La notizia è stata diffusa da giornali e telegiornali nazionali: una docente “non vaccinata” avrebbe dato origine a un focolaio di Covid in una scuola di Bologna. Sul Fatto quotidiano si legge il seguente titolo: “Docente non vaccinata (ma on green pass): focolaio in una scuola a Bologna, 300 studenti tornano in dad”. Sulle pagine bolognesi del Corriere della sera: “Scuola, prof non vaccinata: focolaio a Bologna. Trecento studenti in Dad. La docente insegna all’istituto comprensivo «Farini» con regolare green pass ottenuto con i tamponi: la vicenda riguarda 12 classi sulle 22 che compongono la scuola”. Sinteticamente e icasticamente (la colpevole è senz’altro la professoressa non vaccinata) la notizia veniva presentata il 24 ottobre anche ai telespettatori del TG3. Va da sé che la certezza che il focolaio sia partito dalla “docente non vaccinata” si classifica tra le idiozie faziose, che sono, fra le cose sciocche, quelle della peggiore specie, poiché tendono ad identificare – senza alcuna prova (altro che habeas corpus!) un colpevole, un reprobo, un reo su cui rovesciare l’indignazione generale. Sul sito della scuola apprendiamo che la secondaria di I grado “Farini” ha 21 classi (una in meno di quelle segnalate dal Corriere): poniamo una media di 20 alunni per classe ed arriviamo a più di quattrocento minori NON VACCINATI. Ora, in questa massa di ragazzini potenzialmente tutti contagiosi e/o contagiati, individuare nella docente con regolare green pass l’untrice che diffonde il morbo ci sembra deprecabile. Quali prove si possono portare per avallare questa ipotesi? Dov’è finita la tolleranza verso la scelta di non vaccinarsi (e di sottoporsi quindi ad una media di tre tamponi a settimana)? Sono queste le cose che ci parlano di una società profondamente conformista, in cui il dissenso assai discutibile di minoranze no-vax segnate politicamente trova poi terreno fertile ed appoggio anche da parte di persone comuni, stanche di essere criminalizzate per una loro legittima scelta. A scuola si è fatto ben poco per garantire la sicurezza sanitaria: con la benedizione del CTS, il distanziamento di un metro si pratica soltanto “se possibile”, l’areazione dei locali viene garantita non da appositi sistemi ma dall’apertura (se possibile) di porte e finestre, le classi sono sempre affollate. In queste condizioni scaricare la “colpa” della diffusione del contagio sul 5% scarso di personale non vaccinato (ma regolarmente sottoposto a tampone) ci sembra un deprecabile atto di intolleranza.
Non è un’invasione di campo. Ho raccontato storie per tutta la vita, ma erano prigioniere del cosiddetto «apparato scientifico». Per anni le mie parole scritte hanno lottato con note, abbreviazioni, fonti, finché alla fine l’ha spuntata il loro bisogno di libertà. «Parole d’uomini e sassi» è un libro di racconti popolati da quella umanità che ho incrociato nel mio ormai lungo percorso. Meglio di me certamente vi parlerà di lui la quarta di copertina, che ha un pregio impagabile: per la prima volta nella mia vita la Valtrend, una piccola ma splendida casa editrice, non mi ha chiesto di scriverla e l’ha scritta per me. Leggetela e poi venite alla presentazione che si terrà al Vomero, alla libreria “Io ci sto” il 9 novembre alle 18. Troverete con me due splendide amiche: Enza Alfano, scrittrice di gran talento e Anita Pavone, valorosa attrice e scrittrice di testi teatrali ricchi di umanità. Non so ancora, ma spero ci sia l’impagabile Mara Jovene, che gestisce la Valtrend con Mario Marotta. Ecco la quarta di copertina:
«Le Parole d’uomini e sassi nascono da un bisogno profondo: passare dalla ricostruzione dei grandi eventi alla narrazione della vita quotidiana, per dar voce ai suoi sconosciuti protagonisti. Una scrittura narrativa in cui il dato biografico, spesso presente, è solo l’occasione per penetrare l’animo di donne e uomini e disegnare personaggi vivi, attuali che interrogano e spingono a riflettere. Sullo sfondo, il tempo vissuto dall’autore, il Novecento, con i suoi sogni e le sue sconfitte, che scivola lentamente, ma inesorabilmente, verso un tempo diverso, un secolo nuovo, più duro e più cupo. Un tempo che in uno dei racconti, unendo il passato al presente, induce Seneca il vecchio e mai nominato maestro a scrivere al suo discepolo che vive ora nel nostro difficile mondo: «Il male, Lucilio, la peste di questo tempo nostro, sta in un atroce e tragico paradosso: si pensa che possa essere felice chi fa il mondo infelice. Questa pazzia, Lucilio, va certamente curata. La pazzia di un potere che chiede il consenso dei servi e opprime gli animi liberi». Sembrerebbe una resa, ma non lo è. Il messaggio è chiaro: le ragioni della forza non riusciranno mai a sottomettere per sempre la forza della ragione».
