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Posts Tagged ‘Grande Guerra’

Mentre siamo parte attiva in una guerra e in piazza si chiede la pace, è a dir poco singolare: dopo un secolo, la nostra repubblica parlamentare, che ha tra i suoi principi fondamentali il ripudio della guerra, celebra ancora un conflitto nel quale ci trascinò a tradimento un re criminale con un patto segreto ignorato dal Parlamento. Un conflitto feroce e insensato, un’infamia, universalmente nota come «inutile strage». Se è vero che le parole non sono mai neutre e pesano come sassi, forse non c’è segnale più raccapricciante dello stato di coma profondo in cui versano le Istituzioni, che la parola utilizzata in netto contrasto col dettato costituzionale: celebrare vuol dire esaltare, glorificare, ricordare festosamente; una parola, quindi, che fa riferimento a un vanto, a un moto di orgoglio, a una lezione positiva da impartire ai giovani del nostro tempo.
Ma che c’è da celebrare un secolo dopo la «Grande Guerra»? L’indecente voltafaccia nei confronti di antichi alleati, aggrediti oltre i loro confini, benché ci avessero offerto Trieste e Trento per le quali dicevamo di voler fare la guerra? La lezione di tradimento e di violenza? Il Parlamento posto di fronte al fatto compiuto e subito messo in mora? Che degno ricordo celebriamo? La democrazia sospesa e le decimazioni? I giovani mandati al macello coi berretti di feltro in attesa degli elmetti, o la stoltezza feroce di Cadorna e dei suoi generali? Come facciamo a dimenticare i socialisti e gli anarchici mandati nelle missioni dove più certa era la morte? E i soldati uccisi dai carabinieri pronti a sparare a chi fuggiva terrorizzato? Perché si tace dei centomila nostri prigionieri considerati disertori e abbandonati a se stessi, in mano a un nemico che stentava ad alimentare i suoi uomini al fronte e uccisi dalla fame e dal freddo nei campi di prigionia? Perché non raccontiamo ai giovani l’inaudita ferocia delle nostre classi dirigenti?
Sarebbe giusto farlo, ma è un ricordo incompatibile con la parola «celebrare». Se a uno studente fai oggi i nomi di Mauthaushen e Theresienstandt, nel migliore dei casi ti parlerà degli eccidi nazisti. Nessuno ti dirà che trent’anni fa, in un libro ignorato, che meriterebbe di essere indispensabile sussidio nello studio dell’Italia nel primo conflitto mondiale, Giovanna Procacci ci rivelò, senza temere smentite, che in quei luoghi finirono ammassati 600.000 nostri soldati che si erano arresi al nemico e furono tutti considerati traditori. Una inconfutabile documentazione d’archivio e le lettere dei militari sequestrate dalla censura narrano – evidentemente invano – l’eccidio voluto dal nostro Paese in nome dell’amor patrio: centomila uomini morti di fame e di freddo perché i Governi sapevano ma non vollero aiutarli *.

«È un affare molto serio», scriveva un ufficiale da Berna; «bisogna, anzitutto premettere che i tedeschi, non avendo ormai più niente da mangiare, non possono dare maggiormente ai prigionieri. Questi disgraziati, se non sono ufficiali, sono costretti ad un lavoro di 12-14 ore al giorno, sono condannati ad una morte molto più certa che quando erano sul fronte. Creda che questa non è esagerazione. Ne ho visto e ne ho interrogato. So di un sergente il quale ha dato le sue scarpe nuovissime per qualche biscotto. Quello lì aveva potuto conservarsi le scarpe. Quasi tutti gli italiani sono stati spogliati ed hanno dovuto passare l’inverno senza scarpe e talvolta senza cappotto. Il numero dei disgraziati, i quali non vedranno mai più il sole di Italia sarà enorme. Bisogna dunque che la Patria assista i suoi prigionieri, […] che l’Italia faccia in ogni campo dove saranno internati sudditi italiani degli invii collettivi di biscotti e altri viveri, che vengono poi distribuiti dal Comitato scelto nei prigionieri, il quale deve essere costituito in ogni campo. Questo è l’unico rimedio perché: 1°) non si otterrà mai che la Germania dia da mangiare ai prigionieri poiché i tedeschi stessi crepano di fame. 2°) le autorità quando non favoriscono il furto, chiuderanno sempre gli occhi sulla disparizione dei pacchi postali individuali».

Generali e politici non ascoltarono e si sa bene il perché: più affamati e disperati erano i prigionieri, più se ne condannavano a morte, più si scoraggiava la diserzione dei combattenti. Un nome di questa scelta disumana, fu fermata la Croce Rossa e tutto fu coperto da una propaganda nazionalista così ben orchestrata, da rendere ciechi persino i genitori dei nostri infelici soldati.
Prigioniero a Theresienstadt in Boemia, così il 5 agosto 1916 un soldato scriveva al padre:

«Non mi degno più chiamarvi caro padre avendo ricevuto la vostra lettera oggi dove lessi che era meglio fossi morto in guerra, e che ho disonorato voi e tutta la famiglia. Tutti parlano male di me. Perché capisco che non sentite più l’amor filiale, non sentite altro che l’amor patrio e pel vostro Re. Perciò d’ora in poi sarò il vostro più grande nemico, e non più il vostro Domenico. Vi ringrazio di tutto cuore, ma non mandatemi più nulla. Addio. Sapete che a scrivere non so tanto; ma sono mie parole lo stesso».
Pochi mesi dopo, da Mauthausen, un altro prigioniero scriveva alla mamma:

«Mia cara madre, ho ricevuto la vostra […]. Il contenuto di essa, riguardante la mia disgrazia mi ha recato dolore ed anche pianto. Mamma, io sono innocente, ve lo confesso con ampia sicurezza, perché la mia coscienza me lo dice e me lo rafferma. Sono libero da ogni rimorso […], ho gran fede in Iddio perché lui riconoscerà la mia innocenza e mi aiuterà nella lotta che sosterrò al mio ritorno. Si, al mio ritorno, dico, perché io verrò, verrò a giustificare la mia ingiusta accusa.
Anziché rinunciare la mia patria desidero anche ingiustamente soffrire la condanna. […] State tranquilla mamma perché vostro figlio non vi ha disonorato».

Per gli infelici proletari prigionieri, non si trattava solo di difendere la dignità e la vita, ma di fare i conti con terribili sensi di colpa: essi sapevano infatti, che la resa al nemico, benché inevitabile, era ricaduta sulle famiglie, già private delle loro braccia. «ti hanno levato il sussidio», scriveva al padre un contadino pugliese il 16 febbraio del 1918, ma

«sono grandi vigliacchi perché io quando fui fatto prigioniero fu colpa del mio tenente e non è colpa mia, e poi noi fummo fatti prigionieri in 32 soldati e caporali e 2 sottotenenti come fanno a dire che io sono disertore?».

Lettere mai giunte ai familiari e per fortuna conservate in archivio. Lo sanno in molti: celebrare la guerra non è una scelta nobile. Celebrare questa guerra, con 100.000 omicidi di Stato su 600.000 caduti, è un’autentica vergogna.

* Giovanna Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella grande guerra, Editori Riuniti, Roma, 1993.

Officina dei Saperi, 7 novembre 2022; FreeSkipperItalia e Zazoom, 8 novenbre 2022

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Pietro Raimondi giovanissimo operaio tessile ucciso durante la Settimana Rossa

Nel giugno 1914, quando i moti della Settimana Rossa scuotono il Paese, colto di sorpresa in una delicata fase di transizione, le luci si vanno spegnendo sul mito della belle époque, ma le classi dirigenti sembrano muoversi ancora sui ritmi del can can e offrono di sé un’immagine frivola e disattenta. E’ probabile, però, che a noi sia giunta la percezione deformata di una proiezione esterna. In realtà, lo strappo c’è stato e il rifiuto della mediazione giolittiana chiude un’epoca. Giolitti ha segnato la crescita e il modello di sviluppo economico, ma per la borghesia, tornata alle ambizioni imperialistiche, è ormai solo un freno. A ben vedere, i «padroni del vapore» sanno ciò che vogliono, hanno colto per tempo segnali di svolta nelle linee di tendenza della diplomazia internazionale e sono cosi determinati, da rompere con Giolitti proprio quando il vecchio statista ha avviato una politica estera di ispirazione espansionistica, adattando con accortezza e tempismo le scelte economiche e la pratica di governo al contesto interno e internazionale…

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Proletari contro la guerra note in calce (ebook scaricabile dal sito “1914-2014 Cento anni di guerre

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AVQ-A-003710-0107Non ho un compito semplice, ma vi parlerò senza seguire un testo scritto che vi annoierebbe. L’arco di tempo che è al centro di questo nostro incontro va dal 1914 al 2014 e corrisponde a un secolo; dal punto di vista storico, non è semplice parlarne in un intervento per forza di cose breve. Rischio di non coglierne tutti i punti essenziali e di avventurarmi troppo avanti nel presente, sicché più che uno storico, potrei finire col diventare un indovino. D’altra parte, chi fa il mio mestiere conosce la distanza che separa i “fatti della storia” dalla ricostruzione che ne ricava. Quando li racconto, non solo gli eventi sono già accaduti, ma ho la fortuna di conoscere il loro esito. Nel momento in cui avvengono, al contrario, gli eventi non sono predeterminati e i loro protagonisti hanno sempre davanti un ventaglio di scelte; solo quando esse sono state fatte e la vicenda si è chiusa, gli eventi diventano la “Storia” che lo studioso ricostruisce. Il 1914, quindi, è storia e ne parlerò come di un fatto compiuto; il 2014, invece, e gli anni che immediatamente lo precedono, sono caratterizzati da fatti che accadono mentre ne parlo con voi, eventi che ci impongono scelte e ci propongono molteplici opzioni. Mi pare chiaro, quindi, che, in questo caso, non esistono “fatti compiuti” e non c’è una “storia da ricostruire”. Questo, s’intende, non vuol dire che lo studioso di storia non possa provare a cogliere gli elementi comuni a vicende apparentemente lontane tra loro e tentare un’analisi che è storica, sì, ma ha comunque un suo significato politico.

