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Archive for the ‘Carta stampata e giornali on line’ Category


Poche parole, rivolte con umiltà ai nostri giovani, ai ragazzi e alle ragazze che potrebbero non sapere, perché ormai le loro scuole e le loro università sono state piegate alla logica del profitto; poche parole a una gioventù che, quando prende parole e protesta perché non c’è chi l’ascolti, rischia la galera. Se vi sembreranno inutili, perdonate un vecchio maestro elementare che, giunto al tramonto della vita, si sente colpevole e sconfitto. Un vecchio insegnante che soffre al pensiero di vedervi risospinti verso un mondo ingiusto e feroce, che non avete conosciuto, ma è purtroppo esistito.

Non so dove abbiamo sbagliato io, i miei compagni e le mie compagne che pure abbiamo speso la nostra gioventù nel tentativo di veder trionfare principi di eguaglianza e giustizia sociale. So che dovremmo chiedervi scusa, stare con voi in prima fila quando vi aggrediscono e vi fanno male con manganelli, idranti e lacrimogeni. Con voi in prima linea anche di fronte ai giudici che pretendono di giudicarvi in nome di una legalità sempre più estranea alla vostra umanità, ai vostri legittimi sogni, alle vostre speranze. Dovremmo stare lì con voi, ma gli anni e i malanni ci legano ormai mani e piedi e non ci consentono di pagare il debito che abbiamo nei vostri confronti. I nostri genitori e i vostri nonni ci consegnarono un mondo certamente migliore di quello che noi lasciamo a voi. E questo, credetemi, fa male.

Oggi, con l’arroganza tipica di chi disprezza la democrazia, la maggioranza che vi governa, formata da una classe dirigente in buona parte incapace e prepotente, ha invitato le opposizioni a “dialogare” su un progetto politico che rischia di ridurvi in schiavitù. Noi, hanno dichiarato gli ex fascisti e i loro alleati, nati solo per dividere il Paese, noi intendiamo subordinare il Parlamento al Governo, trasformare la Repubblica parlamentare in una Repubblica presidenziale. Se ci state, bene, signore e signori dell’opposizione, se non ci state, noi fascisticamente ce ne freghiamo e andremo avanti nel nostro colpo di Stato. Le opposizioni non hanno avuto vergogna di accettare l’invito. Per quanto giovani, voi l’avreste fatto? Vi sareste presentati o avreste detto no? Io credo che non solo avreste rifiutato, ma a giusta ragione replicato minacciando: provateci e noi trasformeremo il Paese in un campo di battaglia.

Chissà quanti vostri docenti a scuola oggi avrebbero voluto iniziare una stagione di disobbedienza civile e cominciare a leggere e a spiegare cos’è, che dice e com’è nata la Costituzione che intendono pugnalare alla schiena! Non l’hanno fatto, perché hanno ben presenti i licenziamenti dei colleghi che hanno protestato. Ricordano Flavia Cassaro, mandata a casa per aver protestato con la Polizia, il calvario giudiziario di Franco Coppoli, docente che aveva osato togliere il crocifisso dalla parete della sua aula, la preside trascinata in una sorta di pubblico processo per una lettera inviata a studenti e studentesse, nella quale diceva ciò che tutti sanno: stiamo attenti, state attenti, perché fu così che iniziò nel nostro Paese il fascismo. Con i pestaggi impuniti e i testimoni ammutoliti.

Voi forse lo sapete, ma io ve lo ricordo, perché in casi come questi è molto meglio ripetere che star zitti, per timore di essere noiosi. La nostra Costituzione è stata scritta per lo più da uomini e donne che avevano subito la persecuzione della dittatura fascista e avevano combattuto il regime. Uomini e donne di grande onestà, di grande cultura e di grande coraggio. Non nacque in un giorno la Costituzione che oggi vogliono cambiare gli eredi politici di chi non partecipò a quella grandissima esperienza perché veniva dal fascismo e non voleva un Paese democratico.

La decisione di scriverla si era presa sin dal 1944. E quando si decise, i padri politici di chi ci governa erano in buona parte alleati dei nazisti che occupavano il Paese. Questa verità non si dice mai chiaramente, ma le cose stanno così e voi dovete saperlo. Scrivere una Costituzione, la prima che avessimo mai avuta, non era facile e non a caso nell’autunno 1945 si istituirono una Consulta Nazionale e un Ministero della Costituente. In effetti, gli uomini e le donne che scrissero la nostra Costituzione, benché mille volte più preparati di chi oggi vuole cambiarla, andarono a “scuola”. La Commissione elaborò le norme per l’elezione dell’Assemblea Costituente e il Ministero predispose un ricco materiale di consultazione per gli uomini e per le donne che avrebbero avuto il compito di realizzare l’impresa.

Chi la scrisse? Riflettete bene su quello che sto per dirvi: la scrissero uomini e donne eletti apposta il 2 giugno 1946. Era passato un anno e mezzo dalla decisione di darsi una Costituzione e per la prima volta nella storia d’Italia quel giorno votarono anche le donne. Mai un’assemblea aveva avuto così piena legittimità. Una legittimità che non è paragonabile a quella che hanno oggi i signori e le signore che vorrebbero cambiarla. In quello storico 2 giugno votò infatti l’89,08 % degli aventi diritto. Sapete quanti elettori hanno votato alle elezioni da cui viene fuori questo governo? Il 64 % . Sono numeri che parlano da soli.

Dopo le elezioni del 2 giugno 1946, per scrivere e approvare la legge fondamentale dello Stato, l’Assemblea lavorò fino alla fine di dicembre del 1947. Tenne 347 sedute: 128 antimeridiane, 219 pomeridiane, di cui 22 con prolungamento serale notturno. Durante i lavori, uno dei 556 deputati dell´Assemblea Costituente, Giuseppe Dossetti, il 21 novembre 1946 presentò una proposta sul “diritto di resistenza”. L’articolo non passò. Nessuno allora poteva immaginare che saremmo giunti al punto in cui siamo. La sua proposta era breve, ma credo che voi dobbiate conoscerla: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino».

Riguardava anche voi. Voi che chiedete invano a chi vi governa di fare il suo dovere e preoccuparsi immediatamente del cambiamento climatico. La risposta che vi danno è fatta di manette, reati e anni di prigione. Sono quelli che vogliono mettervi in galera che intendono regalarci una Repubblica presidenziale, con uno che comanda e il Parlamento che fa da contorno.