Ascolti qualche minuto e capisci perché la sinistra ha fatto bancarotta. Spegni il televisore. Bersani sparisce e tu chiedi conforto ai fantasmi delle storie che la notte ti fanno compagnia.
«Bufale.net» si dà molto da fare per smentire la notizia, ma stavolta a regalarci una bufala sono proprio i «cacciatori di bufale», la cui credibilità esce a mio avviso piuttosto male dalla vicenda. Molto più credibile «L’Indipendente», un piccolo giornale online orgoglioso di sostenersi esclusivamente grazie ad abbonati e donazioni dei lettori, senza accettare pubblicità, ricevere contributi pubblici, dipendere da multinazionali, partiti politici e grandi aziende. «Bufale.net», accetta la pubblicità, che è purtroppo l’apoteosi delle «bufale». Ho letto attentamente la smentita degli antibufale, ma più andavo avanti, più rabbrividivo per il rumore fastidioso e sinistro di unghie che graffiano specchi evocato dalle parole. Non si arrampica sugli specchi «L’Indipendente», che ci racconta ciò che i nostri giornalini, ridotti a giornalini, non si azzardano a riferire. Con buona pace dei cacciatori di bufale e delle loro arrampicate sugli specchi, ciò che riferisce «L’Indipendente» ha un indubbio valore e induce a riflettere, avendo presente che non a caso l’Italia già è stata il laboratorio del capitalismo per il quale produsse il regime politico prediletto dal capitale finanziario: il fascismo, come ci ha invano insegnato Piero Grifone. Dopo l’ampia premessa la notizia piccola breve e… fotografata:
Se io parlo di green pass e tu insisti sui vaccini e sull’incoscienza dei no vax, puoi dire anche cose giuste, ma sei «fuori tema». Mi sono vaccinato due volte, come mio fratello che, però, malato a rischio della vita, non è stato ricoverato finché non gli hanno fatto un tampone. Perché negli ospedali il green pass non conta nulla? Semplice: i vaccinati possono essere infetti. Il green pass, quindi, non li protegge e potrebbe, anzi, paradossalmente addirittura facilitare i contagi. Se ci rifletti, perciò, il nostro vero problema, non è la salute mentale dei no vax, ma quella della democrazia, sempre più esposta ai colpi di un governo reazionario.
Le regole hanno però eccezioni. Nel mio blog scrivo io, ma questo articolo di Dante Barontini uscito oggi su “Contropiano” merita davvero di essere letto. Il “governo dei migliori” ne esce com’è: una esempio di pericolosa miseria morale.
La stronzata galattica del green pass esplode alla luce del sole – senza più la “distrazione di massa” egemonizzata dai fascisti – nel porto di Trieste, dove i “camalli” del Coordinamento Lavoratori Portuali di Trieste (Clpt), la forza sindacale più rappresentata nel porto sono pronti ad entrare in sciopero da venerdì 15 se non verrà annullato il decreto in tutte le sue varianti. Davanti alla minaccia, il “governo che va avanti” ha innestato una mezza marcia indietro, convocando le imprese che agiscono nello scalo per chieder loro di caricarsi il costo dei tamponi ogni 48 ore per quanti non hanno il “certificato verde” perché non vaccinati. Ma neanche questa frenata risolve il problema. Un comunicato del Cplt, infatti, sottolinea che «Non scendiamo a patti fino a quando non sarà tolto l’obbligo di Green pass». Dunque la patata bollente diventa tutta politica, perché chiede al governo – non alle singole aziende – una marcia indietro totale.
