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Archive for gennaio 2009

Abbozzo di morte

Percorrere la sera,
cullato
sul filo invisibile del tempo,
le stagioni della tua vita
e la nenia sempre uguale
ritrovare
che t’accoglie sovente
nel tuo peregrino girovagare
di ora in ora come di paese in paese,
sempre straniero e spesso stanco.
Ritrovarsi infine,
disperdendosi
nell’abbozzo di morte
dell’ottobre pallido e sereno.
Stagione stupenda,
declino senza strappi
e naturale vero.
Così vedrai ancora qualche volta
il tempo innanzi a te.
Ma sul filo invisibile del tempo,
su le stagioni del mondo,
un’onda mai queta di lamenti
nel petto ti si frange
caliginosa densa
e in un istante poi tutto è silenzio.

Da Giuseppe Aragno, E però scrive, Intra Moenia, Napoli, 2003, p. 7

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Si può essere irrequieti, si possono avere idee stravaganti, calpestare le regole morali e mettersene al di fuori, senza provocare necessariamente la reazione del potere costituito, senza dover per questo pagare prezzi intollerabili. Ciò che davvero non è consentito, ciò che produce l’immediata repressione è il rifiuto di riconoscere il potere e le sue manifestazioni.
Violate la regola e sarete perdonati. Dubitate della sua verità e sarete stritolati.
Che le cose stiano così davvero e senza rimedio, l’ho appreso con gli anni, in un futuro che è diventato passato senza che nemmeno me ne accorgessi. Ora, in questo scorcio di presente che annunzia la fine accentuando uno squilibrio – più consumo scampoli di presente, più vedo crescere il passato e accorciarsi il futuro – in questo presente al tramonto, ancora non so trarne nessuna lezione.
In realtà so bene ed ignoro.
Se me lo chiedo lo so, lo so bene che chi non ricorre alla violazione programmata, allo strappo concordato, finisce travolto.
So bene. Sta di fatto, però, che non ho mai programmato una violazione, non ho mai fatto ricorso a strappi concordati e mi meraviglio d’una cosa sola: di non essere stato ancora travolto. Non escludo, tuttavia, che la valanga sia giunta e mi abbia schiacciato senza che nemmeno vi abbia fatto caso. Non è poi così strano: non c’era gran che da schiacciare, non si trattava di quei fallimenti che fanno scalpore, ed io stesso non saprei cosa mai abbia posseduto o possegga che si possa stritolare facendo un qualche rumore.
Si può perdere poco quando non si ha che la vita e c’è un mistero irrisolto giusto in mezzo tra la morte che annienta e quello che si spegne. Si muore dopo aver vissuto. E’ così che pensiamo e sembra razionale e sensato. In verità, non sappiamo bene cosa sia la vita, quali confini separino ciò che pensiamo da ciò che siamo, se pure infine siamo. In fondo nessuno può seriamente affermare di esistere, e soprattutto di esistere così come si percepisce, sicché nessuno potrà mai davvero riconoscere fino in fondo la morte di se stesso.
Più volte nell’altalena su cui ho visto oscillare in un misterioso andirivieni l’insolubile intreccio di presente, passato e futuro, il groviglio del tempo che corre tra generazioni – lo chiamiamo vita solo per una evidente convenzione – più volte ho incontrato dei morti che supponevano d’essere vivi ed uomini densi di palpiti disposti a certificare la fatalità della propria morte avvenuta. Del tutto inesplorata mi è parsa sempre nella confusione degli eventi, nel caos delle ore e dei giorni, la dimensione concreta della vita. In fondo sono esistito nell’unico modo che mi è parso possibile: sulla soglia d’una immensa platea, tra un palcoscenico illuminato e la strada fuori del teatro. Sul confine tra sogno e realtà. E non ho mai capito quale fosse la direzione giusta da prendere per avviarsi verso una vita vera: andare verso la finzione del teatro o varcare la porta che conduce alla strada. Un impasse micidiale. Ho vissuto di idee, inseguendo ideali, ed in fondo non ho vissuto, ma recitato come un guitto narcisista sulle tavole d’un palcoscenico, scambiando la finzione per la realtà, oppure ho lasciato alle spalle la realtà ogni volta che, superata la soglia, mi sono mischiato alla polvere, al sudore, alla sporcizia inquinata eppure piena di materia della strada? Dov’era – anzi dov’è – il sogno e dove la verità dei fatti? L’ho chiesto mille volte ai documenti d’archivio negli interminabili percorsi della ricerca e non ho trovato risposta.
Cosa fu vero di ciò che ricordo e rifiuto, cosa di ciò che ho visto e cancellato in una notte lontana della mia infanzia, iniziata con un balzo nel letto, una corsa nella piazza del duomo, e su verso via dell’Anticaglia? Cosa è vero, il freddo della notte, il battito del cuore impazzito, il cono luminoso dei fanali oscillanti nel vento, la mano intorpidita dalla stretta convulsa di mia madre scarmigliata e il suo sguardo intermittente che devastava le deboli certezze dell’infanzia, o le immagini sfocate emerse d’un tratto a ferire i occhi impreparati mentre un velo calava a difesa sulla debole struttura della memoria dopo la scura occhiaia dell’arco romano? Cosa è vera, l’illusoria e buia serenità del letto o la paura incalzante della strada illuminata, percorsa al passo cadenzato dei soldati? I sogni interrotti o la vergogna incredula? Quale la donna vera tra le due nemiche che colpivano a morte e senza alcun preavviso la mia innocenza desolata? Quale il mio vero padre, quello consueto e indecifrabile eppure rassicurante o l’altro, incomprensibile nell’intrico di corpi e nella furia della ostentata indifferenza?. Dove la verità tra quei due mondi separati dalla luce spenta d’un arco buio?
Non so. Mezzo secolo dopo, trovo che sia là, comunque, e mi ritraggo inorridito, l’origine profonda d’uno scontro insanabile, l’impossibile coesistenza di due mondi inconciliabili chiusi ferocemente nell’intricato labirinto della mia testa confusa. Due mondi, uno immaginato, amato e perso nel buio d’una notte di mezzo secolo fa, l’altro scoperto d’un tratto e subito avvolto nella nebbia del rifiuto, rigettato oltre la coscienza, ma mai vinto e domato, mai spento del tutto e sempre capace di riemergere, sempre pronto a smentirmi: padre non del dubbio fecondo, ma della incertezza tagliente, dei rifiuti perenni e dell’ansia suscitata a difesa, eretta a sistema di protezione di fronte agli incubi riemergenti. Ecco la mia paranoia, ecco la mia intransigenza, la fuga nella fede laica, nella fede che non si viola, nel patto che non si rompe. Ecco soprattutto lo scontro con la vita, la necessità di non stare al gioco e di dichiararlo senza mezze misure, non per violarlo, ma per delegittimarlo. Ecco l’istintiva collocazione fuori dal coro: non so quale sia la maschera e quale il volto, ma penso che ogni volto abbia la sua maschera, sicché rifiuto in solido la maschera ed il volto.
Con questo groviglio nell’animo mi avviai al fatidico terzo anno di liceo scientifico e ad una militanza politica che non poteva che essere estrema. Alle due ali del centro, si giungeva in quegli anni ai due colori opposti dell’opposizione prendendo due direzioni radicalmente diverse: il nero della destra, il rosso della sinistra.
Io non avevo scelta. Ero di sinistra per ragioni cromosomiche e approdai al PCI con il furore iconoclasta che mi portavo dentro e preannunciava tempeste. Ma questo allora non potevo sentirlo dentro. In quanto alla scuola, le mie idee politiche erano un pessimo biglietto da visita.
Pessimo anche e soprattutto perché buona regola era non avere idee politiche.
Fin dove giunge la mia memoria, politica e scuola sono state parole totalmente incompatibili. A parte eccezioni rarissime, infatti, la politica si è sempre identificata con il banale esercizio del potere – quello dei gruppi dirigenti e delle classi sociali di cui sono espressione – e la formazione con l’esercizio dell’intelligenza critica. La scuola, che in quanto istituzione tende a fare volentieri a meno dell’intelligenza critica è stata in ogni tempo il luogo privilegiato dello scontro tra conservazione del modello di società predominante e le istanze di cambiamento
Emblematica per la dimensione tragica della vicenda – e per certi aspetti metafora “classica” dell’irriducibile conflitto tra natura formativa, e quindi liberatoria, dell’insegnamento e scopi educativi e prescrittivi dell’istituzione scuola, la vicenda di Socrate, cui la civilissima Grecia riserva la cicuta quando si avvede del potenziale eversivo del suo “non insegnamento”: non ho verità da insegnare.
Che è come dire: non credete alle verità che vi insegnano.
Ambiguo strumento di normalizzazione e di integrazione, in una società modellata sui bisogni delle classi dominanti, la scuola dello Stato, quella che pure lascia al palo di gran lunga ogni altro tipo di agenzia formativa pubblica e privata, negli anni del mio liceo era ridotta ad un compromesso di profilo bassissimo. Era una miserabile pantomima: il luogo della formazione ridotto al deserto dell’educazione. In quel deserto, mentre crescevo rapidamente e sentivo con crescente fastidio il peso di regole che non riconoscevo, conobbi la prime violentissime forme di repressione: la bocciatura d’un professore fascista, la manganellata vigliacca d’un celerino fascista e l’atrocità del manicomio, che tolse a mia madre ogni diritto come si fa con i peggiori criminali.
Iniziarono anni di guerra.

Uscito su “Fuoriregistro” il 16 gennaio 2003

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Se affermo che la Repubblica garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, non esiste alcun motivo che giustifichi una disparità di trattamento tra ragazzi italiani e figli di immigrati. Tradotto in termini costituzionali, questo vuol dire che non c’è governo che possa imporre a un insegnante di entrare in una classe composta ope legis da soli bambini stranieri o di accettarne una formata solo da italiani perché ne sono stati esclusi i figli di immigrati. Una legge che sancisce discriminazioni di questa natura è semplicemente – e tragicamente – razzista e ripugna alla mia coscienza di uomo libero e civile.

Il Presidente Napoletano si offende se l’on. Di Pietro gli fa notare che ci sono provvedimenti che non andrebbero sottoscritti. Eppure ci sono.
Di Pietro ha ragione: non vanno firmati, a costo di dimettersi.
Un governo come quello attualmente guidato da Berlusconi, che approva a colpi di maggioranza leggi di questo genere, non viola solo palesemente uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione, ma fa carta straccia di tutti gli articoli che riguardano la pari dignità sociale, l’uguaglianza fra le razze, le lingue, le religioni, il dovere dello Stato di educare, istruire e formare i cittadini gratuitamente. Napolitano lo sa certamente meglio di me, ma Salvemini l’ha insegnato a tutti: “La prova migliore del valore di una libera Costituzione è la misura in cui provvede alla protezione delle minoranze“.
Ci sono verità che vanno dette e nessuno può trincerarsi dietro la “forma” quando in discussione è la tenuta democratica del Paese. Questo governo ignora volutamente – e apertamente disprezza – lo spirito della carta Costituzionale e i vincoli che essa pone al potere esecutivo.

