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Archive for luglio 2011

Legge finanziaria. La parola al segretario dell’opposizione che non c’è:

E’ vero, se il Titanic affonda, affoga anche la prima classe. E affoghi, perdio! Affoghi! La seconda e la terza classe sono completamente vuote: la strage l’avete fatta prima. Non è vero che siamo tutti sulla stessa barca, come ripetete ossessivi e terroristici, non solo voi maggioranza, ma i giornali del regime, i sedicenti esperti e il loquacissimo Quirinale. La povera gente è affogata da tempo e chi ancora si tiene a galla, dio sa come e in che disperate condizioni, la povera gente, se vi salverà, l’ammazzerete domani a tradimento: tasse, balzelli, manganellate e galera a volontà. Andate alla malora, voi e la vostra nave. Noi, chi di noi è sopravvissuto alla vostra barbarie, ha solo un modo per potersi salvare: essere l’iceberg del vostro stramaledetto Titanic. E’ questo che occorre. Null’altro, prima che i vostri scherani armati a costo del nostro sangue, sangue nostro possano versare nelle piazze ribelli.

Voi, che avete annegato la solidarietà nel Mediterraneo per scatenare guerre tra i poveri, voi che a Genova ci avete torturato, voi che ai giovani negate il lavoro in nome del profitto e ai vecchi imponete di lavorare fino alla morte, voi che difendete i vostri privilegi con infami galere, voi che col vostro mercato ci affamate, voi che incarnate alla perfezione l’uomo lupo di Hobbes, voi, proprio voi domandate aiuto per il vostro Titanic? Tanto osate?

Voi siete i lupi e noi siamo l’agnello. Noi siamo il peggio del Paese, voi l’avete detto. Brunetta, Sacconi, Gelmini: noi siamo la feccia, siamo i fannulloni. Il patto che proponete va contro natura. Affondate. Siamo al punto in cui non abbiamo altro da perdere e possiamo guadagnare un mondo. Voi siete i nostri nemici naturali. O vi rassegnate alla resa e vi rendete nostri prigionieri, o non sperate aiuto. Non l’avrete. State zitti e lasciateci godere lo spettacolo: affonda la barca dei padroni.