Per quanto mi riguarda, penso da tempo ormai che gli storici si siano divisi in due gruppi, di cui uno è minoritario – e io credo di far parte di questa minoranza – e l’altro, più numeroso, è formato da studiosi che tendono ad assegnare a chi si occupa di storia contemporanea campi d’interesse confinati nel “passato”. Dietro questa posizione, che si proclama estranea alle ideologie, non ci sono ragioni scientifiche, ma scelte politiche, che gli studiosi ovviamente negano, così come negano ciò che a me pare evidente: l’insistenza sul rifiuto delle ideologie ha di per sé un carattere ideologico, è una ideologia non dichiarata – “l’ideologia della non ideologia”, se mi perdonate il bisticcio di parole – e proprio per questo pericolosa. Io penso invece che la storia non sia “passato” e che una ricostruzione del passato fine a se stessa non ci interessi, perché il passato è irrimediabilmente concluso. Perché, per fare un esempio concreto, ci dovremmo occupare dell’omicidio di Giulio Cesare, se è accaduto duemila anni fa? Se ci pensate, Cesare non è ucciso per rivalità, gelosia o meschini interessi personali; l’omicidio toglie dalla scena un protagonista della grave crisi politica di Roma repubblicana e mira a modificare il corso degli eventi. Riuscito o meno, l’attentato è lo strumento scelto dai congiurati per fermare un tiranno. Questo non è passato, Di fronte, infatti, abbiamo un evento certamente attuale, il tirannicidio, cioè la difesa della libertà come che sia possibile, anche mediante la violenza. E la stessa violenza politica è un tema attuale. In età di passioni repubblicane, ricostruendo l’omicidio, lo studioso si fermato sulla natura del tiranno, ha provato a definire la sua personalità e si è sentito solidale con Bruto e Cassio. In un tempo di “ordine imperiale”, altri si saranno interrogati sulla figura del regicida e avranno messo in rilievo la pochezza dei congiurati. Domani quei fatti lontani saranno “letti” in relazione alla formazione degli storici e ai principi del tempo in cui essi vivranno. In questo senso, la morte di Giulio Cesare non è “passato”, come vorrebbe certa storiografia”; essa infatti suscita passioni attuali e induce a scelte che fanno riferimento a sistemi di valore che riguardano noi oggi.
E’ così anche per il nostro argomento. Io guardo al 1914 con la sensibilità di uomo di un altro tempo e ne colgo ciò che di quell’avvenimento rimanda al 2014. Per molti versi le affinità impressionano. Questo naturalmente non vuol dire che si debba giungere a una nuova “Grande guerra”. Credo però che in una situazione di guerra ci siamo già; non so se sia grande o piccola, ma so che è combattuta sia con le armi, che su un terreno per adesso solo economico. I campi di battaglia sono le mille periferie di un nuovo impero, ma in campo sono già scese le grandi potenze e si colgono tutti i segnali di un rinnovato scontro tra imperialismi.
Proverò a riflettere sulla “Grande guerra”, ma mi fermerò ogni volta che i fatti di quel momento mi faranno ricordare eventi del nostro tempo. Intanto l’idea di guerra. Diciamo che a 68 anni compiuti, come cittadino e intellettuale, mi fa impressione il fatto che ci si debba riunire per discutere di guerra. Non è un’osservazione banale, come può apparire. Mi colpisce che, dal punto di vista storiografico, fino a qualche anno fa si potesse esprimere sulla “Grande guerra” un giudizio negativo condiviso e non ci fosse bisogno di tornarci sopra, perché pareva addirittura “scontato”, mentre oggi non è più così. Mi sono accorto con stupore che non solo si torna a parlare di guerra, ma si parla della “Grande guerra” come per recuperarne qualcosa di positivo, senza rabbrividire per ciò che rappresentano la guerra in quanto tale e quella guerra in particolare.
Mi è capitato di trovarmi a Parigi, all’inizio di quest’estate, e scoprire che la piazza di Notre Dame era ridotta a un grande museo all’aperto, in cui non pareva si volesse semplicemente ricordare la guerra, ma in qualche modo la si esaltasse. Vi dirò francamente come ho vissuto quella strana esperienza: ebbi l’impressione di essere entrato improvvisamente in una sorta di manicomio all’aperto, in cui tutti, francesi e turisti, avevano davanti una tragedia, ma la guardavano come fosse un film, come qualcosa che non riguardasse tutti direttamente. Quel giorno ha avuto davanti, in forma concreta, la storia “revisionata” e la sua trasformazione in propaganda politica. Naturalmente dietro tutto questo ci deve essere uno scopo preciso. Se in Francia, Italia e altri Paesi improvvisamente le classi dirigenti trasformano la necessità di ricordare la guerra per ammonire, in una più o meno aperta celebrazione di un macello e di una tragedia, vuol dire che dietro c’è un fine politico, non un lavoro storiografico sulla memoria. D’altra parte è di questi giorni il recupero di un’iniziativa politica di La Russa, che risale al 2008, ad opera di due membri del governo Renzi, la ministra dell’Istruzione, Giannini, e Pinotti, ministra della Difesa, che hanno firmato un protocollo d’intesa col quale l’esercito è chiamato a celebrare la Grande guerra nelle scuole. L’intesa naturalmente non è così esplicita – si parla di ricordo – ma un “ricordo” affidato ai militari è di per sé qualcosa di celebrativo – e a conti fatti l’accordo prevede che a fare lezione di storia nelle scuole su un tema così delicato siano ufficiali dell’esercito. La rivalutazione dell’evento bellico, quindi, non solo è evidente, ma si realizza in un paese che formalmente ripudia la guerra per dettato costituzionale ed è per questo un dato a di poco inquietante, perché ci dice che in qualche modo la guerra, della quale dovremmo avere ribrezzo, la guerra che ci ha regalato il fascismo, una guerra, per dirla tutta, della quale ci dovremmo vergognare per tante ragioni, improvvisamente è tornata tra noi come un evento legittimo del quale si può tornare a parlare.
Che diranno gli ufficiali quando entreranno nelle classi? Sarà una buona lezione di storia – ma non avrebbero potuto farla i docenti? – o sarà un lavoro di propaganda che ha un fine ben chiaro: abituarci all’idea della guerra? Un’abitudine che si va facendo strada in noi già da tempo purtroppo, perché la guerra la vediamo tutti i giorni alla televisione, somiglia a un videogioco e si combatte in un modo quantomeno strano: da un lato ci sono, infatti, eserciti che subiscono perdite umane minime, nell’ordine delle unità, due, tre uomini, molto spesso uccisi da “fuoco amico”, come s’usa dire – in genere sono gli eserciti dei Paesi che la scatenano – dall’altra parte ci sono mille, centomila, mezzo milione di morti, pochi militari e moltissimi civili, spesso, spessissimo bambini. In realtà ci abituano così a una verità deformata. La guerra era e rimane tragedia, ma noi la vediamo da lontano. Quello che è accaduto in Palestina pochi giorni fa, con un insospettabile funzionario dell’Onu che in televisione piangeva e accusava gli israeliani di aver massacrato bambini palestinesi, noi l’abbiamo visto come in genere certe cose si vedono a cinema, ma non riusciamo a percepire fino in fondo cosa accada davvero. Non riusciamo, eppure quella sorta di film che vediamo ci riporta direttamente a stragi lontane e ci interroga: cosa furano il 1914 e la fine della “belle époque” nella percezione di chi li ha vissuti? Alla luce di questa domanda, proverò a raccontare cosa è stata la guerra, com’è nata, come si sia inserita in un contesto che somiglia molto a quello attuale e che disastro fu combatterla e poi accollarsene le conseguenze.
Se cerchi le testimonianze di chi ha vissuto quei giorni – non mi riferisco ai ceti subalterni, ai quali la storia di rado dà voce – ma alle classi dirigenti, ne ricavi la percezione chiara di un evento infausto, catastrofico e soprattutto imprevedibile che mette in discussione una civiltà e poi la distrugge. In realtà le cose non sono andate affatto cosi; se è vero che in quel lontano 1914, la guerra nasce da una causa accidentale, da un attentato che sorprende l’Europa tra paillettes, luci e apparente benessere delle classi dirigenti, non è meno vero che dietro tutto questo ci sono due menzogne; la prima è che l’Europa fosse felice, perché “felice”, se così si può dire, era una minoranza costituita dalle classi abbienti, mentre una marea di disperati subiva le conseguenze di una repressione micidiale del dissenso e di un sistema di produzione che da un lato creava ricchezza, dall’altro disperazione. In quanto poi alle classi dirigenti che si dicono sorprese dalla guerra, bene, esse mentono, perché non potevano non sapere che da anni si preparava un conflitto. La guerra non nasce dal nulla, ma ha radici profonde nel secolo precedente, cosi com’è evidente che, se oggi la NATO si trova ai confini della Russia, questo non accade perché improvvisamente qualcuno è impazzito in Ucraina. Allora come oggi, dietro la scontro, ci sono scelte meditate e lontane nel tempo. Quale sarà l’esito della crisi oggi, è difficile dire, quale fu l’esito dello scontro di allora lo sappiamo. Proprio perciò vorrei fermarmi su due o tre interpretazioni più recenti della guerra, per capire ciò che accade nel profondo della nostra società e soprattutto in un mondo ambiguo come quello degli intellettuali, degli storici, degli accademici che spesso, lasciatemelo dire, camminano su binari paralleli al potere, per cui ci narrano la storia non in base a ciò che è accaduto davvero, ma per compiacere chi governa e ha in mano il potere, sicché ciò che impariamo, è molto spesso parziale, talvolta addirittura falso. Com’era falso poco tempo fa che fossero stati i separatisti russi ad abbattere l’aeroplano malese. Mi direte che non si tratta di storia, vi dirò che anche su queste menzogne si ricostruirà poi la storia. Su uno strumento di propaganda efficace, che è stato improvvisamente dimenticato, quando si è capito che l’aereo era stato abbattuto dagli uomini dell’esercito di Kiev.