Nonostante l’accorato appello venuto dal mondo della scuola, Napolitano ha ritenuto di dover firmare senza battere ciglio la legge Gelmini che nell’impianto, nella filosofia che l’ispira, negli effetti concreti che produce, cancella brutalmente non solo l’articolo nove di quella Costituzione di cui il Presidente della Repubblica è supremo garante, impedendo lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica, ma ignora i principi che ispirano gli articoli 33 e 34: quelli che disegnano in maniera vincolante il sistema formativo del Paese.
A Napoli, città natale di Giorgio Napolitano, nel corso di un celebre processo politico costruito ad arte a fine Ottocento con l’intento di equiparare il dissenso alla sovversione e imbavagliare così ogni tipo di opposizione, Giovanni Bovio, principe del foro e maestro di democrazia, in modi forse meno impulsivi e con parole più raffinate di quelle usate dall’onorevole Di Pietro, invano ricordò ai giudici il dovere dell’imparzialità e della neutralità politica. Quei magistrati non vollero ascoltarlo e aprirono così la via a Crispi e ad una delle pagine più buie della nostra storia. Ai lavoratori imputati, cui la reazione e la condizione di imputati negavano diritto di parola, Bovio, seppe e volle dar voce con accenti e toni che vale la pena riprendere:

Non vi neghiamo i tributi e la difesa – dissero per bocca di Bovio a chi li governava i pionieri di quel socialismo di cui Napolitano è figlio – e neppure il lavoro vi neghiamo, ma solo che rimuoviate gli ostacoli che fanno il lavoro impossibile o sterile per noi. E giacché di là dai confini vivono lavoratori come noi, vi chiediamo di non ucciderli: vogliamo la pace. Questo vi chiediamo, e non ci rispondete coi fucili nelle mani dei nostri figli e con aspre sentenze di giudici, pagati col prezzo degli ultimi monili levati alle nostre donne. I chierici ci fecero dubitare di Dio; i signori feudali ci fecero dubitare di noi stessi, se uomini fossimo o animali; la borghesia ci fa dubitare della patria, da che ci ha fatti stranieri sulle terre nostre; non ci fate, voi giudici, non ci fate, per queste braccia scarne, per carità di voi stessi e per quel pudore che è l’ultimo custode delle società umane, non ci fate dubitare della giustizia. Che ci resterebbe? Temiamo di domandarlo a noi stessi: di noi temiamo, non della sentenza. “Io fui nato ad esser cavaliere e tu mi hai fatto malfattore, ed ora ti fai giudice!”. Così gridò il figlio a Nicolò terzo estense, provocatore e parricida. E noi chiediamo a quelli che ci chiamano fratelli: noi fummo nati al lavoro e deh, non fate noi delinquenti e voi giudici!.

I nostri soldati, sono in armi fuori confine al fianco di popoli invasori. La scuola, che i nostri padri vollero statale, è privatizzata; i magistrati che perseguono la corruzione politica rischiano la carriera, gli insegnanti che hanno il compito di formare in piena indipendenza i nostri giovani rischiano di essere sottoposti a un padrone in una scelta di privatizzazione che ha natura politica e stravolge la lettera e lo spirito della nostra Costituzione. Come non bastasse, c’è ora chi propone l’istituzione di albi regionali per i professori, per costringerli ad insegnare solo nella regione di origine. Una frattura pericolosa si apre tra potere e regole, tra politica e valori repubblicani. Una frattura che non consente scelte: o si ricompone – e solo il Presidente della Repubblica ha l’autorità per avviare il processo – o, costi quel che costi, non ci resta che opporre tutti i no che detta la coscienza.

Uscito su “Fuoriregistro” il 30 gennaio 2009

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Il paese, a poco più di trecento metri sul mare, su uno spuntone di roccia tra Salerno e Policastro, si raccoglie indolente, e non rincorre certo la globalizzazione. Sul depliant della pro loco tracce di cavalieri e di Angioini, con un Guido d’Albert che vi giunse al seguito di Carlo I, cilen[1]e di passaggi da un padrone all’altro: i Sanseverino, la badia di Cava, i d’Alemagna che l’acquistarono – non è chiaro se per fatto d’armi – ma lo vendettero in breve ai principi Capano, che lo tennero a lungo, sino a quando si estinsero alla fine del secolo dei lumi, del quale la pro loco non dice, perché non pare sia passato mai per questi monti.
Feudo fino al 1806, quando la tardiva modernità della politica – ci sono terre in cui il ritardo è norma – impose al borgo l’eversione della feudalità, il paese, con sua la gente e le case incantate tra il verde, quasi non si accorse del cambiamento e non s’è mai del tutto scosso da una sua inspiegata sospensione del tempo.
La sentiva Sebastiano Neghelli questa tregua prolungata, persino nel motore dell’auto, e gli pareva addirittura ristagno, mentre saliva su per gli ultimi tornanti che lo conducevano in alto. Quando fu nell’abitato dalle vie domenicali strette e solitarie, Sebastiano si perse: la storia di un’eterna nobiltà feudale gli si era parata davanti e aveva tempi suoi lunghi e sfasati. Con la spia della benzina al rosso non aveva avuto dubbi: s’era diretto nella piazza che ospitava il Municipio.
L’uomo che se ne stava seduto su un muretto basso, davanti alla massiccia torre quadrangolare ch’era stato palazzo Capano, si mostrò sinceramente stupito:
E voi, la benzina la venite a cercare proprio qui da noi? Ma non c’è un distributore. Tornate indietro, scendete verso il mare, giù in pianura, poi svoltate a destra, salite verso nord e lì, se non ha chiuso, trovate un benzinaio.
– Se non mi fermo prima…
mormorò Sebastiano sfiduciato, mentre scrutava a fondo l’uomo che gli parlava.
Né giovane, né vecchio, tra i quaranta e i cinquanta, stempiato, il naso adunco e sporgente sul volto pallido e sottile, intristito dal nero di una barba doppia e fitta, nonostante l’accurata rasatura, la statura media, appesantita da un’eccessiva robustezza delle spalle e dalla pancia leggermente sporgente, la camicia di buona qualità stirata male e i pantaloni marrone di cotone sgualciti: l’uomo sembrava spento.
– Spento, pensò infatti meccanicamente Sebastiano, ma lo tormentava troppo il pensiero della benzina, per curarsi dell’uomo. Fu perciò istintivo e il tono della voce ebbe una vena inattesa di disperazione:
Non ci arriverò mai dal vostro benzinaio. Sono ormai completamente a secco.
Stringendo lievemente gli occhi, l’uomo accentuò la ruga profonda e verticale che apriva un solco tra le sopracciglia, si levò stancamente dal muretto, prese Sebastiano per un braccio, come fossero amici da sempre, e lo tranquillizzò:
Non state a preoccuparvi – gli disse sorridendo – che la benzina posso darvela io. A Rocco Capano non bisogna chiedere. Faccio la scorta, pochi litri per l’emergenza, ma non so mai che farne. Resto sempre in paese.
Sebastiano si sentì sollevato. Non gli andava di restare fra i monti quella sera.
Ve ne sarei molto grato.
Rocco Capano mise l’indice dritto davanti al naso, per dirgli di tacere, e sussurrò:
– Non mi costa niente.
I due uomini restarono così, l’uno di fronte all’altro. Sebastiano alto, atletico abbronzato, Rocco pallido, pesante e un poco curvo. nassyr1Il tramonto era triste: troppe ombre nel rosso, ma un metro dietro Rocco c’era ancora quanta luce bastava ad attirare l’attenzione di Sebastiano, finalmente disteso, su una sorta di sacello addossato alla parete dov’era la torre. Ricordava caduti: tutti Capano e tutti misteriosamente Rocco.
Sebastiano provò d’un tratto un tuffo al cuore.
– Vostri parenti? domandò inquieto, indicando la lapide di marmo. E non seppe chiedere: ma come, tutti Rocco?
– Qui siamo tutti Capano – replicò Rocco senza nemmeno girarsi – e dove ci hanno portato la fame o l’illusione di cambiare il mondo, là siamo andati a morire.

Il sole Sebastiano l’aveva ormai alle spalle, ma un sole così caldo che gli imperlò la fronte.
– Un Capano è morto per Garibaldi – proseguiva Rocco – uno rimase ad Adua, un altro l’abbiamo perso in Libia, qualcuno è finito sul Carso, due fascisti sono sepolti in Etiopia e in Spagna e un ragazzo di vent’anni s’è fermato in Russia.
– Ma quel palazzo, Capano, la torre, dico, a qualcuno di questi morti sarà appartenuto…

Sebastiano non sapeva più cosa lo tenesse in quella piazza. Eppure qualcosa lo inchiodava lì per terra, davanti a quel Rocco che aveva alle spalle in fila un Rocco, un Rocco e ancora e ancora Rocco.
I Capano – rispondeva intanto l’uomo della benzina – sono stati principi e poveri e il palazzo è ora del Comune. I principi Capano non esistono più. Sono rimasti i poveri, i soldati di ventura. Di quelli che non torneranno dalle guerre che faremo aggiungerò il nome sotto quello degli altri. Io segno i morti sul marmo. Uno che lo faccia serve. Quando c’è una guerra, qui da questa torre, qualcuno se ne va. Alla partenza la scena è sempre uguale, la conosco a memoria: ci sono le bandiere e il mondo cambierà. Quando tutto finisce, aggiungo un nome sul marmo e tutto è come prima. E’ da poco che ne ho messo un altro, se mi scosto lo potete vedere…
Si fece da parte e lesse ad alta voce:
Rocco Capano…
– Caduto a Nassirya
, proseguì Sebastiano, che aveva dentro un sentimento d’angoscia senza fine.
Qui nessuno è mai venuto a dire grazie – concluse Rocco . Troppi tornanti. Finisce sempre a tutti la benzina.
In mano gli era apparsa, come per incanto, una tanica.
Furono gesti meccanici: tirare fuori i soldi dalla tasca, fare cenno che no, che non voleva. Salutarsi davanti al palazzo diventato una sagoma scura nella piazza deserta.
Entrando in macchina Sebastiano si strinse nella giacca:
E’ strano. E’ fine agosto e sembra faccia d’improvviso freddo…
Parlando, con un gesto furtivo e quasi inconsapevole, tolse dal taschino della giacca il verde fazzoletto di “leghista“, poi ruppe sgommando il cerchio dell’ansia e non sentì ciò che Rocco gli diceva:
Io qui non ho un calendario.