Chi vuole il presidenzialismo non lo sa – è probabile data l’ignoranza accampata in Parlamento – e se lo sa, finge d’ignorarlo. Presentando all’Assemblea Costituente il testo della Costituzione, Meuccio Ruini, un moderato, ebbe a dire: «Vi è un punto che non si deve mai perdere di vista in nessun momento, in nessun articolo della Costituzione: il pericolo di aprire l’adito a regimi autoritari e antidemocratici. Si sono a tale scopo evitati due opposti sistemi. Anzitutto: il primato dell’Esecutivo, che ebbe nel fascismo l’espressione più spinta. Non si può dire che appartenga a questo tipo il sistema presidenziale […] negli Stati Uniti d’America. Con un capo dello Stato che è anche capo del Governo e ha ampi poteri, ma non sembra poter essere trasferito da noi, che non abbiamo la forma federale né altri elementi – che accompagnano quel sistema nella Repubblica della bandiera stellata. Vi è in Europa una resistenza irriducibile al governo presidenziale, per il temuto spettro del cesarismo, e per il convincimento che il governo di Gabinetto abbia diretta radice nella fiducia Parlamentare».

Ruini non poteva conoscere la storia futura. Se avesse potuto, avrebbe aggiunto che in Francia il presidenzialismo sta dando pessima prova di sé, imbavagliando il Parlamento. Avrebbe certamente elencato i governi presidenziali diventati dittatura, come accaduto nell’Ungheria di Orban, nella Turchia di Erdogan, nella Russia di Putin, nella Polonia di Jarosław Kaczyński e – perché no? – nell’Ucraina di Zelensky, che ha sciolto tutti i partiti di opposizione.

Noi vi dobbiamo molto, ragazzi e ragazze del nostro Paese. In un momento così buio, voi affrontate la repressione come fecero i partigiani. Queste mie parole sono perciò allo stesso tempo figlie di un timore e di una speranza. Il timore che la reazione passi nonostante voi e la speranza che voi vi stiate preparando alla battaglia e vi stiate avvicinando alla politica con la volontà di scrivere il vostro futuro. Perché questo accada, oggi occorre che, giunti infine a un bivio, sentiate che con la Costituzione è in gioco il vostro mondo di domani.

Transform! Italia, 10 maggio 2023

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SIETE PICCINI PERCHÉ SIETE IN GINOCCHIO. ALZATEVI E SARETE GIGANTI!
Slogan del primo socialismo intorno al 1892, mentre nasceva – e presto si affermava – il primo grande partito di massa nel nostro Paese. Il partito di una sinistra che parlava alla gente di lotta alla precarietà, salario minimo garantito al di là del cottimo, assoluta neutralità dello Stato nel conflitto tra capitale e lavoro, giornata lavorativa di otto ore con 36 ore di riposo settimanale, eguaglianza giuridica e politica tra uomini e donne, diritto di pace, abbandono di ogni politica a base di conquista militare, Stato laico, legge sugli infortuni sul lavoro, ispettori e ispettrici a tutela delle leggi operaie, eletti dai lavoratori e pagati dallo Stato, istruzione obbligatoria, sovvenzioni agli studenti poveri, università popolari, autonomia universitaria, abolizione o riduzione delle spese militari, Stato laico, abolizione delle condanne penali che demoliscono la personalità morale del condannato e degli adolescenti.
Quant’è vicino talvolta il passato! Ci stanno riconducendo alle condizioni precedenti il 1892. Se provassimo a leggere ciò ch’è stato per capire il presente e provare a programmare il futuro, troveremmo certamente mille motivi per unirci, mille obiettivi comuni per i quali muoverci e lottare insieme e persino un programma minimo capace di coinvolgere la gente sconcertata e avvilita.
Basta volerlo. Basta ripetere a se stessi, prima che agli altri, l’antico slogan:
SIETE PICCINI PERCHÉ SIETE IN GINOCCHIO. ALZATEVI E SARETE GIGANTI!

Agoravox, 1 maggio 2023

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In un celebre discorso sulla formazione, Piero Calamandrei non esitò ad affermare: «La scuola, come la vedo io, è un organo “costituzionale”. Ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quel complesso di organi che formano la Costituzione. […] Quando vi viene in mente di domandarvi quali sono gli organi costituzionali, a tutti voi verrà naturale la risposta: sono le Camere, la Camera dei deputati, il Senato, il presidente della Repubblica, la Magistratura: ma non vi verrà in mente di considerare fra questi organi anche la scuola, la quale invece è un organo vitale della democrazia come noi la concepiamo. Se si dovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue […].
La scuola […] serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale della democrazia: la formazione della classe dirigente […], non solo nel senso di classe politica […], ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, la classe dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall’afflusso verso l’alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie».

Chi oggi prova a guardare la nostra scuola e le nostre università alla luce di queste parole, si accorge subito che esse non hanno più la funzione di creare il sangue nel nostro corpo sociale perché non offrono gli strumenti indispensabili ad assolvere con merito e dignità la capacità di valutare, scegliere e proporsi per essere scelti, quali che siano le classi sociali di provenienza. In sostanza, il principio su cui si fondava la scuola della repubblica è stato capovolto: non è scuola che conduce al merito, ma il merito che conquista la scuola. Chi ha più opportunità ha un ministro e un Ministero non a caso del merito, chi, nascendo, paga il prezzo dell’ingiustizia sociale non ha Ministero e ministro: è solo e condannato in partenza. Premiando il merito, lo Stato ignora la Costituzione perché investe per la formazione meno di quanto spende per i territori più ricchi e siamo così giunti al punto che il Ministero che fu della Pubblica Istruzione è diventato una delle tante fabbriche di ingiustizia sociale.
Il ribaltamento è la naturale conseguenza del trascorrere degli anni? I principi della Costituzione della Repubblica sono travolti dai progressi d’una società di uguali? Basta guardarsi attorno per capire che le cose non stanno così, che le riforme introdotte a partire dall’inizio di questo secolo oscurantista, a cominciare dal ‘sinistro’ Luigi Berlinguer per finire a Moratti, Gelmini e Renzi, non hanno mai mirato a migliorare il sistema formativo. Intendevano distruggerlo e ci sono riuscite, nonostante l’iniziale e coraggiosa resistenza opposta dai docenti. Esistono ancora tanti insegnanti che svolgono egregiamente il loro ruolo, ma diminuiscono sempre più, mentre a sostituirli sono chiamati quelli ‘formati’ nelle scuole e nelle Università riformate. Attorno hanno ormai un angosciante deserto e la traversata non sarà facile.