Anche nel 1914 c’è un attentato così ambiguo, che sarebbe addirittura più corretto parlare di due attentati. In visita a Sarajevo, città della Bosnia, ci sono il Principe ereditario dell’Impero austroungarico, Francesco Ferdinando, e la moglie Sofia; il corteo di auto che attraversa la città subisce un primo assalto lungo il percorso. Qualcuno tira una bomba, ma colpisce l’auto che segue e ferisce alcuni ufficiali che accompagnano la coppia. A quel punto, di norma, se proprio si deve proseguire, il percorso è modificato, si prende ogni possibile misura di sicurezza e un secondo attentato diventa, se non impossibile, certamente improbabile. Invece, dopo una breve sosta e un altrettanto breve conciliabolo, a Sarajevo si decide solo di cambiare percorso, ma per un incredibile errore il corteo torna sul percorso precedente, c’è un secondo attentato, compiuto da uno studente serbo, che uccide il Principe e la moglie. Proprio quello che serviva all’impero austroungarico, da tempo al centro di controversie sui Balcani. Che un serbo ammazzasse qualcuno che in Austria contava, poteva anche essere un’occasione d’oro per chiudere i conti. In ogni caso, se ragioni molto più oscure e profonde non avessero pesato sui rapporti tra i due Paesi e sulle indagini seguite all’attentato, ci sarebbe stata di certo una forte protesta, ma il lavoro della diplomazia e una commissione d’inchiesta sarebbero bastati a chiudere l’incidente. Le cose non vanno così. L’Austria, infatti, che in un battibaleno ha già pronto l’esercito, presenta richieste che artifici linguistici e abilità diplomatica evitano di definire ultimatum, ma sono di fatto nove condizioni, alcune inaccettabili, che pretendono una risposta immediata e non possono avere altro esito se non la guerra. L’ambasciatore d’Austria, per giunta, consegnate le sue richieste, lascia senza colpo ferire Belgrado, svuota l’Ambasciata del personale e se ne va a Vienna. Ammesso che fosse stata possibile, una risposta positiva e immediata non poteva più materialmente essere consegnata.
L’Austria-Ungheria, decisa a scatenare un conflitto per le sue mire imperialiste sui Balcani, non poteva non sapere che proprio sui Balcani aveva mire altrettanto decise e ultimative la Russia, né poteva ignorare una questione scottante per l’Europa e strettamente legata agli equilibri nei Balcani: la crisi dell’Impero Ottomano, uno Stato vecchio e decadente del quale tutti volevano spartirsi le spoglie. Allora si chiamava “questione d’Oriente” e non vorrei che, per un tragico errore di valutazione, l’impero in disfacimento di questo momento storico non sia la Russia, ex Unione Sovietica, alla cui orbita da tempo l’imperialismo occidentale tenta di sottrarre le repubbliche che un tempo costituivano la superpotenza rossa. Tra l’altro l’invio di truppe ai confini della Russia deciso recentemente dalla NATO viola gli accordi firmati al momento della dissoluzione dell’Unione Sovietica, che impegnavano i Paesi occidentali a non mandare mai truppe in pianta stabile a ridosso della Russia. Per dirla nel linguaggio della diplomazia, si tratta di un gesto di “profonda inimicizia”, un gesto che, nel linguaggio militare, si definisce “casus belli”. Qualcosa, quindi, di equivalente all’attentato di Sarajevo e che pare rispondere alla stessa logica di quel folle errore: prevenire le reazione, scatenando un rapido conflitto locale, nella convinzione che, vinta la partita, tutto si risolva con un accordo. In fondo la “Grande guerra” scoppia nel 1914 sulla base di questo equivoco, di una serie di ambiguità e di decisioni già prese, di cui tutti conoscevano bene la reale portata, ma tutti sottovalutavano le conseguenze. Le cose non andarono così perché da tempo ormai si erano creati due blocchi contrapporti di Paesi alleati, che intervennero uno dopo l’altro, appena si mise mano alle armi. Nel 1914 gli schieramenti erano ben più definiti di oggi, quindi gli errori sono ancora più possibili e oggi come allora la conseguenza di una guerra, che si immagina rapida e locale, potrebbe essere un allargarsi del conflitto fino a una dimensione mondiale.
Se si torna indietro nel tempo – e proverò a farlo senza annoiarvi troppo – ci si rende conto che lo scontro tra capitalismi e imperialismi rivali, non era latente e aveva un tal peso nella vita politica dell’Europa, che aveva determinato schieramenti militari che non nascono certo al momento dell’attentato di Sarajevo. Sono stati anzi gli interessi del capitale a determinare le scelte dei singoli Paesi, le loro ambizioni e i loro problemi e a produrre le alleanze militari che, a loro volta, danno alla guerra la sua dimensione. Certo, a scatenare apparentemente il conflitto è il calcolo sbagliato di un paese che forza la volontà dei suoi alleati e ci fu anche chi provò a fermare il meccanismo innescato, ma la sensazione è che il ventaglio delle scelte possibili fosse ormai cosi ristretto, che la guerra diventava quasi inevitabile. È vero che a decidere quale sarà la storia domani è l’esercizio della nostra libertà di scelta nel presente, ma è altrettanto vero che dieci scelte precedenti possono rendere l’undicesima più o meno obbligata. Questo significa negare il concetto di “storia” come libera scelta dei singoli e delle collettività? Non credo. Più semplicemente può significare che, dopo molte libere scelte, si crea un contesto che stringe in una morsa chi è successivamente chiamato a prendere una decisione. Si tratta, quindi, di una scelta libera in un quadro di scarsa libertà, di tragica riduzione del ventaglio delle possibili opzioni. Ed è questo uno degli elementi di forte collegamento tra un “ieri” che è finito, che è “passato”, ma produce le sue conseguenze sul presente e quell’oggi che si avvia a nascere, a crescere e a portarci chissà dove nel futuro. Se ieri sono state fatte molte scelte sbagliate, nessuno potrà cancellarle. Esistono, producono conseguenze e restringono fortemente le ulteriori possibili scelte. Oggi ci sono in campo alleanze, volontà che sono già state esercitate con forza, integralismi contrapposti ed è evidente che esiste una grande potenza, gli Usa – nel 1914 c’era l’impero inglese – che conserva ancora un fortissimo peso militare e finanziario, ma non riesce più ad esercitare il suo ruolo di potenza egemone, poiché ce ne sono altre che la superano nel campo economico. E c’è poi l’Unione Europea, nata per essere unione dei popoli, fattore di equilibrio, e diventata unione di banche e di ambizioni imperialistiche; una realtà che crea ulteriori problemi agli USA. Si tratta di alleati, è vero, ma anche di capitalismi in competizione tra loro, nel corso di una terribile crisi economica ed è probabile che agli Stati Uniti d’America – e non solo a loro – la guerra possa sembrare una via d’uscita da una crisi che sembra sfuggire a ogni controllo.
Un impero non cade per sua scelta, non ridimensiona spontaneamente il proprio ruolo e conosce in maniera chiara il quadro nel quale opera, sicché un’opzione militare, che decida di una situazione per un tempo ragionevolmente lungo, è quantomeno probabile. Certo rimane un’incognita di cui va tenuto conto: stiamo parlando di potenze nucleari e la differenza col 1914 qua è forte. La catastrofe del 1914 non sarebbe paragonabile con una conflitto nucleare; tuttavia, si trattò di qualcosa di impensabile per i popoli dell’Europa di allora. La storia la fanno anche gli errori di valutazione. Noi ricostruiamo la vicenda umana in base ai fatti, ma c’è nella ricostruzione un elemento che non si può trascurare: ci comportiamo come se i fatti parlassero da soli, ma non è così. Carr, grande storico del Novecento, diceva a ragione che i fatti sono muti o, per dir meglio, parlano se sono interrogati e le loro risposte dipendono dalle nostre domande; la storia, quindi è ricostruita raramente nella stessa maniera. Gli storici, che hanno ognuno la propria formazione, anche se si impegnano a non fare scelte pregiudiziali e ideologiche, pongono ai fatti domande che nascono dai loro interessi, dal loro sistema di valori di riferimento e ne ottengono determinate risposte. E’ naturale perciò, che se mettete insieme uno storico liberale e uno storico marxista e li fate parlare della “Grande guerra”, vi accorgete che da una sola guerra, ne vengono fuori due, profondamente diverse tra di loro. Eppure si tratta di fatti che sono più meno gli stessi per entrambi: un gioco d’azzardo, un urto militare determinato da interessi antichi, radicati in un contesto che si è andato creando nel tempo e produce la fine dell’egemonia dell’Europa e la nascita di due superpotenze.