Uscito su “Fuoriregistro” il 16 ottobre 2004

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Quando ci misi piede – nel 1960 se ricordo bene – il “Vincenzo Cuoco” era il primo ed unico liceo scientifico di Napoli.
Achille Lauro, giovane industriale nelle corporazioni fasciste, amico di Ciano, finto “lupo di mare”, che aveva fatto fortuna assicurandosi i favori del regime e il monopolio dei traffici con le colonie, tirato fuori da un campo di prigionia e rimesso in circolo dagli alleati, era il campione della città delle “Quattro Giornate”, quella che aveva messo in fuga i nazisti e poi, stremata dalla fame e accecata dall’ignoranza, s’era ridotta a vendere i suoi voti ai pacchi di pasta ed alle mille lire del “comandante”.
Mio padre, con sottili distinguo tra monarchici e fascisti, l’aveva votato gratis il vecchio volpone e si adirò, ne fece un dramma, quando la DC di Fanfani gli cominciò a scavare la fossa sotto i piedi. Fanfani, uomo di chiesa e di potere che a Napoli diede alla DC la veste dell’arroganza. Bastava avere l’occhio sveglio e lo capivi: eravamo una colonia. La legge nei vicoli cedeva il passo al potere e il potere si apriva alla camorra; fuori dei vicoli i colossi del nord dettavano le regole. Dove non c’era miseria, c’era subordinazione e dove mancavano l’una a l’altra c’era la corruzione. Le medaglie d’oro alla Resistenza finivano intanto nella pattumiera: a Napoli, in tribunale, novantasette marittimi in lotta per il lavoro comparivano in manette davanti ai giudici accusati di adunata sediziosa; il fascismo tornava a mostrarsi alla luce del sole e il Movimento Sociale, il partito di un vecchio arnese di Salò, Giorgio Almirante, otteneva di tenere a Genova il congresso delle vecchie glorie fasciste. Certo, il congresso non si tenne e la CGIL mandò a casa Tambroni che l’aveva consentito; certo, con la sua acuta sensibilità Eduardo De Filippo – il mito che mia madre aveva un giorno incrociato senza cogliere al volo la fortuna che la baciava – s’era oscurato nel viso e contro Tambroni aveva dettato il suo manifesto: “in Italia riappare il volto orrido del fascismo”. Ma gli anarchici che anni dopo avrei studiato in archivio, usciti dalle galere e dalle isole popolate dal duce, rimanevano sorvegliati dalla polizia della repubblica – quella dei Fasci che aveva cambiato padrone – e i rapporti si accumulavano nei fascicoli personali dei “politici”, eredità di Crispi, Giolitti, Salandra e compagni, consegnata agli squadristi diventati uomini di governo e – lo avrei scoperto con raccapriccio in un futuro che non sospettavo ed è ormai il mio tempo passato, ma non so se passato sia del tutto – aggiornati e arricchiti dai magistrati della repubblica nata dalla Resistenza. La repubblica che anche gli anarchici, come ogni altra specie di “sovversivi” avevano contribuito a far nascere regalandole il proprio sangue in Spagna ed in Italia. Gli anarchici ingiuriati da guitti momentaneamente usciti dalla divisa, che hanno sfilato a Firenze per un mondo migliore e per questione d’onore.
Quali fascicoli esistono oggi ed in quale nuovo e vergognoso “Casellario Politico Centrale” sono custoditi?
Eduardo non può saperlo, ma l’erede di Almirante è oggi al governo d’un paese senza memoria. Sembra un secolo, ma è storia di ieri. Ora i repubblichini sono più o meno eroi, di partigiani meglio non parlare e la repubblica presidenziale predicata dai reduci di Salò è un cavallo di battaglia della sinistra.
Portai al “Vincenzo Cuoco” la mia intollerabile storia di nipote d’un antifascista, figlio di un ex contrabbandiere, di fede laurina, tornato in salumeria dopo gli anni della borsa nera: uno che aveva in testa un’idea confusa di società, ma si sentiva sempre più soffocare nei panni da chierico che gli imponeva la parrocchia, non sopportava la disciplina familiare in una casa in cui la famiglia era allo sbando ed il padre picchiava la madre, che piangeva, chiedeva vendetta in silenzio e si chiudeva in un mondo popolato da spettri che mettevano paura.
Entrava al liceo un tranquillo ribelle che non sapeva di fascismo e comunismo, ma si preparava alla rivoluzione e non ne aveva coscienza. Varcava il regno della matematica affascinato da Renato Caccioppoli, il genio suicida, che portava l’analisi nella testa e la morte nel cuore.
Il più noto professore di matematica del liceo “Cuoco” aveva insegnato nell’università fascista. Epurato, s’era riciclato non so come e si contentava degli studenti liceali. Riemerso dal buio del passato, senza camicia nera e senza orbace, rimaneva fascista. Gli Achille Lauro nella mia città delle “Quattro Giornate” erano in tanti. Migliaia e nei posti di comando.
Chi li aveva cacciati nelle fogne moriva di fame e vendeva i suoi voti.
Sulla mia strada di studente sottoproletario con animo proletario, sul sogno di mia madre d’un figlio recuperato alla buona borghesia da cui la storia lo aveva strappato, il fascista – le dita perennemente nel naso, gli eterni e inconcludenti accenni a filosofie individuali e l’improperio frequente, astioso e premonitore contro i topi della sinistra – si parò come un’ombra tragica al terzo anno. La mia vita di studente anomalo si fece subito stentata e fu presto stroncata. Fu dapprima fastidio fisico: era sporco fuori com’era sozzo dentro. Così mi pareva e se mi fissavo non ero uno che si defilava. Avevo cercato Caccioppoli, trovai una macchia di grasso vestita da professore, un doppiopetto grigio su di una cravatta arrotolata attorno ad una camicia mai bianca. Uno sguardo bonario che sapeva farsi tagliente e maligno e puntava ad intimorire. Non era importante aver paura. Importante era mostrare di averne.
Non fui mai tra quelli che abbassarono lo sguardo.
Illusioni, comunque, non ci fu tempo di coltivarne. Al primo compito in classe d’italiano apparve, incomprensibile e senza alcun commento, un punto interrogativo che fu il biglietto da visita che il liceo mi consegnò nei primi mesi del tumultuoso autunno nel quale un’intera generazione di ingegneri, matematici e chimici in formazione mi accolse con la diffidenza e la spocchia di figli dei professionisti e dei commercianti arricchiti che sentono a naso l’odore straniero di un intruso.
Punto interrogativo – come capii all’istante – era marchio d’infamia, previsto dai codici orali della tradizione, valutazione inespressa – o se si vuole – non valutazione del mio tema, occhiolino furbo ed ammiccante ritratto da un’invisibile camera oscura sul viso bufalino del professore e stampato sul foglio stupito. Chiesi lumi. Correttamente. Mi spiegò, traducendo, non più complice e furbo, ma severo, perplesso ed accigliato con me che “già sapevo”: non si valuta un tema copiato.
Suscitò, col mio rossore repentino e incontrollabile, la risata collettiva e bruciante dei futuri scienziati.
Divento rosso quando m’imbarazzo e bianco come un cencio quando m’adiro – e odio quel pallore che si presta all’ironia tagliente e alla spiegazione mortificante: il volto di chi ha paura.
Ma paura non era.
Mentre dentro sentivo un improvviso vuoto e il cuore mi balzava in gola, smentire, replicare subito a quello che mi sembrò un’offesa gratuita e premeditata, un’intollerabile manifestazione di feroce autoritarsmo, fu, a livello di percezione conscia, la molla che fece scattare la reazione. Imparai più tardi che ben altro scatta dal profondo se dentro sento un vuoto, il cuore balza in gola e attraverso ignoti percorsi mi ritrovo in un palazzo scuro, oltre l’orbita nera dell’arco del teatro romano, a via Anticaglia. E’ notte d’un tratto, fa freddo e mia madre mi tira per un braccio.
Fui tagliente.
Non firmo mai quello che scrive un altro. Certe cose le pensa solo uno che le ha fatte.
Il pallore sbiancò stavolta il viso bufalino. Anonimo persino nell’ira furibonda che lo invase, mi mise alla porta: vada fuori.
Senza nemmeno un punto eclamativo. Sibilando.
Uscii piano tra le file di banchi, vincitore morale – mi sembrò – sugli attoniti scienziati, che da quel giorno in effetti evitarono lo scontro.
Sostituito il punto interrogativo con voti parsimoniosi, il professore d’italiano seppe chiudere la partita senza ritorsioni e, conquistato dal cognome e dalla storia che lo accompagnava, si riscattò ampiamente leggendo in classe un mio tema premiato con un otto illustrato dalla nobiltà della chiosa: “per la prosa scorrevole e corretta e la notevole autonomia di giudizio“.
Allora non potevo immaginarlo, ma presto quell’attitudine a pensare con la mia testa, resa ancora più “sovversiva” dall’ostinato malcostume di dire quello che pensavo, avrebbe condizionato il futuro che ormai è passato ed ancora condiziona quello che non ho vissuto.