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Ferdinando Cordova, fino a novembre scorso ordinario di Storia Contemporanea alla Sapienza, era nato a Reggio Calabria nel 1938 e se n’è andato nelle prime ore del mattino di lunedì 11 luglio. L’ha portato via, in poco più d’un mese, un male che non perdona e che aveva affrontato così come ha vissuto: da uomo schivo e gentile, col coraggio sereno e consapevole di chi è in pace con se stesso. La notizia dolorosa si è materializzata improvvisa sul pc, come capita in questo tempo nostro di veloci vie tecnologiche: “lutto“, la parola in oggetto, secca, tagliente e irrimediabile. Sapevo che sarebbe giunta, ma non credevo così terribilmente presto e non immaginavo quanto amara e difficile da accettare. Nando, così ero abituato a chiamarlo, era un uomo al quale non potevi che voler bene. E me ne accorgo oggi, come mai l’avevo sentito prima, perché è così, perché è il fatto compiuto e senza rimedio quello che ti pone davanti a te stesso e ti parla come non sa fare nessun altro momento della vita. L’avevo sentito a telefono, ora non ricordo più bene se venerdì o sabato. Stava malissimo, era consapevole ma anche sereno e ancora capace di far cenno agli “amici affettuosissimi“, con quel tratto umano inconfondibile, che la sofferenza devastante non aveva potuto e non poteva cancellare. Era stato lui stesso a dirmi della sua malattia il 3 luglio scorso. “Farò di tutto per uscirne, – mi aveva scritto – ma, se dovesse andare male, ricordami ad amici e studiosi“.
Cordova è stato allo stesso tempo studioso serio e valoroso e uomo onesto e geloso della sua autonomia di pensiero. Dopo quarant’anni d’amicizia, me lo ricordo così, rigoroso nella ricerca, pronto e acuto nella “battaglia delle idee“, netto, se necessario, ma pacato, sereno e mai fazioso. A leggere oggi i suoi molti saggi, non è difficile riconoscere i tratti migliori della scuola di Renzo De Felice, che ci fu maestro comune e di cui egli fu allievo degnissimo, sebbene indocile e soprattutto indipendente. L’ho conosciuto ch’ero ancora uno studente-lavoratore, nella fertile confusione che fu la mia vita negli ultimi anni Sessanta. Il primo ricordo è un esame di storia, dopo la prova scritta, i suoi generosi complimenti e le parole che segnano una vita: “Renzo, questo è Aragno…“. L’inizio d’una intensa e lunga collaborazione negli ormai lontanissimi anni Settanta, vissuti in una Salerno che non c’è più, in un edificio di via Irno, dov’eravamo distaccati e dove il caso e il magistero di De Felice ci avevano messi assieme. Si occupava, in quegli anni, degli arditi e dei legionari dannunziani e aveva appena pubblicato un saggio ancora oggi utile a chi voglia capire la cause della crisi del mondo liberale. Così valido e “anticipatore“, che nel 2007, quasi quarant’anni dopo, il Manifestolibri l’ha potuto riproporre com’era uscito nel 1969. I ricordi sono mille: i pranzi frugali, da giovani più o meno spiantati – l’accademia non è stata mai ricca – in una sorta di taverna a ridosso del Corso Italia, le lunghe, formative e appassionate discussioni con De Felice, che andava pubblicando la sua monumentale biografia di Mussolini, un anno drammatico, non saprei dire con certezza, ma credo il 1974, con le polemiche sugli “anni del consenso” che investirono anche noi e giunsero a separare i due allievi dal maestro che, intanto, era approdato a Roma. Abbiamo poi preso strade diverse, ma non ci siamo mai persi di vista e, nonostante il trascorrere degli anni, il posto in cui era più probabile incontrarlo era ancora l’Archivio Centrale dello Stato, a Roma. Lì ha trascorso tanta parte della sua vita di ricercatore. Lì aveva proficuamente studiato la Massoneria e il sindacato fascista e, ormai vecchio, ancora studiava da maestro il fascismo, lo Stato totalitario la storia e la cultura del nostro Paese dall’Unità alla Repubblica. Ha scritto saggi pregevoli che lasciano un segno. L’ultimo – Il ‘consenso imperfetto’ quattro capitoli sul Fascismo – cui tanto teneva, quasi presagisse la fine, aveva pagine e spunti davvero illuminanti. La cultura del nostro Paese perde un protagonista serio, coerente, capace di assumersi la responsabilità del rischio, senza inseguire mode, con la fermezza di chi sa di essere un riferimento. Non è perdita lieve. Mancheranno il suo contributo autorevole, il senso della misura e la capacità di cogliere il significato profondo degli eventi storici. Personalmente gli devo molto e sempre, quando avevo un dubbio o sentivo il bisogno di andare a fondo in una ricerca, lo trovavo disponibile, aperto, pronto a dare una mano, a dire la sua con intuizioni sempre felici, idee chiare e una cultura fine e ricca di umanità. L’anno scorso, dopo aver pubblicato due mie biografie di antifascisti sul suo “Giornale di Storia Contemporanea“, con affettuosa insistenza, mi aveva convinto a mettere assieme alcune biografie di sconosciuti antifascisti per farne un “Quaderno” della sua rivista. L’introduzione sarebbe stata sua, se la morte non se lo fosse portato via, ma terminerò il lavoro e troverò modo di farlo uscire ugualmente. Glielo devo, come gli dovevo questo tentativo di ricordarlo e rispondere a quel suo invito del 3 luglio scorso, quando lottava per la sopravvivenza e mi chiedeva di ricordarlo alla comunità degli studiosi.
Degli storici parlano soprattutto le mille ricerche e i saggi prodotti. Quelli di Ferdinando Cordova lo faranno a lungo: hanno a buon diritto il loro posto tra quelli degli studiosi che la morte non cancella.

