poco tempo prima m’era parsa uguale a sempre, aveva messo sul viso lineamenti spigolosi, labbra sottili, occhi scaltri e indifferenti. Gli uomini tozzi e franchi, calati in tute d’ogni foggia e giacche di panno militare, erano tutti spariti e spariti erano pure quelli spicci e decisi, infilati in camicie larghe con le maniche risvoltate fino a metà avambraccio, il cappello di giornale in cima al viso rugoso e abbronzato.
Spariti, come gli altri, quelli che incontravo al tramonto con le mollette dei panni strette sulla piega dei pantaloni e le vecchie biciclette cigolanti che ancheggiavano, scansando i solchi centenari scavati dagli antichi carri nel vecchio basolato di piperno.
Sotto il cemento colato a fiumi sulle antiche cave, sui materiali di risulta che colmavano i valloni, lungo gli impervi canaloni creati da secoli di pioggia erano sparite persino le ferite della guerra. Strade e veicoli, gente e palazzi sprofondavano però dalle colline al mare. Ferita ben più che dalle bombe, Napoli era irriconoscibile. La destra della speculazione edilizia ne aveva fatto un’altra città. Sconosciuta. L’attraversavo ogni giorno in lungo e in largo senza un progetto di vita, incrociando i senzatetto sloggiati a forza, i disoccupati minacciosi, gli operai delle fabbriche in lotta e le cariche sempre più violente della polizia. Dall’angolo buio del cervello una rabbia scura mi prendeva alla gola, ma imparavo a filtrarla con la sapienza di chi distilla liquori.

Maturavano scelte.
Lo sentivo nell’aria, me lo dicevano i poveracci che chiamavo “compagni” nel fuoco di uno scontro che bruciava, quando presi a seguire i cortei senza badare al perché. Era un mondo nuovo, che la cronaca tradiva: ci aspettavano al varco ed erano i candelotti tirati dai moschetti a provocare gli scontri. L’umanità dolente dei disoccupati espulsi dal processo produttivo, che lottavano per non scivolare fuori dalla società civile, il dramma di sfollati e senzatetto in guerra tra loro per le case popolari, le manifestazioni degli studenti senza scuola, degli operai serrati in file strette e fitte per difendere il posto di lavoro erano un magma incandescente nel quale mi tuffavo gridando slogan, reggendo striscioni, respingendo l’urto sempre più cieco della celere e destreggiandomi abilmente tra cariche e gipponi.
Nuovi “compagni”, legami stretti ed intese sperimentate in piazza mi accoglievano alle assemblee di comitati che sorgevano qua e là, al centro come in periferia. Nuove riflessioni mi agitavano il sonno e diventavo sempre più estraneo alla prudenza delle discussioni serali al Circolo “Curiel”, dove i giovani comunisti prendevano a misurare, senza averne ancora ben chiare le dimensioni, la distanza che separava teoria e pratica della politica A cinquant’anni dalla rivoluzione sovietica, sulla tessera della Federazione giovanile del Pci, Lenin levava il pugno e ricordava: “1917-1967: sulla via dell’ottobre cinquant’anni fatti da noi”.


Di cinquant’anni non potevo rispondere – sebbene carte ingiallite che cominciavo a scovare in archivio inducevano al sospetto – ma degli ultimi ero certo: non avevamo nulla a che vedere con Lenin. E non ero il solo a pensarlo. Sembrava un ritornello: facciamo brillantemente opposizione e opponiamo il progresso alla conservazione. Non altro. Anni dopo, quando il futuro rivoluzionario sarebbe diventato il presente della conservazione, da destra e da sinistra, gli intellettuali con scarpetta e pipa, pantaloni di velluto e sigarillo, le femministe pentite mascolinizzate, gli esperti di scienza dell’immagine, i signori della sciatteria elegante e della erre moscia, i professionisti del gergo rivoluzionario possibilista, gli esploratori della terra di nessuno situata tra potere, opposizione e opportunismo, incantandoci con le false “memorie”, le militanze spericolate e le pacificazione obbligate, ci avrebbero spiegato che Lenin e Hitler formavano due rovesci d’una stessa medaglia e che alla fine avevano perfettamente ragione i politici liberali del cordone sanitario e gli economisti del libero mercato: il capitale non ha alternative.