In quanto agli scienziati, i rischi di selezione feroce insiti nel DNA del terribile “primo anno al Cuoco” infransero alcune barriere. Il professore d’italiano decise d’ignorare la mia mano presente in una buona metà dei compiti d’italiano, io rifiutai sdegnosamente ogni ricompensa economica e firmai il mio primo accordo sindacale ottenendo un’adeguata assistenza nelle prove di francese, che un’anziana docente incipriata valutava con criteri strettamente algebrici, sottraendo al voto massimo – il mitico dieci – un punto ad errore – ogni tipo di errore – e conducendoci alla fossa delle Marianne dei numeri negativi, che, in una prova dalle caratteristiche particolarmente tempestose, inchiodò i più pigri tra gli scienziati ad un meno venti che finì nella storia del liceo col nome convenzionale di “gelata d’inverno”.
I due anni che mi separavano dallo scontro col fascista passarono senza lasciare alcun segno. Mio padre, fatalmente perdente nello scontro personale fatto di concetti e ragionamenti complessi, si chiudeva sempre più in uno stanco mondo maschile, fatto di soldi portati a casa, responsabilità evitate, amori extraconiugali senza futuro e ritmi padronali imposti in casa col terrore della forza fisica. Della mia vita di studente conobbe a stento i risultati finali e l’eco di elogi portati in famiglia con enfasi eccessiva da mia madre che aveva imparato vita e miracoli dei miei professori e seguiva con orgoglio insensato i miei lenti progressi, annotando mentalmente ogni particolare, amando chi amavo, disprezzando chi disprezzavo e recitando con impareggiabile perizia formale il ruolo marginale che il liceo di quei tempi assegnava ai genitori. Di due anni ricordo sì e no particolari marginali. Una ragazza bionda e sottile come un giunco che mi condusse all’amore con due sguardi e mi tenne con sé solo per un pomeriggio, e solo per dirmi che voleva un altro e mi aveva accalappiato per ingelosirlo. Lo scontro fisico con tre fascistelli del fronte della gioventù, che volevano imporre alla pattuglia di scienziati in erba una manifestazione nazionalista, e si ritirarono malconci messi in fuga da un gruppo di comunisti tra i quali fui arruolato seduta stante senza batter ciglio, come manovalanza operaia e forza di riserva, che non fu necessario usare.
Feci così le prime prove nella sezione Bertoli, a via Cirillo – quattro passi dal liceo – dove imparai ad usare il ciclostile, intonai per la prima volta canti partigiani e misi insieme con promettente incisività due o tre volantini sui primi, prudenti tentativi di conquistare il riconoscimento per un “rappresentante” di classe, che facesse da portavoce presso i professori. A raccontarlo non si crederebbe, ma i ragazzi che cinque, sei anni dopo avrebbero scosso il paese dalle fondamenta, cominciarono a chiedere un po’ d’ossigeno con grande cortesia. Eppure il respiro era già molto pesante e un’asma angosciante assaliva un po’ tutti – gli scienziati borghesi e il proletario – quando si parlava della vita che facevamo e di quella che sognavamo. Nulla ancora di definito. Ma la sensazione che un altro mondo fosse possibile era palpabile.
Giunsi alla promozione in terza, sperperando tra gennaio e giugno il patrimonio di crediti acquisiti in un anno e mezzo di contestazione ferma, ma prudente, tutta sorrisi ironici e punture di spillo, concetti accennati e parole non dette. La faccenda dei giovani comunisti divenne ben presto di pubblico domino. Provocò una circolare del preside, che ricorse invano ai toni della minaccia, una gelida paternale di alcuni insegnati che non ammisero repliche, poi “note in condotta” seguite da visite sempre più frequenti alla lussuosa presidenza, e infine un crescendo: avvisi a casa, sventati bellamente da una serie di firme superbamente falsificate, la fatale e dura sospensione dalle lezioni seguita dal rituale ritorno con accompagnamento, esplicitamente inteso come conditio sine qua non della riammissione. Mi arrovellai e infine posi il vecchio segretario della sezione comunista di fronte ad una pressante ed eterodossa richiesta di “solidarietà politica” tra studenti ed operai, che il buon uomo accolse col senso del dovere che tutti gli riconoscevamo, spacciandosi per mio padre e dimostrando di aver appreso con profitto esemplare il senso profondo di quella che fu poi definita la doppiezza togliattiana, scendendo a compromessi “tipici del peggiore gradualismo” col professore fascista che si trovò in presidenza nel giorno della farsa. Un successo strategico e tattico che qrischiò di essermi fatale.
Rimesso a nuovo dalla riuscita del trucco, presto mi lasciai andare. Sorge talvolta dal di dentro e non lo freni un vero e proprio abbandono alla follia contro il quale null’altro puoi se non sperare nella buona sorte.
In due consecutivi lampi di autentica rivolta, scrissi in quei mesi pagine esaltanti di vita studentesca, e non finii fuori da ogni scuola pubblica perché la natura degli uomini è molto più complessa di quanto possa apparire a prima vista.
L’inimicizia irrimediabile che l’insegnante di francese produceva negli studenti con la sua periodica “gelata d’inverno” non era nulla a confronto con lo stato di aperta belligeranza che caratterizzava da tempo i suoi rapporti con i colleghi e d il preside. Prossima alla pensione, avvolta in una perenne nuvola di cipria che si posava ovunque, persino sul suo incomprensibile linguaggio perennemente sospeso tra musicalità francesi ed asprezza nostrana, irritante, fuori dal tempo e sorda ad ogni istanza metodologica e didattica, gelida dentro quanto eccessivamente colorata fuori, non salutava e non rispondeva al saluto di colleghi e genitori, era assente anche quand’era presente e costituiva sul piano formale e sostanziale una delle maggiori anomalie presenti nel liceo.
Un giorno che spiegava e a se stessa – com’era solita fare – in una lingua che intuivamo francese, senza comprendere nemmeno articoli e congiunzioni un’insipida pagina di Racine, m’accorsi, Dio sa come, d’un misterioso oscillare della sua vaporosa ed inspiegabilmente bionda capigliatura. Un oscillare anomalo, che anticipava o seguiva i movimenti civettuoli della testa senza seguirne né il ritmo né i tempi.
– Una parrucca!
La verità mi esplose nella testa senz’appello.
La confidai ad uno scienziato amico e confermò. Feci tutto da solo: chiesi solo chiasso a sufficienza al segnale convenuto. Un amo da pesca ed un filo di nailon, legato alla sedia, una richiesta di spiegazione avanzata col libro che costrinse l’infelice a chinare la testa, l’amo lasciato cadere tra i capelli e il segnale. La classe in subbuglio crescente e la semifrancese balzò dalla sedia per urlare – come di consueto – il suo gallico sdegno.
Rimase a metà tra le sedia e la posizione completamente eretta, mentre la parrucca agganciata all’amo scivolava rapida indietro, lasciando scoperto il cranio lucido e calvo. Si portò le mani alla testa, emise grida disumane e si accasciò sulla sedia che sembrava in deliquio.
Dopo una risata spietata la classe provò una sincera compassione e tacque.
Un bidello fece capolino quando la miserabile aveva recuperato la dignità del cuoio capelluto – la parrucca per buona sorte s’era liberata da sola – e già indagava minacciando la decimazione. A meno che non venisse fuori il colpevole.
Avevo visto la parrucca volare, e la testa di sotto apparire lucida come cera da una posizione nuova. Come se a vedere fosse un altro e non io. Mai, nemmeno per un attimo, avevo pensato di essere in pericolo. Ora era chiaro. Mi denunciai con la lealtà che la situazione richiedeva e con la coscienza chiara che altro da fare non c’era. O un bel gesto e la denuncia di uno scienziato terrorizzato.
In presidenza l’insegnante urlò come una gallina. Il preside l’ascoltò con indifferenza compiaciuta, le fece sadicamente ripetere più volte il racconto della sua vergogna, e talvolta non tentò nemmeno di celare un sorriso, quindi annunziò decisioni collegiali da prendere. Le più adeguate. Le più spietate. Volle infine rimanere solo con me per capire meglio e valutare la profondità reale della mia abiezione e salutò la rincuorata insegnante improvvisando uno sguardo da Torquemada che tenne fisso su di me sino a che la porta non si chiuse e la vecchia sparì. M’ero rassegnato alla mia fine e mi sentivo un verme pensando a mia madre, quando cominciò a ridere gioviale e complice senza ritegno e lo sentii chiedermi di raccontargli di nuovo la faccenda. Più andavo avanti, cercando parole accorte, più rideva. Mi disse addirittura bravo.
La punizione collegiale terribile non venne, la storia fece il giro della scuola e l’anno seguente la professoressa non si vide né mai sapemmo se si fosse trasferita o avesse optato per la pensione.
Scontai tanta insperata fortuna a maggio, quando, preso da un’indomabile attrazione per la minigonna dell’unica compagna di classe che ci fosse capitata in sorte, decisi di scriverle un’originale dichiarazione d’amore, che misi assieme dopo una breve riflessione sulle mie conoscenze linguistiche. Scartato per necessità di cose il francese, trovata banale una soluzione in madrelingua, esitai tra napoletano e latino, e scelsi infine un’appassionante commistione. Ne venne fuori in quattro e quattr’otto una poesiola che mi piacque molto:

Patricia pulchra est,
sed sine vest, pulcherrim’est
et nemo dubitat,
quin qui Patricia amat
cornuà cornicia portat.

Soddisfatto, passai il foglietto ad uno degli scienziati conquistati alla causa proletaria e ne persi il controllo. Fece il giro della classe, la mise in agitazione, passando tra le mani della musa, Patrizia, che si mostrò particolarmente compiaciuta e approdò tra le mani del professore di latino, che lesse e rilesse pensoso, individuò subito il colpevole e senza pensarci due volte, mi assegnò un otto in latino e m’invitò a tornare a scuola sette giorni dopo. Accompagnato naturalmente da mio padre.
L’anno si chiuse così con un rinnovato gesto di solidarietà comunista tra operai e studenti ed il mio impagabile allievo di Togliatti, ricomparve a scuola nelle vesti impeccabile di un genitore borghese e severo. Così severo e borghese, che quando il professore di latino gli tradusse all’impronta il significato di ciò che avevo scritto, non esitò a prendermi sinceramente a schiaffi.
Per insegnarmi la “morale socialista“, mi spiegò in via riservata alcuni giorni dopo.

Uscito su “Fuoriregistro” il 16 novembre 2002

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Per cacciar via i fantasmi che gli facevano guerra – e cancellare un presente che già affidava al passato la memoria – Primo Levi si tolse la vita. Aveva conosciuto la “vergogna di non esser morti” e fissato quel suo senso atroce di colpa in versi scolpiti nella disperazione:

Since then at an uncertain hour,

sommershu[1]dopo di allora, ad ora incerta,
quella pena ritorna.
E se non trova chi lo ascolti
gli brucia il petto in cuore.
Rivede i visi dei suoi compagni,
lividi nella prima luce,
grigi di polvere di cemento,
indistinti per nebbia,
tinti di morte nei sonni inquieti:
a notte menano le mascelle
sotto la mora greve dei sogni
masticando una rapa che non c’è.
Indietro, via di qui, gente sommersa,
andate.
Non ho soppiantato nessuno,
non ho usurpato il pane di nessuno,
nessuno è morto in vece mia. Nessuno.
Ritornate nella vostra nebbia.
Non è mia colpa se vivo e respiro.
E mangio e bevo e dormo e vesto panni

Non la comprenderebbe, Levi, una memoria istituzionalizzata e priva di presente.
Una memoria ope legis, è un confine tirato con squadra e penna sulla geografia del tempo, come quello d’un antico stato coloniale: mente fissando un limite e consegna al passato ciò che invece è presente.
Affinché non sia più così”, va proponendo. Quasi che così non fosse ancora, che così non fosse più, che così, purtroppo, non sarà domani.
Così cosa?
Così la persecuzione e l’eliminazione fisica, così la segregazione, così la strage fatta pensiero, progettata ed eseguita.
Nella fissità della memoria messa in calendario c’è un esito scontato, un postulato che non si dimostra – è accaduto e non dovrà ripetersi mai più – sicché i ruoli, cristallizzati, sono assegnati in via definitiva e non è consentito aggiornare il copione. Eppure è sotto gli occhi di tutti: l’agnello si è fatto lupo e c’è un lager grande come un intero paese. E’ così, ma non si vede. Non dovrà accadere, si dice, d’accordo: ma accade, intanto, diavolo se accade, ed allora? Nulla. Sulle carte, nella geografia della memoria, il presente non c’è: le stragi e i genocidi sono sempre la storia del passato.
Per quanto mi riguarda, le date della memoria appartengono al futuro. Ai ragazzi racconto pochi fatti del nostro tempo. C’è chi pone sullo stesso piano morale partigiani e repubblichini – sanno di che si parla, gli studenti, e chi non li conosce ormai i “ragazzi di Salò”? – spiego serenamente. Stupidi o bugiardi – commento – non vi pare? Dicono di avere sacra la memoria della shoà, ma di fatto esaltano il genocidio. I ragazzi capiscono al volo: i partigiani, infatti combatterono i nazisti, mentre i repubblichini ne furono gli alleati. Hai voglia di millantare l’amicizia degli ebrei: ti ha ospitato Sharon, un macellaio sionista.
Cala così sulla memoria offesa un’onta rinnovata, e i ragazzi capiscono al volo: c’è di mezzo un muro col suo filo spinato. Un muro, anche stavolta.
Credo fermamente nella memoria del presente; quella che non si ferma al passato, ma si guarda attorno ed esclama angosciata: accade, sta accadendo.
In Ruanda, accade, dove l’ONU ha contato un milione di morti, ha denunciato i “crimini contro l’umanità”, poi, pressata dagli USA, ha ritirato i caschi blu.
A Cuba, accade – certo, quella di Fidel Castro, che scandalizza i benpensanti – a Cuba, dove un embargo fuorilegge insidia da decenni la crescita d’un popolo, dove c’è un campo di concentramento nel quale la Convenzione di Ginevra non conta e i prigionieri sono torturati: li minaccia la condanna a morte e non hanno avvocato.
In Iraq accade, dove un embargo feroce ha sterminato settecentocinquantamila bambini e una guerra illegale, combattuta con armi di distruzione di massa, ha massacrato innumerevoli innocenti; in Iraq, accade, dove migliaia di persone, cadute in mano agli aggressori anglo-americani, sono sparite nel nulla, dove gli invasori passano per liberatori e i partigiani, che hanno per arma se stessi, sono naturalmente terroristi.
Credo fermamente nella memoria che dice: sta accadendo, accade. E mi piace ricordarlo con le parole di Gino Strada, un medico che sa raccontare, un testimone scomodo:

“Part Three” è il nome della prigione di sicurezza a Kabul. Strano nome, visto che nessuno sa dove siano la prima e la seconda parte.sayag[1]

Sono le otto del mattino quando ci aprono la porta di ferro del carcere: qui sono rinchiusi i prigionieri un po’ speciali. i talebani più duri e i non-afgani, gli “afghan arabs”.
Kate aveva visitato alcune parti della prigione qualche giorno prima. “C’è molto da fare lì dentro”, era tutto quello che ci aveva detto la sera.
I secondini sono gentili ma diffidenti. Per alcuni di loro è un nuovo incarico, ancora non ci conoscono: osservano con sufficienza i permessi che ci consentono l’accesso a tutte le prigioni per verificare le condizioni di salute dei detenuti, ma alla fine si rassegnano ad averci tra i piedi per qualche ora.
Senza grande entusiasmo ci conducono giù nel sotterraneo, dove stanno i prigionieri.
Fa freddo lì sotto, e c’è molta umidità. Le celle sono l’una a fianco dell’altra, da un solo lato del corridoio, chiuse le porte metalliche.
Cominciamo la visita.
Un secondino cerca di fare il furbo e passa oltre, senza aprire una delle porte: “Tasnob, tasnob”, questo è un gabinetto.
Ma Kate ormai frequenta le prigioni da lungo tempo. Le bastano sorrisi ammiccanti e toni perentori per far capire che conviene far togliere lucchetto e spranga e aprire la porta del “gabinetto”.
La cella è piccola, forse pensata davvero per essere un bagno, senza luce, non ci sono finestre, l’aria è pesante, nauseabonda.
Due specie di letti a castello per parete e a distanza di un metro da cui sporgono facce magre, capelli arruffati, occhi impauriti. Sono in sei lì dentro. Ci sono due prigionieri anche sul pavimento sotto il letto più basso avvolti nel loro patou.
Rahmatullah ha ventidue anni, viene da Kandahar, faceva parte delle milizie talebane. Ha la febbre alta, le guance scavate e gli zigomi sporgenti. È debolissimo, sta male.
Un mujaheddin, probabilmente di età non molto diversa dalla sua, lo aveva centrato alla coscia durante i combattimenti per la presa di Kabul, due settimane prima. Un colpo di kalashinkov, il femore destro in frantumi. Ferito gravemente era stato catturato.
Rahmatullha non riesce ad uscire da là sotto: la gamba destra, quella ferita, è tenuta immobile da una rete metallica. La benda è intrisa di pus.
“Possiamo portarlo subito in ospedale?”, chiedo.
Per un medico, ma forse non solo, è frustrante, persino umiliante fare domande simili.
Come sarebbe a dire “possiamo” portarlo in ospedale? In quale altro posto, se non in ospedale, dovrebbe stare un essere umano quando ha una coscia fratturata e talmente infetta da avergli già procurato una setticemia?
Invece bisogna chiedere e sperare. Perché in barba a ogni Carta dei diritti di questo o di quell’altro, viviamo in un mondo in cui bisogna chiedere il permesso a qualcuno per curare un ferito.
La cosa mi spaventa, perché se si deve chiedere autorizzazione vuol dire che qualcuno può decidere di non autorizzare, cioè di negare il più importante e primordiale dei diritti umani, quello di restare vivi.
E se non fossimo capitati qui, se Kate non si fosse accorta di quel “gabinetto” molto sospetto? Non avremmo chiesto alcun permesso, nessun altro lo avrebbe fatto e Rahmatullah sarebbe morto in quella cella schifosa.
Kate non incontra alcuna difficoltà con i responsabili della prigione.
Bene. Il vecchio patto stipulato molti mesi con muhjaeddin e talebani, funziona ancora.
Se dobbiamo occuparci dell’assistenza medica ai prigionieri”, avevamo spiegato a entrambe le parti, “dobbiamo avere il diritto di registrare e visitare tutti i prigionieri, non uno escluso, e di trattare chiunque abbia bisogno in uno dei nostri ospedali”.

kabl3[1]Waseem chiama via radio un’ambulanza, arrivano con la barella e trasportano Rahmatullha, che si tira la coperta sugli occhi non appena esce all’aperto: fuori è una giornata di sole.
In pronto soccorso lo lavano lo preparano per l’intervento. Abbiamo deciso di operarlo subito.
Non è certo a pancia piena, e d’altra parte non possiamo aspettare, l’infezione è molto grave,” spiega Marco all’anestesista preoccupato di addormentare un paziente non digiuno.
Ne raccogliamo la storia, in corridoio. Ferito il 13 novembre alle ore 1.30. località Kabul.
Ma dove gli hanno messo la stecca metallica e fatto la medicazione?

chiede Marco.
A Karte Seh.
All’ospedale di Karte Seh?
” dice Ramhatullha, “all’ospedale della Croce rossa, ci sono stato cinque giorni”.
Ancora oggi a Kabul lo chiamano il Red Cross Hospital, anche se lo staff della Croce rossa internazionale è ridotto a un paio di infermieri con ruoli di supervisione.
Ma è stato operato o solo medicato?
Ibrahim, l’infermiere di turno in pronto soccorso, ci discute a lungo, in pastu: “Non lo sa”, è il responso, “non riesco a fargli capire la differenza”.
Non importa”.
Mentre gli anestesisti si preparano, Marco ed io esaminiamo il paziente. La lastra fa vedere molti frammenti di osso, nella parte bassa del femore. La ferita di uscita del proiettile è di lato, lunga una dozzina dì centimetri, diritta, sembra un’incisione di bisturi, tranne che nella parte centrale, dove è irregolare e forma un largo buco da cui fuoriesce pus in abbondanza.
”Forse avranno pulito un po’ la ferita lì in pronto soccorso”, suggerisce Marco. Può darsi.
Incominciamo a spennellare di disinfettante. Al momento di avvolgere la gamba destra nel telo verde sterile, scorgo due piccoli fori ai lati della tibia, uno per parte, qualche centimetro sotto il ginocchio.
Hai visto?” Dico a Marco.
Osserva per un attimo, poi mi guarda serio preoccupato, stiamo pensando la stessa cosa, la stessa sequenza di eventi.
C’è un ragazzo con un femore a pezzi che ha bisogno di chirurgia urgente. Viene portato in ospedale, dove tiene operato o qualcosa di simile, e si infetta.
Una complicazione può succedere, non è la cosa più grave, non è questo che ci fa paura della storia di Ramhatullah.
Sono piuttosto i due piccoli fori sulla gamba che ci spaventano: attraverso la tibia era stato fatto passare un filo metallico per attaccarci corda, carrucola e pesi, così da mettere il paziente in trazione per curarne la frattura.
Era la sua terapia.
Rahmatullah avrebbe dovuto stare in trazione almeno otto settimane.
Però dopo cinque giorni qualcuno ha fatto togliere il ferito dalla trazione, e si è permesso che un paziente gravemente ferito finisse in galera, sapendo con certezza che non vi sarebbe rimasto a lungo, vivo.
Chi ha deciso di negare a Rahmatullah il diritto di essere curato interrompendone la terapia? Chi ha deciso di abbandonarlo e lasciarlo morire, con ogni probabilità tra atroci sofferenze, in una cella di massima sicurezza?
Chiedo che vengano scattate alcune fotografie.
Terrò una foto di Rahmatullah, anzi della sua tibia destra, nel mio portafogli, nel caso qualcuno voglia sapere perché abbiamo deciso di aprire a Kabul un Centro chirurgico per vittime di guerra. Basterà mostrare quei due piccoli fori, per ricordare che i diritti umani non sono un optional e che hanno valore solo se si applicano a tutti, anche ai Rhamatullah.
Se non valgono anche per lui non stiamo parlando dei diritti di tutti ma dei privilegi di pochi, di solito dei nostri.
Ci sono frammenti di osso e di muscoli ormai morti nella sua coscia.
Quanti Ramhatullah ci sono oggi in Afganistan? E quanti prigionieri sono già morti, per le ferite e per la fame? Esseri umani catturati vicino al fronte o rapiti nelle proprie case, trasportati bendati nessuno sa dove, spariti nel nulla, a far compagnia alle centinaia di fantasmi che sono sotto le macerie del carcere di Mazar-i-Shiarif, dove i bombardieri hanno domato la rivolta seppellendo i prigionieri.
Prepariamo una nuova trazione, tengo ferma la gamba di Ramhatullah mentre Marco fora la tibia con il trapano.
Ci sono momenti in cui ho la sensazione che l’umanità sia capace di perdere in pochi mesi quello che ha conquistato a fatica in duecento anni.

