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Archive for gennaio 2021

Uomo


Questo silenzio così antico
in una mente stanca,
questa stanchezza dolente
così nuova in un cuore giovane,
questa vita così ostinata
d’uno spirito prigioniero
entro un corpo così crudele,
questa pazzia lucida
– sapere e non sapere,
volere e non volere,
dire e non volere dire –
quest’agonia di giorni
così gonfi d’inutile,
questo stanco stillicidio
d’affetti, sensazioni
– seguire sogni
come uccelli in volo
e conservar parole inutilmente –
questo invidiare arcano
e ad un tempo questo
strano, indicibile temere
negli altri il silenzio della morte,
questo mi fa uomo.
Tutto questo assurdo.

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Quel giorno – recita la Bibbia – quando il Signore diede a Israele la vittoria sugli Amorrei, Giosué pregò […] e gridò alla presenza di tutti gli Israeliti: Sole, fermati su Gabaon! […] Un giorno come quello non c’è mai stato né prima né dopo di allora, quando il Signore ubbidì a un essere umano e combatté al fianco d’Israele“.
Ci vollero secoli e la rivoluzione copernicana per mettere in crisi la presunta verità geocentrica. A tutt’oggi, però, nulla cancella la biblica bestemmia che ci presenta il “Dio padre Onnipotente” schierato in guerra, macellaio dei suoi figli.
Un incidente esclusivamente “religioso”, che riguarda l’umana ingenuità? Tutt’altro. Non mancano infatti affermazioni che fanno dubitare anche delle “bibbie” laiche. Spiace per Marx, ma non è sempre vero che nella famiglia borghese “l’elemento connettivo sono la noia e il denaro“. Vero è invece che la noia affligge anche le famiglie proletarie dove purtroppo il denaro manca molto.
Da giovane, quando leggevo i sacri testi con compagne e compagni, ci fu chi trovò inesatta e terribilmente maschilista la convinzione di Marx sulla comunanza della donna. E non aveva torto. Non so se i comunisti sono davvero per tale comunanza (alla quale erano comunque meglio disposti gli anarchici seguaci della dottrina del libero amore), so che in età storica non è vero che essa sia esistita quasi sempre e troverei comunque più rivoluzionario e comunista che fossero le donne a propugnare la comunanza degli uomini.
Per quanto mi riguarda, non esistono pensatori in grado di spiegare tutti i tempi del storia in base a principi e intuizioni che possono segnare un mondo e fornire un metodo prezioso, ma saranno sostituite da dottrine adeguate ai tempi che cambiano.
Nella serie delle “verità bibliche” – religiose o laiche conta davvero poco – si colloca a mio modo di vedere la convinzione diffusa che i politici oggi siano tutti eguali tra loro: pensano esclusivamente ai propri affari, sono tutti ignoranti e malfidati. Più che l’abilità delle destre, è questa verità di fede che distrugge la democrazia. E’ necessario dirlo: la povera gente avrebbe pagato prezzi ben più salati se a governare la tragedia sociale che stiamo vivendo e a far fronte alla pandemia, si fossero trovati Salvini, Meloni e Berlusconi.
Di Conte si può dire tutto il male che si vuole, ma parla – o tenta di parlare – alla ragione. Salvini e i suoi camerati puntano allo sfascio e parlano alla pancia delle masse di disperati che hanno creato. Renzi, poi, è l’uomo della Confindustria e delle Banche. Lo sostengono con ogni mezzo e ha un compito preciso: destabilizzare il Paese e farne terra di conquista.

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Questo quindi è oggi – senza ombra di dubbio – il Paese nel quale viviamo!
All’innocenza del tuo amico hai sempre creduto, ma a leggerle così, le parole di Palamara sono terribili e sconvolgenti. Invano ti chiedi: “Chi custodirà i custodi?”.
Una risposta non c’è.
Bisognerebbe trovare il coraggio di restituire Luigi De Magistris alla Magistratura.

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https://www.ospiteingrato.unisi.it/scuola-e-universita-vettori-di-uguaglianza-o-luoghi-di-esclusionevideo/

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Comunismo e PCI in occasione di un centenario. Una riflessione storica su un percorso fatto di vite, eroi dimenticati e scelte al limite dell’impossibile. In questa terribile notte dalla politica, più che fermarsi al passato e riaprire anacronistiche discussioni ideologiche, occorre chiedersi cosa possono insegnarci gli uomini che l’hanno scritta. Questo il senso di questa mia intervista.  

https://drive.google.com/file/d/1cp1PT9MlPb5yCsWuyphmRU1RHvEuPlfB/view?usp=sharing

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Viviamo in un mondo malato, nel quale vive persino una donna come Letizia Moratti, che vorrebbe riservare un farmaco salvavita a chi produce di più. Per fortuna esistono ancora persone capaci di profondi sentimenti. I calciatori passano per mercenari, ma le generalizzazioni sono sempre sbagliate. E’ proprio da uno di loro, infatti, da Arek Milik, valoroso centravanti, che giungono parole capaci di riconciliarti con la vita. Se volete ascoltarlo, basta un piccolo click:
https://www.areanapoli.it/video/milik-video-saluto-napoli_404670.html

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Premessa 

Il 21 gennaio 1921, la corrente di sinistra del PSI, guidata da Bordiga e Gramsci, diede vita al Partito Comunista d’Italia, sezione italiana dell’Internazionale comunista, con l’intento di organizzare e guidare la lotta di classe per l’emancipazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. E’ una data che vale la pena di ricordare anche perché dal 1991 l’autoscioglimento del partito ha aperto la via al vento della reazione e siamo giunti al punto che l’equiparazione tra nazifascismo e comunismo, diventato arbitrariamente sinonimo di stalinismo, è oggi un luogo comune, accettato talora, sia pure con qualche debole riserva, persino da sedicenti comunisti.
Eppure ricostruita correttamente, la storia ci mostra una differenza incontestabile e netta fondata su elementi tutt’altro che banali. Caratteristica principale del nazifascismo fu infatti la dottrina della gerarchia delle razze. Un connotato feroce, che riduce l’uomo a una bestia. Il comunismo, al contrario, anche quello staliniano, non rinnegò i principi di pace, eguaglianza, libertà e giustizia sociale, che erano stati propri del socialismo.
E’ vero, dalle scuole di partito del Komintern vennero fuori indubbiamente anche terribili seviziatori, ma ovunque il comunismo mise in campo soprattutto donne e uomini che seppero sacrificare se stessi per cause nobili e soffrirono le pene dell’inferno in nome della solidarietà e della giustizia sociale. Uomini e donne che, per dirla con Arfè, in abiti profondamente laici, ebbero «le virtù dei cristiani delle catacombe: la fede, la speranza e la carità». Virtù che praticarono «con lineare semplicità per un’intera vita». Non esistono nazisti o fascisti dei quali sia possibile dire la stessa cosa. Per un credente potrà sembrare una bestemmia, ma è una verità della storia: San Francesco e Torquemada professarono la stessa fede, ma nessuno oggi si azzarderebbe a mettere sullo stesso piano Francesco e l’uomo del Sant’Uffizio.
Il Pci ha commesso molti errori nella sua lunga storia e nel secondo dopoguerra, alla svolta del ’68, non seppe parlare a una generazione di giovani che ne contestò aspramente e a giusta ragione l’involuzione che l’avrebbe condannato alla sconfitta. Di fronte alla tracotanza del capitalismo, soprattutto di quello finanziario, che conferma il suo disprezzo  per la democrazia e ha come regime di riferimento un nuovo e più pericoloso fascismo, le nostre coscienze, la nostra sensibilità di militanti avvertono la necessità inderogabile di affrontare con serenità una discussione su ciò che è stato il comunismo e in particolare il PCI, con l’obiettivo di superare distinzioni ideologiche anacronistiche e giudizi sommari da cui nacquero contrapposizioni feroci, figlie di passioni di parte che non hanno più alcuna ragion d’essere. Divisioni e scelte ideologiche che sono state parte della nostra storia e come tali vanno lette e consegnate al passato, senza dimenticare, però, esperienze umane di estrema nobiltà, che a tale storia danno senso e valore. Esse sono infatti un patrimonio del passato e possono essere utilizzate come chiave di lettura del presente e strumento di costruzione del futuro.
In questo senso e con questa prospettiva desidero offrire a chi abbia voglia di leggerli, due contributi, frutto di ricerca ma anche di sofferte riflessioni. Anzitutto, come risposta alla inaccettabile equiparazione tra comunismo e nazifascismo, la biografia di un comunista russo di origine italiana, che subisce contemporaneamente la repressione staliniana e quella fascista, ma alla resa dei conti sceglie senza esitazione la Russia bolscevica della quale riconosce i meriti e i valori. In secondo luogo, una ricostruzione dell’esperienza umana e politica di alcuni dei comunisti combattenti delle Quattro Giornate. Figure che, ovunque si siano collocate nella battaglia politica, ci parlano di una necessità ormai non più rinviabile: quella di riempire un vuoto, di ricucire il passato al presente per riprendere un cammino da troppo tempo interrotto.

Nicola Patriarca: inaffidabile per Stalin

Nato a Mosca il 4 aprile del 1893, quando il trono degli zar sembra ancora abbastanza solido, Nicola Patriarca è cittadino italiano, ha vissuto in Russia per tutta la vita, come Vladimiro, suo padre, originario di Voronež, un porto fluviale di 80.000 anima e memoria storica della famiglia; italo-russi erano stati i nonni  e russo di adozione era diventato ancor prima il suo bisnonno, napoletano, tenente dell’armata di Napoleone, catturato dai russi e rimasto nella terra degli zar[1]. Comunista convinto, sebbene non militante, Patriarca, è un onesto lavoratore, non conosce fascisti, non sa bene probabilmente nemmeno cosa sia il fascismo e non ha commesso alcun reato contro quella rivoluzione che, nelle enunciazioni di principio, nelle motivazioni profonde e nelle fasi iniziali è stata davvero lotta di proletari per l’affermazione politica del proletariato. Nel 1937, però, quando Stalin, «con la maggioranza degli ex oppositori ormai giustiziata e Bukarin in prigione», opera un terribile «intervento di chirurgia etnico-sociale sul corpo della popolazione», anche Kolia è coinvolto nei provvedimenti di repressione di massa, le grandi «purghe» del 1937-38, che colpiscono persino le cosiddette «nazionalità inaffidabili», quelle che per i documenti della polizia politica sono «soggette a governo straniero», benché i loro membri risiedano in Russia da molto più di un secolo[2].
«Inaffidabile» per Stalin, quindi, e costretto a riparare all’estero per evitare i colpi della feroce repressione sovietica, nell’ottobre del 1937 il Patriarca si rifugia in Italia, dove il regime, che si accinge ad aderire al patto anti Comintern, colto il valore politico della vicenda, lo ospita di buon grado, tant’è che a febbraio del 1938, come «cittadino italiano profugo dalla Russia», è «ricoverato nel locale Albergo dei Poveri, a carico del comune di Napoli»[3]. Nei suoi confronti nessun pregiudizio, nessuna misura cautelare di sorveglianza, né informazioni che consiglino la prudenza[4]. L’ospite, del resto, lontano dal suo mondo e dai suoi affetti e ancora scosso dalla persecuzione, appare così affidabile che, a pochi giorni dall’arrivo nell’istituto, è «adibito al servizio di custode alle prigioni del convitto maschile, unitamente con certo Tamigi Giuseppe pure ricoverato»[5].
Quali siano i progetti e le speranze del profugo in quei primi mesi del 1938 non è facile dire; la separazione dalla famiglia è stata, tuttavia, così dolorosa, che l’uomo chiede alla moglie di raccogliere la documentazione per un ricorso e la donna, disperata, gli scrive:

«Kolia caro, sono stata da tuo padre, […] mi ha detto che lui è nato a Voronež, che suo padre e sua madre erano russi e che suo nonno era tenente dell’armata napoleonica. Fatto prigioniero è rimasto in Russia. Ecco che straniero sei tu e noi qui senza di te conduciamo una vita dura e triste»[6].

D’altra parte, nonostante gli ingiusti provvedimenti di Stalin, la Russia rivoluzionaria ha lasciato nell’uomo segni così vivi e profondi, che l’aria del nostro paese gli pare irrespirabile e il paragone con la Russia dei Soviet, che rimane la sua patria, è inevitabile, tanto più che gli ospiti dell’Istituto si mostrano curiosi di sapere come si trovi in Italia un profugo della Russia dei Soviet. Per lunghi giorni l’uomo dissimula, si chiude in se stesso, evita discussioni che sa pericolose, poi, d’un tratto, in un giorno di metà aprile, coi fascisti in festa dopo i violenti bombardamenti di Barcellona, la crisi del governo Negrin e la Spagna repubblicana divisa in due dai falangisti, la solitudine, che spesso è cattiva consigliera, e un’opprimente sensazione di disagio hanno la meglio sull’iniziale diffidenza. Patriarca lo sa, quel momento è destinato a segnare ulteriormente la sua vita ma, lasciando che dentro di lui il comunista insorga, non si tira indietro e afferma con orgoglio «di trovarsi male in Italia, perché v’è molta miseria e si guadagna poco». Non contento, aggiunge

«che in Russia, dopo l’avvento del bolscevismo le condizioni economiche degli operai sono state di molto migliorate e che egli era riuscito a guadagnare 32 rubli al giorno»[7].