Consentitemi una breve osservazione su ciò che è cambiato nell’interpretazione degli storici. Poiché la guerra causò la rivoluzione bolscevica, da qualche anno anche quest’ultima finisce col rientrare, per dirla con Benedetto XV, nel “suicidio dell’Europa civile”. Nell’inutile strage, rientrerebbero così, assieme alla guerra imperialista, la rivoluzione di ottobre e la nascita dell’Unione Sovietica, eventi che, in realtà, viaggiano su binari profondamente diversi tra loro. La guerra, infatti, si può leggere solo come un evento negativo che – rilevò acutamente Braudel – dilagò in una Europa che “era sull’orlo del socialismo”; una tragedia che ricade in gran parte sui popoli, senza alcun “ammortizzatore”; per la rivoluzione sovietica occorre rovesciare questo ragionamento perché essa genera in Russia una positiva trasformazione. L’Unione Sovietica è un Paese incomparabilmente migliore della Russia zarista, quale che sia poi stato l’esito finale della rivoluzione; una realtà con cui il capitalismo dovrà confrontarsi, smussando le sue punte più aguzze per timore del dilagare dello spirito rivoluzionario.
Questo valore positivo è chiaro e gli storici borghesi, “sacerdoti” del pensiero unico liberista, sanno che da una guerra spesso può nascere una rivoluzione; dal 1870 e dalla guerra franco-prussiana, si giunse all’esperienza della Comune, annegata nel sangue di decine di migliaia di comunardi passati per le armi. Un intreccio così profondo, che l’inglese Herbert Albert Fisher, nella sua Storia d’Europa, ricorderà come, proprio in coincidenza con la guerra, ai primi di luglio del 1914, Pietroburgo vedrà operai in armi sulle barricate. Ma la rivoluzione è anche un evento inconciliabile col mito di un capitalismo che produce ricchezza e cancella il conflitto. Di qui il tentativo di leggere la prima guerra mondiale e la rivoluzione non come due elementi distinti e cronologicamente separati – prima la guerra, poi la rivoluzione – ma come un solo evento, un unicum – guerra e rivoluzione – i due volti di una sola tragedia. Tra i primi a proporre una lettura così ideologica di quegli eventi ormai lontani è stato Ernst Nolt, che tra gli anni 80 e l’unificazione della Germania, in un libro intitolato La guerra civile europea, se ne venne fuori con una tesi fuorviante che non si ferma sul 1914, ma sul 1917, anno in cui, con la rivoluzione bolscevica, inizierebbe una “guerra civile” dell’Europa, destinata a chiudersi solo nel 1945 (altri dopo di lui proporranno addirittura il 1989). Con una “distrazione” che non è certo involontaria, Nolte si inventa così un tempo storico separato dal contesto reale, mette in ombra il 1914, e fa nel 1917 la data in cui sarebbe “cominciato il secolo delle guerre e delle rivoluzioni”; come se la “Grande guerra” fosse scoppiata con la rivoluzione di ottobre, nel 1917. Una posizione strumentale e fuorviante, quindi, non solo perché la guerra scoppia prima, ma perché, così facendo, lo storico addebita alla rivoluzione russa la tragedia europea, che ebbe origine invece dalla guerra imperialista, e mette insieme fenomeni profondamente diversi – la guerra e la rivoluzione – per dare una connotazione negativa alla rivoluzione bolscevica, causa di una guerra civile in cui, di fatto, l’Europa avrebbe perso il ruolo egemone. Perché guerra civile? Perché la rivoluzione che minaccia le classi abbienti e il loro benessere nell’Europa occidentale, trova risposta nei fascismi. In realtà, le cose non stanno così e non furono certo Lenin e la rivoluzione ad avviare la crisi dell’Europa. Lenin sfruttò la guerra e si inserì nelle contraddizioni del capitalismo da rivoluzionario autentico, cogliendo l’occasione offerta dal conflitto per eliminare lo Zar.
Dopo la sortita di Ernst Nolt, all’inizio di questo secolo, Andrea Graziosi, storico liberale che viene dalla sinistra axtraparlamentare, dà alle stampe un libro insidioso, in cui, modificando la periodizzazione ormai classica, fa del “secolo breve” e della guerra qualcosa che nasce nel 1914, ma si conclude nel 1956 quando Kruscev denuncia lo stalinismo. Graziosi, quindi, non solo accomuna la guerra e la rivoluzione, ma mette entrambe in un unico calderone, su un piede di parità, come se avessero per l’umanità il valore di una tragedia comune. Sono manipolazioni che nascono probabilmente da una necessità: i fatti non sono compatibili con le interpretazioni di chi ha provato a farci credere che la crisi prima e la caduta poi dell’Unione Sovietica aprivano l’età dell’oro. C’è stato persino chi, come il giapponese Fukuyama, crollata l’Unione Sovietica, in una interpretazione che si può considerare filosofia della storia, più che tentare una ricostruzione di fatti, ha ipotizzato la “morte della storia”, uccisa dal benessere che nasce del capitalismo e dalla conseguente cessazione del conflitto sociale: sparito il “male”, non avremmo avuto più né guerre, né problemi, ma una ininterrotta crescita verso il benessere collettivo. Più o meno lo stesso, ideologico ottimismo della concezione storica dell’Ottocento, quando tutto pareva andar bene per il capitalismo e, senza tener conto delle condizioni di vita dei lavoratori e delle classi subalterne, si pensava, per dirla con Carr, a “un’evoluzione benefica e apparentemente illimitata verso mete sempre più elevate” e si trasformava così la scienza storica in un mercato delle illusioni. La verità e che è andata in maniera diversa; mentre si sosteneva che guerre non ne avremmo avute mai più, si creavano i presupposti perché ce ne fossero. Non a caso siamo qui a riparlarne. Ora è chiaro che non era stata certo la rivoluzione a creare la guerra; la rivoluzione, al contrario, era stata un modo per uscirne. Naturalmente possiamo discutere sul fatto che ci sia riuscita, ma mettere insieme le due cose significa davvero manipolare i fatti. Le cause della guerra erano altre; tra Francia e Germania esisteva un contrasto che risaliva, in pratica, ai tempi di Napoleone Bonaparte che, mettendo sotto tutela francese la Prussia sconfitta, aveva scatenato quelle che per i tedeschi sono le guerre di indipendenza. Da quel momento tra francesi e tedeschi non c’era stata più pace e fu chiaro che nell’Europa continentale poteva esserci un solo capitalismo egemone: francese o tedesco. Non è un caso che la Germania si affermi mortificando il militarismo francese e cancellando il Secondo Impero. Da quel violento scontro viene fuori una Repubblica Francese, che nasce sul sangue di 40mila rivoluzionari, passati per le armi dopo il tentativo della Comune e non può evitare la perdita dell’Alsazia-Lorena. Per i francesi è una ferita grave, una umiliazione che non sarà dimenticata. La cosiddetta “revanche” non è solo figlia della perdita di importanti territori minerari; si tratta anche di un’ambizione frustrata: diventare la potenza egemone in Europa. E’ questa la realtà dei rapporti tra le due potenze quando si giunge al 1914. Una forte rivalità, cui va aggiunto un serio contrasto nella spartizione delle colonie africane, da cui la Germania, nata nel 1871, è stata esclusa come l’Italia. Un contrato così profondo da determinare l’avvicinamento di due capitalismi rivali, quello inglese e quello francese, quando la Germania costruisce una flotta che allarma agli inglesi e li fa sentire così minacciati da indurli a uscire dal loro “splendido isolamento”.
La propaganda presenta tutto questo come una “sorpresa”, ma non è andata certo così. Dopo guerre, morti e soluzioni improvvide di problemi scottanti, non è possibile pensare all’Europa della “belle époque” che si risveglia d’un tratto e si accorge della tragedia che è dietro l’angolo. La guerra che scoppia nasce da scontri di interessi contrapposti che sono ben noti anche se hanno radici lontane nel tempo. Dell’Italia parleremo tra poco; merita un’attenzione particolare perché, tra tutti gli odiosi capitalismi che fanno la loro parte nella storia dell’Europa, quello di casa nostra si distingue e non merita certo una medaglia d’onore. Prima di parlarne, va ricordato un altro problema di rilievo, che richiama molto da vicino ciò che sta accadendo oggi. Anche la Russia zarista nutriva le sue ambizioni imperialiste e faceva i conti con un problema che pesava non poco sulla sua vita economica. L’espansionismo russo, infatti, aveva alle spalle l’antica necessità di basi commerciali lungo rotte marine di libero transito, lontane dai ghiacci che paralizzavano la navigazione, per evitare dogane – le merci russe attraversavano Paesi stranieri – e assicurare all’Impero, ricco di risorse del sottosuolo, uno stabile futuro economico. Di qui l’interesse a garantirsi l’ingresso nel Mediterraneo, attraverso i Dardanelli, passando dal Mar Nero al Mar Egeo. Luoghi vitali per i russi, gli stessi in cui oggi penetra la NATO, per togliere ossigeno alla Russia. Putin non è un’alternativa credibile al modello occidentale, ma non si può essere così ciechi da non capire che, con la crisi ucraina, gli USA e l’Unione Europea lo costringono a scegliere tra la guerra e una umiliazione che potrebbe scatenare il dissenso interno dei nazionalisti con esiti imprevedibili per la sua leadership. Quale che sia l’intento, la guerra o la destabilizzazione, l’azzardo è grave, perché non si tratta dell’Afghanistan o dell’Iraq, ma di un Paese con forti tradizioni e una lunga storia. In Russia si infransero i sogni di Napoleone e si logorarono le armate di Hitler battute a Stalingrado.
Per tornare alla “Grande guerra”, Putin non c’era, la rivoluzione sovietica non era cominciata, ma esistevano gravi tensioni tra Austria e Russia e tra Inghilterra e Russia e, per impedire ai russi di entrare nel Mediterraneo, la Francia e l’Inghilterra avevano combattuto dal 1853 al 1856 una guerra in Crimea. Da tempo ormai, fermata dalla potenza navale giapponese in Oriente, la Russia aveva di nuovo rivolto l’attenzione verso il Mediterraneo e si atteggiava a protettrice degli slavi nei Balcani, con il fine palese di impedire all’occidente il controllo di quelle terre e garantirsi uno sbocco in mari caldi. Ma nei Balcani si scontrava con l’Austria che lì giocava una partita per l’egemonia, appoggiata da quella Germania che, col sua politica di armamenti navali, minacciava l’egemonia inglese sui mari. Nel 1907 gli schieramenti militari rispecchiavano gli interessi in gioco e vedevano l’Inghilterra, la Russia e la Francia unite da un’alleanza. A minacciare la pace, quindi, c’erano contrasti profondi.