Il caso è emblematico, dicevamo, della follia amministrativa combinata da Draghi & co, quando hanno deciso di lasciare “facoltativo” il vaccino, creando però un “documento” obbligatorio che poteva essere ottenuto soltanto da vaccinati, ex malati ed esentati per ragioni mediche. Una scelta che abbiamo criticato fin dall’inizio proprio perché sostituiva una misura sanitaria facilmente spiegabile “alle masse” – nonostante l’insopportabile “nazionalismo occidentale” per cui gli unici vaccini ammessi sono quelli delle multinazionali anglo-statunitensi – con un foglietto burocratico di nessuna rilevanza ai fini del combattere il contagio. La scelta del green pass era però sembrata molto “furba” a governanti interessati solo a creare strumenti coercitivi a disposizione delle imprese contro i lavoratori. Da un lato lasciati “liberi di scegliere” in materia di vaccinazione, ma dall’altra discriminati in base alla scelta.
Tra i portuali di Trieste la percentuale di non vaccinati è molto alta (il 40%, mentre nella popolazione over 12 è solo del 15%), e dunque per tutti i lavoratori è scattato il bisogno di restare uniti contro le minacce di sospensione dal lavoro e dallo stipendio esplicitamente contenute nel decreto governativo, di cui si chiede ora il ritiro puro e semplice. La richiesta di mostrare il green pass, in questo caso specifico, è particolarmente strumentale, visto che la totalità delle operazioni condotte dai portuali avviene all’aperto, ossia in condizioni in cui – fuori dai posti di lavoro – non viene chiesto alcunché. Neanche più di indossare le mascherine. La natura strumentale e “padronale” del green pass è illuminata in particolare da alcuni passaggi delle “disposizioni urgenti per l’applicazione del green pass sui luoghi di lavoro”. In cui si possono leggere perle come questa:
“Come illustrato in apertura il lavoratore privo di Green Pass non potrà essere ammesso sul luogo di lavoro, indipendentemente dal fatto che tale luogo di lavoro sia in luoghi chiusi o all’aperto. Il lavoratore è tenuto a presentarsi sul luogo di lavoro anche se non in possesso del Green Pass e solo dopo l’esito negativo della verifica (o dopo l’eventuale diniego di esibizione del certificato) può essere allontanato. La mancata presentazione quotidiana sul luogo di lavoro, potrà dare luogo a provvedimenti disciplinari per assenza non giustificata.”
Insomma: devi andare tutte le mattine sul posto di lavoro e farti dire, tutte le mattine, “tu non puoi entrare”. Altrimenti sei passibile di licenziamento. Ma a questo punto si è arrivati perché il governo – come gli altri, nell’emisfero neoliberista – non ha reso obbligatoria la vaccinazione di tutta la popolazione, così come avviene per altri 10 vaccini che, se non fatti, impediscono l’accesso dei bambini alle scuole. Ed è veramente una follia inspiegabile, sul piano sanitario, che nel pieno di una pandemia mondiale non si sia mai voluto procedere verso la messa in sicurezza della popolazione. Su questa follia pesa probabilmente l’aver diffuso per alcuni decenni una stranissima nozione di “libertà”, talmente individualizzata e de-socializzata da rendere concreta la pazzia thatcheriana (“non esiste la società, esistono solo gli individui”).
E dunque, quando bisogna fare qualcosa che riguarda ogni singolo individuo, l’unica idea che viene in testa è quella di “inventarsi” un inghippo burocratico che renda di fatto obbligatorio quello che non si vuole dichiarare tale. Un dispositivo tipico, bisogna dire, di una mentalità fascista. Nel solco proprio della “tessera del fascio”, che nel Ventennio era – sì – “facoltativa e libera”, ma chi non la chiedeva perdeva il lavoro. A partire dal pubblico impiego, naturalmente (Brunetta sta provando a usare il green pass nello stesso modo, dichiarandolo obbligatorio anche per chi lavora in smart working). Ma i pasticci burocratici creano situazioni caotiche e ingestibili. Merito dei portuali triestini è proprio quello di rendere esplicita questa follia. La loro posizione – com’è costretto a riconoscere anche l’ultra-filo-governativo Huffington Post – non è infatti quella facilmente (ed a ragione) stigmatizzabile come anti-scientifica:
“i lavoratori sono compatti su una posizione che si può riassumere così: sì all’obbligo vaccinale, no all’obbligo di green pass. Inclusi quelli già vaccinati che hanno promesso di fermare le attività se anche solo un collega, non vaccinato, dovesse essere escluso dal lavoro.”