Benché colpito da una cieca repressione, Kolia, quindi, si riconosce ancora nelle motivazioni e nelle realizzazioni della rivoluzione bolscevica che evidentemente non è stata per lui solo esclusione e oppressione. Preso dalla foga e rotti gli argini, l’uomo non esita a motivare le sue riserve: in Italia, spiega, non si sente «parlar d’altro che di guerra», mentre «in Russia tutti erano fratelli»[8]. In quanto «alla reale potenza militare italiana», precisa tagliente, i fascisti hanno «conquistato l’impero per la deficienza bellica degli abissini» e, se «hanno strappato ai repubblicani spagnoli molte vittorie, non si deve al loro valore, bensì alla scarsità di mezzi aerei e di munizioni dei rossi». La conclusione ha il valore profetico d’un tragico monito: questo «non avverrebbe se l’Italia malauguratamente venisse in guerra con la Russia»[9].
Patriarca naturalmente non può saperlo, ma in prospettiva e a distanza di decenni, il suo sfogo getterà più di un’ombra sulle deformazioni del revisionismo, che assimila sotto la fuorviante etichetta del «totalitarismo» regimi politici che condivisero metodi comuni a tutte le dittature, ma ebbero natura e funzione storica ben diverse tra loro. Un «merito postumo» che, tuttavia, non mette il Patriarca al riparo dalle prevedibili conseguenze di critiche pubblicamente rivolte al regime e immediatamente riferite alla polizia politica dall’immancabile «confidente». Né servirà a qualcosa, d’altro canto, la certezza che l’antifascismo del profugo sovietico non può essere in alcun modo «militante». Denunciato «come persona pericolosa per gli ordinamenti sociali e politici», il 28 maggio 1938 l’uomo, che in Russia s’è lasciato alle spalle l’accusa di anticomunismo, finisce davanti alla Commissione Provinciale per l’assegnazione al confino, che lo spedisce per tre anni a San Costantino Calabro, perché, «esaltando lo Stato bolscevico, oltraggiando la Nazione Italiana, il Fascismo e il Duce», ha dimostrato d’essere, invece, un «convinto comunista, svolgendo propaganda e manifestando il suo odio pel Regime»[10]. Paradossalmente, quindi, il comunismo di un uomo legato alla rivoluzione d’ottobre, ai suoi principi ispiratori e alle sue iniziali realizzazioni, risulta «pericoloso» in ogni caso: se è autentico, come ritiene l’Italia fascista, che condanna il Patriarca al confino, o «inaffidabile», come è apparso nella patria dei Soviet, da dove la «repressione preventiva» di Stalin lo ha costretto a fuggire[11].
Gli italiani, si sa, son «brava gente», San Costantino Calabro non è certamente la Siberia e può darsi che lager e gulag siano stati più feroci del confino fascista, come da un po’ raccontano revisionisti d’ogni colore, sostenuti con singolari equilibrismi etici dagli eterni chierici della tradizione trasformista[12]. Sta di fatto, però, che il prigioniero russo va incontro a un vero e proprio calvario e, quando finalmente riesce a stabilire un primo, momentaneo contatto con la moglie Varia e il figlio Koka, dal giorno dell’arresto sono passati addirittura sette mesi dall’arresto.

«Carissimo Kolia! – scrive la moglie da Carchov l’11 novembre del 1938 – finalmente abbiamo ricevuto la tua lettera. Ero già inquieta per il tuo lungo silenzio. Caro Kolia! Io non capisco bene. Dunque tu hai ricevuto anche la cartolina che ti ho mandata a Napoli. In tutto ne hai ricevuto due»[13].

Cosa sia accaduto in quei lunghi mesi non è facile dire, ma è chiaro che un insuperabile muro di silenzio e di dolore ha diviso l’uomo dal suo mondo. Più che una corrispondenza, le lettere, infatti, sembrano una somma di monologhi che provano invano ad aprire un impossibile dialogo. Non potendo scrivere – i fascisti non consentono – l’uomo è costretto a immaginare ciò che vorrebbe leggere o ascoltare. Il tempo, per lui, d’un tratto s’è fermato e in mente le domande si affollano: che fa la moglie? Come tira avanti? E Koka, il figlio, sta bene, se la cava? Come l’ascoltasse, Varia gli scrive che il ragazzo «è passato nella quinta classe dopo gli esami di riparazione», ma tutto è frammentato e sfuggente, tutto sembra smarrito nei vuoti della memoria. Persino i volti e il suono delle voci.

«Tu sai com’è nostro figlio – prosegue la moglie – vuol far tutto ma per lo studio è pigro. E’ una vera disperazione. Bisogna stargli sempre dietro. Adesso si interessa ai colombi. Ha fatto da sé una gabbia e poiché io non gli ho permesso di tenerli in casa, li tiene da un compagno»[14].

Manca una guida, una mano affettuosa ma ferma che indichi la via al ragazzo inconsapevole e vivace che finalmente gli scrive:

«Caro papà,
abbiamo ricevuto la tua lettera e siamo tanto contenti. Noi viviamo assai bene. Un pesciolino è morto e l’altro se l’è mangiato il gatto. Adesso volano qui dei colombi. lo do loro da mangiare ma non li acchiappo perché sono selvatici. Papà io sono passato nelle quinta dopo gli esami di riparazione. Adesso studio assai bene. Abbiamo avuto tre giorni di vacanza. lo sono stato a letto cinque giorni e cosi non ho ricevuto la pagella. Quanto saprò i miei punti te lo scriverò. Papà i francobolli non li ho ricevuti. Tu mi domandi se faccio la collezione di francobolli. Sicuro che la faccio. Per ora arrivederci. Ti abbraccio forte, forte tuo figlio Koka
»[15].

In quanto alla moglie, che probabilmente non conosce bene la sorte toccata al marito in Italia, la sofferenza ha toni dolci, ma terribilmente acuti:

«Caro Kolia,
non vedo il momento che la nostra famiglia si riunisca. Non ho che un desiderio; di esser tutti insieme. In questi giorni il nostro Koka è stato poco bene. Ho chiamato il dottore. Ora sta meglio. Tempo fa sono stata chiamata nella sua scuola. E’ buono ma non vuol studiare. Bisogna che tu gli scriva. […] Se tu ritornassi presto! Io al solito lavoro, Koka studia. Da poco è venuta la mamma e cosi viviamo nella speranza di riunirci e allora vivremo benissimo. Scrivi come stai di salute, come vanno i tuoi affari. Quando potremo essere di nuovo insieme! Noi sentiamo molto la nostalgia di te stiamo male senza di te. E scrivici più spesso. Sono inquieta per la tua salute. Vorrei dirti tante cose ma non è possibile per lettera»[16].
Una risposta il marito riesce a inviarla, ma giunge in Russia quasi un anno dopo, nell’ottobre del 1939. Solo un mese prima, l’Armata Rossa ha aggredito da Oriente la Polonia, martoriata a Occidente dalla Wermacht di Hitler, in una guerra di distruzione di una ferocia che non ha precedenti e sconvolge ogni equilibrio[17]. Tutto vacilla, gli ideali, il senso della dignità, il confine stesso tra ragione e istinto animale, i principi attorno ai quali solo pochi anni prima ruotava la vita di Nicola Patriarca e della sua famiglia. Ogni speranza sprofonda in una notte interminabile e buia e ciò che prima pareva a Varia motivo d’un orgoglio sia pure amaro si va trasformando in un cupo senso di colpa: «Caro e amato Koliuschka, […] che amarezza di esserci creati da noi tanto dolore!» scrive la donna al marito il 15 ottobre del 1939 in una lettera in cui la disperazione si alterna alla speranza. «Pazienza, […] bisogna […] aspettare che la felicità ci sorrida di nuovo. Dobbiamo vivere e credere che saremo di nuovo insieme», prosegue la donna che, nel rimescolamento delle carte prodotto dalla guerra ha fatto quanto poteva per ottenere il ritorno del marito in Russia, ma non ha mai ottenuto una risposta precisa e s’è rassegnata: «io non posso far niente», pare sia «necessario che tu faccia le pratiche. Informati costì
»[18].

Quali pratiche e a chi indirizzate la donna non saprà mai. Ogni cosa diventa vaga, incerta e dolorosa, anche se Varia si fa coraggio e spera:

«Koka sta bene. […] Pare che studi un po’ meglio ma è sempre pigro. Potrebbe studiare benissimo ma contentiamoci. Adesso sta più in casa. Ho bisogno di 250 rubli per lui, ma forse li avrò presto. In generale ogni giorno mi porta una sorpresa ma penso che avrò la forza di sopportare tutto in attesa che venga il momento che saremo tutti insieme. Basta che ci sia la salute. […] Caro Kola, io frequento i corsi di infermiera e credo che tra un mese e mezzo avrò il mio diploma. Mi è venuto a noia di fare l‘insegnante. Come sarebbe bene se tu fossi qui. Devo fare tutto da me. […] Nell’animo sento, tristezza. Tutti vivono con il marito, il mio non c’è»[19].

La stretta repressiva che accompagna la furia della guerra cancella le speranze di Vania. Dopo la Polonia, per Stalin è il turno della Finlandia; una dopo l’altra Hitler assale Danimarca, la Norvegia, l’Olanda e la Francia, contro la quale, abbandonando ogni prudenza, Mussolini scatena proditorio l’impreparato esercito italiano. Il 9 febbraio 1941, mentre l’Europa è ormai un sanguinoso campo di battaglia, Nicola Patriarca riesce a far giungere sue notizie alla famiglia:

«Miei cari Variuscia e Koka, – scrive il confinato – è quasi un anno e mezzo che non vi scrivo e non ricevo vostre lettere, ma avrete probabilmente capito che non è per colpa mia. Oggi ho ricevuto il permesso di scrivervi una lettera in russo e ne approfitto immediatamente».

Così si apre l’ultima lettera spedita dal confino. Un anno e mezzo di silenzio, una lontananza sempre più dolorosa e le mille ingiustizie subite sembrano finalmente lasciare un po’ di spazio alla speranza di un ritorno che, tuttavia, la tragedia della guerra rende sempre più difficile e avventuroso.

«Sono sano e salvo – prosegue il Patriarca – penso a voi ogni giorno, vivo al pensiero di voi. Il 18 aprile finisce il mio esilio, cosa sarà dopo non lo so ma penso che vi rivedrò tutti e due. Sono già tre anni e mezzo che sono lontano da voi. Koka? […] Credo che ormai non sia più il caso di chiamarlo così: quando l’ho lasciato era piccolo e adesso, se non sbaglio, deve avere 14 anni passati, già un giovanotto, a momenti bisognerà pensare a sposarlo. Come vanno, caro, le tue cose, che classe fai, come vanno gli studi, come passi le tue sere, sei sempre appassionato del cinema come eri prima? Quante domande vorrei fare ma non è possibile scrivere tutto. E tu Variuscha, ti ricordi sempre di me o mi hai dimenticato? Lavori sempre nella fabbrica dei profumi o fai l’infermiera come scrivesti nella tua ultima 1ettera. E’ sempre vivo il babbo o è morto, quando sono partito era già vecchietto […] Della mia vita non c’è niente da scrivere, una vita monotona, un giorno assomiglia all’altro. […] Vorrei scrivere tante cose ma i pensieri fuggono e non posso ricordarli. Variuscha, […] dato che la lettera deve passare la censura, non rispondere ed aspettane una col nuovo indirizzo perché, come ti ho scritto, il 18 aprile sono libero e non so dove mi manderanno. Ecco per ora è tutto, vi abbraccio forte, forte a tutti e due»[20].  

Kola svanisce così, con quest’abbraccio. Altro di lui non sappiamo e anche Varia svanisce con lui. In quanto a Koka, non è da escludere: potrebbe essere ancora vivo. Sono trascorsi decenni. La rivoluzione bolscevica ha chiuso la sua parabola storica, la Russia dei Soviet si è disintegrata sotto il peso delle sue contraddizioni, mente il fascismo che sognava di permeare di sé la civiltà occidentale non vive solo nella nostalgia di vecchi sopravvissuti e nel delirio di qualche giovane fanatico, ma mostra di essere il regime del capitale finanziario.
Non sappiamo se Kola sia riuscito a tornare tra i suoi compagni bolscevichi nella Russia aggredita, se abbia riabbracciato il figlio e la sua Varia e se assieme siano usciti indenni dalla ferocia della guerra. Come che sia andata, la vicenda del comunista Kolia merita d’essere ricordata in questo nostro tempo di strumentali revisioni e gratuiti processi perché ha il valore di un monito e chiede conto del silenzio che l’ha cancellata dalla storia. Lo storico – sembra dirci – non può chiamarsi fuori dalla mischia in nome di una pretesa neutralità dei fatti. Dietro gli eventi ci siamo noi e la storia è un dialogo tra uomini vissuti in tempi diversi tra loro, sicché il passato cambia col cambiare degli uomini e vive nel presente che ci aiuta a «leggere» In questo senso, Nicola Patriarca vive ancora. E ci parla.

Militanti comunisti nelle Quattro Giornate

A Napoli, la città di Bordiga, figura  di primo piano nella nascita del PCdI, il ruolo dei militanti del partito politico più presente tra i lavoratori durante il ventennio fascista è così rilevante che, quando tutto comincia a precipitare, la polizia accusa di comunismo persino un prete, Carmine Talimberti, che il 30 dicembre 1942 finisce al confino perché, in un moto di istintiva ripulsa, ha accusato il regime di aver voluto una guerra terribile che si è trasformata in un autentico disastro[21].
Com’è naturale, il mondo dei comunisti clandestini è impenetrabile e assieme alle carte di polizia, che vanno prese con le molle, forse nessuno ci aiuta a conoscerlo, come riesce a fare in brevi pagine di ricordi il tramviere Espedito Ansaldo, partigiano delle Quattro Giornate. Il suo scritto, datato 1971 e quasi certamente inedito, costituisce un’autentica miniera, perché racconta i comunisti senza “passare” di continuo per il partito. Ansaldo non è un “eretico” tanto è vero che nei suoi ricordi lo scontro interno che conduce all’espulsione di Bordiga, primo leader del PCdI, si riassume in due parole di condanna senza appello: la «scissione bordighiana». Militante di base, vive però le lotte interne al partito in posizione defilata e non giudica i compagni a seconda delle trincee in cui hanno combattuto[22]. Essi sono anzitutto persone ed emergono  dal passato con la forza delle emozioni che ancora suscitano in lui a distanza di anni, secondo un ordine che non è rigorosamente cronologico e inserisce la complessità delle vicende personali vissute con i compagni nel disegno della storia, di cui sono stati a un tempo attori e spettatori.
I nomi dei militanti ricordati oggi non dicono nulla a chi legge, ma negli anni del fascismo furono esempi di umanità e coerenza. Eduardo Corona, per esempio, ferroviere colpito dai licenziamenti di massa del 1923, poi coinvolto nelle successive ondate repressive, finisce al confino ai tempi della guerra di Spagna; Giorgio Quadro, a sua volta, collega di Ansaldo ed ex dirigente della Fiom, nel 1920 partecipa all’occupazione della «Miani e Silvestri», poi entra in una cellula di fabbrica del PCI e continua l’attività clandestina finché, alla fine del 1942, organizza col socialista Zvab un gruppo di quaranta combattenti, che guida durante le Quattro Giornate[23]. Antonio Cafasso, poi, fattorino postale licenziato per ragioni politiche, nel settembre del 1925 è ancora capace di sfidare il regime, partecipando al teatro Rossini a una commemorazione di lavoratori uccisi dai fascisti, conclusa dall’intervento della «sbirraglia di polizia e di fascisti» a caccia di nemici del regime[24]. E’ una delle ultime uscite pubbliche degli antifascisti, poi su un Paese ridotto a un’immensa galera, cala la cappa del totalitarismo.
Cafasso, finito al confino due volte, l’8 giugno 1928 e il 24 aprile 1935, trascorre in carcere o nelle colonie penali metà del ventennio fascista. Nel dopoguerra, prima di uscire di scena, fissa su poche pagine il ricordo vivo e per molti versi commosso di un convegno, avvenuto nell’autunno del 1926 alla periferia di Torre Annunziata, che gli era sembrato soprattutto un «incontro con due giganti»: Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci. Dopo decenni, Cafasso si schiera ancora senza esitazioni, ma non usa toni polemici: Gramsci, è stato per lui «uno dei pochissimi uomini politici italiani» che hanno «individuato le radici del fascismo sin dal suo sorgere e […] predetto una lotta lunga» e difficile da vincere. Il cuore della testimonianza, però, è la discussione che si svolge sotto i suoi occhi attenti. «In due cattedre stavano seduti Bordiga e Gramsci», ricorda il vecchio militante;

«Bordiga espose le sue idee: una critica aspra, implacabile verso la Russia, la quale pretendeva di avere il comando dell’Internazionale. Svolse il suo concetto che era preferibile il fascismo alla socialdemocrazia e che il fascismo si sarebbe esaurito da sé. In contrapposizione Gramsci pacatamente confutò i concetti espressi da Bordiga sul fascismo».