La scuola fascista generò una gioventù priva di strumenti critici, ma non riuscì a cancellare del tutto la memoria storica. Oggi siamo di fronte a una Caporetto culturale, da cui sta nascendo un popolo di “senzastoria”. Quel popolo che prima ricorda l’Olocausto, di cui fummo responsabili assieme ai fascisti, poi il dramma delle foibe, ma non si accorge di trasformare in vittime i complici dell’Olocausto. Furono i ‘titini’, si dice, ma, tra i partigiani di Tito c’era la Divisione Italia, che combatteva i nazifascisti, responsabili sia della inevitabile e sovrastimata vendetta istriana, che dell’evitabile Olocausto di cui fingiamo di non essere colpevoli.
Perché periodicamente i docenti sono sottoposti alla gogna mediatica? Non è difficile capirlo; con i limiti che nessuno nega, sono la fucina del pensiero critico. La fabbrica del consenso è incompatibile con questa loro funzione perché suo obiettivo è quello di trasformare i ceti subalterni in “bestiame votante”.
Scuola e università sulle quali si è investito e se ne è difesa la dignità non consentirebbero di togliere il pane di bocca alla povera gente per arricchire chi vende armi. Non sarebbe possibile fingere di ignorare i rischi che stiamo correndo. I giovani saprebbero che bastò un colpo di pistola esploso da uno studente nazionalista serbo per scatenare la prima guerra mondiale, di cui fu poi figlia la seconda. Saprebbero che, come oggi, anche allora una società corrotta e violenta – la chiamavano Belle Epoque! – e tutti i guerrafondai escludevano che la guerra scoppiasse e invece ci fu. Feroce come non mai. Tutti ricorderebbero l’uso delle armi proibite: i gas per cominciare, fino alle bombe atomiche sganciate sul Giappone inerme da un criminale non meno criminale di Biden. Scuola e Università avrebbero coltivato la libertà del pensiero e tanti avrebbero dubitato. Tanti si sarebbero ribellati.

C’è una lezione che è stata purtroppo cancellata dalla nostra formazione: nulla più di un sistema formativo libero ed efficiente risulta pericoloso per il potere politico fondato sul pensiero unico. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, uno zar riformatore decise di dare libertà d’insegnamento ai docenti democratici, rese gratuita la scuola di base, alla quale ebbero accesso i figli dei contadini, creò rappresentanze studentesche che giunsero a gestire le biblioteche. La riforma fu prima osteggiata dall’aristocrazia, poi cancellata. I poveri stavano imparando a valutare e a pensare con la propria testa e il rischio sembrò evidente.
In quei pochi anni, tuttavia, crebbe la generazione che scatenò la rivoluzione russa.
Non ci vuol molto a capire perché sia necessario delegittimare i docenti e distruggere il sistema formativo nato dalla Resistenza e dalla Costituzione antifascista: perché bene o male sono il primo, vero baluardo della civiltà e della democrazia. Le conseguenze ormai sono evidenti: ovunque guardi, trovi barbarie e le libertà conquistate dai nostri padri e dai nostri nonni versano in stato comatoso. Non è un caso. È un progetto politico folle che ci sta conducendo alla sparizione del genere umano.