Gino Strada, Buskashì. Viaggio dentro la guerra, Feltrinelli, Milano, 2002, pp. 154-157

Una sola considerazione, dopo le parole di Gino Strada, perché senza chiarezza non può esserci ricordo: molti di quelli che in un giorno di gennaio piangono per la shoà, negli altri giorni dell’anno sono per la guerra e la pax americana. Sono dalla parte di chi commette queste atrocità.

Nota

Il Superstite a B.V.”, riportata da “L’Antifascista”, Mensile dell’ANPPI, del maggio 1987. B. V è Bruno Vasari, autore di Mauthausen bivacco della morte, La Fiaccola, Milano, 1945, e la poesia fu scritta da Levi in risposta ad un commento al romanzo Se non ora, quando?, apparso sulla stampa con la sigla B. V. nel quale il Vasari si soffermava sul sentimento di colpa degli ex deportati.

Uscito su “Fuoriregistro” il 21 gennaio 2004

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Una scuola è larghezza di mezzi, scienza d’insegnanti e rifiuto di credi religiosi, filosofici o politici, che non siano liberamente formati nella consapevolezza critica, come frutto di ricerca razionale. Lo so, se la scrivo, se mi ostino a sostenerla questa idea “balzana“, l’avvocato Gelmini la prenderà per una delle tante “perniciose utopie sessantottine” e non servirà spiegarle che l’utopia indica quasi sempre “un certo disagio sociale” e “l’imminenza più o meno prossima di un certo mutamento politico destinato a soddisfarlo” [1]. L’avvocato Gelmini non sa di scuola e di utopia più di quanto non sia tenuto a sapere il custode del suo palazzo a Trastevere, sempre più frastornato dall’altalena tra pubblico e privato. Neofita della pedagogia economica, l’avvocato misura il bisogno di sapere col metro dei bisogni di mercato, dei dati di bilancio e delle idee politiche del governo che rappresenta. E poiché i carri armati contano ormai molto più che le belle intelligenze coltivate, posto che sappia chi sia, il ministro Gelmini se la ride dei consigli di Salvemini. Non ha chiamato e non chiamerà “i migliori uomini che siano disponibili sul mercato, che la misura degli stipendi consenta di attirare, senza preoccuparsi delle idee poltiche o religiose o scientifiche di ciascuno, senza badare se vestano la toga nera o se portano la cravatta rossa, se abbiano per copricapo il tricorno o il triangolo o il berretto frigio, affinché insegnino agli alunni non quello che essi o il governo credono“, ma la via della ragione. Il ministro è fermo nei suoi pregiudizi e li crede giudizi: esiste una sola verità e quella vi insegno. E poiché per far questo occorre poco, stringe i cordoni della borsa, sfiducia l’intelligenza, confonde la qualità con la quantità e, ciò che più conta, invece di formare libere coscienze, produce servi, com’è nei sogni d’ogni tirannia. L’avvocato lo sa: l’intelligenza critica è ribelle. E’ per questo che ci offre il meglio della vita: la selezione.
Scuola e vita, com’è nella migliore tradizione psicopedagogica. Ma che cos’è la vita? Non è facile dirlo, ma certamente l’idea di vita “presuppone non soltanto quella di un essere organizzato in modo tale da comportare lo stato vitale, ma anche quella, non meno indispensabile, di un certo insieme di influenze esterne favorevoli alla sua realizzazione“. Insomma, “un’armonia consapevole” e, se così si può dire, umanamente divina, “tra l’essere vivente e l’ambiente“. Senza quest’armonia viene a mancare il senso stesso di quello che uomini e dei chiamano vita [2]. Tale la scuola, dai naturalisti greci alla filosofia del Novecento, tale la vita, tale l’opinione del mondo civile, compendiata in una sentenza di un’alta corte della nostra Repubblica, se Sacconi, fiore di serra di Berlusconi, non avesse eccepito un suo garbuglio spagnolesco scovato tra un’astrazione burocratica e un sofisma politichese. Un garbuglio che segna un duplice ritorno al Medio Evo e apre il pozzo nero in cui affonda il Paese.
Gelmini, Englaro e Sacconi: scuola e vita o, se volete, una nuova scuola di vita. Modello Berlusconi.

[1] Gaetano Salvemini, La laicità della scuola, “il Tempo”, 29 gennaio 1907.
[2] Stefania Maraini, Comte. Dizionario delle idee. Scienze, politica e morale, Editori Riuniti, Roma, 1999,

Uscito su “Fuoriregistro” il 22 gennaio 2009

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Amico

Amico, se ti compri,
pagati quanto vali.
Non un quattrino in più.
Credimi, non sentirti prezioso,
tanto nemmeno serve e poi si muore.
Ma se ti vendono un giorno per caso,
e magari all’incanto,
tu non avere prezzo.
Stattene duro e il banditore invano
attenda di picchiare il martelletto.

(da Giuseppe Aragno, E però scrive, Intra Moenia, Napoli, 2003, p. 14)