Ce l’avrebbero spiegato da cattedre e giornali antichi compagni e notissimi mazzieri. Quando il futuro diventa presente, il passato non conta e come negarlo? Solo chi non pensa non cambia mai idea.

Uscito su “Fuoriregistro” l’8 marzo 2003

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Il tempo e lo spazio hanno valore davvero soggettivo. Accade così che un episodio marginale, il sospiro di un istante venuto su dal profondo, là dove l’esistenza può sembrare periferia, lasci talvolta il graffio che ci scava dentro per il resto dei nostri giorni. Anni interi, vissuti nei luoghi centrali e canonici della nostra vita, possono invece passare – e di fatto talvolta passano – scivolando su di noi come acqua su roccia impermeabile, senza saziare alcuna sete: servono tutt’al più a scavare, entro la resistenza gelosa di un sentimento di libertà che inconsciamente si oppone, i lunghi e profondi canali destinati a produrre rotture dolorose e meandri bui. Gli abissi nei quali ci perdiamo tante volte quando ci guardiamo dentro, a mano a mano che invecchiamo. Di tutto questo non avevo cognizione – e non potevo averne – a diciassette anni, allorché un improvviso bisogno di guardarmi dentro mi indusse a tentare il primo, precoce bilancio della mia vita e vidi profilarsi all’orizzonte un crocevia confuso in una nebbia putrescente che mi sembrò subito mortale. Così, nonostante i molti anni trascorsi, mi pare di ricordare oggi che leggo la mia storia sulle pagine indurite della memoria e, mentre il tempo trascorso sfronda il superfluo, nel rapido rincorrersi e sorpassarsi dei giorni, riconosco il ripetuto dissolversi del presente invecchiato e ridotto a passato e l’illusione tenace che il futuro verrà.
Illusione – ora so – perché tutto il futuro di un uomo abortisce sulla soglia impalpabile del tramonto di un giorno che termina, proteso verso l’alba di un suo ignoto fratello che nasce, ancora nasce, e non ha scampo: è l’ennesimo presente che diverrà passato aspettando il futuro.
Così accade sempre.
Tutto il futuro di un uomo resta fuori del tempo e la condanna è spietata: vive in potenza e non si fa mai atto. Mai. Nemmeno una volta.
Non si vive il futuro e tutt’al più si sogna. Ma nessuno scrive la storia dei sogni e il sogno non ha tempo.
Così, ripeto, mi pare che sia stato, oggi che racconto, perché in qualche modo ho appreso, in qualche modo ora so, che se talvolta, camminando lungo il tempo che ti è dato, ti pare di vedere non lontano da te uno snodo cruciale della tua vicenda, il crocevia su cui forse la tua vita può mutare d’indirizzo, il peso del passato fa velo all’intuizione e tu ti perdi: il futuro non c’è. Non lo trovi, non sai come si viva e se pure, a furia di cercarlo, lo senti a portata di mano, fai per acciuffarlo, t’affanni e credi di averlo in pugno, è un fantasma: svanisce o conduce per l’ennesima volta la tua caravella nell’America che non volevi. Come fossi Colombo, nella vita superi navigando le tue colonne d’Ercole sempre e soltanto per cercare l’India. E l’India non c’è mai, così che tutto è vano: muti inutilmente la rotta, inutilmente torni indietro e inutilmente cerchi nell’Oceano tutto uguale. Perdi tempo: il futuro è già passato. Ancora e sempre.
La vita va per altre vie. Ha bussole insondabili e spesso i fatti si succedono tra loro senza alcun rispetto della logica e delle regole del gioco.