Agoravox, 1 febbraio 2023

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Ho sempre pensato e ne sono ancora oggi convinto, che la sorte di una nascente forza politica sia legata soprattutto alla sua capacità di intercettare una necessità, un bisogno reale della Storia e dare risposta a quel bisogno. Una convinzione che trovo confermata dalla rinascita di una destra estrema e dalla più grave crisi della Sinistra dalla nascita della Repubblica, che sono probabilmente i due rovesci della stessa medaglia.
Se si guarda con onestà intellettuale e senza intenti polemici, alla vicenda dell’Italia unita, non è difficile vedere che il successo politico della destra – estrema o moderata conta relativamente poco – nel nostro Paese è nato sempre in un momento di profonda crisi economica. Non a caso Pietro Grifone, economista antifascista confinato a Ventotene, durante la permanenza nell’isola scrisse una storia del capitale finanziario in Italia, del quale il fascismo risulta il regime connaturato. Una storia di parte? Tutt’altro.
Che cosa fu, in effetti, il fascismo se non lo strumento attraverso il quale il Padronato svuotò il campo dalle macerie dell’economia bellica e postbellica, ottenne il progressivo svuotamento delle Istituzioni democratiche ed ebbe in regalo uno Stato spogliato in concreto di buona parte delle sue attribuzioni economiche? E’ una forzatura osservare che, allora come oggi, i padroni volevano – ed ebbero – mani libere per l’iniziativa privata?Ieri come oggi, un governo politico di estrema destra corrisponde perfettamente alle esigenze del potere economico e una borghesia che rischia la proletarizzazione, composita ma sostanzialmente formata all’inganno delle “libertà liberali”, non esita a far sua la rovinosa scelta dei vertici di classe. Allora come oggi, disgregata da polemiche, frettolose scissioni e dall’illusione di trovarsi solo di fronte a un “momento” difficile, la sinistra affonda nelle sue contraddizioni ed esce di scena.
Un ruolo decisivo l’hanno avuto in entrambi i casi le vicende della Russia. I padroni sfruttano nel primo dopoguerra la paura del bolscevismo, utilizzano oggi abilmente la guerra dello “zar” Putin, sventolando la parola “nobile” – libertà – per massacrare la Costituzione antifascista, per fare gli interessi del capitale e abbandonare al proprio destino milioni di sventurati.
Ieri come oggi ad aprire la breccia è indiscutibilmente – sia pure per ragioni diverse – la crisi dei partiti di sinistra. E qui, se dalla storia del potere si passa a quella dei popoli, l’Unione Popolare diventa immediatamente una necessità inderogabile. Soprattutto in un Paese in cui la storia della Repubblica antifascista, l’hanno scritta l’incontro e lo scontro tra i valori della sinistra di ispirazione laica e marxista e quelli della nebulosa cattolica. Un percorso che dovrebbe ricominciare, ma non può riprendere, perché la sinistra laica e marxista non c’è più: è passata armi e bagagli nel campo neoliberista che è, di fatto, quello capitalista.
Le sole forze in campo schiettamente e indiscutibilmente anticapitaliste sono quelle che cercano di creare Unione popolare. Certo, gli ostacoli da superare per giungere alla sua nascita ufficiale non sono pochi, ma credo che nessuno sia insormontabile perché in comune abbiamo tutte e tutti questa caratteristica che segna un confine direi geografico: un al di qua e al li là d’un fiume o, meglio, d’un mare. Il mare di disperazione generato dal capitalismo omicida, che uccide la povera gente e le possibilità di vita del genere umano sul pianeta. Ben altro che la fine della Storia e del conflitto. E’ l’inizio di una storia nuova.
Rose e fiori, quindi? Naturalmente no. Una grave conseguenza del tracollo dei partiti ha prodotto una prima immediata difficoltà. Quale forma avrà Unione Popolare? Nel Coordinamento la forma partito provoca reazioni negative – per molti è il “vecchio”- e quella di un movimento trova più consensi, ma non convince fino in fondo. Emerge così l’idea del “nuovo”. Poiché di nuovo e di “novatori” faccio davvero fatica a parlare, perché si contrappongono a “vecchio” e mi fanno venire in mente Renzi e la “rottamazione”, vorrei fare qui alcune considerazioni. Le ritengo necessarie, per provare a uscire da un’ambiguità latente e tentare di delineare le premesse perché, diviso in gruppi, il Coordinamento possa lavorare con spirito davvero unitario e collettivo. Taglierò con l’accetta per non annoiare e non fare di un breve intervento uno strumento di tortura.
Per quanto mi riguarda, ogni forma e ogni sua traduzione in strutture organizzative sono legate indissolubilmente a esperienza politiche, luoghi specifici e momenti storici ben definiti. Se questo è vero – e mi pare difficile dire che lo sia – nessuna di tali esperienze è probabilmente ripetibile e utilizzabile in un contesto storicamente e temporalmente diverso.
Posso naturalmente sbagliare, ma noi partiamo da una “certezza” che certa in effetti non è: diciamo che la forma-partito è superata e lo facciamo, benché poniamo tra i nostri massimi obiettivi la difesa della Costituzione. Dimentichiamo, però, che i partiti sono pilastri nell’architettura costituzionale. Non esprimiamo così due concetti in profondo contrasto tra loro? A me pare proprio di sì.
Questo, senza dire che alla guida del Paese c’è oggi paradossalmente un partito di estrema destra, geneticamente ostile alla Costituzione, che però è probabilmente l’unico organizzato secondo criteri rispondenti al modello “costituzionale”. Questo suggerirebbe di non avventurarsi subito sulla via di un non meglio identificato “nuovo”, ma di individuare piuttosto il punto di rottura a partire dal quale i vecchi partiti sono andati in crisi.
È necessario farlo, per capire se la crisi sia un dato patologico, legato alla natura dei partiti stessi, incapaci di stare al passo con i tempi, o piuttosto a scelte politiche sbagliate, che hanno condotto i partiti alla loro progressiva degenerazione e di conseguenza a quella della politica. Se, per fare un esempio, collochiamo nel suo momento storico conclusivo il disastro dei partiti di sinistra – quello cioè in cui, uno dietro l’altro, alcuni eventi posero agli allora dirigenti domande urgenti, siamo di fronte a questa realtà: caduta del muro di Berlino, dissoluzione dell’URSS, inizio dell’affermazione del neoliberismo e crollo elettorale del PCI, il più grande partito comunista occidentale.
È in un questa condizione storica che il PCI giunge a sciogliersi. Pensiamo davvero che Occhetto e compagni intendono tradire? Io, che dal Pci fui espulso alla fine degli anni Sessanta, penso di no. Penso che in quel momento vivano un dramma. Sono di fronte a se stessi e si sentono colpevoli, credono che il fallimento storico del mondo dell’est sovietico, in cui hanno davvero creduto, nonostante le parziali prese di distanza, segni la superiorità del mondo capitalista rispetto a quello sovietico, marxista e leninista. Se ne convincono, scelgono di conseguenza e comincia così l’avvicinamento al liberismo.
E’ l’attraversamento di un deserto. Ci vorranno decenni, ma l’esito inevitabile è il PD. Quel PD, che oggi, naufragando, ci indica due cose: il confine da cui stare fuori, la forma organizzativa da cui stare lontani. Lontani come da ogni fusione a freddo, da ogni progetto che stravolge la Costituzione.
In perfetta buona fede, durante il terribile viaggio nel deserto, ci fu chi in quegli anni ritenne sbagliato il cambio di campo – e nacque Rifondazione Comunista – e chi ruppe con ogni forma di organizzazione politica. I no global, per esempio, massacrati a Napoli e a Genova. Nel corso degli anni, le due anime di ciò che restava della sinistra si sono incontrate e più volte scontrate – lo fanno ancora nel Coordinamento – hanno sempre condiviso buona parte dei valori, ma si sono alla fine sempre divise fatalmente proprio sul tema della forma organizzativa. Erano davvero incompatibili? L’esperienza di Luigi De Magistris a Napoli ha dimostrato che non è così. Pagavano entrambe, però, tre prezzi insostenibili. Il lavoro distruttivo del PD anzitutto, che, fatto passare abilmente per sinistra, ne minava ogni credibilità. Scontavano, poi, agli appuntamenti elettorali, le conseguenze dell’appello al “voto utile”, l’accusa di estremismo, toccata a chi dava vita al conflitto e di opportunismo, rivolta a chi si illudeva di poter recuperare il PD.
La Meloni al governo chiude questa fase, e probabilmente – ma direi finalmente – la vicenda degli ultimi trent’anni diventa il terreno naturale in cui cercare le autentiche radici del “nuovo”. Quello che nasce senza forzature dalla nostra vicenda storica. Credo che, se abbiamo deciso di stare assieme la consapevolezza di questa storia viva da qualche parte nella nostra coscienza. La consapevolezza che finalmente una forza di sinistra geneticamente anticapitalista abbia bisogno di un’anima conflittuale, che parli ai militanti, alle avanguardie e sia complemento dell’altra, che può parlare al ceto medio proletarizzato. Due anime fuse in una formazione che apra contraddizioni in un elettorato che vota Meloni per disperazione e da sole non sono in grado di rispondere ai problemi del nostro tempo. Questa consapevolezza può interrompere un meccanismo storico operante da sempre a sinistra: quello della scissione, dell’antagonismo, della lotta fratricida. Può interromperlo e imporne un altro: quello della complementarietà, dell’integrazione e dell’(U)unione.
Questo è “nuovo”? In certo senso sì, anche se nel 1892 il Psi nasce da questa conquista: le lotte possono anche riuscire, ma i loro risultati si avvertono solo se una presenza politica nelle Istituzioni le fa vivere nelle leggi. Il nuovo ha un valore più nobile se contiene la parte sana di un’esperienza antica. Abbiamo un bisogno disperato di questo nuovo modo di confrontarci. Un modo che preveda una reciproca legittimazione e una unità che non nasca dalle nostre convinzioni, ma dalla necessità di essere nelle lotte, sapendo che il loro valore e il loro successo deve obbligatoriamente vivere là dove si decide. In altre parole, occorre convincersi che questa è la nostra funzione storica, stare uniti, e che la assolveremo solo se riusciremo a trovare il “nuovo” che cerchiamo. Quello che sarà figlio della nostra storia.

