Ho scritto, sì. Un’intera giornata. Il capitolo su Renato è quasi finito, ma sono stremato. Pensa un po’, l’ho accompagnato sui Pirenei nella neve, a piedi fino a Le Boulou; c’era la guardia francese, al confine, che non l’ha fatto entrare e sulla via per Figueras, dove ci hanno respinti, a ondate micidiali, gli aeroplani fascisti in picchiata mitragliavano i fuggiaschi. Spaventoso, credimi. Ora, però, non so bene perché, ho la sensazione vaga, ma insistente di qualcosa che avrei dovuto o voluto fare, ma non so più cosa. Una mail da scrivere, una promessa che non ho mantenuto, un impegno preso e poi volato via dall’angolo di testa che chiamiamo memoria? Non so. Non è più quello d’un tempo, l’angolo, come non sono più io quello che a volte incontro di sfuggita passando davanti allo specchio di fronte alla porta d’ingresso. Così accade, mi dico. La vita ti sorprende coi suoi ritmi strani, che solo raramente coincidono con la velocità dei sogni, coi colpi fulminei della fortuna nemica, coi repentini cambiamenti e la misteriosa sensazione per cui giungi a pensare che tutto in fondo sia sempre uguale a se stesso, tutto, nel cuore delle cose, resti così com’era quando sei arrivato e sarà così quando te ne andrai. In quante poltrone che altri hanno occupato prima di te ti sei seduto, a cinema e a teatro? Hai riso, come tanti hanno già riso, alla battuta pronta e ben congegnata, nel buio della platea, mentre l’attore recitava l’identico testo che tanto tempo fa, molto prima di te, ascoltavano tuo padre e tanti come lui che non l’ascolteranno più. Un secolo ti fa uomo, un minuto ti porta alla vecchiaia, un istante apre e chiude quel teatro tuo personale che ci siamo messi d’accordo di chiamare vita.
Così accade, mi dico. Non è più quello d’un tempo, l’angolo della testa dedicato ai ricordi, quel deposito misterioso di pensieri, scampoli di vita, ombre, luci, parole, che sono stati il tuo mondo e se ne andranno con te. Malinconia di vecchio? No, sta tranquilla. Nessuna malinconia. Rido di me, piuttosto, come risi quel giorno che, a Pistoia, un maresciallo furbo – avevo solo vent’anni – mezzo nascosto dietro montagne di cappotti color grigioverde, mi passò ammiccante la sua “merce“: ecco, ho trovato! – esclamò – Tagliato su misura!
E chi fece caso alla taglia, chi gli diede retta al maresciallo? Misi il cappotto, perché si gelava – chissà quante volte te l’ho detto – salutai goffamente, d’un saluto militare male appreso e irriverente, ch’era tutto, meno che marziale e rispettoso, e me ne andai preso non so bene da cosa. E’ vero, è così. A vent’anni sei padrone del mondo e quella sera, proprio come spesso da un po’, quella sera uno specchio me lo trovai di lato. Un grande specchio. Serviva, credo di ricordare, perché ci guardassimo bene, prima d’accettare; dopo era inutile recriminare, tempo scaduto, c’era poco da protestare… Se volevi aggiustare le cose, pagavi di tasca tua e imparavi la lezione. Lo sai, no? Non ho mai tenuto all’estetica e mai come in quei giorni toscani l’idea della rivolta contro il “potere costituito” era il centro dei miei studi e pensieri. Credo di poterlo confessare, sorridendo bonariamente di me stesso: se m’avessero vestito come un figurino, mi sarebbe sembrato un oltraggio. Una divisa ha da essere male assortita e qualche po’ fuori misura, se tu la vuoi in qualche modo contestare. Questo pensavo, distratto, sono certo, preso dalla mia rivoluzione, mentre m’avviavo alla camerata e con la coda dell’occhio vedevo nello specchio al mio fianco il marmittone, piccolo e mingherlino come una quarantaquattro, nel suo irresistibile quarantotto, e mi dicevo: questo però ha esagerato. Va bene la rivoluzione, certo, ma così combinato farebbe sfigurare Ridolini!
E Ridolini fu il primo nomignolo che mi portai appresso per un bel po’, da quella sera, in quella stramaledetta caserma che, per definizione era un covo di reazionari. Sì, troppo tardi intuii che nel lungo corridoio di quella improvvisata sartoria non c’era nessun marmittone tranne me, che camminavo svagato davanti allo specchio e commiseravo me stesso, convinto di commiserare uno scombinato più scombinato di me.
La smetto, sì. Lo so, non sono originale. Così avresti detto, se potessimo ancora parlare, noi due. No, non l’ho rinnovato il repertorio e non lo farò. Non l’ho fatto quando c’eri e avrebbe avuto un senso, vuoi che cominci oggi? Oggi che nessuna m’ascolterebbe per più di due minuti e non ce n’è una che avrei voglia d’ascoltare? Bella cosa che hai fatto. Ci siamo messi in croce per non so quanti anni, con mille ragioni reciproche – vedi? lo riconosco… – e non abbiamo mai chiuso, come sarebbe stato giusto e minacciavamo di fare a giorni alterni, ed ecco qua: passo davanti allo specchio e mi parlo come ti parlassi, sto davanti alla porta e non vado, non entro e non esco. Sto fermo e mi ricordo le storie passate del marmittone in cappotto, ma non so cosa ho fatto stamattina.
Bella cosa che hai fatto…
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