Uscito su “Fuoriregistro” il 12 luglio 2011 e su “il Manifesto” il 14 luglio 2011 

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Lo riporto per dovere di cronaca. Mi capita di leggerlo per caso, come – devo dire – per caso ho letto il mio articolo su il Manifesto. Non sapevo ch’era uscito. A Ghezzi non ho replicato. Non merita risposte chi, a corto di argomenti, attacca la persona. Poche parole le dico qui, sull’omicidio Matteotti, che il Ghezzi evoca strumentalmente senza accorgersi che la sua è un’implicita ammissione di responabilità. Il nostro non è tempo da Matteotti e, qualora ci fosse, non morirebbe di pugnale. Come i moderni regimi – tutti più o meno “democrazie autoritarie” – anche la Ceka s’è evoluta, conta su pennivendoli e velinari e ha un’arma ben più efficace del pugnale: t’ammazza moralmente senza rischiare niente. Matteotti oggi sarebbe stato travolto da uno scandalo montato ad arte, l’avrebbero attaccato sul piano personale e, perché no?, i suoi argomenti sarebbero diventati barzellette da Bar Sport, come prova a fare Ghezzi con me, che, a suo dire, sono intellettualmente disonesto. La menzogna, il fango, le chiacchiere che non entrano nel merito sono il pugnale dei moderni Dumini. Un’arma che, a giudicare dalla replica, Ghezzi conosce bene. Lascio, perciò, che si commenti da solo.

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Non scherzate con la storia e il  fascismo

Leggo su manifesto un articolo di Giuseppe Aragno che, con sconcertante superficialità, paragona l’intesa raggiunta tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria lo scorso 28 giugno con il Patto di Palazzo Vidoni sottoscritto tra Confindustria e Corporazioni fasciste il 2 ottobre 1925. Il recente accordo che cancella l’illusione che si possano fare accordi contro la Cgil, che ristabilisce la centralità dei contratti nazionali, che opera per ricostruire un terreno di regole comuni che portino alla certificazione della rappresentanza sindacale e a pratiche democratiche definite e che viene siglato dopo anni nei quali, sotto la perversa regia del ministro del lavoro in carica, il governo e settori decisivi della imprenditoria italiana hanno messo in campo quanto era in loro potere per escludere la Cgil da ogni confronto e tentare di cancellarne la funzione, viene assurdamente paragonato al Patto che permise a Mussolini di fascistizzare il sindacalismo italiano e la stessa Confindustria.
Con quale onestà intellettuale si può paragonare anche lontanamente l’attuale pur difficile contesto politico-sociale a quello di un’Italia nella quale, al termine di ciclo di violenze inaudite perpetrate contro il sindacato, i partiti di sinistra e il movimento cooperativo, Mussolini, dopo essersi assunto la responsabilità del delitto Matteotti aveva proclamato l’avvento della dittatura il 3 gennaio 1925, messo fuori legge i partiti politici, abolita la libertà di stampa, assunti i pieni poteri e avviata la fascistizzazione dello Stato? Nel 1925 il partito-stato impose alle parti sociali un accordo col quale, riconoscendosi reciprocamente come rappresentanze esclusive degli industriali e delle relative maestranze, si cancellavano i sindacali presenti nel paese ad esclusione di quello fascista, si deliberava l’abolizione del diritto di sciopero, la cancellazione delle Commissioni Interne sostituite con il fiduciario delle Corporazioni e si toglieva ogni autonomia a Confindustria che veniva costretta anch’essa a fascistizzarsi modificando persino il proprio nome.
La soluzione individuata nei giorni scorsi, che ovviamente può non essere condivisa, è stata sottoscritta dalle parti sociali senza intervento alcuno da parte del governo in carica. Oggi al più le opinioni assolutamente legittime che si confrontano vivacemente nella Cgil dividono coloro che vedono nel referendum l’unico strumento di espressione della democrazia sindacale da coloro che lo ritengono invece uno strumento importante ma non il solo strumento democratico da mettere in campo. Opinione quest’ultima che, va ricordato, ha prevalso di gran lunga nel voto espresso dagli iscritti nell’ultimo congresso della Cgil.
Anche in Confindustria si manifesta per fortuna, a differenza del 1925, un pluralismo sufficientemente visibile, basterebbe in merito leggersi le ultime esternazioni di Marchionne. Per le organizzazioni imprenditoriali dell’agricoltura, del credito o dei servizi vale il medesimo discorso. Dalla storia e dalle sue tragedie vanno sempre tratti insegnamenti importanti. Non barzellette da raccontare al Bar Sport.
Carlo Ghezzi
* presidente della Fondazione Giuseppe Di Vittorio.