Insomma: se il vaccino fosse obbligatorio, non ci sarebbe il problema. Lo andiamo ripetendo fin dall’inizio, e persino qualche sedicente “ultrasinistro” fa ancora finta di non capire…
Il green pass è un’arma di distrazione e divisione di massa, che qualcuno (i fascisti) ha cercato di far diventare “il terreno della lotta politica”, sostituendo e bypassando i temi centrali dello scontro di classe in questo momento (quelli sui cui è stato effettuato lunedì uno sciopero generale nazionale di tutto il sindacalismo di base).
L’idea era quella di sollecitare un’opposizione idiota ma bipartisan, in modo da rispoverare l’impostazione strategica degli “opposti estremismi”. Il gioco non è riuscito, anche se continuano a gestirlo in questa chiave i media di regime. In una delle tante strozzature della logistica, lì dove non si può “delocalizzare” e andare da un’altra parte, quell’arma di distrazione di massa è stata gestita in termini di classe. E il “governo dei migliori” è stato rimesso coi piedi sulla terra. Nella sua pochezza…
Lo dico molto umilmente, perché sono confuso. La sinistra ha colpe gravissime e ha creato i presupposti che ci conducono a ieri. Distrutto il sistema formativo, cancellato lo stato sociale, ha seminato ignoranza e disperazione. Il programma delle destre è stato realizzato dalle sinistre, un tempo marxiste, oggi neoliberiste. Per suo conto, il neoliberismo, con la sua religione del mercato, ha prodotto crisi devastanti, che hanno colpito un popolo di senza storia, ridotto a un gregge, privo di coscienza critica. Viviamo su un vulcano prossimo a una probabile eruzione. Se il tappo dovesse saltare, in testa a un movimento di popolo troveremmo certamente chi ieri ha misurato la febbre alla democrazia e sa che è molto malata. L’attacco è stato portato non solo al sindacato, ma si è provato anche a entrare nel Parlamento, alla maniera di Trump. Il fascismo è stato ed è il regime politico ideale per il capitalismo finanziario e da questo governo, che ha dentro i colletti bianchi di una destra eversiva ed è guidato da un banchiere, non potremmo aspettarci una reazione di quelle eroiche alla Allende. La sinistra, dopo aver messo i semi della tempesta si è praticamente dissolta. Auguriamoci che nei prossimi giorni chi ieri ha retto i fili della pantomima rivoluzionaria, si dimostri una tigre di cartone, che non può contare su un Mussolini. Se dovesse uscirne uno, il pericolo sarebbe enorme e comunque i processi ai «sinistri», per quanto necessari, oggi sono tardivi. Abbiamo bisogno di tempo per organizzarci dal basso, parlare alla gente in senso lato, dagli autentici democratici ai preti di base. Credo che questo ci consentirebbe di essere pronti, se possibile, per una lotta politica. Se la parola dovesse invece passare alla forza, avremmo gettato le basi per una resistenza di popolo. Se ho esagerato o detto sciocchezze, perdonate, ma tenete anche presente che per un uomo della mia generazione ciò che è accaduto ieri è stato un trauma violento.
Assalto fascista alla CGIL. Col Governo dei “migliori” stiamo tornando agli anni Venti del secolo scorso. !3 anni di carcere per Mimmo Lucano e la feccia si muove indisturbata!
Elettoralismo? Astensionismo? Autonomia del sindacato o cinghia di trasmissione del partito? Riformisti? Rivoluzionari? Teorie o bibbie? Ricordare chi siamo e da dove veniamo ci aiuta a capire che fare, senza tornare a problemi che sembrano attuali e sono invece il nostro lontano passato… Una biografia lunga, ma anche una storia che farà bene leggere.