Transform!italia, 18 gennaio 2023

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Attaccare il governo Meloni sul tema del fascismo significa rafforzare una leader che viene da dove viene, ma nega, rinnega e soprattutto sa che per i disperati vale un principio: “spes ultima dea“. Fratelli d’Italia e soprattutto Giorgia Meloni hanno avuto e hanno riferimenti indecenti, ma in due mesi sono stati capaci di competere persino con Harry Houdini. Oggi purtroppo si fa politica vendendo illusioni e vince chi riduce Agostino Depretis a un dilettante del trasformismo.
Per essere alternativi, a questo punto, occorre il coraggio di attaccare la NATO e chiedere di uscirne; bisogna accusare di tradimento chi affama la povera gente, dilapidando i pochi soldi che abbiamo per far guerra alla Russia; traditori tutti, Sergio Mattarella per primo; si deve puntare il dito sul minaccioso progetto del ministro Guido Crosetto, che prefigura apparati amministrativi ridotti a zerbini del governo; è necessario rispondere alla lotta di classe eversiva condotta dall’alto, ripagandola con la stessa moneta; non si può solo attaccare una politica che copre l’evasione fiscale, ma avere il coraggio di incitare allo sciopero fiscale chi non evade; è giusto ritenere sacrosanta la battaglia su lavoro. disoccupazione, precarietà e furto di salario, ma è giusto anche sapere che non si può vincere senza mettere al suo centro il tema della formazione, ridotta a fabbrica di soldatini del capitalismo, roccaforte del “pensiero unico”, al quale si formano i nuovi intellettuali.
Alternativo è oggi chi difende la libertà d’insegnamento in una scuola che restituisca a giovani intellettuali e lavoratori il significato profondo della parola diritto, perché chi non lo conosce bacia la mano al padrone che lo deruba.
E’ vero, c’è una crescente e pericolosa torsione autoritaria delle Istituzioni, ma essere alternativi non vuol dire strapparsi i capelli per un presunto, impalpabile fascismo, significa seguire la coraggiosa intuizione leninista e coinvolgere nella lotta non solo i lavoratori ancora consapevoli, ma anche i sinceri democratici.
Amen.

Agoravox, 2 gennaio 2023

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Compagne e compagni,
non intendo qui rispondere a un ministro spergiuro, che dopo aver giurato sulla Costituzione firmata dal Comunista Umberto Terracini, si presenta agli studenti, alle studentesse e ai loro docenti nei panni di un gerarca posto alla testa del Minculpop.
Chiedo invece, questo sì, una risposta forte e collettiva.
Stanotte Antonio Gramsci, morto di carcere fascista, è venuto a rimproverarmi del silenzio complice con quale ho accolto il foglio di propaganda del Partito Nazionale Fascista, firmato dallo spergiuro Valditara. Il grande maestro di Comunismo, morto di galera fascista, indossava l’abito del detenuto; a nome suo e delle innumerevoli vittime Comuniste, massacrate dal capitalismo di Valditara, cadute nelle lotte per il lavoro e per la giustizia sociale, torturate e uccise in quella Guerra di Liberazione che ci ha regalato la Costituzione tradita da Valditara, chiedeva con parole pressanti una nostra risposta.
Non era un caso se con lui c’erano, inorriditi, i liberali democratici Amendola e Gobetti e il Partigiano Gaetano Arfè. Che combatterono per i valori così indegnamente rappresentati dallo scribacchino sedicente liberaldemocratico.
A nome suo e di quanti hanno reso nobile e immortale la parola Comunismo, a nome di Amendola, Gobetti e Arfè, chiedo alle forze politiche che conservano un minimo di fedeltà alla nostra Costituzione calpestata, ai sindacati, ai docenti e alle docenti, agli studenti e alle studentesse, ad artisti e intellettuali liberi e libere, a lavoratori e precari sfruttati e ai disoccupati mortificati e ignorati, di scendere nelle piazze, di occuparle  e di chiedere le immediate dimissioni del nemico della scuola, della cultura e della civiltà.