http://www.dirittiglobali.it/home/categorie/42-sindacato/17078-non-scherzate-con-la-storia-e-il-fascismo-.html

http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20110705/manip2pg/06/manip2pz/306114/

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Ho scritto, sì. Un’intera giornata. Il capitolo su Renato è quasi finito, ma sono stremato. Pensa un po’, l’ho accompagnato sui Pirenei nella neve, a piedi fino a Le Boulou; c’era la guardia francese, al confine, che non l’ha fatto entrare e sulla via per Figueras, dove ci hanno respinti, a ondate micidiali, gli aeroplani fascisti in picchiata mitragliavano i fuggiaschi. Spaventoso, credimi. Ora, però, non so bene perché, ho la sensazione vaga, ma insistente di qualcosa che avrei dovuto o voluto fare, ma non so più cosa. Una mail da scrivere, una promessa che non ho mantenuto, un impegno preso e poi volato via dall’angolo di testa che chiamiamo memoria? Non so. Non è più quello d’un tempo, l’angolo, come non sono più io quello che a volte incontro di sfuggita passando davanti allo specchio di fronte alla porta d’ingresso. Così accade, mi dico. La vita ti sorprende coi suoi ritmi strani, che solo raramente coincidono con la velocità dei sogni, coi colpi fulminei della fortuna nemica, coi repentini cambiamenti e la misteriosa sensazione per cui giungi a pensare che tutto in fondo sia sempre uguale a se stesso, tutto, nel cuore delle cose, resti così com’era quando sei arrivato e sarà così quando te ne andrai. In quante poltrone che altri hanno occupato prima di te ti sei seduto, a cinema e a teatro? Hai riso, come tanti hanno già riso, alla battuta pronta e ben congegnata, nel buio della platea, mentre l’attore recitava l’identico testo che tanto tempo fa, molto prima di te, ascoltavano tuo padre e tanti come lui che non l’ascolteranno più. Un secolo ti fa uomo, un minuto ti porta alla vecchiaia, un istante apre e chiude quel teatro tuo personale che ci siamo messi d’accordo di chiamare vita.

Così accade, mi dico. Non è più quello d’un tempo, l’angolo della testa dedicato ai ricordi, quel deposito misterioso di pensieri, scampoli di vita, ombre, luci, parole, che sono stati il tuo mondo e se ne andranno con te. Malinconia di vecchio? No, sta tranquilla. Nessuna malinconia. Rido di me, piuttosto, come risi quel giorno che, a Pistoia, un maresciallo furbo – avevo solo vent’anni – mezzo nascosto dietro montagne di cappotti color grigioverde, mi passò ammiccante la sua “merce“: ecco, ho trovato! – esclamò – Tagliato su misura!
E chi fece caso alla taglia, chi gli diede retta al maresciallo? Misi il cappotto, perché si gelava – chissà quante volte te l’ho detto – salutai goffamente, d’un saluto militare male appreso e irriverente, ch’era tutto, meno che marziale e rispettoso, e me ne andai preso non so bene da cosa. E’ vero, è così. A vent’anni sei padrone del mondo e quella sera, proprio come spesso da un po’, quella sera uno specchio me lo trovai di lato. Un grande specchio. Serviva, credo di ricordare, perché ci guardassimo bene, prima d’accettare; dopo era inutile recriminare, tempo scaduto, c’era poco da protestare… Se volevi aggiustare le cose, pagavi di tasca tua e imparavi la lezione. Lo sai, no? Non ho mai tenuto all’estetica e mai come in quei giorni toscani l’idea della rivolta contro il “potere costituito” era il centro dei miei studi e pensieri. Credo di poterlo confessare, sorridendo bonariamente di me stesso: se m’avessero vestito come un figurino, mi sarebbe sembrato un oltraggio. Una divisa ha da essere male assortita e qualche po’ fuori misura, se tu la vuoi in qualche modo contestare. Questo pensavo, distratto, sono certo, preso dalla mia rivoluzione, mentre m’avviavo alla camerata e con la coda dell’occhio vedevo nello specchio al mio fianco il marmittone, piccolo e mingherlino come una quarantaquattro, nel suo irresistibile quarantotto, e mi dicevo: questo però ha esagerato. Va bene la rivoluzione, certo, ma così combinato farebbe sfigurare Ridolini!