Oggi lo so: la logica è una menzogna. Per questo metto insieme i tasselli scompaginati della mia vita – e le parole che la narrano – senza cercare il filo rosso delle successioni cronologiche. Se la logica è una menzogna, l’ordine cronologico è il succo della pazzia. Intorno ai diciassette anni, ma poteva accadere prima e dopo, quando la decisione di guardarmi dentro annunziò il mio primo faticoso bilancio, al tirar delle somme, ciò che davvero cercavo era di fare una foto al mio futuro. Ne ricavai ovviamente un’immagine sfocata, eppure ancora oggi che i decenni trascorsi stanno a guardia delle antiche emozioni, indicibile mi pare che sia stata la subitanea ripugnanza che mi procurò. Inspiegata e confusa, devo dire, ma ripugnanza.
Indiscutibilmente.
Quella sola immagine sfocata e malferma, quell’idea vaga e tuttavia sconvolgente che ne derivò mi convinse definitivamente. Indietro non sarei tornato. Decisi: odiavo il mio futuro, odiavo la vita preparata per me senza ch’io consentissi.
La odiavo. Una vita che del mio consenso non aveva nemmeno bisogno: come amarla o accettarla?
Mi preparai così ad una terribile e disperata battaglia: nessun cambiamento potevo sperare senza aver combattuto feroci e decisive battaglie. Era evidente. La foto sbiadita mostrava nitidamente tutto ciò che bastava: da anni mi trovavo per caso tra la gente, con la vita programmata secondo misure uniformi nel tempo e nello spazio. La famiglia, sebbene messa veramente male, la gerarchia e l’ubbidienza erano stati articoli di fede nel cuore dell’infanzia e le domande, più volte ripetute, non avevano avuto mai risposta. Su tre dogmi si erano a poco a poco inseriti postulati e corollari. Nessuna spiegazione: la verità è di per sé evidente e non si discute, sicché con le preghiere la bibbia laica aveva dettato anche le sue leggi. Ero in una gabbia invisibile fatta di obblighi non detti: ci aspettiamo da te. Tutto qui. Nessun comando, è vero, ma una pressione schiacciante. Totalitaria. Se deludi tradisci.
Il senso di colpa s’era fatto strada opprimente, a mano a mano che dentro maturavano rifiuti. L’autorità di mio padre era solo prepotenza, l’amore per mia madre un’atroce impotenza.
Mia madre.
Il progressivo spegnersi della sua dolcezza faceva strada ad un rancore irascibile e si annunziava a tratti in un’ombra tagliente negli azzurri occhi lucenti un po’ più stretti ogni giorno, un po’ più tesi – ed uno più piccolo dell’altro, vivo di vita propria in disaccordo con l’altro, come rispondesse ai comandi d’un altro cervello – in un inconsulto ed incomprensibile adirarsi che avrei presto imparato a conoscere. Nelle sue parole, nei suoi movimenti, persino nei suoi silenzi non sentivo più l’antica richiesta di aiuto – o di complicità, come pure era stato talvolta – ma irrequieta separazione, resa senza condizione a nemici ignoti nati entro il petto ancora florido che seguiva un moto del respiro anomalo, entro la testa ancora bionda coi capelli naturalmente ondulati e però più indocili, nemici ignoti, gnomi insinuanti, invisibili erinni ed una folla oscena di comparse laide che le urlavano ossessive le trame d’un inganno cui prestava un ascolto oraaddolorato, ora compiaciuto che la faceva annuire, come per qualcosa giunta a conferma di una ipotesi che infine si verifica esatta.
Tutto fu repentino e brutale, tutto volle dire chiusura. Persi in quei giorni la parte di sorriso che guarda al sole, e non l’ho ritrovata.