Nato a Scafati il 25 aprile 1895, Cecchi trascorre l’infanzia in una casa confinante con la Camera del Lavoro, luogo di comizi domenicali e lavoratori che parlano di salari da fame e disoccupazione e si sente socialista sin da bambino. Nel 1911 fa parte dei giovani del PSI e diventa corrispondente del giornale socialista napoletano «La Propaganda». Nel 1912 si sposta con la famiglia a Castellammare di Stabia, dove conosce Ruggiero Grieco e Oreste Lizzadri e frequenta il Circolo «Carlo Marx», fondato a Portici da Bordiga, di cui sarà amico per tutta la vita. Tra novembre del 1915 e ottobre del 1916 è eletto prima Segretario regionale e poi nazionale dei giovani socialisti, ma si dimette inspiegabilmente pochi giorni dopo. Chiamato alle armi nel 1917 e tornato a Castellammare il 21 marzo 1919, contribuisce alla nascita di una Camera del lavoro, di cui diventa segretario e ne fa un’organizzazione così temibile che, per umiliarla, gli industriali rendono lavorativo il I maggio. La risposta operaia spaventa i moderati. In una piazza gremita, infatti, la Camera del lavoro espone la bandiera rossa, chiama alla lotta lavoratori, donne e studenti e diventa una sorta di «Soviet», che impone un prezzo politico ai negozi di alimenti esposti al saccheggio. Mentre il PSI è fermo e la CGL non coinvolge i contadini, la paura della rivoluzione unisce le forze della reazione e a settembre la cavalleria, caricando un corteo e ferendo lavoratori inermi, mostra quali sono i rapporti di forza. Tra il 1919 e il 1920 Cecchi entra nel Comitato Centrale della frazione astensionista di Bordiga ed è eletto Segretario della Camera del lavoro di Napoli in un momento di dure lotte. Poiché PSI e CGL non sostengono le fabbriche occupate e i padroni reagiscono, spalleggiati dai fascisti, per uscire dall’isolamento, Cecchi si oppone all’astensionismo elettorale ed è sospeso dalla Frazione Comunista. Il 1921 nasce all’insegna di scontri e licenziamenti, con padroni e fascisti scatenati. Quando a Castellammare un carabiniere muore in un conflitto, Cecchi, accusato di aver causato gli scontri, sente la bufera vicina e minaccia: «Per una istituzione operaia violata, cento palazzi borghesi grideranno il nostro odio e la nostra ferma vendetta». In realtà il sindacato è debole e diviso.
Tornato nei ranghi, il 29 gennaio Cecchi diventa dirigente della neonata sezione del PCdI e ad aprile è rieletto segretario della Camera del Lavoro, ma è ben presto isolato. I socialisti infatti non tollerano l’egemonia comunista e per i comunisti Cecchi non segue la linea del partito. Il 3 febbraio 1922, nonostante la debolezza del sindacato e le minacce fasciste, è costretto a uno sciopero generale che si rivela un fallimento. Quando chiede una discussione collettiva sull’autonomia del sindacato, giunge l’attacco personale: Cecchi, opportunista a caccia di stipendi, ama il lusso e bada anzitutto ai propri interessi. Di lì a poco, un’inchiesta sul tenore di vita del sindacalista, voluta da Ugo Girone, dirigente e futura spia, termina con l’esonero da ogni incarico.
Cecchi va via senza difendersi. Riprende gli studi e nel 1924 si laurea in legge. Nel 1925, però, una iniziativa per i martiri del fascismo, la presenza a un incontro tra Bordiga e Gramsci e l’assalto fascista alla sua abitazione, mostrano un militante attivo e spiegano la condanna al confino del 2 dicembre 1926 e l’accusa di sovversione che un anno dopo lo conduce al carcere di Siracusa, da dove, assolto dal Tribunale Speciale, torna al confino ad agosto del 1928. Liberato il 7 dicembre 1929 e sottoposto a una stretta vigilanza e a mille angherie, sposa l’ostetrica Tullia Tommasi, si stabilisce a Napoli con la moglie e si laurea in lettere e filosofia. Dopo una breve esperienza da procuratore legale, la scelta di insegnare, avversata dal regime, lo condanna a una vita precaria, vissuta con quanto ricava da lezioni private e segnata da arresti e perquisizioni. Nel 1935, per evadere dalla sua invisibile prigione, scrive al Duce, che – afferma – sente vicino come nel 1914, quando colpì i massoni. Da anni vive di rinunzie e miserie. Se si fosse piegato, scrive, diploma e lauree gli avrebbero garantito una vita tranquilla, ma non l’ha fatto e ha voluto capire. Ritorna al duce perché esprime «il diritto, l’onore e la forza rinnovatrice dell’Italia». Troppo repentinamente «fascista», l’ex sindacalista non convince l’Alto Commissario Pietro Baratono, che gli allenta però la vigilanza. Nel 1938, in vista di un concorso magistrale, Cecchi firma con uno pseudonimo un libro di lezioni per i futuri maestri «della nuova Italia» e a marzo del 1940 chiede la tessera al partito fascista, che il 25 gennaio 1941 gliela rifiuta per indegnità politica. Il 18 marzo, benché il partito si opponga, è radiato dall’elenco dei sovversivi. In realtà, Cecchi non si è mai convertito. Nei ricordi di autorevoli compagni di lotta, confermati da studi di vari studiosi, dal 1932 l’ex sindacalista e gli uomini della frazione intransigente vicina a Bordiga sono anzi tra i militanti che collegano tra loro gli antifascisti dispersi dalla reazione. Entrato poi in un gruppo clandestino, Cecchi scrive e diffonde con Antonio Baldaro, i fratelli Ennio e Libero Villone ed Eugenio Mancini, due opuscoli sulla situazione politica mondiale. Nel 1937, a conferma di ideali mai negati, l’Ovra segnala alcuni militanti «organizzati attorno a Cecchi come sezione della Quarta Internazionale».