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La carezza nervosa di mia madre non mi tenne tranquillo a lungo. Presto si fece inquieta, inciampò sempre più spesso nei miei capelli intricati, ebbe ritmi convulsi, annunciò la tempesta imminente, con l’aria che si fa elettrica, il cielo cenere e piombo e gli uccelli tristi che non hanno né ali né canto. Divenne in ultimo richiesta d’aiuto.
Disperata e inconsulta.
Assorbii la tensione devastante per un’eternità, ne avvertii lo spasimo col cuore in gola, fermo nell’attesa, come gli uccelli impauriti senza canto né volo. Diventare uomo volle dire anche questo: attraversare il mio tempo con la furia disperata di un fuggiasco impaurito, distrutto dalla fatica di cercare scampo senza una bussola con cui orientarmi, senza strumenti per leggere le mappe. Conobbi l’ansia, – inseparabile compagna di viaggio nel futuro ch’è ormai passato ed in quello che sarà, mi sembrò di tradire, imparai a piangere senza farmi scoprire.
L’uragano, lungamente sospeso sulla mia testa atterrita, si scatenò in una gelida notte d’inverno. Tornato per la cena, mio padre aprì e rinchiuse la porta. Vidi il cappello entrare ed uscire: il pianto di mia sorella toccava a mia madre. Guardai con raccapriccio i suoi occhi ormai più bianchi che azzurri. Nell’aria non c’era più spazio per l’elettricità.
Mangiammo senza parlare, accompagnati dal pianto inesorabile di mia sorella; la carezza si cristallizzò sui miei capelli, poi il silenzio della notte zittì per incanto la culla, e venne il sonno. Pesante, riparatore, breve.
Dalla strada un rumore di ruote, un canto triste, un lampione mosso dal vento.
Il cappello di lana alla rovescia, la sciarpa come un nodo scorsoio, il cappotto sbottonato sui pantaloncini corti ed il freddo tagliente che s’infilava tra i panni senza trovare alcuna resistenza non furono per strada il mio solo tormento. Il sonno interrotto m’intorpidiva e una paura senza nome mi gelava più del freddo, mentre mia madre sembrava volare e mi trascinava senza pietà per il mio braccio. Gli ultimi metri li ho ancora negli occhi: il fantasma della cattedrale in Via Duomo, bianco di marmi nello slargo buio, l’incrocio tra via Donnaregina e via Anticaglia, dove entrammo sorvegliati dall’occhio nero dell’arco romano – il teatro che ospitò la follia di Nerone – incassato tra i palazzi fatiscenti degli antichi cardini, mia madre oltre l’arco, un portoncino socchiuso superato d’un balzo, alle scale salite in un lampo.
Di dove avesse tratto la chiave che aprì la misteriosa porta dopo aver letto il cognome non saprò mai. Ci furono movimenti convulsi, parole taglienti, mio padre mi sembrò un demonio e l’amante – così pensai, a sette anni: l’amante – disgustosa, sporca nella sua bianca nudità. Un urlo senza fine spense d’un tratto le mie luci. Mia madre era piombata al suolo come fulminata. Null’altro. Per quanto mi sforzi, null’altro.
la rividi molti giorni dopo. I capelli biondi s’erano fatti bianchi. Gli occhi azzurri erano ingialliti. C’era mio padre, uguale a sempre: nessun imbarazzo, nulla da spiegarmi o da dire, una carezza affettuosa e distratta. Un suo fratello – fascista nonostante la storia della famiglia – mi spiegò che un signore mi avrebbe fatto delle domande e mi disse come dovevo rispondere. Una cosa soprattutto: mio padre quella notte non c’era e mia madre non stava bene da molto tempo. I bambini devono aiutare i genitori ed io ero il primo figlio.
Era un uomo grosso, biondo, con i capelli ondulati tirati indietro verso la nuca, gli occhi rotondi e inespressivi: come la stragrande maggioranza degli uomini della sua generazione, non si vergognava di tradire. Rendere pubblico il tradimento, confessarlo, questo sì, questo era vergognoso. Tradire e tacere. Era la regola. Quando ci penso, mi pare evidente: Pasolini si sbagliava. Non eravamo figli di borghesi contro figli di proletari nel ’68. Eravamo giovani di tutti i ceti. Se un errore facemmo fu quello di fermarci. Il mondo, che venne, comunque, non fu più lo stesso e migliorò. Nonostante avessero tentato d’impedircelo con ogni mezzo.
Nessuno mi interrogò, mia madre ritirò la denuncia, io non dimenticai.
Passarono anni senza storia: dopo quella notte, mio padre diventò sistematicamente violento, mia madre si piegò. I capelli ripresero il loro colore naturale, anche se si spensero nei toni lucenti. Gli occhi recuperarono l’azzurro. Mi accorsi di crescere quando scoprii di avere un modello ideale; uno strano modello, privo ancora di connotati positivi e con una grande, chiara certezza negativa: l’uomo che sarei diventato aveva il permesso di essere come voleva, fare ciò che credeva. Non poteva però somigliare a mio padre. Non era poco, ora lo so: l’impegno che prendevo con me stesso era pesante, drastico il giudizio che ne era alla base. Drastiche perciò, estreme e durissime, sarebbero così diventate col tempo le mie scelte, alti i muri che avrei levato a difesa, strette le vie di fuga, impervi i valichi, accidentati i percorsi. Mi accingevo ad indossare – e non potevo saperlo – un cilicio doloroso, mi preparavo a punirmi per ogni cedimento.
Era l’inizio d’un sogno pericoloso.
Alla fine della strada un equilibrio precario, un’intransigenza inapplicabile, i sensi di colpa, l’alcol e la volontà disperata d’uscirne. Ma a dieci anni che sai di tutto questo?
A dieci anni sogni: sei il cavaliere senza macchia e senza paura. Paura invece ne avrai e non la mostrerai, e macchie compariranno e le cancellerai. Negherai. Affonderai e risalire diventerà difficile, ti sembrerà impossibile. Mio padre era un uomo. Io sognai di essere un Dio.
Un incubo. Ed in fondo al percorso il rischio d’una pericolosa frattura della personalità. Non avevo un’idea definita dei miei rapporti con le donne – non avevo in verità un’idea definita delle donne – ma ero lacerato da due estremi. Se pensavo a mia madre mi scioglievo di tenerezza ed ero pronto a morire per difenderne una. Sentivo una rabbia profonda, un disgusto senza fine e giuravo a me stesso che mai ne avrei voluta una con me, quando pensavo alla donna di via dell’Anticaglia. Questa contrapposizione, soffocata dal tempo, sepolta in non so quale meandro della mia coscienza, riemerge tuttora ed è l’origine di fedeltà disonorevoli, abbandoni ingiustificati e ritorni uguali a fughe.
Avevo dieci anni, ed era autunno, quando varcai la soglia della scuola media, superato l’esame d’ammissione, e portai la mia penna stranamente tagliente là dove i figli dei lavoratori di solito non giungevano. Mio padre lavorava in una salumeria. Mia madre aveva vinto la sua battaglia per la qualità dei miei studi, evitandomi l’avviamento professionale, ed io superai la naturale timidezza e sconfissi al primo appello il sorriso ironico dei compagni di classe, vestiti della migliore qualità presente nei negozi di un paese in ripresa. L’insegnante d’italiano, grigia, severa, estranea ai circuiti della moda ed attentissima alla posizione delle sue gambe dietro una cattedra totalmente esposta, lesse di seguito trenta cognomi, rilesse il mio, cercandomi con lo sguardo miope, e ripeté solenne la domanda: – sei parente dei proprietari del caffè Aragno?
In prima elementare ero rimasto a bocca aperta. Stavolta mi venne senza pensarci: – sì, sono il nipote.
E raccontai pacato tutto ciò che sapevo.
Mio nonno mi procurò così – senza saperlo – l’onore di un invito ad occupare un banco in prima fila, una disposizione alla comprensione che durò per tre anni e mi consentì di finire senza danni le medie inferiori – erano tempi in cui l’insegnante di lettere aveva un potere incontrastato – nonostante la mia evidente povertà di mezzi economici, gli sconsigliati eccessi di sincerità, una crescente attitudine alla contestazione, in una scuola che fondava la docimologia applicata sulla “condotta” e considerava ogni figlio di lavoratore un potenziale e pericoloso comunista.
D’altro canto, io amavo i comunisti, e si vedeva. Li amavo perché il prete della parrocchia – che invece non amavo – li odiava con tutto il cuore. Dovrei spiegare perché non amavo il prete, ma la storia è lunga. Dirò solo che il prete amava le vecchiette che in chiesa occupavano senza scampo la prima fila ed io le disprezzavo perché erano bugiarde e pettegole. Naturalmente le vecchiette non mi amavano perché odiavano mia madre, ch’era stata attrice e si ribellava al marito. Ma anche qui le differenze erano profonde: io amavo mia madre, non stimavo il marito e l’accusavo di non essersi mai ribellata davvero.
La faccenda dei comunisti ebbe quell’anno un risvolto tragico e rischiò di compromettere seriamente la mia situazione a scuola; i carri armati dell’Unione Sovietica invasero l’eretica Ungheria e Budapest si difese. Tutti in coro sostennero che si trattava d’una intollerabile vergogna e finii col convincermene anch’io, quando seppi che tra i ribelli c’era Puskas – così mi pare che si scriva il suo nome – un calciatore bravissimo e un colonnello valoroso che non poteva essere un nemico del popolo. Quando vidi che nessuno muoveva un dito stetti male e mi sembrò incredibile. Gli ungheresi. Nella simpatia che provai c’entravano certamente “I ragazzi della via Pal”, che avevo letto undici volte, superando le dieci riletture di “Cuore” e le nove di “Tom Sawier”. Ma c’era di più: nella vita ho sempre sentito un profondissimo trasporto per i grandi sconfitti ed i poveri sventurati. Ettore mi ha fatto piangere, Spartaco mi ha affascinato, Vercingetorige ha oscurato Cesare, Napoleone mi è parso grande solo tra Waterloo e Sant’Elena, i contadini di Bronte mi hanno commosso molto più di Garibaldi, Crispi mi ha spinto a sinistra ben più di Marx, Anna Kulisciof è stata il modello del mio femminismo quando l’ho pensata anarchica e mi si è fatta ingiustamente piccola vicino a Turati. Ho riconosciuto la storia dell’evoluzione nei personaggi minori, la scienza del compromesso e le regole dell’involuzione nelle figure maggiori. Pregiudizi, lo ammetto. Ma chi non ne ha?
A risolvere il mio problema col comunismo pensarono in quei mesi acerbi della mia storia di militante mio padre ed il prete del Pio Monte della Misericordia, la parrocchia in piperno nero di via dei Tribunali in cui maturò il mio distacco definitivo e irrimediabile dalla Chiesa. Furono le prediche contro i comunisti ad allontanarmi dai poveri ungheresi. Insospettito dalle dubbie qualità di un simile avvocato e messo ancor più in allarme dai giudizi negativi sui sovietici espressi da mio padre – avvocato, se possibile, più sospetto del prete – giunsi infine ad una incrollabile certezza: i comunisti italiani – ne avevo conosciuti alcuni per caso nel quartiere e n’ero rimasto incantato – non potevano mentire. In quanto ai giornali non mi fidavo: L’insegnante d’italiano, parlando di “Aragno” aveva fatto cenno al Mussolini direttore dell’Avanti e tanto era bastato a determinare il crollo delle loro azioni nella borsa valori del mio nascente sistema etico.
A parte le dovute eccezioni, i giornalisti non si sono dati gran che da fare per meritare poi maggiore considerazione.
Agli ungheresi dovevo delle scuse. Lo scoprii anni dopo e feci quanto potevo per rimediare. Anche oggi, però, benché Stalin non mi sembri diverso da Hitler, mi rifiuto di seguire la strada dei pentiti politici e buttare a mare l’acqua sporca e il bambino. Non amo papa Woitila, ma mi colpì la sua tardiva ammissione di fronte alla furia iconoclasta del capitalismo vittorioso: c’è un’anima di verità nel comunismo. Così disse Woitila.
L’ha capito un papa, l’hanno dimenticato i comunisti.