FreeSkipperItalia, 11 novembre 2022

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Con il consueto semplicismo, che non intende spiegare ma deformare e confondere, i “grandi” opinionisti ci hanno riferito le riflessioni di Berlusconi, registrate durante una riunione privata di partito e consegnate alla stampa. Ne è venuta fuori l’immagine volutamente tragicomica di un vecchio rimbambito che non è in grado di controllarsi e si fa condizionare dall’amicizia “pericolosa” con Putin. La storia di due leader che vivono ormai fuori dalla realtà.
Berlusconi era e resta per me un uomo pericoloso, ma stavolta le cose non stanno come si tenta di presentarle. Certo, il vecchio leader ha detto quel che pensa davvero della guerra ucraina e di Putin. Un pensiero che ha scandalizzato gli ammiratori di sua santità Zelensky e di un principio acritico, per il quale i torti stanno tutti da una parte e le ragioni dall’altra, sicché, di fronte a un attacco militare, i fatti che conducono alla guerra non contano più: patti sottoscritti e stracciati, principio di autonomia dei popoli, ragioni dei ribelli, anni di massacri e bombardamenti.
Chi la memoria non l’ha venduta al mercato capisce, però, che c’è dell’altro. Ricorda, per cominciare, il monito dell’ambasciatore americano David H. Thorne: gli USA si aspettano dall’Italia scelte diverse verso Libia e Russia. Non ha dimenticato la vergognosa lettera di Draghi e Trichet, l’attacco scatenato contro un progetto alternativo che sganciava l’Italia dall’egemonia delle Sette Sorelle, assicurandole il petrolio libico e il gas russo; ricorda l’ostilità manifesta di fronte all’idea, condivisa da Berlusconi con Angela Merkell, di una Unione Europea aperta economicamente, ma soprattutto politicamente, alla Russia di Putin. Una UE autonoma dagli USA.
La domanda a questo punto non è se Berlusconi faccia capricci per le poltrone o sia impazzito. La domanda è se la farsa costruita dai media, non serva a far scomparire il dissenso di un politico che, pur avendo lavorato sempre per se stesso, aveva inaugurato una politica estera controcorrente, distrutta brutalmente da sedicenti europeisti, che fecero a pezzi la Libia, alleata dell’Italia, e seguirono gli Usa nella via che ci ha condotti dove siamo.
Ridicolizzare Berlusconi o criminalizzarlo, può essere utile ai servi della Nato, a una stampa mediocre e a una classe dirigente europea rozza e povera culturalmente, che ha ridotto il sogno di Spinelli al Regno della Finanza, al possibile e probabile campo di battaglia di una tragedia nucleare. Questa operazione da tre soldi non può impedire, però, né che la gente sia contro la guerra, né che Berlusconi ne colga gli umori. Gente, si badi bene, sola nella tempesta della miseria e nel timore fondato di un macello nucleare.

FreeSkipper Italia e Zazoom Social News, 21 ottobre 2022

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A dar retta a Scanzi, un giornalista che ritenevo obiettivo e di qualità, Luigi De Magistris e gli elettori di «Unione Popolare» sono stati velleitari e infantili. Sapevano che non avrebbero superato la soglia di sbarramento e si sono ostinati, poveri idioti, a rifiutare il ricatto del «voto utile», scegliendo chi pensavano e pensano che li rappresenti.
Seguendo il principio di Scanzi, qualora fossimo chiamati a votare con una legge che – in nome del feticcio della «governabilità» – ponesse lo sbarramento al 26 %, per non rischiare di essere giudicati velleitari e infantili, dovremmo limitarci a scegliere tra la Meloni o il Letta di turno.
Questo passa il convento, dice insomma Scanzi, al quale vorrei chiedere però, di spiegarmi perché ai primi del 2021 il bipresidente Mattarella, caduto Conti, chiamò Draghi. Perché eravamo in un mare di guai? Perché c’era il Covid, avevamo tagliato il numero dei parlamentai e non si poteva votare con una legge mille volte peggiore della fascista «legge Acerbo»? E perché stavolta ha sciolto le Camere e ci ha mandati a votare? Eppure il Covid c’è ancora, i guai sono aumentati, la fame ci minaccia, Draghi ci ha messo l’elmetto e la legge elettorale è sempre la stessa. Perché Mattarella non ha incaricato la Presidente del Senato di formare un «governo del Presidente» con l’incarico di dare al Paese una legge elettorale democratica, magari proporzionale e senza sbarramento?
A Scanzi non pare che, se il presidenza della Repubblica e quello del Consiglio, l’infallibile Draghi, avessero consentito alla gente di scegliere davvero chi votare, oggi non avremmo il 63 % di astenuti e molti piccoli partiti sarebbero entrati in Parlamento?
Scanzi, giornalista liberale, indipendente e colto, non sa che, quando i Presidenti rispettavano e facevano rispettare la Costituzione, la cosiddetta «legge truffa» non passò? Piero Calamandrei, Ferruccio Parri e Tristano Codignola, infatti, si presentarono con un piccolo e neonato partito – «Unità Popolare» – presero l’1 % e con la manciata di voti presi (meno di quelli ottenuti oggi da «Unione popolare»), impedirono che la legge avesse il suo drammatico effetto: il progetto autoritario, infatti, fu battuto per poco più di 34.000 voti.
Parri, Calamandrei e Codignola erano anch’essi velleitari e infantili?
No. Più semplicemente e molto più democraticamente il garante della Costituzione era Luigi Einaudi, il popolo – sovrano baluardo della democrazia costituzionale – poteva votare chi lo rappresentava e i voti non andavano sprecati.

Agoravox, 30 settembre 2022

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Ricevo e diffondo, invitando chi legge a votare come il grande regista.

Caro Aragno, ti invio l’appello per il voto a UNIONE POPOLARE del mondo della cultura, dell’informazione e della conoscenza. Ma non solo. Nel testo sono sintetizzate le motivazioni al voto. Vorrei solo aggiungere che questo a mio parere è l’unico voto realmente utile per poter riportare una sinistra degna di questo nome in Parlamento, che si batta realmente contro la guerra e ogni forma di fascismo, per la giustizia sociale e per l’ambiente. Mi dici se sei d’accordo e se posso mettere il tuo nome?

Grazie infinite, Citto Maselli

Siamo lavoratrici e lavoratori della cultura, della conoscenza, dell’informazione e della ricerca. Siamo scrittori, docenti, registi, autori, attori, artisti, scenografi, direttori della fotografia, produttori, musicisti, giornalisti, ricercatori, operatori culturali. Siamo attiviste/i, persone impegnate in forme diverse e molteplici sul piano sociale e civile, nei movimenti, nelle lotte sociali e ambientali, per la democrazia e la pace contro ogni forma di fascismo. Abbiamo storie personali e percorsi diversi, ma tutti ci siamo ritrovati concordi nello scegliere, oggi, di votare e di chiedere di votare per “Unione Popolare”.

Siamo convinte/i che la guerra sia una discriminante in questa fase della storia dell’Europa e del pianeta e che sia necessario assumere pubblicamente una posizione chiara e limpida di contrasto delle scelte belliciste del nostro paese e della Nato e che ogni sforzo vada indirizzato verso la cessazione immediata del conflitto in Ucraina e una soluzione di pace. La condanna di Putin non giustifica una guerra per procura che potrebbe trasformarsi in conflitto nucleare e che sta producendo un numero enorme di vittime. Per questo diciamo no all’invio di armi che ci ha trasformato in un paese co-belligerante in violazione dell’articolo 11 della Costituzione.