Cafasso non insiste troppo sulle divisioni; ammira il «garbo» e «la stima reciproca» che accomuna nonostante tutto i «due giganti» e l’esclamazione conserva intatta la sua forte carica emotiva:

«Come erano diversi quei due uomini! Bordiga, dotato di un fisico forte, di una oratoria svelta, scoppiettante, un carattere duro, volitivo che voleva soggiogare i suoi avversari, verso i quali spesso dimostrava intolleranza. Gramsci, basso, deforme, con una voce fine, solo gli occhi splendevano ed ardevano come quelli di un febbricitante. Questi due uomini così diversi si rispettavano e si ammiravano. In Bordiga con Gramsci scompariva la sua intolleranza; egli era quasi gentile: Caro Antonio, tu sei influenzato dalla filosofia di Benedetto Croce… Io non sono mai stato crociano, ma in te si vede bene che affiora l’ingegnere»[25].  

Espedito Ansaldo ricorda spesso con affetto i suoi colleghi tramvieri. Salvatore De Siena, per esempio, che a pochi giorni dalla «Marcia su Roma», in servizio con lui sulla vettura numero 3, si rivolge stizzito ad alcuni fascisti che passano in corteo per Piazza Torretta. Un gesto pagato a caro prezzo, perché i due, attesi al ritorno dal capolinea di Mergellina, sono assaliti «con pugni, schiaffi e sputi» e il povero De Siena, trascinato a viva forza fino «a Piazza Santa Maria degli Angeli a Pizzofalcone, dove si trova «il covo fascista capeggiato da Aurelio Padovani», è costretto a ingoiare un gran bicchiere di olio di ricino[26].
De Siena non farà le Quattro Giornate, ma un altro tramviere combatterò con Ansaldo, Federico Mutarelli, che ha alle spalle una storia di lotte e persecuzioni. Socialista e «guardia rossa» dopo la “grande guerra”, Mutarelli passa ai comunisti nel 1921, guadagnandosi così il licenziamento per motivi politici[27]. Sul fascicolo personale qualcuno scrive che è diventato venditore ambulante, ma dietro la gelida pignoleria burocratica della Squadra politica si leggono in trasparenza due storie: una racconta la disumana crudeltà del regime, l’altra il doloroso coraggio e la lotta interiore del militante. Perdere il lavoro è quasi sempre un dramma, ma può diventare tragedia per un uomo che ha «quattro figli di piccola età»; un atto di sottomissione sarebbe stato umano e comprensibile, ma Mutarelli non si piega, sicché non esagera Ansaldo quando scrive che per il suo amico ha

«inizio una vita di miseria e di pericoli, perché badava a guadagnare saltuariamente qualche cosa, vendendo articoli vari nei pressi dei Depositi Tramviari il giorno di pagamento degli stipendi, ma tutto si svolgeva con fretta e paura, perché i compagni temevano di essere licenziati»[28].

Benché più volte arrestato, alle elezioni politiche del 6 aprile 1924 Mutarelli è candidato nella lista di «Unità Proletaria», assume l’incarico di corrispondente dell’«Unità» e si impegna nel «Soccorso Rosso» con «il compito di far giungere […] le somme da elargire ai compagni bisognosi che iniziavano a provare le carceri fasciste». Quando la sconfitta del movimento operaio appare ormai inevitabile, continua a lottare e organizza la commemorazione dei martiri del fascismo[29]. Mentre il fascismo si afferma e gli arresti si ripetono inesorabili, il regime, superata la crisi dell’Aventino, approva le «leggi fascistissime» e per l’ex tramviere non c’è più scampo. Nel novembre 1926, infatti, giunge la condanna a quattro anni di confino per propaganda e attività comunista. Stavolta sono la moglie e i figli, diventati ormai sei, ad aver bisogno del «Soccorso Rosso» e della solidarietà dei compagni, che al Mutarelli non manca. Spesso, scrive infatti Ansaldo, 

«andavo a casa sua, facendo tutto il possibile per aiutare la moglie, compagna Maria, con i piccoli a carico. Lo stesso faceva anche il compagno Cafasso, il quale era molto legato al […] Mutarelli».

I colpi della repressione, però, non sono ancora terminati. L’ex tramviere è al confino a Favignava, quando una vecchia condanna a un anno di reclusione, diventa definitiva. Arrestato e condotto al carcere di  Poggioreale, Mutarelli  ci resta fino a marzo del 1928, quando è tradotto a Lipari, da dove infine, il 16 maggio, fa ritorno a casa, perché la «pena residuale» è stata commutata in ammonizione. Il fascismo è ormai padrone del Paese e rende la vita impossibile ai dissidenti. Mutarelli sparisce così in una quotidianità fatta di stenti, fatica, umiliazioni e apparente isolamento ma, per quanto possibile, non rinuncia a lottare. La Squadra politica, che non lo perde mai d’occhio, ci consente di ritrovarlo nel 1935, in casa della sarta comunista Emma Mancini, assieme a Eduardo Corona e a un gruppo di vecchi compagni, e ci dice che è certamente attivo nella propaganda per la guerra di Spagna. Mutarelli va avanti così, tra rischi e difficoltà, fino alla fine del 1942, quando prende a incontrasi con Federico Zvab al Caffè Uccello, in via Duomo, con il guantaio comunista Guglielmo De Rosa, che parteciperà alla liberazione della città, e ad Ansaldo, che nel 1934 l’azienda tramviaria ha mandato in pensione anticipata per ragioni di salute, «mentre negli uffici vi era sempre posto per i vigliacchi fascisti». In quegli incontri, in cui si «discute della durata del regime fascista», e nelle passeggiate coi compagni, avanti e indietro per via Duomo, Ansaldo porta la voce degli antifascisti del Gruppo Spartaco, in cui milita anche Antonio Cecchi, e l’esperienza della sua collaborazione con Federico Zvab, che nel 1943 lo porterà a radunare il gruppo di combattenti con i quali darà poi il suo contributo alla lotta per la liberazione della città[30].
Benché si muovano in condizioni di estrema difficoltà, questi militanti tengono acceso il piccolo fuoco del dissenso e i ricordi di Espedito Ansaldo sono preziosi perché il punto di vista è quello di un comunista di base, che non esita a ricordare compagni dissidenti usciti dal partito, come Eugenio Mancini e Antonio Cecchi, sui quali, quando non si tace, i toni sono duri o addirittura irridenti. Un contributo prezioso, che non va sottovalutato, perché, a parte le notizie su alcuni militanti «storici», che non perdono i contatti col partito e non entrano in rotta di collisione con il «partito nuovo» voluto da Togliatti nel 1944, poco o nulla sappiamo dei comunisti battuti nelle lotte di tendenza o di quelli isolati, che non hanno più legami organici con gruppi organizzati e fanno parte per se stessi in quella sorta di nebulosa che si definisce genericamente antifascismo popolare[31]. Nessuno, né i dirigenti del PCI, né gli storici dell’insurrezione, ci ha mai parlato, per esempio, del marittimo Canzio Morello, marittimo, perseguitato politico e partigiano combattente che, dopo l’omicidio Matteotti, sbarca a New York, abbandona la nave ed entra in contatto con gli antifascisti locali, finché non è scoperto e rispedito a Napoli. Le Autorità fasciste, informate da quelle americane, ordinano alla Capitaneria di porto di Napoli, dove la nave è diretta, che il Morello «sia sottoposto a interrogatorio e diligentemente perquisito sulla persona e sui bagagli». Il 19 gennaio 1925, riportato a forza in un Paese ormai sottomesso, Morello, che non sospetta di essere atteso, non fa sparire le prove del suo impegno antifascista. Interrogato, nega ogni addebito, s’inventa una storia credibile, che diventa un castello di carta, quando dalla sua valigia emergono «una tessera personale della Federazione sindacale Comunista campana e una del Partito Comunista d’Italia». Per il marittimo non c’è  più scampo[32]. Il 3 gennaio, infatti, Mussolini ha scatenato la repressione annunciata alla Camera da parole inequivocabili:

«Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione è la forza. Non c’è stata mai altra soluzione nella storia e non ce ne sarà mai. […] Vi siete fatte delle illusioni! […] Il Governo è abbastanza forte per stroncare in pieno definitivamente la sedizione dell’Aventino. L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l’amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario. Voi state certi che nelle quarantott’ore successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area»[33].

Nel mirino non c’è solo l’Aventino, ma anche e forse soprattutto il PCdI, che Mussolini intende annientare. Morello non è un noto agitatore e non ha mai ricoperto ruoli politici o sindacali. Oggi diremmo che è un «militante di base» e non ci sono ragioni per gravi provvedimenti di polizia; questo, però, non gli evita il colpo che si ripercuoterà pesantemente sulla famiglia. Per lavorare, un marittimo ha bisogno del nulla osta che consente l’imbarco; il colpo vero, quello che ferisce e fa male è il ritiro del libretto di navigazione. Un provvedimento che significa miseria. Da quel momento il tempo della vita sembra fermarsi. Anno dopo anno, la Squadra politica ripete i suoi brevi rapporti: «il noto Morello Canzio conserva integra la fede comunista, ma non dà motivo a rilievi». L’uomo resiste, trova a stento lavoro, lo perde e lentamente sprofonda nella miseria. Nel 1929 la condizione umiliante e il dramma della famiglia emergono chiari da un appello della moglie, a Mussolini:

«Morello Canzio, navigante, finora non ha potuto ricevere dalle Autorità competenti il dovuto nulla osta […] per potersi imbarcare […]. La supplicante piangendo implora a voi che siete insignito delle più belle qualità di mente e di cuore […] a dare disposizioni per ottenere tale privilegio del nulla osta […] e così finirebbe che i figli addirittura essere privi del pane»[34].

Né l’appello, né l’umiliazione di un uomo che sacrifica gli ideali politici al dovere di padre, si iscrive al sindacato fascista e si piega fino a seguire le direttive di un regime che disprezza, restituiscono al marittimo il libretto di navigazione. Nel settembre 1943, diciotto anni dopo l’espulsione dagli USA e l’inizio della spietata persecuzione fascista, Canzio Morello non manca all’appello e affronta con le armi chi gli ha avvelenato la vita. La sua situazione però non sarà modificata né dalla vittoria, né dai cambiamenti politici in atto nel Paese. Il 7 dicembre 1945, quando al governo c’è l’azionista Parri, il combattente attende invano di tornare al lavoro e sottrarre la famiglia alla morsa della fame. Sono trascorsi due anni dalla liberazione dei prigionieri politici, ma la Capitaneria di Porto, applicando il regolamento provvisorio dell’«Ufficio Collocamento Gente Mare, che prevede la concessione della precedenza all’imbarco ai marittimi confinati e perseguitati politici», trasmette alla Questura la domanda «con la preghiera di far conoscere la posizione politica del richiedente» e di far «pervenire l’apposita documentazione». Dieci giorni dopo la Questura comunica alla Capitaneria che il Morello «durante il passato regime fu sottoposto a vigilanza quale comunista», ma non fa cenno al libretto di navigazione. La storia di persecuzione politica dovrebbe bastare ma sarà per caso, sarà che nell’Italia governata da De Gasperi i comunisti sono ritenuti pericolosi, sta di fatto che i guai per Morello non sono finiti e dopo reiterate richieste della «Federazione Italiana Lavoratori del mare» e del «Comitato Nazionale pro vittime politiche», la Capitaneria non riconosce al marittimo il diritto di precedenza e di fatto gli nega l’imbarco. In base a un’arbitraria interpretazione del Regolamento, infatti, le autorità portuali ritengono che la persecuzione politica non basti. Occorre dimostrare che il libretto fu sequestrato per cause politiche. Una condizione impossibile, perché nessuno «è in grado di comunicare i motivi per cui […] fu sequestrato il libretto di matricola e si ritiene che esso sia andato al macero».
Mentre i processi agli ex fascisti terminano quasi tutti con vergognose assoluzioni, la pratica del comunista è in mano a ex funzionari del regime, passati tra le larghe maglie dell’epurazione e il fascicolo si chiude con una nota che lascia il problema in sospeso. E’ il 16 aprile 1947, quando la Questura spedisce la documentazione del comunista alla Capitaneria di Porto e, segnalando alle «superiori autorità» che l’uomo si trova « in misere condizioni economiche», esprime «parere favorevole per la concessione del sussidio». Più che il riconoscimento di un diritto, Canzio Morello riceve così una sorta di elemosina, poi, come tanti compagni, sparisce dalla storia[35]
Non va meglio nel dopoguerra al partigiano Ernesto Lionetti, «titolare di un negozio di orologeria e riparazione di orologi», militante della prima leva nel partito di Bordiga. Alla fine degli anni Venti, il Lionetti fa parte della cellula degli artigiani, affronta con dignità i rischi del lavoro clandestino e nel 1938 con Luigi Mazzella e Nicola Pasqualini, compagni di formazione bordighiana, che saranno poi partigiani come lui, partecipa al pericoloso lavoro di propaganda tra i militari inviati in Spagna[36]. Non è un caso, quindi, se il 22 agosto 1943 finisce in manette a Cappella Cangiani dove, come sappiamo, gli antifascisti della Provincia si incontrano per concordare un piano di lotta sociale, politica e persino militare contro Badoglio e i tedeschi[37].
Anni dopo, battuti nazisti e fascisti, nelle carte di una polizia che la mancata epurazione ha lasciato com’era ai tempi di Mussolini, Lionetti non è un «eroe liberatore» cui la patria deve il riscatto dalla vergogna fascista e dall’occupazione nazista[38]. La Squadra politica lo tiene, anzi, d’occhio perché «professa coi familiari ideologie comuniste» e a nome dell’Associazione dei combattenti, partecipa attivamente alle polemiche contro i provocatori fascisti[39]; preoccupazioni desta, in particolare, Volga, la giovane figlia del partigiano, iscritta al PCI, che «spesso si associa a persone politicamente pericolose per l’ordine democratico». Giovane sarta, la ragazza non è molto colta, «ma svolge con discreta intelligenza l’attività di propagandista», lavora tra le donne e tiene conferenze, riunendo nella propria abitazione iscritti e simpatizzanti del Pci[40]. I timori crescono il 2 marzo 1952, quando a Faggeto Lario la Lionetti frequenta i corsi della scuola femminile del partito comunista e di lì a poco, il 10 giugno, organizza con una diecina di attiviste una dimostrazione pacifista che contesta il gen. Regdway, giungendo fino al centro della Galleria Umberto I. Per la polizia, la protesta mira a «sovvertire l’ordine pubblico, sollevando la folla presente» e poiché assieme alla compagne «più riottose» insiste nella protesta, Volga Lionetti finisce al carcere di Poggioreale ed è poi condannata a tre mesi di carcere per «manifestazione sediziosa e rifiuto all’ordine di scioglimento»[41]. Di lì a un anno, nel luglio 1953, grazie alle leggi fasciste mai abolite, la polizia ottiene che la Lionetti sia iscritta al Casellario Politico Centrale. La donna, entra intanto a far parte del «Comitato Campano per la Pace», si ritrova così schedata e a suo nome è aperto un fascicolo che registra