Uscito su “Fuoriregistro” il 31 ottobre 2002

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Una vita “recitata” fuori dei teatri, da spettatori che s’improvvisano attori è un fenomeno banale, un inganno comunemente accettato, una maniera d’essere. Negare di aver recitato da professionisti su tavole di palcoscenico può apparire agli spettatori un’intollerabile violazione delle regole, una diversità sediziosa, un disordine inaudito: mia madre negò, disordinata e diversa, e gli inesorabili ammiratori sparirono.
Apparentemente impassibile, ella tenne però lealmente fede, con coerenza destinata ad apparire poi patologica, ai patti scellerati siglati con le nozze, che già sono in fondo commistione sciagurata di sentimenti e legge: abbandonò il teatro, secondando l’orgoglio geloso e improvvido di mio padre, si violentò come e quanto le fu possibile e si calò in un ruolo che non sentiva. Recitava la vita: una fatica mentale che non conobbe pause e la stremò.
Teatrante d’istinto, visse da quel momento su un palcoscenico senza luci, e si fece sicuramente del male, perché, di norma, accade il contrario: ci percepiamo – e forse siamo – come luce nel buio. Mia madre sentì invece di essere un cono d’ombra imprigionato in una compatta massa di luce, materia irrimediabilmente spenta nella notte dell’universo, buio costretto in una gabbia fosforescente, buco nero nel cuore d’una stella nova, menzogna oscura che non può sperare riscatto dalla confessione. Senza possibilità di provare, non apprese mai bene l’ingrata parte che si era scelta per il resto dei suoi giorni e presto disperò. Avrebbe potuto rifiutarsi d’invecchiare, restar giovane dentro, dar battaglia. Non tentò. Accettato per illusione d’amore – e come, se non per amore, si potrebbe sottoscrivere un accordo che ci schiavizza? – rifiutato ben presto per insopprimibile bisogno di libertà, quel ruolo la indusse infine a sdoppiarsi e fu recitato, sul piano emotivo e psicologico, in termini di paranoia. Sono casi ben più frequenti di quanto si creda e non c’è scampo: se la libertà rende umano l’amore, l’amore per la libertà spinge agli estremi: per desiderio di libertà il pugnale riottoso di Bruto si levò su Cesare amato ed Ettore si separò dall’abbraccio struggente di Andromaca per andare incontro alla morte in attesa dietro Achille insanguinato. Dall’insostenibile scontro tra amore e libertà due donne nacquero nella testa sventurata di mia madre, l’una nemica dell’altra, desiderose reciprocamente di sopprimersi, ma consapevoli di poter solo vivere assieme o assieme sparire. Con sorprendente duttilità quel povero cervello, confuso e presto mortalmente stanco, costretto dal bisogno di regole, seppe darsi un’organizzazione dicotomica, in cui gli opposti convivevano e gli eccessi si toccavano. Un circolo vizioso, un andamento schizofrenico che solo la rottura del contratto avrebbe potuto interrompere. I tempi però non erano adatti a rotture di quella natura e solo i cattolici ricchi, o i clienti di prelati influenti, potevano sperare in una libertà riacquistata al prezzo fissato dalla “Sacra Romana Rota”, non per divorzio, s’intende, ma per bizantinismi procedurali che “annullavano” ad un tempo nozze, contratto e sacramento. Mia madre, cattolica povera e senza patroni, non poteva contare sulla Chiesa, non aveva forze bastanti ad affrontare l’immancabile condanna sociale, e non intendeva fare del male ai suoi figli. Danni in realtà ne faceva, numerosi, reiterati, gravi e irreversibili, ma non ne aveva alcuna consapevolezza: pensava che bastasse esserci perché i figli diventassero praticamente invulnerabili. Ridotta allo stremo, si smarrì sul suo palcoscenico senza luci, dimenticò di possedere ancora la chiave della sua prigione e lentamente cominciò a pensare che i carcerieri fossero fuori di sé. Dapprima senza volto, poi fantasmi più o meno noti che le agitavano le notti, gli aguzzini si moltiplicarono, assunsero identità e volti noti, si fecero massa, folla di visi identici, umanità di sosia: da un lato un’innocente incatenata, dall’altro un’infinità di guardie carcerarie.
In quanto a mio padre, in teoria avrebbe potuto restituirle la libertà rubata e forse l’avrebbe fatto, se il fascismo non gli avesse fatto pagare sino in fondo le “colpe” di mio nonno. Costretto dalla miseria a combattere per la vita, era destinato invece a perdersi fatalmente in quel micidiale labirinto. Alla libertà di mia madre, comunque, non intendeva e non intese mai sacrificare il suo orgoglio di maschio. Groviglio inestricabile di contraddizioni, come accade assai spesso agli insicuri, non seppe mai pensare in prospettiva larga e, senza cogliere la differenza profonda che corre tra forma e sostanza, non ebbe mai dubbi: scelse la forma. Così – figlio d’antifascista – era riuscito a non iscriversi al partito fascista e sembrava avesse il culto della memoria del padre. Di fatto, aveva in odio gli antifascisti perché era monarchico e mostrava disprezzo per i partigiani. Per lui “Aragno” non fu mai roccaforte di democrazia – come l’aveva sognato suo padre – ma l’agiatezza che la storia gli aveva sottratto, sicché la lezione, male appresa, si ridusse ad un mito fuori dal tempo, la cui sola concretezza si chiamava coraggio. Ed era coraggio fisico, non tempra morale. Anni dopo, poco prima che morisse, nelle discussioni finalmente serene che ci accompagnarono lungo la via di una separazione stavolta definitiva e senza rimedi, ridotto ad un vecchio cieco e sofferente, colse lucidamente le contraddizioni che ne avevano regolato i comportamenti e confessò: il nonno era stato per lui un simbolo di libertà, ma spesso la libertà gli era sembrata causa di disordine; lo aveva amato ma non ne aveva compreso le scelte; ne era stato orgoglioso, ma ne aveva avuto anche vergogna. Il passato aveva avuto un peso determinante sulla sua maniera di essere padre, ma ad un certo punto della sua vita, chiedendomi di ritrovarne le tracce e di spiegargli chi era suo padre, aveva inteso gettare un ponte tra noi che ci stavamo separando come due nemici. Io, che pure avevo ormai un figlio, non l’avevo capito, ma non pensai mai di scusarmi. Gli dissi quello che mi pareva più onesto e vicino alla verità: avevamo sbagliato entrambi, forse perché sulla nostra testa erano passati eventi che non avevano consentito scelte. Ci eravamo fatti molto male, ma senza premeditazione, ci eravamo arroccati ognuno a difesa del suo modo di affrontare la vita, ma non c’erano vincitori e vinti. Il mondo se n’era semplicemente andato da un’altra parte. E’ strano come gli anni e le sconfitte ci insegnino a parlare un linguaggio comune e suggeriscano alla comunicazione soluzioni imprevedibili. Ma tutto era alle nostre spalle e a nulla c’era più rimedio.
Prigionieri, ciascuno a suo modo, delle loro storie personali, degli schemi e dei pregiudizi sociali, i miei genitori vissero tristemente in un mondo senza colori, in un cielo senza stelle; condussero la loro navicella nel mare eternamente tempestoso in cui la famiglia nel nostro paese si sfaldava e navigarono a vista sul filo della corrente, senza bussola, senza vele, senza motore o remi. Mia madre mise in scena la sua tragica rappresentazione, fu moglie fedele e frigida amante – incurante della sottigliezza delle pareti, mio padre glielo rimproverò furibondo mille volte nei notturni litigi – e visse per i figli, con dedizione assoluta, che dava per scontata una solidarietà totale e senza condizioni. Con una mano dava tutto ciò che aveva, con l’altra prendeva – anzi pretendeva – tutto ciò che avevamo. Ne era fermamente convinta: ciò che dava era dono d’amore, che non consentiva rifiuto; ciò che prendeva era invece il religioso sacrificio dovuto alla maternità dalle leggi del sangue e della tradizione morale. Essere madre, quindi, imponeva una dedizione totale, ma garantiva diritti illimitati, sicché, per un figlio, dissentire significava tradire. C’era in tutto questo una ferocia indicibile, un illimitato egoismo, eppure, per ragioni misteriose, legate probabilmente ad insondabili processi psichici, per anni fu passione senza limiti capace di riempire ogni vuoto.
Com’ è naturale, il labirinto nel quale ben presto ci perdemmo io, mio fratello e mia sorella, nati con scadenza biennale nonostante il calore dell’inferno in cui eravamo finiti, divenne col tempo un terrificante campo di battaglia. Miscugli di bianco e nero e malinconiche scale di grigi opachi e retinati si sostituirono ai colori della fanciullezza ed un’ansia incombente e maligna produsse osservazioni faticose, comportamenti e pensieri da adulti. Presto la nostra infanzia si ammalò. Ciò che ne rimase – va sempre così in un conflitto e bisognerebbe ricordarlo – non trovò mai più considerazione o rispetto. Come appare talora nei documentari girati in zone di guerra, nel fuoco dello scontro fummo tutti soldati. La mia condizione poi, se possibile, fu resa ancor più difficile dai ruoli che un tempo la famiglia assegnava ai suoi membri; a due anni, un istante dopo la nascita di mio fratello, ed ancor più a quattro, quando nacque mia sorella, mi affidarono supplenze e responsabilità di comando. A seconda delle necessità, la primogenitura mi costò mansioni da aiutante di campo, furiere, portantino e sentinella, cui si aggiunsero ben presto, in caso di estrema necessità, quelle di vivandiere per i “più piccoli” che dovevano mangiare. Nelle famiglie della mia infanzia che prima del divorzio – nessuno se ne ricorda ma è così – andavano avanti con la sofferenza acuta dell’ineluttabile e la rassegnazione che ti insegnano le cose che non possono cambiare, primo figlio significava disciplina. L’anelito di libertà che mi porto dentro da quando ho memoria di me, si accompagna sempre al ricordo di rinunzie dolorosissime e responsabilità precoci, non ultime, quelle derivate dalla disgrazia di esser nato per primo. Cedere nelle liti, badare prima agli altri e poi a me stesso, dare il buon esempio e comportarmi da uomo: una condanna senza appello e, per certi versi, senza fine.
In tanto sfascio, e nonostante l’infinita confusione, le sfere di competenza furono sempre d’una estrema chiarezza. La passione per la lettura e la fede nelle virtù emancipatrici della cultura, ad esempio, fecero di mia madre il riferimento costante della mia crescita culturale. La scuola ed i nostri studi erano un suo indiscusso territorio. E lo difese con grande dignità. Ricordo come fosse oggi il suo disperato coraggio. Puttana per definizione – tali erano per la gente di Forcella tutte in solido le attrici – e ostentatamente tollerata, come educatrice fu bocciata dal clan: debole, anzitutto, molle per la sua cultura da autodidatta e, ciò che più conta, pericolosa per il suo passato. Con scuse maligne le fui strappato. Giorni, settimane, mesi, ospite della nonna paterna per mia libera scelta – una menzogna che intimidito e plagiato confermai spesso quando mia madre protestò smarrita – nella sostanza rapito, consegnato all’economia del vicolo e destinato a “diventare uomo” nella Forcella dei camorristi. Mia mamma veniva a farmi visita, controllata a vista, si ribellava invano, poi andava via sconfitta e pensierosa. Ogni volta era peggio: mentivo e avevo la morte nel cuore. Mettevo radici dove un balcone si affacciava sul breve rettilineo in salita su cui si muoveva la figura snella e graziosa di mia madre e non mi muovevo nemmeno quando spariva, svoltando verso i seicenteschi palazzi di via dei Tribunali a Sedil Capuano. Ho pianto più volte avvinghiato alla ringhiera di quel balcone, senza aver voglia di rientrare, di giocare, di andare avanti, convinto di essere un vile e di meritarmi castighi anche peggiori. La sera stentavo ad addormentarmi in un letto estraneo che nulla valeva a riscaldare, né giocattoli, né carezze, né attenzioni. Pregavo la notte, come m’aveva insegnato mia madre, e domandavo ad un Signore in cui sentivo di non credere, di non aver pietà, di farmi soffrire tutte le pene dell’inferno, perché non avevo il coraggio di chiedere di tornare a casa, di dire che mia madre e mio fratello mi mancavano terribilmente. Dio naturalmente non s’interessò mai al mio caso – non s’interessa ai casi di nessuno – e non ricevetti altri castighi. Un giorno che l’apatia era al culmine e sognavo di morire, mi trovai non so come al muro di tufo che chiudeva il vicolo di Sant’Agostino alla Zecca scosso anni prima da bombe “alleate”, oltrepassai il piccolo arco che forava il muro come un occhio cavo e mi sentii prendere per mano. Tremavo, mentre mia madre mi portava a casa senza parlare, col bel volto pallido d’emozione, col seno ansimante come per una lunga corsa, con gli occhi azzurri asciutti e leggermente stretti, col passo deciso di chi non torna indietro. Non chiesi nulla. Non ce n’era bisogno: stava sfidando i suoi terribili nemici e nessuno aveva osato fermarla.
Quella sera dormii a casa nel grande letto matrimoniale, nascosto nel suo seno. Mi addormentai nel cuore della notte, quando sentii che mio padre si stendeva al mio fianco. Era tornato a casa. Uno dei tanti ritorni che inutilmente sognai definitivo. La mattina dopo, mezzo addormentato, mi trovai addosso un grembiulino azzurro col suo fiocco rosso e tornai a scuola.
Quella sera, l’ho capito anni dopo, morì felice – fortunato e senza rimpianti – uno dei tanti scugnizzi di Forcella. Tutto ciò che di buono sono stato poi, poco o molto che sia, nacque quella sera. Una di quelle sere umide e buie che annunziano l’inverno.
Batteva il cuore di mia madre e la sua carezza nervosa mi metteva tranquillo…

Uscuto su “Fuoriregistro” il 23 ottobre 2002

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