L’Italia è un caso particolare e anomalo di capitalismo e nazionalismo di retroguardia. Entrata nel valzer come potenza di secondo livello è attratta nell’orbita della Germania, che cercava alleanze, quando Bismarck aveva tentato in tutti i modi di ripristinare un’alleanza a tre, sul modello della Santa Alleanza, perché temeva l’accerchiamento e si era sforzato di rompere l’isolamento. Con la Russia non c’era riuscito, poiché i contrasti erano troppo profondi, ma aveva attirato nell’orbita tedesca l’impero austroungarico e l’Italia, che la Germania aveva aiutato a completare il percorso dell’indipendenza nazionale. La terza guerra d’indipendenza l’avevamo vinta grazie ai tedeschi che, vittoriosi dopo le nostre sconfitte a Lissa e Custoza, minacciarono di continuare la guerra, se l’Austria non si fosse arresa anche agli italiani e ci consegnarono il Veneto. Una chiara indicazione del ruolo che avremmo dovuto assumere per il futuro, che il Paese non colse. L’Italia non era una potenza ma pretese di esserlo. E non si tratta solo del passato. A me pare, per esempio, ma posso pure sbagliare, che la Libia ha di recente subito una feroce aggressione, proprio per la politica di Berlusconi, che, avvicinandosi troppo a Putin e Gheddafi, stava uscendo dai binari che l’Occidente ti consente. Le bombe alla Libia erano in qualche misura indirizzate a noi, un monito a una potenza minore, che si azzardava a modificare equilibri garantiti da paesi ben più potenti. L’Italia di fine Ottocento, invece, entra nella danza di grandi potenze, ma non ha la forza materiale per giocare la partita. È un Paese privo di un forte sistema bancario e arretrato in molte delle sue aree; un Paese che solo con Giolitti ha avviato la sua prima vera stagione di sviluppo industriale. Quel Giolitti che non a caso cade, quando la prima significativa crescita economica, soprattutto del Nord del Paese, induce la borghesia a ritenere ormai inutile, se non dannosa, la sua politica di mediazione tra gli interessi contrapposti delle classi sociali e se ne libera, convinta che lo statista piemontese non avrebbe mai consentito di percorrere la via che in breve scatenerà l’inferno in Europa.
Sono gli anni in cui il Banco di Roma si espone in una politica di finanziamenti in Tripolitania che, per quanto avversata dalla Turchia, tenta di entrare in ogni impresa e affare che conti, e sostenuto dalla polemica dei nazionalisti ottiene che l’Italia tenti l’impresa libica. Un’impresa che contribuisce in modo decisivo a scatenare il primo conflitto mondiale, perché l’attacco alla Libia costrinse alla guerra la Turchia agonizzante e scatenò l’inferno nei Balcani, dove non a caso in due anni scoppiarono due guerre che coinvolsero entrambe la Turchia e la lasciarono stremata. Per le grandi potenze era giunta l’ora della resa dei conti. Com’è facile vedere, la guerra non fu un evento casuale, giunto inatteso per cause accidentali. Quando l’attentato di Sarajevo mette in moto il gioco delle alleanze, l’Italia si interroga. Non è pronta al confronto e soprattutto è incerta sul campo in cui stare. E’ perciò che si appella al carattere difensivo del trattato di alleanza con Austria e Germania, un trattato che imponeva ai Paesi che l’avevano sottoscritto di intervenire a favore di un alleato aggredito. Le guerra però nasceva da una decisione austriaca, adottata peraltro senza alcuna preventiva consultazione col nostro governo; l’Italia non era obbligata a intervenire e in un primo tempo si dichiarò neutrale. Una neutralità che tranquillizzava i socialisti di casa nostra e in generale quelli dell’Internazionale che, in effetti, sull’esempio dei socialdemocratici tedeschi erano pronti a schierasi con i singoli governi, nonostante l’opposizione di significative ma isolate e inascoltate voci discordanti. Per un po’ in Italia l’opposizione all’intervento trovò in Mussolini una guida apparentemente ferma, ma tutto ben presto cambiò e a poco a poco il futuro “duce” si spostò su posizioni interventiste. Si è poi scoperto che da anni Mussolini era una spia, al soldo dei francesi. Mentre il partito socialista si sarebbe poi attestato su posizioni ambigue, che si riassumono in una formula rivelatrice – “né aderire, né sabotare – le classi dirigenti in Italia si preparano a un tradimento. L’intervento, infatti, viene deciso alle spalle del Parlamento, dopo un accordo segreto firmato a Londra il 26 aprile 1915; un accordo che impegna l’Italia a entrare in guerra contro i suoi ex alleati in cambio di Zara e Sebenico, Trento, Trieste, l’Isonzo, Bolzano, Valona e generiche promesse su terre situate di fronte al Dodecanneso. Questo, il punto di arrivo di una politica estera che prima mercanteggia con l’Austria, per capire quanto si può guadagnare dalla neutralità. L’Austria aveva offerto Trento e buona parte del Trentino, che avrebbe consegnato dopo la vittoria. Non bastò a impedire che un Paese impreparato al conflitto, mandasse al macello i suoi giovani.
Ovviamente quando la guerra terminò, non ci fu dato tutto quanto ci era stato promesso e la polemica sulla “vittoria tradita” agevolò l’avventura fascista. Si è parlato di tradimento italiano delle alleanze, non si dice mai che la cosa più terribile di tutte, il vero tradimento, si consumò ai danni dei nostri soldati e sarebbe davvero interessante sapere se gli ufficiali andranno a raccontare tutto questo nelle scuole. Quando l’Italia si avventura nel conflitto, l’impreparazione è tale che i soldati sono aggregati a reggimenti di prima linea che si sono allenati al tiro utilizzando dei bastoni che sostituivano i fucili. Mancava l’essenziale e gli elmetti arriveranno in testa ai combattenti nel 1916. I soldati finirono in trincea col berretto di feltro contro eserciti di grandi paesi industrializzati, esposti alle schegge prodotte da incessanti bombardamenti di artiglieria. Dei nostri tanti morti, molti non caddero per il valore del nemico, ma per le schegge dei loro stessi cannoni che li trovavano senza la protezione dell’elmetto, per la scarsa qualità di ufficiali impreparati al tipo di guerra che affrontarono. Di fronte a uan guerra di questa portata, combattuta contro la volontà di un popolo, che nel giugno 1914, con la “Settimana Rossa” ha scatenato una rivolta per la pace e contro il militarismo domata nel sangue, gli alti Comandi temono di non poter governare l’esercito e adottano provvedimenti barbari, Anzitutto si accusano i soldati di essere potenziali disfattisti e socialisti e si ricorre perciò con frequenza al metodo inaccettabile della decimazione; per un soldato che scappa sulla linea del fuoco o diserta, dieci dei suoi compagni di reparto, scelti a caso, vengono fucilati. Non bastasse, carabinieri schierati alle spalle della linea del fuoco, uccidono i soldati che in preda al panico scappano. Violente sono in genere le punizioni e si giunge a tal punto di ferocia da ritenere che i prigionieri siano in larga maggioranza disertori. La conseguenza è agghiacciante.
Si dice in genere che l’Italia perse in combattimento 600.000 uomini, ma non è vero, i militari caduti in battaglia furono 500.000; ben 100.000, invece, furono uccisi dalla fame e dagli stenti nei campi di prigionia Non li affamarono tedeschi e austriaci; questi ultimi, anzi, avevano avvisato il nostro Paese e il governo conosceva la situazione: Austria e Germania stentavano ad alimentare i loro soldati e chiedevano che la Croce Rossa si facesse carico dei prigionieri. Francesi e inglesi inviarono periodicamente treni carichi di viveri, l’Italia no. Per l’Italia i prigionieri erano disertori da punire assieme alle famiglie, cui si negava il sussidio che toccava alle famiglie dei combattenti ogni volta che un familiare finiva in mano nemica. Si puniva così non solo il soldato, ma la sua famiglia, alla quale, dopo aver sottratto braccia da lavoro, si toglieva il necessario per sopravvivere. Quando la guerra finì, ci ritrovammo con 100.000 prigionieri uccisi dalle scelte delle nostre classi dirigenti. I prigionieri, tornati in patria, non furono mandati a casa subito, ma arrestati; per lunghe settimane si tentò di processarli per diserzione. Successivamente, di fronte a massicce evasioni, si decise di deportarli in appositi campi di concentramento in Libia o in Macedonia, per valutare le loro posizioni. Non si riuscì a farlo, perché alla fine, temendo le reazioni delle famiglie e non volendo badare alla loro alimentazione, Nitti li liberò in massa. Una marea di straccioni si riversò così per le vie nel nostro Paese.
Naturalmente questo non è il cuore del nostro ragionamento, però,mentre mandiamo armi ai curdi e finanziamo costose e incostituzionali spedizioni all’estero, mentre ci dicono che mancano i soldi per stipendi e pensioni, ma si trovano i fondi per entrare nella tragedia ucraina e tradire ancora una volta il Paese, occorre evitare che il filo della memoria storica si spezzi, per provare a capire la lezione che ci viene dalla passato, da quella “Grande guerra”, che si intende celebrare e che fu per noi l’anticamera del fascismo. Una lezione molto più attuale di quanto comunemente si creda.