«connotati, contrassegni, caratteri funzionali […] stato di famiglia, persone di stretta relazione col segnalato, procedimenti penali e provvedimenti amministrativi, […] la residenza, la situazione economica, l’attività politica attuale e quella svolta in epoca precedente, eventuali cambi di residenza […], ogni notizia di eccezionale importanza e una nota di aggiornamento  entro il mese di luglio di ogni anno»[42]

Emerge così, in piena repubblica, un apparato repressivo di ispirazione fascista, rivolto contro le opinioni politiche e il diritto di manifestarle, che il capo della «nuova» polizia, con singolare impudenza, definisce «vigilanza normale». Sul partigiano Ernesto Lionetti e sulla sua famiglia la sorveglianza dura fino al 1960 e per ben due volte, nel 1953 e nel 1958, Volga Lionetti, su cui grava il sospetto che «possa espatriare per motivi politici», si vede rifiutare il passaporto in quanto fervente attivista e propagandista del Pci»[43]. Contro di lei non c’è il lavoro oscuro di «servizi deviati», ma l’attività ordinaria della polizia di una repubblica nata anche e soprattutto perché il padre e tanti altri militanti, anzitutto comunisti, hanno lottato contro il fascismo e rischiato la vita per abbattere una dittatura  i cui uomini, transitati nel campo della «democrazia», senza dar conto del loro passato, continuano a tenerli sotto controllo, come se il fascismo non fosse mai caduto. Chi voglia capire le ragioni per cui l’Italia non si è data una legge sulla tortura e perché i poliziotti nelle piazze non portano un numero identificativo, deve tornare a questi anni, agli anni in cui poliziotti fascisti, in piena legalità formale, arrestano i partigiani per le azioni di guerra compiute. Si troverà così di fronte a numeri che parlano da soli. Il 30 giugno 1946, otto giorni dopo l’emanzazione, l’amnistia Togliatti è stata applicata a 125 partigiani e 7106 fascisti. Nel decennale della vittoria nella Guerra di Liberazione, nel 1955, i «Comitati di Solidarittà Democratica», nati per assicurare soccorso materiale e morale ai partigiani perseguitati, diramano cifre scandalose: 2474 partigiani fermati, 2189 processati, 1007 condannati. Oggi sappiamo che in molti casi i partigiani finirono in manicomi criminali e lì si trovavano ancora vent’anni dopo[44].
L’ostilità delle Autorità di Pubblica Sicurezza, sostanzialmente fasciste, non è il solo problema che rende difficile la vita ai militanti comunisti nel dopoguerra. Sulla loro sorte – e per riflesso sulla conoscenza che abbiamo degli eventi napoletani del settembre 1943 – pesano anche e sono spesso determinanti le scelte personali negli scontri interni al PCI e le contrapposizioni sul terreno sindacale, con ripetute accuse di bordighismo, espulsioni e frequenti rimozioni. Si prenda, per esempio, il caso del filatetico comunista Mario Onorato, che l’elenco ufficiale delle autorità comunali cita tra i civili caduti combattendo nelle Quattro Giornate, ma non si incluso tra i partigiani riconosciuti perché nessuno, nemmeno i comunisti presenti nella Commissione regionale per il riconoscimento, si ricordano di lui. Eppure Onorato non è l’ultimo arrivato. Esponente dell’astensionismo, nel 1920, a Mosca, delegato al II Congresso dell’Internazionale rossa, ha respirato l’aria della Russia dei Soviet; mesi dopo, il 19 gennaio del 1921, ha rappresentato le sezioni astensioniste di Napoli al Congresso di Livorno, partecipando così alla fondazione del PCdI. Amico di Bordiga, è stato tra i dirigenti della sezione comunista di Napoli e poi del Comitato Esecutivo Provinciale del partito che, assunto

«in sé il compito di parlare alle masse lavoratrici del Mezzogiorno d’Italia, […] porterà al proletariato meridionale l’eco permanente e fedele del movimento politico e sindacale, […] la voce che da Mosca, dal cuore della rivoluzione mondiale, si propaga in tutto il mondo»[45].

E poiché l’obiettivo è la rivoluzione, Mario Onorato condivide la polemica astensionista di Nicola Lovero, al quale dopo le Quattro Giornate, la Commissione Tarsia negherà la qualifica di partigiano combattente, senza però poter cancellare la lezione che viene dal passato e sarebbe forse preziosa per il presente:

«fa d’uopo non sciupare le nostre energie in lotte sterili o senza guadagno, per dare alle masse la sensazione di ben altro. Almeno una volta allontaniamole dalle urne […] che hanno troppo addormentato lo spirito ribelle delle nostre organizzazioni»[46].

Per due anni Onorato fa da collegamento tra realtà locale e «Centro» di un partito che prova a non «appiattirsi» sulle posizioni di Mosca e conta su una presenza operaia forte e consapevole, che impedisce la formazione di una struttura piramidale al cui vertice si collocano gli intellettuali. A giugno del 1923, quando Bordiga è arrestato con gran parte dei dirigenti e poi sostituito alla direzione del partito su disposizioni sovietiche, Onorato sfuggito alla retata, non rinuncia alle sue convinzioni e segue il percorso politico di Bordiga[47]. La sconfitta del leader napoletano, la scelta di seguirlo e la vittoria del fascismo, mettono fuori gioco il giovane dirigente, che però non cede alla dittatura, tant’è che alla fine del 1942, quando finalmente la polizia allenta la sorveglianza, lo troviamo nel «Gruppo Spartaco», nato in un bar di Vico Rotto San Carlo, non molto distante dal suo negozio di filatelico, in via Roma 148, che negli anni più oscuri della repressione fascista è stato una «tana sicura» per ogni antifascista[48]
L’arresto del duce, l’armistizio e l’occupazione tedesca trovano Onorato in prima linea, ma il 28 settembre 1943 una pallottola gli spezza il filo della vita. Di lì a poco, Antonio Cecchi, compagno di lotte dagli anni di Bordiga, ricorderà il militante comunista «di fede sicura e di tempra forte». Se ne dimenticherà, invece, il partito che ha contribuito a far nascere e nessuno dei compagni di un tempo chiederà per lui ciò che in fondo ha conquistato a costo della vita: la qualifica di partigiano caduto combattendo. Sarebbe stato un segno di rispetto per il sacrifico estremo in nome di ideali comuni e non avrebbe consentito dubbi su una rimozione maturata negli anni Venti, dopo uno scontro interno che si rinnova con uguale asprezza subito dopo la liberazione di Napoli[49].
Un inspiegabile silenzio circonda anche il partigiano Armando Donadio, una figura di combattente inconciliabile con la città di plebe e la rivolta degli scugnizzi, che, tuttavia, non a caso, è l’ennesimo «senzastoria» in un elenco di combattenti di cui nessuno si è mai seriemente occupato[50]. Proveniente da una famiglia antifascista, il sottotenente di artiglieria a cavallo Armando Donadio, richiamato alle armi e assegnato al contingente italiano in Libia, è approdato al PCI con la tragedia della guerra, vissuta in prima linea, sui confini meridionali dell’effimero Impero fascista, nell’Africa di «faccetta nera», delle prime leggi razziali, delle deportazioni, dei gas e della pretesa «romanità». Una scelta maturata mentre la retorica fascista affoga nel canale di Sicilia assieme ai soldati aggrappati a natanti di fortuna, in fuga da una guerra persa, fatti a pezzi dai caccia Alleati e preceduti dalla propaganda angloamericana che, assieme alle bombe, lancia su Napoli migliaia di volantini che invitano alla rivolta le donne della città martoriata:

«Donne di Napoli! Dove sono i vostri uomini che andarono in Africa? Da quanto tempo non avete loro notizie? Vi svelano che la metà delle navi vengono affondate?
Madri di Napoli! […] Le vostre sorelle di Palermo, Genova, Brindisi, agiscono già.
Spose di Napoli! Seguite il loro esempio. Fate la guardia alle navi […]. Nascondete l’equipaggiamento dei vostri amati soldati […].
Il mare significa la morte
»[51].

Quando l’esercito italiano si sbanda, Donadio si trova all’Aquila col 18° Reggimento di artiglieria, e va via solo il 13 settembre 1943, diretto a Napoli in abiti borghesi, dopo che il comandante ha messo in libertà il reparto. Un viaggio interminabile e pericoloso; l’ufficiale, attraversa con mezzi di fortuna paesi distrutti dagli ex alleati tedeschi, inferociti per l’armistizio, e dai bombardamenti terroristici degli angloamericani. Di fronte al triste spettacolo del Paese in rovina, Donadio coglie per la prima volta fino in fondo il significato delle scelte compiute anni prima da Aristide, il fratello maggiore, anarchico e volontario nelle brigate internazionali durante la guerra di Spagna, che ha colto subito, sin dall’inizio, con lucida intuizione, la minaccia mortale rappresentata dall’alleanza tra fascismo e nazismo e non ha atteso la guerra per prendere le armi[52]. Più si avvicina a Napoli, cauto e necessariamente lento, più il giovane sente crescere l’odio per i responsabili della tragedia e nonostante le diverse convinzioni politiche che lo dividono dal fratello, si rende conto che Aristide ha visto giusto: la salvezza ormai non è nella fuga. Occorre battersi ancora, combattere a tutti i costo i nazifascisti. Sono questi i pensieri che lo accompagnano il 28 settembre, quando giunge al quadrivio di Secondigliano, alla periferia Nord di Napoli e ci trova soldati tedeschi armati fino ai denti. Per raggiungere il Vomero, evitando le pattuglie naziste, gli occorrono ore. Quando trova modo di entrare in contatto con Ciro Vasaturo, comandante di un pugno di combattenti, gli fa sapere che è pronto a battersi, poi si nasconde e aspetta che qualcuno venga ad aiutarlo. Vasaturo lo cerca, lo trova e lo conduce tra i suoi. Mentre raggiungono i combattenti accampati alla Pigna, i due assistono ai rastrellamenti tedeschi. E’ una feroce caccia all’uomo: «vecchi spinti a calci verso i camion in attesa dei ragazzi aggrappati alle madri in un ultimo tentativo di difesa». Quarant’anni dopo, ricordando quei momenti atroci, Vasaturo non esiterà a pronunciare parole ancora piene di orrore e disprezzo:

«Vivessi mille anni, non potrò dimenticare la figura macilenta di un uomo ammalato che si alzò dal letto con in braccio […] suo figlio […]: quei mostri gli strapparono il piccolo dalle braccia, scaraventandolo di peso verso un angolo della casa, mentre tempestando il padre di colpi coi calci dei fucili lo portarono sanguinante fino al camion in attesa»[53].

Per due giorni, il giovane ufficiale combatte accanitamente, con forte determinazione e senza un momento di esitazione. Le sue energie, le sue lontane discussioni politiche con il fratello Aristide, l’amara esperienza della guerra e una passione civile sempre più consapevole, che gli è cresciuta dentro durante l’interminabile viaggio tra l’Aquila e Napoli, tutto sembra condurlo a quei momenti decisivi. Armando Donadio non può saperlo, ma quei due concitati giorni di combattimento, che danno senso a una vita, diventeranno il momento in cui la sua storia personale gira pagina, poi di fatto si ferma. Ancora pochi mesi, infatti, ancora alcune scelte lucide e coraggiose, poi nulla tornerà più com’era. Per Donadio, la liberazione della città non può essere il traguardo finale della sua lotta. Egli sa, l’ha visto con i suoi occhi: poco più a nord di Napoli c’è l’inferno e non si può stare a guardare. Si presenta perciò al Palazzo delle Assicurazioni, in Piazza Carità, dove, ad opera anzitutto di Pasquale Schiano e del Partito d’Azione, sono appena sorti i «Gruppi Combattenti Italia. Formazione Pavone», e poiché è un esperto di esplosivi, si arruola nei «nuclei sabotatori». Il tempo di capire, scegliere obiettivi, organizzarsi, e il 19 ottobre è già in marcia per attraversare le linee. Chi lo vede partire ricorda che è animato da un grande entusiasmo e mostra un «elevato spirito d’amor patrio»[54].
L’autunno del 1943, per Armando Donadio, è lotta concitata e desiderio insopprimibile di libertà e giustizia sociale. Le sue Quattro Giornate continuano per mesi nell’Italia centrosettentrionale, tra sabotaggi e rischi mortali, fino ai primi di gennaio del 1944, quando, catturato dai nazisti e condotto ad Auschwitz, il partigiano va incontro a un autentico calvario: gli interrogatori, il rifiuto di fare nomi e indicare basi, la tortura, il plotone di esecuzione e tre finte fucilazioni. E’ come morire tre volte e tre volte tornare a un orrore senza fine. L’ufficiale difende come può il suo equilibrio psichico, reagisce, tenta la fuga, è scoperto, ferito a una gamba e mai seriamente curato. Il crollo giunge così fatale. A fine dicembre del 1944, quando finalmente è inviato a Spittal Drau, in Carinzia, allo Stammlager XVIII A/Z, dove un Lager-Lazarett, un piccolo ospedale da campo, accoglie gli internati e i prigionieri di guerra, è ormai troppo tardi[55]. Come scrive anni dopo il dottor Baldo Pirisi, un ufficiale medico internato, che lo prende in cura, la sue condizioni di salute sono gravi. Armando Donadio, infatti, presenta 

«un processo osteomielitico all’arto inferiore destro, grave stato di deperimento organico con oligoemia, quadro neuropsichico contrassegnato da depressione con periodi di apatia e di vera anestesia affettiva alternati a crisi di allarme psicoastenico. La sintomatologia si era costituita nei mesi precedenti a seguito delle sevizie fisiche e morali cui il ten. Donadio era stato sottoposto nei vari campi di deportazione e disciplina (fra cui quello di Reichenau); essa persiste immutata fino al rimpatrio del ten. Donadio, avvenuto il 12 maggio 1945, unitamente ad altri internati ammalati, al centro ospedaliero di Udine»[56].