Caduto Mussolini, firma un appello per la pace e la democrazia contro le misure di ordine pubblico volute da Badoglio e giunge alle Quattro Giornate col gruppo «Spartaco» e con legami clandestini che vanno dagli uomini vicini a Bordiga, al prof. Giacomo Cicconardi, primario degli Incurabili, legato a Federico Zvab. La sera del 30 settembre 1943, alla fine delle Quattro Giornate, Cecchi assiste interdetto all’incontro tra i partiti e Leopoldo Piccardi, redivivo ministro di Badoglio e quando giunge Giuseppe Cenzato, Presidente dell’Unione Fascista degli Industriali fino alla caduta del regime, indignato, lo mette alla porta. Si scontra così con Eugenio Reale, segretario del PCI, che difende Cenzato ed è pronto a ricevere il prefetto Soprano, che ha consegnato la città ai tedeschi. Il dissenso sull’epurazione, sui rapporti con Badoglio, gli Alleati e la Democrazia Cristiana e sul ruolo del sindacato, causa una breve ma indicativa scissione. Per i futuri togliattiani, Cecchi e i suoi, «notoriamente bordighisti», seguono una via «diametralmente opposta a quella del Partito Comunista». Per Cecchi, invece, il PCI scende a patti con le forze borghesi, impone dirigenti calati «dall’alto», ignora la democrazia interna e il valore della rappresentanza degli iscritti. Lascia perciò il partito, che sente lontano e si dedica al sindacato. A novembre del 1943 azionisti, comunisti e socialisti dissidenti, riunite varie categorie di lavoratori, riaprono la Confederazione Generale del Lavoro, che rifiuta di salvare fascisti, ha dirigenti eletti dalla base, Camere del Lavoro e strutture sindacali che non sono cinghia di trasmissione dei partiti; un sindacato che afferma il valore costruttivo del lavoro e chiede di partecipare alle scelte di politica economica, per impedire che il governo regali alla borghesia industriale cifre incontrollabili, che peseranno di certo sul proletariato. Cecchi torna alla Camera del Lavoro di Castellammare di Stabia, ma lo scontro si riapre nel sindacato. Si giunge al punto che, nella primavera del 1944, quando Norman Lewis, agente dei servizi segreti inglesi e sincero antifascista, irritato da un insolito interesse del PCI per l’epurazione, chiede i nomi di fascisti clandestini, Eugenio Reale gli consegna un foglio con «i nomi dei quattro uomini più pericolosi di Napoli e quello di un giornale sovversivo che andava soppresso». Purtroppo, scopre poi contrariato l’ufficiale, il giornale è «Il Proletario», pubblicato dai comunisti di sinistra e i nomi sono quelli «di Enrico Russo, capo dei trozckisti e dei suoi luogotenenti, Antonio Cecchi, Libero Villone e Luigi Balzano». L’ultimo intervento di Cecchi quale dirigente sindacale risale all’agosto del 1944, quando presenta due ordini del giorno in cui chiede invano un’organizzazione apertamente classista, garante di una reale unità dei lavoratori, che affermi il principio dell’autonomia delle Camere del Lavoro. La sua «CGL rossa», confluisce però nella CGIL. Per non perdere un autorevole dirigente del movimento operaio, Di Vittorio tenta di trattenerlo, ma il vecchio militante lascia il sindacato. Nell’autunno del 1944, per unire i gruppi di opposizione, Cecchi fonda con Enrico Russo la Frazione di Sinistra dei Comunisti e dei Socialisti Italiani, che raccoglie circa mille iscritti. Ostile alla politica d’unità nazionale, dopo la liberazione del Nord entra in contatto col Partito Comunista Internazionalista, poi lentamente scivola ai margini della vita politica. Con la consueta coerenza, però, a marzo del 1945 rifiuta l’incarico di Commissario prefettizio dell’Azienda Autonoma di Cura e Soggiorno, che gli offrono il Prefetto e il Comitato di Liberazione, Istituzioni che ha combattuto.