Atti del convegno sul tema Gli apprendisti stregoni e la guerra, tenutosi il 21 settembre 2014 presso la Casa della Pace, Testaccio, Roma, 21 settembre 2014, ora in Contropiano, rivista della rete dei Comunisti, anno 23, n. 2, novembre 2014, pp. 10-19.

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madridL’Associazione “A Madrid si muove un’altra Italia – en Madrid otra Italia” mi segnala la notizia e la riporto volentieri, per quanto sconcertato :

Apología del fascismo. ¡Hay que denunciarlo
(Apología del fascismo. ¡Dobbiamo denunciarlo!)

Un’esposizione di Movistar loda Hitler e lo presenta come un eroe, ignorando i suoi crimini.

Per leggere il testo originale della fotografia cliccare qui, sul Panello “Hitler biogràfic / @TeresaRenedo“.

Questa la traduzione dal catalano, un po’ avventurosa, ma tutto sommato fedele.

Dopo l’avvento al potere nel 1933 e grazie alle sue riforme democratiche profonde, la Germania ha migliorato la sua posizione e ha cominciato a riguadagnare ex territori“.

La frase, riferita al dittatore nazista Adolf Hitler, appare sul pannello che spiega la storia dei profumiere mostra Los, organizzata congiuntamente da Movistar TV e History Channel, che è stato possibile vedere fino a Sabato scorso, al Mobile World Area Central Movistar, situato in Plaza de Catalogna a Barcellona. Il testo, intitolato “L’uomo a Leyenda”, può essere definito come revisionista; ignora ogni riferimento agli innumerevoli crimini del dittatore tedesco e non menziona i milioni di persone che sono morte a causa delle loro azioni.
La mostra è stata patrocinata sia dal sito web della società telefonica, che dal portale del Centro Mondiale mobile, nonostante il suo contenuto polemico. Oltre a Hitler, sono state anche preparate iniziative simili per il dittatore italiano Benito Mussolini italiano, Hideki Tojo, il primo ministro giapponese durante la seconda guerra mondiale, e il sovietico Josif Stalin,il presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt e il primo ministro britannico Winston Churchill. Il contenuto è interamente agiografico con il protagonista. Il profumiere Monica Cipiglio era responsabile della produzione profumi in collaborazione con il responsabile per la parte storica della mostra, Filippo Botaya, UAB professore e ricercatore di storia e UPC con le teorie, almeno, peculiari.
Lo spettacolo è il complemento alla serie nella prima guerra mondiale, prodotto da History Channel e può essere visto Movistar TV dal 15 settembre. La mostra è stata mostrata gratuitamente a Barcellona dal 26 Settembre al 4 ottobre e in precedenza al flagship store di Telefónica a Madrid dall’11 al 21 settembre. Il dipartimento di comunicazione della società ha detto che sarà esposto a DIRECT altrove.

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Tutto il mondo è Paese? Non è vero, è solo un luogo comune. Mi ricordo come fosse oggi il «grand débat», quando la Francia discuteva di Europa e a Parigi le scuole la sera erano aperte. Passaparola, fogli di 0054 22 giugno 2014 Parigi impagabolequaderno con l’avviso attacchinati ovunque alla bell’e meglio e inviti a partecipare persino sugli alberi nel parco davanti a una Merie. La gente la sera entrava nelle scuole e si riuniva spontaneamente a discutere.
Quell’organizzazione senza organizzatori, quel radunarsi misterioso senza preclusioni, tutti, di più parti politiche, per me, che venivo da lontano aveva qualcosa di magico. Non dimenticherò facilmente la sera in cui decisi di partecipare e nominai D’Alema, il lampo malizioso che si accese negli occhi di tutti e mise assieme sinistra e destra nell’esclamazione ironica: «Ah, D’Alemà… la gauche!».
E’ vero, sì, c’è una Parigi sedotta dal razzismo, ma ce n’è un’altra, autentica e tagliente, che vive ovunque, persino a Rivoli, nella città ricca e monumentale che davanti all’Hotel de Ville ricorda la “Grande guerra”. Basta guardarsi attorno per sentirla vivere e pensare. “No, no, no! Alla sinistra di destra”, scrive su un cartoncino un ignoto contestatore e nessuno si azzarda a toglierlo di lì quel rifiuto. Ovunque si fa festa per l’estate che torna; festa della musica, con mille orchestrine nelle strade, nelle piazze e sui ponti della Senna. Tra la gente che canta e balla, in una sorta di rito liberatorio, c’è tuttavia chi pensa. E’ un no condiviso, perché anche la peggiore destra disprezza questa sorta di ameba che lì governa con Holland, qui con Renzi, facendo il mestiere degli altri: boia dei diritti in nome del liberismo.
Com’è chiaro e semplice questo piccolo manifesto e come lo sento mio! E’ il senso d’un controsenso, un inno all’intelligenza: «Non, non et non! à la gauche de droite».