Come accade a molti partigiani, l’ufficiale, invalido a una gamba per il resto della vita e segnato a livello psichico in maniera irreversibile, è congedato. L’esercito italiano, largo di decorazioni, gli riconoscerà solo il diritto a una magra pensione di guerra e aspetterà il 1987 per conferirgli «a titolo onorifico, il grado di colonnello», che gli ha rifiutato cinque anni prima[57]. Il limbo del dopoguerra inizia così, con un licenziamento che costringe l’ex ufficiale a cercarsi un lavoro. Da quel momento gli anni se ne vanno uno appresso all’altro, tra disagio mentale, salute vacillante, precarietà e ricerca di una tranquillità economica che non giungerà. La «nuova Italia» per cui Armando Donadio si è battuto, non è quella che merita un vincitore e dal momento che fascisti e padroni sono tutti dov’erano, il partigiano si sarà chiesto mille volte chi abbia vinto per davvero la guerra di liberazione che ha così strenuamente combattuto dopo l’armistizio. Lavoro ne troverà: un’esperienza in un’azienda zootecnica, poi la contabilità in una società della grande distribuzione. Donadio però è un comunista, svolge un’attività sindacale come delegato nazionale e si comporta di conseguenza; nonostante le difficili condizioni di salute fisica e soprattutto mentale, ai dedica al suo compito con coraggio e passione ed è una scelta che paga con un nuovo licenziamento. Stavolta si tratta di una rappresaglia antisindacale. Tira avanti come può, con dignità ma con una crescente fatica di vivere, tra stenti e amarezze, fino al 1993, quando il costo dell’affitto si fa insostenibile e il partigiano, se ne va a vivere a Castelvolturno, una periferia tra le più degradate del Casertano.
Quando Donadio si spegne, il 3 febbraio 1995, l’Italia democratica, per cui ha rischiato più volte la vita, lo ha completamente dimenticato e sulla via del suo ultimo viaggio non ci sono compagni o bandiere. Il PCI ha già deciso di sciogliersi, le associazioni dei combattenti, l’ANPI e gli uomini delle Istituzioni sono assenti e l’on. Luciano Violante, comunista finché è esistito il partito e Presidente della Camera dei Deputati, in perfetta coerenza con la tradizione della svolta di Salerno, dei Patti del Laterano inseriti nella Costituzione e dell’amnistia ai fascisti, si prepara a proporre una revisione del fascismo repubblichino, esortando gli italiani a «capire i ragazzi di Salò ». Quindici anni dopo il 16 giugno 2010, la Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Napoli esprime parere sfavorevole alla richiesta di intitolare una strada della città ad Armando Donadio,

«in quanto ritiene che a tutti i partigiani il Comune di Napoli abbia già tributato onori collettivi con i numerosi monumenti ad essi dedicati ed ubicati nelle diverse aree cittadine».

Se nelle piccole vicende c’è spesso molto della «grande storia», si può dire senza temere smentite che la sorte del partigiano Donadio annuncia la crisi che viviamo. Non a caso, negli anni in cui il partigiano vive il suo mesto tramonto, le Quattro Giornate diventano definitivamente una rivolta senz’anima politica e solo la morte gli evita l’ultimo insulto, impedendogli di leggere il giudizio sommario che gli dedica, nel generale consenso, lo storico Sergio Luzzatto, per il quale 

«quando non sono morti (ed è la maggior parte dei casi) i protagonisti della lotta resistenziale appaiono ormai piegati sotto il peso degli anni; i padri della patria sono nonni o addirittura bisnonni… Soprattutto, l’ombra del comunismo, con il suo carico enorme di sofferenze e di atrocità, si allunga su questi vecchi – nonostante la loro estraneità personale al Gulag – sino a farli apparire improbabili come campioni di legalità e maestri di democrazia»[58].

Un giudizio ideologico – l’ideologia della non ideologia – e una forzatura linguistica – Gulag non è sinonimo di comunismo – che di fatto liquidano l’antifascismo di sinistra e diventano un invito al silenzio, perfettamente in linea con una tradizione di silenzi e di manomissioni.
Non ci sono prove che il silenzio caduto su alcuni combattenti comunisti delle Quattro Giornate sia frutto di una scelta politica, ma non ci sono dubbi: dirigenti del Pci e storici più attenti alle carriere che ai documenti hanno inventato una inesistente gerarchia di «impegno militante» tra vinti e vincitori nella battaglia interna al partito; una gerarchia in cui i primi sono intellettuali lontani dai lavoratori, che hanno il «quartier generale» nel caffè Gambrinus e i secondi vengono invece «dall’attività clandestina e quindi dai carceri, dal confino e dai campi d’internamento e dall’estero»[59]. I documenti, però, ci dicono che i comunisti sconfitti, Antonio Cecchi ed Eugenio Mancini, partigiani delle Quattro Giornate, o Enrico Russo, fuoruscito e combattente della guerra di Spagna, sono passati anch’essi per il carcere e il confino, hanno alle spalle un lungo passato di lotte e non attendono l’insurrezione per opporsi al fascismo.
La storia di Antonio Cecchi, per esempio, coincide di fatto con quella del socialismo della prima parte del Novecento. Nel 1916, a vent’anni, Cecchi, legato a Bordiga da un rapporto che durerà tutta la vita è un rivoluzionario «professionale». A Castellammare, dove vive, il PSI gli paga un modesto stipendio da propagandista, è segretario nazionale dei giovani socialisti e liquida il trasformismo di Mussolini con parole di fuoco:

«Anch’io ho ammirato Benito Mussolini, anzi, l’ho amato, l’ho idolatrato, quando però educava il proletariato ad avere fede nell’idea e non negli uomini. Ma oggi che voleva che avessimo fede in lui e non nell’Idea, oggi io non sento nessuna simpatia per quest’uomo. E come i suoi articoli su l’Avanti! mi entusiasmavano così le sue interviste di questi giorni mi hanno nauseato»[60].

Nel 1919, dopo la guerra, eletto Segretario della Camera del Lavoro di Castellammare, Cecchi crea una struttura così temibile, che gli industriali, per umiliarla, rendono il 1° maggio giorno lavorativo. La risposta semina il panico tra i moderati. In una piazza gremita, Cecchi sostituisce il tricolore con la bandiera rossa e chiama alla lotta donne, studenti e lavoratori che danno l’assalto ai negozi alimentari, costretti a dimezzare i prezzi, mentre la Camera del Lavoro, trasformata in una sorta di «Soviet italiano», raccoglie e consegna a prezzo politico le merci sottratte[61]. La reazione è durissima. A settembre, un corteo si chiude con la cavalleria che carica la folla inerme con le sciabole sguainate, lascia sul terreno molti feriti e dimostra con i fatti quali sono i reali rapporti di forza. Anni dopo Tasca dirà che l’iniziativa fallisce perché non segue il «modello russo», ma la verità è che, mentre Cecchi scatena gli operai, il Partito è fermo, non stringe alleanze e non coinvolge i contadini, sicché la lotta produce solo un «panico» generico, la «grande paura» che compatta le forze della reazione[62]. Convinto che il problema sia il partito, a Bologna, al Congresso del PSI, Cecchi aderisce alla Frazione comunista, guidata da Bordiga e di lì a poco, nel 1920, entra nel Comitato Centrale della Frazione astensionista, assume la guida della Camera del Lavoro di Napoli e  diventa l’anima delle lotte operaie in un momento in cui l’occupazione delle fabbriche sembra annunciare una rivoluzione che PSI e CGL non intendono guidare. Forti della violenza fascista, i ceti padronali passano al contrattacco. Tentando di uscire dall’isolamento, Cecchi si dichiara contrario all’astensionismo elettorale, ma è sospeso dalla Frazione Comunista. Il 1921 nasce all’insegna dei licenziamenti, con padroni e fascisti sempre più aggressivi. Cecchi coglie i segnali della bufera e replica con estrema durezza:

«Per una istituzione operaia violata, cento palazzi borghesi grideranno il nostro odio e la nostra ferma vendetta. Tale è la volontà chiara e precisa dell’organizzazione di classe napoletan[63].

Il sindacato però affronta la battaglia diviso e solo. Il 29 gennaio, rientrato nei ranghi, Cecchi apre la riunione in cui nasce la sezione napoletana del PCdI. Presente ovunque nelle lotte, tiene corsi di formazione sindacale per i quadri e il primo maggio, quando i fascisti attaccano i manifestanti e uccidono il ferroviere Giuseppe Spina, è con Bordiga in testa al corteo. Le sconfitte però fanno male e il suo compito è proibitivo. Presente ovunque nelle lotte, tiene corsi di formazione sindacale per i quadri e il primo maggio, quando i fascisti attaccano i manifestanti e uccidono il ferroviere Giuseppe Spina, è con Bordiga in testa al corteo. Le sconfitte però fanno male, lo scontro si fa ideologico  e Cecchi è preso tra due fuochi: da un lato i socialisti, infastiditi dal ruolo preminente dei comunisti, dall’altro i dirigenti del PCdI, per i quali il sindacato non segue la linea del partito. Il 3 febbraio 1922, dopo alcuni licenziamenti, Cecchi è contestato dai lavoratori. Costretto allo sciopero generale, benché il sindacato sia troppo debole per una prova di forza, subisce una disfatta in cui le minacce fasciste hanno un ruolo decisivo[64]. Ci sarebbe bisogno di una riflessione collettiva sull’autonomia del sindacato, per la quale lotta il giovane sindacalista invece giungono l’attacco personale – Cecchi ha una vita privata sfarzosa – e la bordata contro

«gli opportunisti, i cacciatori di stipendi, gli spostati in cerca di fortuna, che quasi sempre antepongono agli interessi del partito la propria utilità pratica, la propria carriera economica e politica»[65].

L’epilogo è già scritto: un’inchiesta sul tenore di vita di Cecchi, voluta da Ugo Girone, dirigente del Partito e futura spia, si chiude con l’esonero da ogni incarico di partito[66].  Il sindacalista non si difende. Lascia la Camera del Lavoro e il Partito che ha contribuito a fondare, riprende gli studi, alla fine del 1924 si laurea in legge e prova a dedicarsi alla professione, ma a settembre del 1925, la presenza all’incontro tra Bordiga e Gramsci e l’iniziativa in memoria dei martiri del fascismo, che organizza con Mutarelli, la casa di Castellammare assalita dagli squadristi, ci parlano di un militante attivo e spiegano la condanna al confino nel dicembre del 1926 e l’accusa di sovversione che da Lipari lo conduce in catene al carcere di Siracusa, dove resta fino al 16 agosto 1928, quando il Tribunale Speciale lo assolve[67].
Scontata la pena, il ritorno a casa alla fine del 1929 è l’inizio di una nuova via crucis: sorveglianza soffocante, divieti e ripetute angherie. Sposata l’ostetrica Tullia Tommasi, Cecchi tenta si trasferisce a Napoli con lei e si laurea di nuovo, stavolta in lettere e filosofia. Una breve esperienza da procuratore legale si risolve in un fallimento e la scelta di insegnare, che il regime naturalmente ostacola, lo condanna alla precarietà. Nel 1933 lo ritroviamo supplente a San Benedetto del Tronto, ma il futuro gli offre una sola certezza: i periodici arresti, le improvvise perquisizioni e una miseria alleviata solo dal ricavato delle lezioni private che riesce a procurarsi. Nel 1935, per evadere dalla gabbia invisibile in cui è costretto a vivere, in una lettera a Mussolini, Cecchi si dice pentito:

«Io mi sento vicino a voi come nel ‘14 ad Ancona dove quasi profeta colpiste l’idra di tutti gli intrighi e di tutto l’affarismo politico: la massoneria. […] In sei anni sono vissuto di rinunzie e di miserie. Un diploma di maestro, una laurea in Legge ed una in Filosofia potevano procurarmi un pane più tranquillo, attraverso l’inchinamento supino e cieco. Non è stato mai possibile. Io volevo comprendere, volevo sentire […]. Voi Duce mi avete dato la luce e a voi ritorno con cuore aperto e ferma fede. […] Io sono ritornato a voi che esprimete il diritto, l’onore e la forza rinnovatrice dell’Italia»[68].

Troppo improvvisamente «fascista» per essere sincero, Cecchi non convince l’Alto Commissario Pietro Baratono, che, però, rifiutando la riabilitazione dell’ex Segretario della Camera del Lavoro di Castellammare di Stabia e di Napoli, annota:

«Il Cecchi è disoccupato […] ed impartisce qualche lezione privatamente ritraendo così i mezzi di vita. Per i suoi precedenti non si ritiene opportuno, almeno per ora, di accogliere integralmente le istanze […]. Ho […] dato disposizioni perché la vigilanza sul suo conto sia contenuta in forma saltuaria e riservata».

Un varco si è aperto, ma non basta. Nel 1938, in vista di un concorso magistrale, l’ex sindacalista firma con uno pseudonimo una raccolta di lezioni rivolte ai candidati, maestri «della nuova Italia» e a marzo 1940 chiede la tessera del Partito fascista ma a Napoli i fascisti non gli credono e il 25 febbraio 1941, oltre un anno dopo la richiesta la domanda è respinta per indegnità morale e politica. Il 18 marzo 1941, però, sentita la Polizia politica, che da tempo ha allentato la vigilanza, Ministero e Questura decidono la radiazione, nonostante il parere negativo del partito. Raffaele Scala, ottimo biografo di Cecchi, si è giustamente chiesto come valutare la condotta del militante. Cecchi, in definitiva,

«ha ceduto o ha scelto la via indicata dal suo antico amico e fondatore del PCd’I, Amedeo Bordiga, che espulso dal partito nel 1930 […] ha ritenuto necessario attendere il ricrearsi di nuove situazioni per ricominciare […]?»[69].