Diciamo no al riarmo e all’osceno spreco rappresentato dalle crescenti spese militari che servono a preparare nuove guerre e lo scontro con la Cina. Ci sentiamo impegnate/i per un futuro di pace e cooperazione tra i popoli e di utilizzo a fini sociali e solidali delle enormi risorse oggi dissipate per arricchire il complesso militare-industriale.

Siamo convinte/i della gravità della crisi climatica e ecologica che impone una radicale riorganizzazione della nostra società, dei nostri modi di produrre e di vivere. E a tal fine c’è bisogno di scelte coerenti e non di riverniciare di verde la logica del profitto.

Siamo convinte/i del ruolo determinate della cultura e della conoscenza per combattere la rassegnazione, l’indifferenza e l’antipolitica, per la costruzione di una democrazia vera basata sulla partecipazione e non sull’esclusione, per l’attuazione della Costituzione che assegna alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che … impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Ci battiamo per “una rivoluzione culturale che metta al centro le persone e i loro diritti”.

Per questo votiamo e chiediamo di votare “Unione popolare”.

Siamo convinte/i che la crescita delle disuguaglianze e un capitalismo sempre più predatorio stiano producendo una pericolosa crisi della democrazia e pulsioni razziste e intolleranti. Ci siamo battuti e continueremo a batterci contro le politiche neoliberiste portate avanti dai governi di centrodestra e centrosinistra in questi anni; contro le privatizzazioni dei beni comuni, contro le ingiustizie e lo sfruttamento, lo svuotamento della democrazia costituzionale, dei diritti sociali e civili, contro la mercificazione della cultura, dei diritti, della vita, per una società solidale fondata sul principio di eguaglianza sostanziale, sull’eliminazione di ogni discriminazione, sull’affermazione dei diritti delle donne.

Per questo votiamo e chiediamo di votare “Unione popolare”.

Sentiamo l’urgenza della ricostruzione di una sinistra basata sulla connessione tra diversi soggetti del conflitto e culture critiche che coinvolga persone, associazioni, partiti, reti e organizzazioni della sinistra sociale, culturale e politica, una sinistra ambientalista, femminista, pacifista, antirazzista, antiliberista e anticapitalista.

Per questo votiamo e chiediamo di votare per “Unione popolare”.

Noi firmatari di questo appello votiamo e chiediamo di votare “Unione popolare” per poter costruire insieme la società di cui abbiamo bisogno.​​​​​​

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Quando «Fratelli d’Italia» ha definito l’INVALSI (Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione) un inutile carrozzone, la domanda del mondo della formazione sulla sorte che l’«Unione Popolare» riserva all’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario) e all’INVALSI si è fatta pressante.
Sia pure confusamente, docenti, personale non docente e studenti, molti dei quali voteranno per la prima volta, intuiscono il rapporto diretto che lega il ruolo di questi organismi, l’inefficienza crescente del sistema formativo e la grave crisi della nostra democrazia. Per dare risposte adeguate, occorrerebbe probabilmente partire da lontano, ma in una campagna elettorale condizionata dalla mancanza di tempo, si punta il dito anzitutto sui dati macroscospici: investiamo su università e scuole pubbliche, assumiamo, cancelliamo l’aziendalizzazione e le rovinose riforme Gelmini e Renzi; basta con classi pollaio, tasse e precariato. Finisce così che, pur essendo un problema di fondo, dimentichiamo le agenzie di valutazione, delle quali non si percepisce immediatamente il ruolo negativo e lasciamo che sia la Meloni a dure che l’INVALSI è un «inutile carrozzone».
E’ un vuoto pericoloso? Sì, perché manca una riflessione sulle conseguenze prodotte dalle misure neoliberiste sul mondo della conoscenza e quindi nella società. Si può supporre che una di queste conseguenze sia, per esempio, l’origine di seri problemi di partecipazione? Penso di sì. Penso che dovremmo anzitutto capire come siamo giunti al punto in cui siamo e quali meccanismi producono l’indifferenza o addirittura l’adesione di studenti e docenti. Individuarli consente di comprendere se e quanto c’entrino con la formazione e come si possa eventualmente smontarli.
Esiste ormai almeno una generazione di giovani docenti e studenti soffocati nei confini disegnati via via da Bassanini, Berlinguer, Moratti, Gelmini e Renzi e formati in scuole e università dominate dalle agenzie di valutazione. Una generazione, forse qualcosa in più di una generazione, cui sono stati sottratti gli strumenti che formano il pensiero critico, la capacità di pensare e valutare liberamente con la propria testa, che in fondo è anche capacità di opporsi, di non rassegnarsi, di non cedere all’egoismo, all’indifferenza e al qualunquismo.
E’ vero, contano i dati materiali, ma l’aria che respiriamo non conta? Il lavaggio del cervello che parte dalla scuola, passa per la televisione e i social e non trova freni nella famiglia, un peso non ce l’ha? E che ruolo ha giocato tutto questo nella sconfitta della sinistra? Una sconfitta culturale, prima ancora che politica, come ci dicono chiaramente i milioni di voti, non solo meridionali e comunque di ceti popolari, toccati ai 5 Stelle nel 2018, che si sono poi significativamente incontrati con gli altri milioni di voti finiti alla destra leghista.
In genere si pensa a un regime anzitutto come repressione, ma è una visone miope. Un regime reprime, ma mira anche a costruire consenso. Per riuscirci, sterilizza la conoscenza intesa come potenziale arma di lotta e manipola il pensiero. Se ignoro i miei diritti, se non li riconosco nemmeno come tali, non rifiuto lo sfruttamento, ringrazio lo sfruttatore e divento addirittura ostile a chi lo combatte. All’inizio della storia del movimento operaio e socialista, gli operai e i braccianti ringraziavano i loro carnefici e se elargivano «benefici», li definivano «padri dei lavoratori».
Torniamo al punto. Sono anni che l’università è il laboratorio in cui il neoliberismo forma i futuri docenti e ne fa preziosi veicoli di quel «pensiero unico», che essi poi insegnano nelle scuole alle nuove generazioni. I contenuti di tale insegnamento sono selezionati da un sistema di valutazione che, di fatto, è uno strumento di controllo sulla cultura. E’ vero, scuole e università adeguatamente finanziate dallo Stato, sono un bene comune decisivo, in grado di consentire la crescita sociale e la realizzazione di ciò che il giovane Gramsci chiese ai suoi coetanei, quando scrisse: «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza».
Le cose però non stanno così. Noi riusciamo ancora a vedere – e perciò li combattiamo – gli effetti macroscopici delle politiche neoliberiste: livelli di precarietà elevatissimi nell’area docente, sfiducia degli studenti e calo delle immatricolazioni. L’Italia, ultima in Europa per percentuale di laureati, impone restrizioni al passaggio scuola superiore-Università; benché la crescente povertà causi la rinunzia all’iscrizione e i numerosi abbandoni, la tassazione universitaria pubblica è più alta che altrove e abbiamo creato figure paradossali, quali gli «idonei non beneficiari», giovani, cioè, ai quali si riconosce il bisogno di un sostegno che però non avranno. Il diritto allo studio è ormai un’astrazione; l’università, indebolita dalla penuria dei finanziamenti e isolata dal contesto sociale, è sempre meno accessibile ai ceti subalterni. La sua decadenza è tra le cause fondamentali del decadimento culturale, etico e politico della Repubblica.
Così ridotta, l’Università va rifondata, ma è necessario che la gente capisca. Se diciamo INVALSI, c’è ancora chi sa che si tratta di assurdi criteri di valutazione e prova a boicottare. Se invece diciamo ANVUR, parliamo non solo di una inaccettabile valutazione, ma anche di meccanismi che diventano addirittura controllo sulla cultura; molti però non sanno, pochi si rendono conto e non è facile difendersi. Così com’è, la valutazione della ricerca è una galera per i ricercatori e un furto per gli studenti. Se non ne denunciamo la reale funzione, non sarà mai chiaro dove si nasconde uno dei principali nemici di una formazione critica generalizzata e di alto livello, sottratta agli interessi delle imprese e alle loro logiche di corto respiro.
La formazione ha il suo principio-guida nella Costituzione, laddove, mettendo ordine e armonia tra uomo, lavoro e società, dice che quest’ultima è fondata sul lavoro e che la sovranità non appartiene al mercato, ma al popolo. Solo seguendo questa bussola, Scuola e Università possono insegnare, per esempio, che le risorse della natura non sono un patrimonio a disposizione delle ragioni del profitto, ma fanno parte di un ecosistema che ha inviolabili equilibri; dal loro rispetto dipendono la nostra vita e quella di chi abiterà la terra dopo di noi. Tuttavia Scuola e Università non possono più farlo efficacemente, perché gli equilibri ambientali sono subordinati ormai agli interessi economici che dettano legge anche nel mondo della formazione. Occorre perciò impedire che l’ANVUR continui a costruire sacerdoti del pensiero unico e a spegnere nella maggior parte degli studenti la capacità di organizzare resistenza.