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E’ quantomeno singolare: dopo cento anni, una repubblica parlamentare che ha tra le sue travi portanti il ripudio della guerra, ha scelto di celebrare un conflitto universalmente noto come “inutile strage”; una guerra in cui un sovrano criminale cacciò il Paese a tradimento con un trattato segreto, firmato all’insaputa del Parlamento. Le parole non sono neutre e pesano come pietre, per cui non c’è forse segnale più chiaro dello stato comatoso in cui versano le Istituzioni, che la parola scelta in aperta contraddizione col dettato costituzionale. Celebrare vuol dire esaltare, glorificare o, quantomeno, ricordare festosamente; una parola, quindi, che porta con sé un moto d’orgoglio, un vanto, una lezione positiva da impartire alle giovani generazioni. Ma cosa c’è da celebrare cent’anni dopo la “Grande Guerra”? L’indecoroso voltafaccia nei confronti di antichi alleati? La lezione di violenza? Il Parlamento posto di fronte al fatto compiuto e poi praticamente messo in mora? Cosa celebreremo? La democrazia sospesa o le decimazioni? I giovani senza elmetto mandati al macello coi berretti di feltro o l’insipienza dei generali alla Cadorna? Chi sceglieremo di ricordare? I socialisti e gli anarchici spediti là dove più certa era la morte? I ragazzi uccisi dai carabinieri pronti a sparare ai soldati terrorizzati? No. Non ricorderemo nulla di tutto questo e taceremo sui centomila nostri prigionieri morti per fame e per freddo nei campi di prigionia perché considerati disertori e abbandonati al loro destino, in mano a un nemico che stentava ad alimentare i suoi uomini al fronte. Decideremo forse di raccontare ai nostri giovani l’inaudita ferocia delle nostre classi dirigenti?
Non sarebbe difficile farlo, ma è un lavoro incompatibile con la parola “celebrare”. Se a uno studente preparato fai i nomi di Mauthaushen e Theresienstandt, inevitabilmente ti parlerà degli eccidi nazisti. Non sarà il Comitato “celebrativo” che comprende l’imprescindibile Marcello Veneziani, a spiegargli ciò che vent’anni fa, in un libro oggi ignorato che meriterebbe di essere sussidio indispensabile nello studio dell’Italia nel primo conflitto mondiale, Giovanna Procacci dimostrò senza ombra di smentite: in quei luoghi furono ammassati 600.000 nostri soldati caduti in mano al nemico e considerati traditori dai nostri governanti. Una inconfutabile documentazione d’archivio e le lettere dei nostri uomini sequestrate dalla censura raccontano a chi vuole ascoltare il massacro di massa realizzato in nome dell’amor patrio. Centomila uomini morirono di fame e di freddo perché nessuno volle aiutarli*. E i Governi sapevano:
È un affare molto serio”, scriveva da Berna un ufficiale; “bisogna, anzitutto premettere che i tedeschi, non avendo ormai più niente da mangiare, non possono dare maggiormente ai prigionieri. Questi disgraziati, se non sono ufficiali, sono costretti ad un lavoro di 12-14 ore al giorno, sono condannati ad una morte molto più certa che quando erano sul fronte. Creda che questa non è esagerazione. Ne ho visto e ne ho interrogato. So di un sergente il quale ha dato le sue scarpe nuovissime per qualche biscotto. Quello lì aveva potuto conservarsi le scarpe. Quasi tutti gli italiani sono stati spogliati ed hanno dovuto passare l’inverno senza scarpe e talvolta senza cappotto. Il numero dei disgraziati, i quali non vedranno mai più il sole di Italia sarà enorme. Bisogna dunque che la Patria assista i suoi prigionieri, […] che l’Italia faccia in ogni campo dove saranno internati sudditi italiani, degli invii collettivi di biscotti e altri viveri che vengono poi distribuiti dal Comitato scelto nei prigionieri, il quale deve essere costituito in ogni campo. Questo è l’unico rimedio perché: 1°) non si otterrà mai che la Germania dia da mangiare ai prigionieri poiché i tedeschi stessi crepano di fame. 2°) le autorità quando non favoriscono il furto, chiuderanno sempre gli occhi sulla disparizione dei pacchi postali individuali”.
L’Italia non si mosse e si capisce bene il perché: più affamati e disperati erano i prigionieri, più si poteva scoraggiare la diserzione e condurre al macello i combattenti. Paralizzata la Croce Rossa, tutto si ridusse a una propaganda nazionalista così battente e ben orchestrata, da accecare persino i padri e le madri dei nostri infelici soldati.
Prigioniero a Theresienstadt in Boemia, così il 5 agosto 1916 un soldato scriveva al padre: “Non mi degno più chiamarvi caro padre avendo ricevuto la vostra lettera oggi dove lessi che era meglio fossi morto in guerra, e che ho disonorato voi e tutta la famiglia. Tutti parlano male di me. Perché capisco che non sentite più l’amor filiale, non sentite altro che l’amor patrio e pel vostro Re. Perciò d’ora in poi sarò il vostro più grande nemico, e non più il vostro Domenico. Vi ringrazio di tutto cuore, ma non mandatemi più nulla. Addio. Sapete che a scrivere non so tanto; ma sono mie parole lo stesso”.
Di lì a qualche mese, da Mauthausen, un altro prigioniero si rivolgeva alla mamma: “Mia cara madre, Ho ricevuto la vostra […] Il contenuto di essa, riguardante la mia disgrazia mi ha recato dolore ed anche pianto. Mamma, io sono innocente, ve lo confesso con ampia sicurezza, perché la mia coscienza me lo dice e me lo rafferma. Sono libero da ogni rimorso […], ho gran fede in Iddio perché lui riconoscerà la mia innocenza e mi aiuterà nella lotta che sosterrò al mio ritorno. Si, al mio ritorno, dico, perché io verrò, verrò a giustificare la mia ingiusta accusa. Anziché rinunciare la mia patria desidero anche ingiustamente soffrire la condanna. […] State tranquilla mamma perché vostro figlio non vi ha disonorato”.
In discussione, per gli sventurati proletari prigionieri, non c’erano solo la dignità e la vita, ma atroci sensi di colpa e la consapevolezza che la resa al nemico, per inevitabile che fosse stata, era ricaduta pesantemente sulle famiglie, private del sostegno delle loro braccia: “ti hanno levato il sussidio”, scriveva al padre un contadino pugliese il 16 febbraio del 1918. “Sono grandi vigliacchi perché io quando fui fatto prigioniero fu colpa del mio tenente e non è colpa mia, e poi noi fummo fatti prigionieri in 32 soldati e caporali e 2 sottotenenti come fanno a dire che io sono disertore?”.
Lettere mai giunte e gelosamente conservate in archivio. Lo sanno tutti: celebrare la guerra non è mai impresa nobile. Celebrare questa guerra, con 100.000 omicidi di Stato su 600.000 caduti è una infinita vergogna.

* Giovanna Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella grande guerra, Editori Riuniti, Roma, 1993.

Uscito su “Contropiano” l’11 giugno 2014.

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Mentre l’Italia militarista, dimentica del “ripudio” costituzionale, si accinge a celebrare la cosiddetta “Grande Guerra”, per ricordare la “Settimana Rossa” e le vittime del militarismo, avevo cominciato da qui:

PREMESSApietro-raimondi-operaio-ucciso-a-napoli-durante-la-settimana-rossa1

Maggio 1993

Com’è nato questo lavoro e come, giorno dopo giorno, s’è andato realizzando in classe non si spiega in due righi e non vale provarci. Se non l’hai visti passare, i giovani autori, dall’iniziale scetticismo all’interesse e cedere, infine, all’entusiasmo dei momenti di autentica crescita collettiva, non puoi capire. In quanto al resto – scelte di fondo e metodo seguito – è presto detto. Si parte dall’idea d’un giornalino, che la classe vuole suo ma diventa di tutti, e da un abbozzo di drammatizzazione che naufraga sugli scogli della scelta del testo. La scena l’ho in mente: lampi d’accusa nei volti leali e il brusco tornare feriti al quotidiano antologico – grammaticale negato per seducenti “didattiche” alternative, nemmeno amate e subito tradite. Non resisto. Lascio al timone indomabili sensi di colpa e si approda alla riva misteriosa di un’isola incantata che battezziamo “libro”…

Continuare a leggere, per chi vuole, non costa nulla. Basta aprire il link che rimanda a “Fuoriregistro.

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ImmagineIl Parlamento vive ormai di ricatti e Letta è il vero protagonista del degrado morale e dello sfacelo politico della Repubblica. Dopo Alfano, è toccato a Cancellieri: impunità in cambio della sopravvivenza del governo. Meglio, per certi versi molto meglio, la delinquenza politica aperta, col capo che si assume la responsabilità dei crimini – «se il fascismo […] è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione!» –, sfida i deputati – «fuori il palo e fuori la corda!» – e apertamente minaccia: «state certi che nelle quarantott’ore successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area». In questa maniera di aggredire il Parlamento e il Paese, c’è un nemico che ti dichiara guerra.
Noi non abbiamo di fronte né una destra nemica che si firma, né una sinistra debole perché separata. Renzi e D’Alema non sono certo Bordiga e Gramsci, giganti contrapposti, e nella polemica astiosa non senti la stima per l’avversario, narrata da ammirati testimoni oculari: «Caro  Antonio, tu ti fai influenzare dalla filosofia di Benedetto Croce… Non sono mai stato un crociano; piuttosto in te, Amadeo, si vede bene che affiora l’ingegnere». Nessun lampo di occhi febbricitanti, nessun palpito di animo nobile prigioniero in un corpo deforme, contrapposto a una durezza teorica estrema che sa, tuttavia, essere umana e cortese con l’avversario tanto più valoroso, quanto più debole malato. Noi non abbiamo contro né il pensiero d’un filosofo, foss’anche Giovanni Gentile, né l’audacia di un reprobo socialista, egocentrico e violento, giunto dalla piazza al palazzo. A noi toccano «sinistri» pentiti e preti più o meno spretati, mezze calze senza cuore e cultura, privi persino dell’illusione allucinata, che fu per un attimo il sogno presto abortito d’una generazione tirata su a «biberon di sangue», tra baionette e shrapnel, nelle trincee della «grande guerra» tra potenze industriali. A noi tocca una gentaglia incolta, che non ha nemmeno il nero coraggio degli «arditi»; ci fa fronte la viltà d’una soldataglia mercenaria e senza sogni, addestrata a esser forte coi deboli nei rari rischi di «guerre umanitarie», che si combattono per lo più contro  civili inermi, lungo le vie del petrolio e i bui canali della droga. L’attacco ci viene da chi baratta miseria morale con interesse di bottega, chi ha per manganello il ricatto e per olio di ricino il «metodo Boffo».
Letta ed  Epifani non si sono nutriti alla scuola dello spirito fondante di Gentile o all’idea di società gerarchica che vive nella perizia giuridica di Rocco, nell’ideologia corporativa e nell’aberrante, ma «politico» slogan del Duce: «tutto per lo Stato, nulla al di fuori dello Stato». Epifani e Letta volano rasoterra e lo confessano: sanno di fare scelte vergognose, ma una passione ignobile – la libidine di potere – gli impone di garantire la fiducia e chi non ha titoli per meritarla. Mussolini, alla resa dei conti, si appellò al suo «amore sconfinato e possente per la patria», Letta si limita a ricattare il suo partito: anche se è una vergogna, questo governo è tutto ciò che sappiamo esprimere, è il «nostro governo», colpisce la povera gente, ma per noi e per i nostri interessi è una scelta senza  alternative. Gli interessi personali e quelli del PD. La gente gli ha votato contro al governo delle ammucchiate, la gente non lo voleva, questo governo della paralisi, e tornerebbe a dirglielo chiaro se non glielo impedisse la legge Calderoli, di gran lunga peggiore di quella del fascista Acerbo. Letta lo sa e perciò non la cambia. Attende di escogitarne una più disonesta.
Siamo a questo. Peggio delle peggiori pagine della nostra storia. Un Parlamento di «nominati», eletto con una «legge truffa» che da anni si dovrebbe cambiare e non si cambia mai; un ministro dell’Interno che o ignora il diritto d’asilo o le malefatte del suo Ministero; la Guardasigilli colta sul fatto, mentre ricambia l’amicizia di un amico latitante in Svizzera; un Presidente della Repubblica che ha fatto carte false per non rendere pubblico il contenuto delle sue conversazioni con un imputato per reati in cui spunta la mafia. Degli ultimi tre Presidenti del Consiglio, Letta è una nullità incline alla megalomania – «après nous le déluge» ripete ad ogni piè sospinto per ricattare il Parlamento – Monti è senatore a vita per meriti ignoti e, massacrati i diritti dei lavoratori, passa alla storia per la concezione reazionaria del governo che ha funzione pedagogica rispetto al Parlamento e in quanto al terzo, Berlusconi è un pregiudicato che tiene in piedi il governo.
Inutile girarci più attorno: occorre organizzare una nuova Resistenza, civile e pacifica, se possibile, come quella di Genova in questi giorni o, se non ci si lascia altra via, degna di quella che seppero fare i nostri nonni. Se nel volgere di pochi mesi lavoratori, giovani, precari, disoccupati e sfruttati non risponderanno alla inaudita violenza delle classi dirigenti, provando a spazzare via la peggior classe dirigente della nostra storia, di noi si dirà che ci meritammo ciò che avemmo e che fu colpa nostra se i padroni ci ridussero in servitù.