La parola cedere, da un punto di vista etimologico, è figlia di due verbi che esprimono concetti diversi tra loro. I Romani, infatti, particolarmente attenti ai meccanismi logici di selezione e scelta delle parole, per dire soccombere, non reggere allo sforzo, cessare la resistenza, rassegnarsi al destino o farsi da parte, utilizzavano il verbo «cedĕre», una parola piana che, in senso figurato, poteva significare anche desistere dalla lotta perché persuasi dalle ragioni del contendente o dall’evidenza dei fatti. Nulla di cui vergognarsi, quindi. Se si trattava, invece, di «scambio» o di «vendita», allora si utilizzava il verbo «cèdere», parola sdrucciola che contiene un’implicita condanna morale, se in vendita c’è la dignità. Cecchi non vende nulla, né i compagni, come Aldo Romano, né la sua coscienza e commetteremmo un errore se usassimo la parola piana latina; a ben vedere, poi, non sarebbe esatto nemmeno ricorrere a quella sdrucciola, perché oggi sappiamo che l’uomo non ha «ceduto», ma ha lottato mimetizzandosi, viaggiando abilmente su un duplice binario – professata adesione, clandestina opposizione – e ottenendo una vigilanza meno soffocante. Seguiamolo, perciò, l’altro Cecchi, quello autentico, che la Polizia politica non ci racconta, il militante che non si nasconde dietro le necessarie menzogne del supplicante e non esce stravolto dai malevoli ricordi di compagni che vincono nel duro scontro interno all’antifascismo.
Come ricorda Rocco D’Ambra, che trova conferma negli attenti studi di Alessandro Höbel, tra gli antifascisti che, con l’amnistia del 1932, riprendono i contatti tra militanti dei gruppi che la reazione ha disperso, ci sono anche Cecchi e i compagni della frazione intransigente stretti intorno a Bordiga. Non solo intellettuali, perché con Cecchi ci sono  anche portuali e operai di Barra e Ponticelli. Nei primi anni Trenta, entrato in un gruppo clandestino con Eugenio Mancini, Antonio Baldaro e i fratelli Libero ed Ennio Villone, futuri combattenti delle Quattro Giornate, Cecchi prende parte alla redazione e alla diffusione di due opuscoli sulla situazione politica mondiale. Nel 1937, poi, «Enzo», efficiente spia dell’Ovra, segnala «gli esponenti della sinistra comunista […] organizzati attorno a Cecchi come sezione della Quarta Internazionale»[70]. Agli anni Quaranta Cecchi giunge con una rete di contatti clandestini che vanno da Ludovico Tarsia, braccio destro di Bordiga, al prof. Giacomo Cicconardi, primario all’ospedale degli Incurabili, molto legato a Federico Zvab, al gruppo Spartaco, di cui racconterà la storia con lo pseudonimo di Anteo Roccia[71]. La caduta di Mussolini, lo trova in prima linea con i compagni maggiormente legati a Bordiga, ma tra i militanti per i quali i partiti organizzati spesso non esistono, c’è ancora l’intesa sufficiente perché Cecchi, Tarsia in Curia, Nicola Pasqualini e Libero Villone rispondano alle misure di ordine pubblico imposte da Badoglio con un appello per la pace e la democrazia firmato assieme al comunista ortodosso Paolo Ricci[72].
Dopo la rivolta, i militanti comunisti, che in patria e all’estero si sono opposti al regime da posizioni diverse tra loro, si ritrovano uniti in un partito che ricomincia a vivere pubblicamente. C’è chi ignora la mutevole linea ufficiale del Pci, chi la conosce e in essa si riconosce, chi l’ha subita, rifiutata ed è stato espulso e ci sono reduci della guerra di Spagna, che sono giunti ad affrontarsi con le armi. Per Cecchi e i compagni a lui più vicini, le posizioni assunte dal gruppo che guida, o pretende di guidare, il partito sono inaccettabili. Due incidenti danno subito la misura di quanto profonde siano le divisioni. Al tramonto del 30 settembre, Cecchi, che ha ancora in mano il fucile, è sconcertato dagli incontri dei partiti con Leopoldo Piccardi, redivivo ministro del Governo Badoglio e quando tra loro giunge Giuseppe Cenzato, il Presidente dell’Unione Fascista degli Industriali di Napoli, lo mette bruscamente alla porta. Il sindacalista ha messo nel conto le proteste dei moderati, ma si indigna, quando Eugenio Reale, segretario federale del PCI, non solo difende il fascista ma, come vedremo, è pronti ad assicurare il suo ambiguo patrocinio anche al Prefetto Soprano del quale molti comunisti chiedono la destituzione.
Sui rapporti da instaurare con Badoglio e con gli Alleati, sul ruolo del sindacato, sull’epurazione e, in definitiva, sul Paese da ricostruire, il dissenso appare bene presto irrimediabile e i margini di mediazione si rivelano così stretti da provocare una breve ma significativa scissione. Per l’ala togliattiana, Cecchi e compagni sono «notoriamente bordighisti» e seguono «una linea politica […] disorganica, diametralmente opposta a quella del Partito Comunista». Per loro conto, Cecchi, Russo, Villone e gli esponenti della sinistra, si sentono estranei a un partito che a loro modo di vedere ignora il valore della democrazia interna e della rappresentanza degli iscritti, impone alla base dirigenti calati «dall’alto», scende a patti con i partiti e le forze borghesi e in ultima analisi non è comunista. Cecchi finirà ben presto fuori da un partito che non sente suo, perché, a suo modo di vedere, ignora il valore della democrazia interna e della rappresentanza degli iscritti e impone i dirigenti «dall’alto». Molti decenni dopo, Mario Palermo racconterà che verso la fine del dicembre 1943 l’unità è ricostituita, ma è una versione dei fatti a dir poco parziale. In realtà, mentre i  ritorni all’ovile non sanano i dissensi, le espulsioni e le scomuniche alienano simpatie appena conquistate e allontanano militanti. E’ uno sperpero di risorse che costerà caro[73].
Cecchi, finito definitivamente fuori dal partito di cui è stato fondatore, continua la sua battaglia nel sindacato, che a novembre 1943 comunisti e socialisti dissidenti mettono in piedi asiem agli azionisti, riunendo varie categorie di lavoratori. Nascono così gruppi dirigenti eletti dalla base, un Segretariato meridionale della Confederazione Generale dell’Italia liberata, strutture sindacali e Camere del lavoro che rivendicano il valore costruttivo del lavoro, rifiutano il salvataggio dei fascisti, non intendono fare da cinghia di trasmissione del partito e non riconoscono

«al governo […] il diritto di prendere provvedimenti in materia economica erogando compensi incontrollabili a favore della borghesia industriale, compensi che inevitabilmente dovranno costituire oneri del proletariato»[74]

Un sindacato in cui hanno un ruolo significativo i combattenti delle Quattro Giornate, sicché non è un caso che Cecchi torni a guidare la Camera del Lavoro di Castellammare di Stabia, Abbate rappresenti i ferrovieri, il combattente Francesco Paolo Carlucci diriga gli impiegati e alla testa della Camera del Lavoro di Napoli, tra i cui dirigenti troviamo i combattenti Federico Zvab e Libero Villone, sia eletto il partigiano Vincenzo Iorio, un operaio già arrestato ad agosto a Cappella Cangiani. Un recente saggio ha ricostruito con perizia la sconfitta di Antonio Cecchi, Enrico Russo e la loro CGL e qui non serve tornarci, se non per segnalare un dettaglio dello scontro riferito da Norman Lewis, agente del controspionaggio inglese e «sincero antifascista», il quale, chiedendo a Eugenio Reale di fargli finalmente i nomi dei fascisti clandestini, nella primavera del 1944 si vede consegnare un pezzo di carta sul quale il dirigente del PCI, ha «scritto i nomi dei quattro uomini più pericolosi di Napoli e quello di un giornale sovversivo che andava soppresso». Purtroppo, annota l’ufficiale,

«i nomi sono risultati essere quelli di Enrico Russo, capo dei trozckisti e dei suoi luogotenenti, Antonio Cecchi, Libero Villone e Luigi Balzano. Il notiziario fascista di cui mi ha parlato Reale è un foglio dei comunisti di sinistria Il Proletario. Tutta fatica sprecata. Dovevo immaginarlo»[75].

L’ultimo intervento di Antonio Cecchi, quale dirigente sindacale, risale all’agosto del 1944, quando la «CGL rossa», per la quale si è invano battuto, è costretta a confluire nell’organizzazione guidata da Di Vittorio. In quella occasione il sindacalista presenta due ordini del giorno in cui ribadisce i temi di fondo della sua concezione del sindacato: un’organizzazione apertamente classista, garante di una unità reale dei lavoratori, che riaffermi il principio dell’autonomia delle Camere del Lavoro. Cecchi, però, benché Di Vittorio provi a trattenerlo, per non perdere un prestigioso dirigente del movimento operaio meridionale, non aderisce alla CGIL, come fanno, del resto, Russo e Libero Villone[76].
Nella seconda metà del 1944, lo ritroviamo a Napoli, alla costituzione della Frazione di Sinistra dei Comunisti e dei Socialisti Italiani, che tenta di unificare i diversi gruppi d’opposizione. Nasce così un gruppo che fa capo a Cecchi, Russo e Iorio e raccoglie circa mille iscritti. Strenuo nemico della politica d’unità nazionale, dopo la liberazione del Nord stabilirà contatti con il Partito Comunista Internazionalista, poi lentamente scivolerà ai margini della vita politica. Con la consueta coerenza, però, nel marzo 1945, quando il Prefetto e il Comitato di Liberazione Nazionale lo nominano Commissario prefettizio dell’Azienda Autonoma di Cura e Soggiorno, rifiuta l’incarico che giunge da Istituzioni che ha combattuto[77].
La storia di Cecchi nella «Repubblica nata dalla Resistenza» è storia di stenti e dignità. Dà lezioni private, conta sull’aiuto della moglie, partecipa con Bruno Fortichiari, Arrigo Cervetto e Onorato Damen alle iniziative del gruppo bordighiano di sinistra, nato a Napoli, il 1° settembre del 1951, in seno al Partito Comunista Internazionalista, finché il gruppo si scinde. Docente precario fino al 1956, quando insegna da incaricato materie letterarie alla «Pasquale Scura», il 1° giugno 1957, è docente di materie giuridiche presso l’Istituto Tecnico Commerciale «Masullo» di Nola e presso l’«Enrico de Nicola» di Napoli. Nel 1962, per accedere al minimo della pensione, chiede e ottiene dal Ministero un prolungamento della sua attività di docente fino al 1965, quando compirà 70 anni. La morte giunge il 1° ottobre del 1969, poco prima che il neofascismo riporti alla ribalta i fascisti inseriti nei gangli della repubblica e nella Milano insanguinata dalle bombe fasciste Marcello Guida, ex direttore della colonia penale di Ponza e Ventotene, in cui è stato prigioniero, si presenti alla televisione per accusare Valpreda, mentre Pinelli vola giù dalla Questura che Guida dirige. Fino alla fine ha frequentato

«gruppi d’irriducibili in un bar di Piazzetta Matilde Serao, trasformato in un covo di rivoluzionari. […] Sulla sua immaginetta fatta stampare dalla famiglia in seguito alla sua morte si legge: Antonio Cecchi fu grande idealista, studioso di problemi politici e sociali, fu combattente per la libertà, per l’emancipazione delle classi lavoratrici e per il progresso sociale. Subì persecuzioni e sofferenze che egli sempre affrontò con forza e serenità. Professore di Lettere, di Filosofia e di Diritto, profuse nella scuola tesori di intelletto e di sapere, fu apprezzato e stimato da superiori e colleghi, fu amato e venerato dai discepoli che ne esaltarono l’ingegno e la cultura. Ora ha chiuso la sua vita terrena lasciando nei suoi cari un gran vuoto e un inconsolabile dolore»[78].