Ecco la risposta alla domanda da cui siamo partiti. L’ANVUR è un’agenzia che fa della quantità della produzione scientifica la misura della qualità di lavori che le commissioni non leggono. Per l’ANVUR, una ricerca vale se l’editore conta molto, se c’è chi la cita – gli anglosassoni sono i più quotati – se l’autore «produce» molto e partecipa a convegni internazionali. Grazie al criterio della «misurazione quantitativa», una commissione ha regalato una cattedra a un giovane che in tredici anni, dalla laurea al concorso, ha sfornato otto saggi e «curato» nove libri; in quei tredici anni, moltiplicando il valore del tempo, come Cristo i pani e pesci, il giovane ha firmato due voci enciclopediche e trenta tra contributi in volume e articoli in rivista. In pratica 200 pagine all’anno per tredici anni. Non bastasse, ha organizzato undici convegni, detto la sua in quarantuno simposi, seminari, workshop e festival nazionali e internazionali, ha valutato come revisore «prodotti di ricerca» su riviste italiane e straniere, ha presentato quattro progetti nazionali e internazionali e ha partecipato ai lavori di otto comitati scientifici. Naturalmente la commissione, che non ha letto alcun libro dell’enfant prodige, non s’è posta la domanda cruciale: quanto tempo ha potuto dedicare alla ricerca?
Si sa che il valore della ricerca è la sua qualità, che si misura in base a metodologia, originalità, capacità innovativa e ricchezza creativa. Un progetto di qualità può richiedere anche anni di lavoro. Che credibilità ha un giudizio dell’ANVUR, che, fondata su logiche produttivistiche, impone alla ricerca vincoli temporali? E soprattutto, a che serve una simile valutazione e quali effetti produce sull’insegnamento? La risposta è semplice: l’ANVUR, che conosce il forte legame esistente tra «grandi editori» e «baroni», che ne dirigono le collane e scelgono i testi da pubblicare, impedisce di fatto ai ricercatori di occuparsi di alcuni indirizzi di ricerca. Se studio gli anarchici, non pubblico i risultati delle mie ricerche e non vinco concorsi. Di conseguenza studierò altro e nessuno insegnerà più il significato e il valore storico dell’anarchia. Se voglio occuparmi di salute mentale e seguire la scuola di Basaglia e Piro, non otterrò cattedre con le mie ricerche, perché non troverò editori. O rinuncio, o batto la via farmacologica. La conseguenza è una salute mentale che torna a soluzioni repressive, narcotici e letti di contenzione e una università dalle quali sparisce l’esperienza di psichiatria democratica e del disagio come male sociale.
Potrei continuare, ma ormai dovrebbe esser chiaro. Valutare per controllare vuol dire imporre dall’esterno «obiettivi di valore» che ispirano periodiche verifiche della qualità dell’insegnamento; significa creare docenti che tutelano potere e mercato. Significa decidere cosa diranno i libri di testo. E’ questo meccanismo che rende apatico lo studente, impreparato e subordinato il docente formato al pensiero dominante. E’ da qui che occorre partire, per capire e cambiare davvero. Se il pensiero è sotto controllo, se i giovani che si danno alla carriera universitaria devono rinunciare a fare ricerca su argomenti sgraditi al potere, la minaccia non grava sugli studenti, ma è direttamente rivolta contro la libertà della Repubblica.

Agoravox, 12 settembre 2022

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