Da tempo mi portavo dentro il malessere della matematica alle ultime ore. Le ore in cui mi trinceravo all’ultimo banco, sbaraccando dal primo con la morte nel cuore. Per vincere la disperazione, interrompevo il contatto col mondo e mi perdevo tra accenti e sillabe di endecasillabi senza rima e vi stringevo puntigliosamente i candidi soles perduti di Catullo, che avevo eletto in quei mesi – ed ancora è con me – a mio antenato diretto e a nume tutelare di un cammino che non conoscevo. Quel giorno era andata peggio del solito. M’ero cercato apposta, dopo Fabullo “et omnibus cachinnis”, Catullo sprezzante con Cesare – posso ancora citarlo a memoria e non sbagliare il distico che mi affascinava, quel nil nimium studio, Caesar tibi velle placere, nec scire utrum sis albus at ater homo – e mi studiavo di trovare il ritmo più giusto e sorridevo persino, immaginando Cesare furioso, quando la mano tozza e pelosa del professore di matematica si posò sopra il foglio orgoglioso e fu la fine.
Lesse le prime parole ad alta voce e rinunziò a tradurre. Portò la mano melodrammatica alla fronte, usò toni comprensivi per la mia “discutibile abitudine a interessarmi di latino nelle ore di matematica”, ma, sostenne, “non potevo non essere d’accordo lui”: era l’ennesima prova di un mio “errore di valutazione nell’aver voluto frequentare il suo liceo scientifico”. Si fermò, attese una reazione che non venne, poi mi informò che tutti i miei compagni si stavano preoccupando di capire se “le leggi che governano la sfera si applicano anche al punto”. Passò infine all’attacco e domandò seccamente:
– Cosa pensa in proposito il suo Orazio?
I futuri scienziati della borghesia misero sul viso impaurito la maschera della neutralità: non intendevano immischiarsi, e pensai fosse giusto. Il silenzio che seguì fu innaturale. Il professore aveva ancora in mano il foglietto fitto dei miei tentativi di traduzione ed il prezioso e squinternato Stampini, acquistato per tre soldi da un ignaro robivecchi. Il colletto della camicia floscio e spiegazzato, la cravatta filiforme dal nodo appena abbozzato, gli occhiali doppi, i pochi capelli tirati all’indietro e il senso di sporcizia che ispirava il suo corpo tozzo mi si paravano davanti ostili e scostanti. Valutai gelidamente se valesse la pena di rispondere. Decisi che era giunto il momento di parlare e mi affidai all’istinto rabbioso che montava da dentro. Guardandolo, mi sembrò di vedere mio padre – era andata così dalla prima volta – e quel foglio che mi apparteneva portò il sangue alla testa.
– Catullo – cominciai lentamente, togliendogli dalle mani prima il foglio poi il libro – Catullo in tutti i licei, tranne che nel suo. Il punto diceva? Non ha dimensioni – e parlavo ormai come a me stesso – Come lei – sillabai – non ha dimensioni. Direi di no, direi che le leggi che si applicano alla sfera non valgono per il punto. Sarà certamente così e si potrà certamente sostenere anche il contrario. Lei non mi fa mai una domanda che prevede una sola risposta. Ce ne sono almeno due, sempre. Io ne trovo una e lei tira fuori l’altra. Orazio però non è Catullo e le cose stanno così: lei è un ignorante e un prepotente. Come uomo, professore, lei non vale nulla. Esattamente nulla.
Mi chiese di seguirlo in presidenza.
Lo spostai lentamente con la mano.
Arretrò senza contrastarmi, mentre mi avviavo alla porta. Uscii senza voltarmi e non mi fermò. Ora balbettava, consigliandomi di non farmi trovare in classe nelle sue ore.
– Non ci sarò – replicai – stia tranquillo.
Decisi per strada: basta con la scuola.
Non potevo certo saperlo, ma poche ore dopo avrei trascinato mia madre in manicomio.
Negli anni che sono seguiti, ho provato mille volte a ripercorrere la strada che feci tornando a casa quel giorno. Non ci sono mai riuscito.

Uscito su “Fuoriregistro” il 20 maggio del 2003

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