Note

[1] ACS, CPC, Confino, b. 793, f. “Patriarca…”, cit., lettera proveniente da Kharkov, spedita al confinato dalla moglie Varia l’11 novembre 1938 e tradotta dal russo per la polizia da Valentina Dolgher.
[2] Andrea Graziosi, L’Urss da Lenin…, cit., pp. 417-19. A proposito del terrore, Graziosi osserva che “una volta penetrata la sua logica, esso ci appare […] una gigantesca opera di ‘pulizia’ decisa dall’alto, che seguiva due strade: l’eliminazione dei ‘detriti’ ostili lasciati dalla costruzione del socialismo […] e quella di ogni quinta colonna potenziale in vista della prossima guerra. […] Ciò spiega […] il peso determinante che vi ebbero le nazionalità collegate a stati esteri, le persone che avevano contatti con l’estero […] e gli stranieri, inclusi gli emigrati politici: molti dei comunisti rifugiatisi in territorio sovietico […] presero allora la via delle carceri o del Gulag”. Ivi, p. 425. Sulla sorte degli italiani nella Russia sovietica, si veda Elena Dondovich e Francesca Roghi, Italiani nei lager di Stalin, Laterza, Roma-Bari, 2006.
[3] ACS, MI, Confino, b. 793, f. “Patriarca…”, nota n. 12.2 del 19-5-1938 inviata da Antonio Contursi, comandante della Tenenza Scali della Legione Territoriale dei Carabinieri Reali di Napoli, alla Regia Questura e, per conoscenza, al Comando del Gruppo Interno dei Reali Carabinieri di Napoli.
[4] ACS, CPC, b. 3781, f. “Patriarca…”, profilo biografico.
[5] Ivi, Confino, b. 793, f. “Patriarca…”, cit., nota n. 12.2 cit.
[6] Ibidem, nota n. 12.2 cit.
[7]  Ibidem.
[8] Ibidem e Rosa Spadafora, Il popolo…, cit., p. 27.
[9] ACS, Confino, b. 793, f. “Patriarca…”, cit., nota n. 12.2 cit.
[10] Ivi, ordinanza del 29 maggio 1938, emessa dalla Commissione Provinciale per l’assegnazione al Confino di Polizia composta dal vice Prefetto, Gennaro Sannino, dal Sostituto Procuratore del Re, Beniamino Patrone, dal vice Questore Umberto Palma, dal comandante Gruppo Interno dei Carabinieri, Ulderico Berengo, da Michele Bellocci, Seniore della M.V.S.N e da Avallone Raimondo con funzioni di segretario.
[11] Il carattere “preventivo” della repressione di massa, osserva Graziosi, fu quello “più discusso ai vertici. Stalin sottolineava nella sua copia della ‘Pravda’ i passaggi sul nemico interno” e “persino i filatelici furono tra le subcategorie del terrore”. Andrea Graziosi, L’Urss di Lenin…, cit., p. 425.
[12] Silverio Corvisieri, La villeggiatura di Mussolini: il confino da Bocchino a Berlusconi, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2004.
[13] ACS. MI, Confino Politico, Fascicoli Personali, b. 793, f. “Patriarca…”, cit., Lettera della moglie Varia datata Kharkov 11 novembre 1938.
[14] Ivi.
[15] Ibidem, nota senza data e provenienza, ma spedita certamente da Kharkov l’11 novembre del 1938. Stupisce il fatto che nelle lettere dei familiari di Patriarca non si ritrovi cenno alla terribile carestia di qualche anno prima, sulla quale si veda Andrea Graziosi, Lettere da Kharkov: la carestia in Ucraina e nel Caucaso del nord nei rapporti dei diplomatici italiani, 1932-33, Einaudi, Torino, 1991.
[16] ACS, MI, Confino Politico, Fascicoli Personali, b. 793, f. “Patriarca…”, cit., lettera della moglie Varia dell’11 novembre 1938.
[17] L’alleanza della Russia con la Germania fu conseguenza diretta di gravi scelte politiche dei Paesi occidentali. Com’è noto, il “Cremlino provò a costruire un’alleanza militare che scoraggiasse Hitler”, ma non trovò alcuna disponibilità. Londra, infatti, che sperava in un conflitto tra Germania e Russia, “non mandò il suo ministro degli esteri a condurre i negoziati a Mosca, ma un addetto militare” al quale “non fu conferito il mandato per trattare”. Le conseguenze furono naturalmente tragiche, perché, come osserva Service, “se Stalin aveva sinceramente pensato a un’alleanza con le democrazie occidentali, ora sapeva di non poter contare su di loro”. Robert Service, Storia della Russia nel XX secolo, Editori Riuniti, Roma, 1999, pp. 278-79. Sulla vicenda si vedano Michael Jabara Carley, 1939: l’alleanza che non si fece e l’origine della seconda guerra mondiale, La Città del Sole, Napoli, 2009, e Andrea Graziosi, L’Urss di Lenin…, cit, pp. 447-49, che si ferma però quasi esclusivamente sulla politica estera di Stalin.
[18] ACS. MI, Confino Politico, Fascicoli Personali, b. 793, f. “Patriarca…”, cit., lettera inviata a Nicola Patriarca dalla moglie Varia il 15 ottobre 1939.
[19] Ivi.
[20]  Ibidem, lettera di Nicola Patriarca spedita da San Costantino Calabro il 9-2-1941.
[21] ACS, Confino, b. 991, f. «Talimberti Carmine».
[22] Ansaldo, cit.
[23] ACS, Confino, b. 282, f. «Eduardo Corona»; Zvab, cit., pp. 86 e 94; Manlio Rossi Doria, La gioia tranquilla del ricordo. Memorie (1905-1934), il Mulino, Bologna, 1991, pp. 197-198; Marino, Memorie di un comunista napoletano, pp. 95-96, in AICSR Fondo Biografie Comunisti Napoletani, Carte Gaetano Marino, b. 3, f. 5. Rippa, cit., pp. 8-10; ACS, MI, PS, 1930-1931, Partito Comunista, Affari per Provincia, b. 429, verbale di interrogatorio di Giorgio Quadro, 2-7-1931; CPC, b. 416, f. «Eduardo Corona».
[24] Ansaldo, cit., p. 5.
[25] Antonio Cafasso, Alla Federazione Comunista napoletana e pc all’Interregionale e alla Sezione di Ponticelli, p. 3, in AICSR, FBCN, b. 1, f. 1.
[26] Ansaldo, cit., p. 3.
[27] ACS, Confino, b. 700, f. «Mutarelli Federico»; Spadafora, cit., I, pp. 700-701.
[28] Ansaldo, cit., p. 4.
[29] Mutarelli prese l’iniziativa assieme ai dirigenti della Camera del Lavoro Tommaso Borraccetti, Enrico Russo e Antonio Cecchi, futuro partigiano delle Quattro Giornate. Ivi, ACS, Confino, b. 700, f. «Mutarelli…», cit.
[30] Ansaldo, cit., p. 6, Zvab, cit., pp. 73 e 86 e 94; CPC b. 3471, f. «Federico Zvab».
[31] Aragno, Antifascismo popolare…, cit.
[32] ASN, QG, Sovversivi radiati, b. 98, f.  «Morello Canzio di ignoti», notedel 12 e  del 19-1-1925.
[33] Dal discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925.
[34] ASN, QG, Sovversivi radiati, b. 98, f.  «Morello Canzio di ignoti», lettera inviata a Mussolini dalla moglie del marittimo, Gelsomina Pernice.
[35] ANPINA b. 1, f. «Arresti 22-8-1943. Archiviazione».
[36] Rippa, cit., p. 9;  Luigi Mazzella, I miei ricordi di Partito, p. 4, in ANPINA, b. 4, f. «Mazzella Luigi».
[37] ANPINA b. 1, f. «Arresti 22-8-1943. Archiviazione».
[38] Incredibilmente la formazione tecnica della polizia della Repubblica fu affidata a Guido Leto, ex capo dell’OVRA, la polizia politica fascista.
[39] ASN, PG, V2, b. 126, f. «Associazione Nazionale Partigiani… », cit., nota del 6-11-1947.
[40] Ivi, Sovversivi radiati, b. 83, f. «Lionetti Volga fu Ernesto», note del 14-2 e 28-8-1952 e nota del 12-7-1955.
[41] Ivi, nota del 17-6-1952.
[42] Ivi, nota del 21-7-1953.
[43] Ibidem, nota 103318/30-6-1955 e nota senza numero del 12-t5-1958.
[44] Franzinelli, Nicola Graziano, Un’odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio, Feltrinelli, 2015, pp. 10 e 14.
[45] Ripigliando, «Soviet»,  6-2-1921. ACS, CPC, b. 3596, f. «Onorato Mario»; De Janni, p. 112; ASN, QG, III Serie (1919-1932), b. 822, f. “Congresso di Livorno”.
[46] Nicola Lovero, Verso le elezioni, Ivi, 10-4-1921.
[47] Tornato libero, Bordiga rifiutò di rientrare nel Comitato Esecutivo. Al Congresso clandestino di Lione, nel 1926, la Sinistra fu messa in minoranza dal gruppo centrista, ligio alle disposizioni sovietiche. Sempre più isolato, Bordiga guidò la sinistra internazionalista fino alla condanna al confino. nell’isola di Ustica, dove assieme a Gramsci contribuì a organizzare la vita dei prigionieri. Gradualmente emarginato, il 20 marzo 1930 fu espulso. Aveva difeso Trotsky, nonostante le divergenze che li dividevano.
[48] Spriano, cit., 7, parte I, cit., p. 153; Anteo Roccia (Cecchi Antonio) L’attività del gruppo Spartaco contro il fascismo e la guerra durante il periodo mussoliniano e fino all’armistizio, «Il pensiero Marxista», Bari, 3 e 10-6-1944, 2 e 27-7/1944, riportato da Cortesi, La Campania dal fascismo alla repubblica…, cit., p. 187; De Janni, p, 360;  D’Ambra, cit.[49] ASN, GQ, Sovversivi radiati, b. 102, f. «Onorato Mario»; Cortesi, La Campania dal fascismo alla repubblica…, cit., p. 187; Anteo Roccia (Antonio Cecchi), L’attività del Gruppo Spartaco contro il fascismo e la guerra durante il periodo mussoliniano e fino all’armistizio, in «Il Paese Marxista», Bari, 10-6, 2-7 e 22-7-1944.
[50] A nulla sono valsi i generosi tentativi di Francesco Ruotolo, giornalista e storico esponente della sinistra napoletana, che ha fatto circolare un dossier intitolato «Armando Donadio: il partigiano dimenticato», provando invano anni fa a fare intitolare una strada al combattente.
[51] Testo del volantino lanciato su Napoli da bombardieri Alleati durante un bombardamento del 1943, conservato in ANPINA, b. 3, f. «Fotografie Monumento allo scugnizzo e varie». 
[52] L’anarchico Aristide Donadio, molto legato a Raffaelina Parocchia, che faceva parte del gruppo anarchico «Vincenzo Perrone», espatriò nel 1931 e fu tra i primi ad arruolarsi nelle Brigate Internazionali. Combatté nella Colonna Italiana e dopo la sconfitta dei repubblicani passò in Francia. Internato ad Argelès-sur-Mer, dove aderì al gruppo «Libertà o morte», fu poi confinato a Ventetone e infine a Renicci d’Anghiari. Dopo l’armistizio, partecipò alla Resistenza nel Nord del Paese. Testimonianza rilasciata a chi scrive dal nipote Aristide Donadio; Aicvas, La Spagna nel nostro cuore (1936-1939). Tre anni da non dimenticare, Tipografia Botti, Milano, 1996,  pp. 171-172; Fausto Bucci, Simonetta Carolini, Andrea Tozzi, Rodolfo Bugiani, Gli antifascisti grossetani nella guerra civile spagnola, La Ginestra, Follonica 2000; Gargiulo, cit., p. 267; Ilaria Poerio, Vania Sapere, Vento del Sud. Antifascisti meridionali nella guerra di Spagna, Istituto Ugo Arcuno, Cittanova, 2007, p. 238. ACS, Confino, b. 370, f. «Donadio Aristide». La compagna di Arisitide Donadio morì a Salerno alla fine del 1969. «Umanità Nova», 31 gennaio 1970, e Ditionnaire des militants anarchistehttp://militants-anarchistes.info
[53] Il tenente Donadio nella memoria di Vasaturo, «Il Mattino» (?).
[54] Attestato del Fronte Nazionale della Liberazione. Comando Gruppo Combattenti Italia, firmato il 20-6-1945 dall’azionista Pasquale Schiano.
[55] Lo “Stalag XVIII-A / Z” era un sub-campo per prigionieri di guerra situato a Spittal an der Drau, 62 miglia a ovest dal Campo principale, lo “Stalag XVIII-A” che si trovava invece a sud della città di Wolfsberg, nella regione austriaca della Carinzia del sud, allora facente parte della Germania nazista. Il campo di Spittal divenne un sub-campo di Wolfsberg, nel gennaio 1943 e al suo interno, nel mese di marzo del 1943 fu costruito il Lazzaretto «Camp Hospital». Nel novembre del 1943, cominciarono ad arrivare nel campo anche prigionieri italiani. I tentativi di fuga furono numerosi. Ufficialmente, il campo principale fu liberato da elementi della VIII Armata britannica in data 11 maggio 1945. In realtà i prigionieri avevano assunto il controllo del campo l’8 maggio, il giorno della resa tedesca. Quel giorno il Comandante tedesco Steiner, consegnò il controllo del campo al più anziano tra gli ufficiali medici inglesi e subito dopo prigionieri francesi e inglesi, disarmate le loro guardie, presero il controllo della sala d’armi del campo, dell’Ufficio postale, della stazione ferroviaria e della stazione di polizia. Mason W. Winne, Prisoners of War, Howard KarlKippengerg, Wellington, 1954, pp. 234-255.
[56] Relazione medica e testimonianza firmata il 21-9-1966 dal dott. Baldo Pirisi, docente presso la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Genova, e compagno di prigionia di Donadio a Spittal Drau.  
[57] Donadio riceverà una Croce al merito di guerra, una per l’internamento in Germania e un diploma d’onore ai combattenti per la libertà d’Italia 1943-45. La documentazione relativa alle decorazioni e alla pensione del Donadio mi è stata fornita in copia dal figlio di Armando Donadio, Aristide, a cui sono sinceramente grato. 
[58] Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Einaudi, Torino, 2004, p. 8.
[59] Clemente Maglietta, Ottobre 1943: la scissione dei comunisti campani, e Idem, La scissione di Montesanto. Una crisi a Napoli nel PCI, alla fine del 1943, in AICSR, Fondo Maglietta, b. 7, f. 29. Mario Palermo, Memorie di un comunista napoletano, Dante & Descartes, Napoli, 1998, pp. 109-110.
[60] «Avanguardia», 13-12-1914; «Soviet», 22-5-1921. Buona parte delle notizie su Antonio Cecchi sono ricavate dal prezioso lavoro di  Raffaele Scala, Antonio Cecchi: storia di un rivoluzionario, «Storia e Società», n. 2, 2008, rivista edita in Castellammare di Stabia.
[61] Grandiosa manifestazione per il 1° maggio, «Soviet», 14-5-1919;  Scala, cit.
[62] Angelo Tasca, Nascita e avvento del fascismo, Bari, 1972, I, p. 28; Antonio Barone, Piazza Spartaco. Il Movimento operaio e socialista a Castellammare di Stabia 1900-1922, Editori Riuniti, Roma 1974, pag. 64-66.
[63] «Soviet», 3-4-1921.
[64] Raffaele Colapietra, Napoli tra dopoguerra e fascismo, Feltrinelli, Milano, 1962, pp. 176-180.
[65]  Ortensia De Meo Bordiga, Moniti e propositi, «Soviet», 18-2-1922.
[66] Ugo Girone arrestato nel 1928, accetterà di diventare una spia . Il suo nome è inserito nella lista dei confidenti dell’OVRA. «Gazzetta Ufficiale» n. 145, luglio 1946, cit.
[67] ACS; MI DGPS, AGR, Confino politico busta 229, f. «Informazioni sul conto di Antonio Cecchi, 23 dicembre 1926»; Antonio Barone, Gramsci e Bordiga. Uno storico incontro, Cultura e Territorio n. 9, 1992, pp. 133-140; Ansaldo, cit., p. 5.
[68] Ivi, lettera a Mussolini del 20-9-1935.
[69] Antonio Guido Sarnico, L’ideale educativo e la formazione spirituale del maestro della nuova Italia, Edizioni La Corrente, Milano, 1938. Scala, cit.
[70] Gli opuscoli si intitolavano La crisi economica mondiale e Prospettive mondiali. Palermo, cit., p. 124; Francesco Giliani, Fedeli alla classe. La CGL tra occupazione alleata del Sud e “svolta di Salerno” (1943-45), produzione propria, 2013, p. 76. Per Mancini ed Ennio Villone, riconosciuti partigiani combattenti dalla Commissione Regionale, si vedano le schede n. C445 e 6655 in RICOMPART. Baldaro e Libero Villone non chiesero riconoscimenti alla Commissione, ma i testimoni della loro partecipazione sono numerosi, autorevoli e di parti politiche contrapposte. Schiano, cit., p. 153; Alexander Höbel, L’antifascismo operaio e popolare napoletano negli anni Trenta. Dissenso diffuso e strutture organizzate, e Aragno, Dietro le parole. L’antifascismo: i volti, le storie, entrambi in Chianese, Fascismo e lavoro a Napoli. Sindacato Corporativo e Antifascismo popolare, Ediesse, Roma, 2006, p. 241. «Enzo» è l’ex confinato comunista Luigi Villani, il cui nome compare nell’Elenco nominativo dei confidenti dell’Ovra, cit. p. 18. 
[71] A parte gli stretti legami di Cecchi con quasi tutti i membri del gruppo e le numerose testimonianze, Rocco D’Ambra, uno dei più obiettivi tra quanti vissero in prima linea quegli anni, nel descrivere le varie formazioni antifasciste, ricorda «il gruppo di spartachiani con Antonio Cecchi», il quale in effetti è l’anima del gruppo. Anteo Roccia, lo «storico» della piccola formazione antifascista e il più informato di tutti, non parla mai di Cecchi, ma quando inserisce tra i militanti «il mio indimenticabile fratello Camillo» è evidente che non si sta riferendo a un inesistente Camillo Roccia, ma a Camillo Cecchi, morto proprio in quei giorni. D’Ambra, cit., p. 5; Anteo Roccia, «Il Pensiero Marxista», Bari, 2-7-1944.
[72] Ivi, 27-7-1944.
[73] «Il Risorgimento», 28 e 30 ottobre 1943.
[74] Giugno 1944, ordine del giorno presentato da Nicola Di Bartolomeo al Convegno della CGL e approvato all’unanimità.
[75] Ivi e Norman Lewis, Napoli ’44, Adelphi 1998, p. 175. Banale e inattendibile appare la spiegazione di Maurizio Valenzi, che condivise quella difficile esperienza e spiega il comportamento di Reale con l’intenzione di «giocare un tiro beffardo a quel giovanotto inglese in divisa indicandogli quattro improbabili nomi di cospiratori». Quasi che in quei mesi cruciali il Sud e Napoli in particolare, non avessero da affrontare il drammatico problema della defascistizzazione Maurizio Valenzi, C’è Togliatti, Sellerio, 1995, p. 127.
[76] ASN, PG, II Versamento, b. 588, f. “IV-7-2-198- 1944-45”, sf. “Torre Annunziata. Camera del Lavoro”, nota senza n. del 3-3-1944; Scala, cit.
[77] Ivi.
[78] Ibidem.