Uscito su Report on line e su Liberazione il 22 novembre 2013

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Le commemorazioni non guardano indietro, però – sembra fatale – diventano una sorta di “memoria a scadenza fissa”, il “gesso” che immobilizza fratture scomposte tra un mitico “passato” e un infelice “presente”. Per un giorno inni bandiere al vento e valori universali, poi il limbo d’un realismo rinunciatario, che è quasi sempre rassegnazione o, se si vuole, identità annacquata in cerca di consensi. D’accordo, anche questo è politica, ma dirlo onestamente non ci farà male: esistono due “memorie”. Una, ufficiale e condivisa, non lascia segni, non fa domande. E’ Narciso allo specchio: guarda se stessa e ignora il presente. L’altra, sempre più rara, indaga il passato per capire il presente. E’ la storia “maestra di vita”, che racconta la verità nuda e cruda, parla alle coscienze, ma non trova ascolto, non insegna più niente a nessuno e dà fastidio, perché ci mette davanti noi stessi, così come siamo davvero. E non è un bel vedere.
Me lo chiedono spesso: “Ci dici delle Quattro Giornate?”. Da me si attendono retorica e poesia: “o campana, campana, campana, / la mia favola breve è finita / la breve mia favola vana”. Io, invece, tiro fuori il presente. Il primo pensiero non è per ciò ch’è stato, m’importa quel che accade e, più che raccontare, faccio domande. Perché, mi chiedo, qui a Napoli, superato il liceo Vico, alla Cesarea, la vecchia sede del PCI ospita ancora un partito antifascista, ma non porta più il nome di Maddalena Cerasuolo? Sono avvenute cose che non so? Non è più decorata al valor militare, non è la donna che “trattò ” al Vico delle Trone coi tedeschi? Non fu lei che lottò come un veterano assieme ai partigiani di Materdei e della Stella, salvando dalla distruzione il Ponte della Sanità e consentendo agli Alleati di avanzare verso quel Nord nel quale oggi Bossi resuscita il razzismo?
Risposte non ne ho e quindi insisto. Perché non ricordiamo più ciò che a Longo sembrò decisivo: “dopo Napoli la parola d’ordine dell’insurrezione finale acquistò un senso e un valore e fu allora la direttiva di marcia per la parte più audace della Resistenza italiana“? Cos’è cambiato? Guastiamo la festa a Brunetta, che ci accusa d’essere un “cancro“? Ma che sanno Brunetta e Bossi dell’Italia, del Sud e dell’antifascismo? Qualcuno glielo spieghi, per favore, chi era Ezio Murolo che, a Poggioreale, con Tito, il fratello anarchico, organizzò e guidò gli insorti contro i nazisti, in una battaglia che, come molti esponenti di questa maggioranza, li avrebbe visti assenti o, peggio, dall’altra parte della barricata. “Ardito” nella Grande Guerra, dannunziano a Fiume, poi giornalista al “Mondo” di Giovanni Amendola, infine coinvolto “nei maneggi sovversivi” ai tempi della guerra di Spagna e spedito al confino, Ezio Murolo fu “guastatore paracadutista” dietro le linee naziste e si batté per liberare il Nord, la Padania di Bossi, dopo aver meritato qui a Napoli una medaglia d’oro. Non possiamo dirlo perché oggi i partigiani passano spesso per “terroristi”? Io lo racconto, checché ne pensino l’elettorato più o meno moderato a centro ed a sinistra e Cota a destra: Murolo contribuì a liberare il Nord. Erano i giorni in cui, a dar retta a Galli Della Loggia e gli storici della destra fascio-leghista, la “Patria” moriva. Quale Patria? Quella fascista, che un pugno di inqualificabili nostalgici prova a rivalutare? La patria razzista, resuscitata dalle leggi sui clandestini? Qualcuno glielo spieghi che, prima ancora di Rosselli e di Altiero Spinelli, prima di quel miracolo di passione politica che fu il Manifesto di Ventotene, Antonio Ottaviano, uno dei tanti combattenti delle Quattro Giornate, s’era già fatto processare dal Tribunale Speciale, per aver provato a dar vita a una federazione di Stati europei, “L’Europa Unita”, come baluardo contro il pericolo nazifascista. Ben altra Europa che quella di Bossi, Brunetta, Berlusconi e Marchionne, nella quale si negano i diritti dei lavoratori, torna il razzismo, contano solo le banche e i banchieri, si riduce a merce il sapere, si precarizzano i docenti e si attacca la scuola pubblica, di cui nessuno più ricorda il ruolo nella Resistenza. Se ne trova traccia in un prezioso e sconosciuto “numero unico” del “Comitato di Liberazione Nazionale”, che ricorda i nomi dei suoi martiri e militanti; gente di ogni parte del Paese, checché ne pensi la Lega: Quintino Vona, vice preside “in una Scuola Media di Milano, caduto sotto il piombo di sgherri della ‘Muti’ il pomeriggio del 7 settembre”; Salvatore Principato, siciliano di Piazza Armerino, che, massacrato a Piazzale Loreto con 14 compagni “dopo essere stato torturato nelle carceri fasciste” aveva saputo “incoraggiare, nel momento estremo, le povere vittime, allargando le braccia: coraggio, è questione di pochi istanti”. Bisognerebbe tornarci su, ricordarla, la scuola delle maestre napoletane Giovanna Annunziata e Anna Bonagura, “arrestate e denunziate per reato di istigazione e oltraggio alla persona di S. E. il capo dello Stato” perché i loro studenti “hanno strappato dai libri di testo una effige del Duce” e uno addirittura “la ridusse in due parti e la lanciò dal balcone“. Si capirebbe perché si vuole distruggere la scuola, sarebbe chiaro che essa è stata e può essere presidio della democrazia. Si capirebbe che forse non è un caso se i precari della scuola stiano dando oggi luogo a una lotta che sa di Resistenza. Scuola e politica, nel senso alto e nobile della parola, nel senso di pensiero critico e non di puro e semplice addestramento al lavoro dipendente o alle professioni. La scuola di Lina Merlin, che non fu solo la socialista delle “case chiuse”, la partigiana e la deputata alla Costituente, ma la giovanissima maestra antifascista che si lasciò licenziare per non giurare fedeltà al regime. Occorrerà che qualcuno lo dica al leghista Maroni e lo ricordi ai nostri studenti: quando gli “scienziati” fascisti scoprirono la tragica purezza “ariana” del nostro popolo, che è stato e sarà sempre un’inestricabile e meravigliosa fusione di geni e culture, studenti come Teresa Mattei rifiutarono di assistere alle tragicomiche lezioni sulla razza e furono espulsi da tutte le scuole d’Italia. E pazienza se anni dopo, ormai deputata e dirigente del PCI e dell’Unione Donne Democratiche, l’ex comandante di compagnia di una “Brigata Garibaldi”, entrò in rotta di collisione con Togliatti e conobbe l’onta di una nuova espulsione.
Il passato non cambia e non si cancella. Arfè non sbagliava. Per le forze politiche di radice antifascista, la Resistenza non è più un riferimento e la globalizzazione ha sconvolto rapporti e modi di produzione, sistemi di valori, prassi politica, ideologie, mentalità, costumi e rapporti sociali. Questa, tuttavia, è la storia, queste le profonde radici politiche delle Quattro Giornate, rivolta di popolo da cui ricevono linfa vitale la guerra di Liberazione e quella Costituzione che, non a caso, è nel mirino di un Parlamento di “nominati” e di un governo sostenuto da forze politiche che non hanno tradizione e cultura antifascista. Di questo si tratta. Non di altro. Di riaffermare e, se occorre, difendere i principi della democrazia. Costi quel che costi. Non solo Napoli, ancora “milionaria“, come amaramente la definì Eduardo De Filippo, ma l’intero Paese, tornato povero, privato della cultura, della scuola e del lavoro, ridotto a terra di razzismo e malaffare, di pennivendoli, guitti e velinari, l’intero Paese ha bisogno di ricordare. Senza memoria non si ricomincia.

Articolo uscito, con qualche ritaglio, sull’edizione napoletana di “Repubblica” il 28 settembre 2010 e, nella sua  versione originale, Su “Fuoriregistro

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