E Ridolini fu il primo nomignolo che mi portai appresso per un bel po’, da quella sera, in quella stramaledetta caserma che, per definizione era un covo di reazionari. Sì, troppo tardi intuii che nel lungo corridoio di quella improvvisata sartoria non c’era nessun marmittone tranne me, che camminavo svagato davanti allo specchio e commiseravo me stesso, convinto di commiserare uno scombinato più scombinato di me.
La smetto, sì. Lo so, non sono originale. Così avresti detto, se potessimo ancora parlare, noi due. No, non l’ho rinnovato il repertorio e non lo farò. Non l’ho fatto quando c’eri e avrebbe avuto un senso, vuoi che cominci oggi? Oggi che nessuna m’ascolterebbe per più di due minuti e non ce n’è una che avrei voglia d’ascoltare? Bella cosa che hai fatto. Ci siamo messi in croce per non so quanti anni, con mille ragioni reciproche – vedi? lo riconosco… – e non abbiamo mai chiuso, come sarebbe stato giusto e minacciavamo di fare a giorni alterni, ed ecco qua: passo davanti allo specchio e mi parlo come ti parlassi, sto davanti alla porta e non vado, non entro e non esco. Sto fermo e mi ricordo le storie passate del marmittone in cappotto, ma non so cosa ho fatto stamattina.  

Bella cosa che hai fatto…

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Uno urla: “fanno la legge bavaglio!” E via, cortei e sigle colorate. Scende in piazza l’intellettuale à la page, quello che legge Feltri, Libero e Belpietro, ma è la democrazia fatta persona; un popolo eccitato si veste di viola, attempate signore chic propongono “rivolte ciclamino” in stile tunisino e, scandalizzati, tornano a girare girotondini riciclati; qualcuno, se se li ha, si strappa i capelli, i giovani portano i vecchi in piazza e i vecchi ci vanno felici di questa ritrovata stagione rivoluzionaria. Qualcuno, irresoluto, aspetta l’oracolo e s’inchina la suo altare: chi ci ha messo Travaglio, chi Santoro, chi Saviano; buona parte dell’ex fascismo, ormai moderno e liberalizzato, guarda a “Futuro e Libetà” e pende dalle labbra di Bocchino in attesa di Fini. Un casino di fermento. E la legge? La legge non si fa! E’ divertente la democrazia, quando “qualcuno che conta” ci convince ad agire! La legge non si fa. Contava poco eera semplicemente un diversivo.

Viene il giorno che un’autorevole autorità, autorizzata da un autoritario potere più o meno occulto, P2, P3, P4 nessuno lo sa, mette mano alla rete e chiude la bocca al web. Tu t’aspetti la guerra civile, la lotta armata, una sorta di Quarantotto coi moti di piazza e la Giovine Italia e invece no. Non un corteo, nemmeno uno vecchio, finto, fotografato nella vecchia Piazza Esedra per salvare l’onore. Non una sigla colorata scende in piazza, non annuncia battaglia la stinta, ma gloriosa bandiera della pace… Niente, nemmeno un movimento vestito delle più varie gradazioni del grigio di questo tempo nostro bigio. Nulla. Chi legge il liberalissimo Feltri tace perché, si sa, è snob e non si mischia col popolo plebeo; il ciclamino ribelle s’è d’un tratto appassito nei tumulti nordafricani, come le attempate signore chic che non muovono un dito se l’intellettuale non c’è; Saviano non parla, i giovani sono stanchi dei vecchi, i vecchi non sopportano i giovani, nessuno fa conto su “Futuro e Libertà”, Bocchino chiama Fini, che chiama Bocchino, ma è sempre occupato. Il futuro s’è perso e la libertà non va più di moda. Non fermenta il casino, non gira il girotondino, s’incasina il fermento, non si muove una foglia che Travaglio non voglia… E la legge? Beh la legge si fa. La legge si fa, si fa, se non si sveglia la rete, la legge si fa…

PROTESTIAMO. FACCIAMOCI SENTIRE, RIBELLIAMOCI

 

 

 

 

 

Saremo l’esperimento più avanzato di censura del nuovo millennio
http://www.agoradigitale.org/nocensura

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