La vita di Cecchi nella «Repubblica nata dalla Resistenza» è fatta di stenti e dignità: lezioni private, l’aiuto economico della moglie e finché non si scinde, la militanza nel gruppo bordighiano di sinistra, nato a Napoli nel Partito Comunista Internazionalista l’1 settembre 1951. Docente precario fino al 1956, insegna da incaricato materie letterarie e giuridiche in varie scuole di Napoli e della Provincia. Nel 1962, per giungere al minimo della pensione, ottiene di insegnare fino al 1965, quando compirà 70 anni. Frequenta «gruppi d’irriducibili in un bar di Piazzetta Matilde Serao, trasformato in un covo di rivoluzionari», fino alla morte, giunta l’1 ottobre 1969. Sull’immaginetta stampata dalla famiglia per ricordarlo, si legge: «grande idealista, studioso di problemi politici e sociali, fu combattente per la libertà, per l’emancipazione delle classi lavoratrici e per il progresso sociale. Subì persecuzioni e sofferenze che […] affrontò con forza e serenità […]. Professore di Lettere, di Filosofia e di Diritto, […] fu amato e venerato dai discepoli che ne esaltarono l’ingegno e la cultura».
Fonti e bibliografia Archivio Centrale dello Stato, Confino Politico, b. 229, ad nomen e Casellario Politico Centrale, b. 1219, ad nomen. Archivio di Stato di Napoli, Schedario Politico, Sovversivi deceduti, b. 16, ad nomen. Ivi, Gabinetto di Prefettura, II Versamento, b. 588, f. «IV-7-2-198- 1944-45», sf. «Torre Annunziata. Camera del Lavoro»; Anteo Roccia, (pseudonimo di Antonio Cecchi), L’attività del gruppo Spartaco contro il fascismo e la guerra durante il periodo mussoliniano e fino all’armistizio, «Il Pensiero Marxista», Bari, 2-7-1944; Rocco D’Ambra, dattiloscritto senza titolo conservato in ANPI Napoli, b. 2, f. «D’Ambra Rocco»; Raffaele Colapietra, Napoli tra dopoguerra e fascismo, Feltrinelli, Milano, 1962; Pasquale Schiano, La Resistenza nel Napoletano, C.E.S.P., Napoli, Foggia-Bari, 1965; Nicola De Janni, Operai e industriali a Napoli tra Grande guerra e crisi mondiale: 1915-1929, Librairie Droz, Ginevra, 1984, passim; Norman Lewis,Napoli ’44, Adelphi, Milano, 1998; Rosa Spadafora, Il Popolo al confino. La persecuzione fascista in Campania, I, Athena, Napoli, 1989, p. 130; Alexander Höbel, L’antifascismo operaio e popolare napoletano negli anni Trenta. Dissenso diffuso e strutture organizzate, in Gloria Chianese, Fascismo e lavoro a Napoli. Sindacato Corporativo e Antifascismo popolare, Ediesse, Roma, 2006, Francesco Giliani, Fedeli alla classe. La CGL tra occupazione alleata del Sud e “svolta di Salerno” (1943-45), produzione propria, 2013; Giuseppe Aragno, Le Quattro Giornate di Napoli. Storie di antifascisti, Intra Moenia, Napoli, 2017; Raffaele Scala, Antonio Cecchi, Storia di un rivoluzionario.