Blog dei Pazzi, 21 gennaio 2021

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Di notte


Il presente,
futuro venuto dal nulla,
alito inesistente
che in un lampo si perde,
ti sorprende di notte
nel silenzio dei sogni.
Indecifrato.

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Era giunto scortato e con l’auto blu. Da anni ormai si spostava così e ormai non ricordava più l’ultima volta in cui era salito su un pullman. Venuto fuori agilmente, s’era avviato a passo svelto e sicuro, col fresco lana antracite che scendeva a pennello sulle spalle dritte, i gorilla che gli facevano scudo tra la solita folla di curiosi e gli immancabili giornalisti.
Sembrava semplice e spontaneo, ma conosceva a memoria la lezione dei curatori d’immagine:
– Sciolto, giovanile, deciso… un uomo che sa il fatto suo, uno che se la gente lo guarda si sente tranquilla, si fida. Anzi, no: si affida.
Sembrava che neanche il caldo appiccicoso, esploso inspiegabilmente in quel pomeriggio di primo maggio, riuscisse a infastidirlo, ma non era così. Da tempo dedicava al mare i fine settimana di maggio e la testa era lì, nella barca lasciata all’ormeggio. Un prezzo però ogni tanto occorreva pagarlo s’era detto, anche se col segretario, che organizzava come meglio non si sarebbe potuto la sua vita pubblica, era stato durissimo:
– Questa buffonata proletaria me la potevi evitare! Avrò pure diritto a una vita privata…

Questo è l’inizio di un breve racconto. Se ti incuriosisce e vuoi continuare a leggere, clicca su “Canto Libre

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Quando tutto diventa buio e ti senti smarrito, ti torna in mente un maestro che tanto ti ha insegnato negli anni della tua formazione giovanile e segui la sua strada. Ti spogli dei vestiti che ti hanno accompagnato durante la faticosa giornata, indossi gli abiti curiali, cominci a parlare con i tuoi fantasmi e a poco a poco ritrovi fiducia e speranza. Non importa che il tramonto annunci la notte. Hai aperto una via. Altri proseguiranno.

Emilia Buonacosa nasce a Pagani il 19 ottobre 1895, Abbandonata dai genitori, finirebbe tra i «trovatelli», se il caso, che a volte pareggia i conti tra ragioni e torti della vita, non le donasse l’affetto di una famiglia[1].

Emilia Buonacosa

Sono anni di forte crisi economica, sarebbe necessaria un’imposta progressiva sul reddito, ma Crispi colpisce la povera gente con dazi e balzelli sui generi di prima necessità e l’infanzia di Emilia è una breve magia di giochi e compagni. Dopo la scuola elementare, inizia a lavorare e impara ben presto che i padroni fanno guerra ai diritti, mentre i governi rispondono con la violenza ai disperati che chiedono pane e giustizia sociale[2]. del Novecento Giolitti evita la crisi sociale, consentendo alle classi subalterne di far «valere le proprie aspirazioni e difendere i propri legittimi interessi», sicché, quando Emilia entra in fabbrica, a Nocera, una legge tutela le operaie: dodici ore di lavoro con due di pausa e nessun turno di notte. La fatica è ancora dura e il lavoro rischioso – nel 1913 un infortunio sul lavoro distrugge il cuoio capelluto della giovane donna – ma s’è fissato un limite ed è una conquista[3]. I padroni hanno ora di fronte proletari maturi e la forte Camera del Lavoro in cui milita la Buonacosa. Come accade spesso con le donne, la Questura associa l’attività politica alla «cattiva condotta morale», sicché la Buonacosa non è solo una militante attiva in una fabbrica «agitata da movimenti sovversivi a sfondo anarcoide», ma ha «contatti politicamente pericolosi» ed è «una donna di facili costumi», che si dice anarchica per compiacere l’amante libertario e giustificare una vita dissoluta.
Lette con cura, però, le note di polizia narrano un’altra storia. Emilia cresce nelle difficoltà, fa scelte autonome, lotta contro padroni reazionari, diventa anarchica e non deve ai compagni più di quanto essi debbano a lei. Non è un’esaltata capace di «azioni delittuose», né una «poco di buono». E’ un’operaia che ha scelto il suo campo. Una scelta tanto più grave per la società del tempo, quanto più radicali sono la sfida allo Stato classista e la rottura col perbenismo borghese. Il «biennio rosso» la trova a Milano, dove frequenta Federico Giordano Ustori, tipografo di «Umanità Nova». Arrestato nel 1921 per un attentato e assolto dopo un anno di carcere, nell’estate del 1922 Federico si trasferisce con Emilia a Nocera, dove, però, notabili nazionalisti e padroni camorristi hanno creato un fascismo peggiore di quello originale, che costringe Ustori a tornare con Emilia a Milano. L’8 settembre 1924, col regime in crisi per la morte di Matteotti, i due si sposano, ma il 3 gennaio 1925 Mussolini spegne le illusioni: «se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione…». Quando il regime vara le leggi «fascistissime», Federico, per evitare il confino, fugge in Francia, dove Emilia lo segue.
A Parigi l’unità nella lotta al regime non spegne i contrasti tra antifascisti. Quando Ustori denuncia la persecuzione degli anarchici nell’URSS e definisce il bolscevismo «il più infame e spietato necroforo della rivoluzione», lo scontro con gli stalinisti è duro ed Emilia è con lui in una battaglia politica che scuote il campo antifascista. Casa Ustori è un riferimento per i compagni bisognosi d’aiuto e d’asilo, sicché il 2 novembre 1930, quando un’infezione causata da un banale intervento chirurgico uccide Federico a solo 39 anni, attorno a Emilia si stringe il fior fiore dell’antifascismo[4]. Treves, che ha avuto Ustori linotipista alla «Libertà», s’inchina alla memoria «duratura, incancellabile, onorata e compianta»; Piero Montanini e i compagni della Concentrazione Antifascista promettono alla donna che riporteranno in Italia il marito nel giorno della vittoria, quando torneranno, testimoni «del sacrificio popolare, tutti coloro che lasciammo nell’esilio: da Amendola a Gobetti, da Chiesa a Ustori, da Bensi a tutti gli altri oscuri operai di cui sono ricchi i cimiteri stranieri».
Se «casa Ustori» sparisce dalla «geografia politica» di Parigi, cresce tra gli antifascisti il ruolo della donna che, colpita negli affetti, non cede, si trasferisce presso una famiglia amica del marito, poi trova lavoro presso Ettore Carozzo, un editore emigrato politico. Antifascisti gli amici, antifascista il datore di lavoro, tutto nella vita della donna ha ormai colore politico, anche i luoghi frequentati. E’ il caso di un caffè in via Diderot, ritrovo di antifascisti, dove nel 1932 incontra Pietro Corradi, l’uomo col quale andrà poi a vivere e che curerà le ferite d’una donna sofferente.
Matura e molto autonoma, la Buonacosa va col Corradi alle riunioni «Giustizia e Libertà», frequenta gli anarchici Bruno Gualandi e Renato Castagnoli e il medico Temistocle Ricciulli[5]. Interrogata su tali amicizie, anni dopo dirà di non conoscere anarchici e negherà intese politiche col Ricciulli, che nel 1935, le ha curato una congestione polmonare. In realtà, lei e Ricciulli hanno combattuto in Spagna i falangisti. Ricciulli è partito nell’estate del 1936 ed è tornato in Francia malconcio; lei è andata a Barcellona nel 1937 con l’anarchico Romano De Russo. Non è chiaro quando sia tornata a Parigi, ma a marzo del 1938 una spia rivela che la donna procura rifugi e documenti ai reduci dalla Spagna che lasciano la Francia quando non ha soluzioni, offre la sua casa. Sa di rischiare e il 2 gennaio 1940 mette in guardia la figlia d’un amico: «Ricordati solamente che sono sempre quelli che si sono seduti alla tua tavola, che si sono considerati i migliori e i più sinceri fra gli amici che oggi cercano di pugnalarti alla schiena».
L’aggressione italiana alla Francia la trova straniera in un Paese in guerra col suo e il 9 luglio 1940, come ha previsto, un «amico» la vende ai tedeschi. Tre mesi di carcere ad Aquisgrana e il 9 ottobre è in mani italiane. A novembre è a Napoli, dove rigetta ogni accusa: «emigrai clandestinamente a Parigi, ma non è vero che io abbia frequentato gli ambienti di Giustizia e Libertà. […] Giammai sono stata a Barcellona. Non ho partecipato a movimenti antifascisti. A Parigi sono stata arrestata e qui tradotta Non ho altro da dire». Il 2 dicembre 1940 quando è condotta davanti alla Commissione per il confino, l’accusa non esibisce prove e lei non ha un legale. La Commissione finge di consultare atti e documenti e la condanna seduta stante a cinque anni di confino di polizia eseguendo così un ordine inviato giorni prima da Bocchini, capo della polizia: «confino […] destinazione Ventotene». Un medico incarna poi la ferocia del regime: ignora il grave incidente e ritiene Emilia «esente da difetti ed imperfezioni fisiche e psichiche», e «idonea a sopportare il regime del confino di polizia».
Contro la sentenza la Buonacosa ricorre e ogni parola del ricorso è un dito puntato sul regime: la condanna «enorme e inumana», perché non si è giudicato «nessun atto violento», le accuse «ipotetiche e fantastiche», da «vagliare con più serenità», «l’infortunio sul lavoro e il bisogno di scrupolose ed assidue cure» ignorati. Roma respinge il ricorso e la richiesta di essere inviata almeno nei pressi di Salerno o Napoli, dove i familiari «possano di tanto in tanto venirmi a vedere e darmi le cure dovute».
Il 13 dicembre 1940, sbarcata a Ventotene in catene, ma decisa a resistere, la donna ottiene che il medico attesti ciò che la Commissione ha ignorato: è priva del cuoio capelluto per un grave incidente e deve adoperare la parrucca. Inizia così una battaglia per le regole e i diritti che sembra rendere la prigioniera più libera dei suoi carcerieri, servi d’un regime immorale in cui il diritto coincide col potere e il potere si fonda sulla forza bruta di chi lo detiene. La prima richiesta della Buonacosa – «un sussidio di vestiario» – è un’accusa al regime, chiamato al rispetto di vaghi «principi umanitari» professati in nome della inesistente «civiltà fascista»: se non ha i «mezzi più modesti» per «provvedere al suo fabbisogno indispensabile», è colpa dei fascisti che l’hanno costretta a lasciare la Francia senza le sue risorse personali. Valutata l’entità del danno, Emilia insiste: tocca al Ministero ritrovare le sue valigie perse nel carcere tedesco; quanto all’infortunio, ignorato dalla Commissione, sono i suoi carcerieri a dover rimediare, pagandole la parrucca ormai rotta.
Dietro la sfida ci sono la sofferenza e il bisogno di cure. Potrebbero trasferirla vicino ai suoi che la curerebbero, suggerisce la confinata, o condurla a Napoli per una parrucca nuova. Se non si vuole, dovrà «abitare da sola, perché è umanamente impossibile vivere insieme ad altre donne». In un primo momento il Ministero tace e non ascolta nemmeno il prefetto di Littoria, favorevole al viaggio a Napoli; invano il medico della colonia, consapevole della sofferenza di Emilia, scrive che lo «stato psicoastenico a sfondo depressivo, nell’ambiente in comune con altri confinati, peggiora fino allo scoramento» e può «sfociare in mania suicida». Emilia è stremata, ma quando il regime le nega il trasferimento, torna sul bagaglio smarrito. Non ne ha notizie, «nonostante le promesse di interessamento» ed è inaccettabile, «perché le due valigie […] contenevano tutto il mio corredo che mi è costato anni di lavoro». E al Ministero che tace, ricorda: «vivo in penosissime condizioni».
Quando da Roma chiedono di conoscere il costo della parrucca, che il prefetto di Littoria però non conosce, si decide finalmente di condurla a Napoli, ma la scorta non c’è. Per otto mesi, tormentata dal timore del «ridicolo per le deprecabili condizioni della parrucca» e «dai dolori fisici alla testa», la Buonacosa resiste e frequenta gli «anarchici più pericolosi della colonia»; il calvario termina il 10 agosto 1941, quando la donna parte per Napoli e torna il 19 con una parrucca nuova. Il 10 gennaio 1942 e il 5 febbraio 1943, il Ministero le invia un sussidio di 150 lire e le consente di scrivere al Corradi, che, pur di aiutarla, a Parigi ha svenduto parte dei suoi mobili; la Buonacosa risponde criticando l’economia fascista e le condizioni di cambio con la moneta francese così sfavorevoli, da scoraggiare ulteriori vendite. Meglio conservare e custodire, scrive al Ministero, altrimenti, terminato il periodo di confino, «mi troverei senza casa e senza possibilità di formarmene un’altra».
E’ il momento in cui il regime, deciso a demolire la resistenza della donna, prende a colpire dove i nervi sono scoperti e il dolore più vivo. Ora la guerra si sente anche sull’isola. Costretta a bere acqua di mare bollita e a mangiare foglie di fichidindia cotte, l’unica pianta che cresce abbondante, la Buonacosa peggiora e l’alterazione causata dall’infortunio al suo sistema nervoso le procura vertigini e improvvisi oscuramenti della vista. Per curare la confinata, il medico prescrive farmaci e vitto speciale, ma il direttore, Marcello Guida, ritarda l’invio delle richieste Roma. Fascista accanito, sa che il Ministero intende punire la donna e più la vede soffrire, più esercita crudelmente il suo potere. Il rifiuto più doloroso per la confinata giunge quando i genitori, l’anziana madre anzitutto, chiedono di poterla rivedere e la Buonacosa implora il duce: «La loro devozione per il Regime li raccomanda. Voi non vorrete negare una consolazione». Mussolini rifiuta, come aveva fatto tempo prima quando Emilia gli aveva scritto che la madre poteva all’improvviso mancare e «sarebbe troppo grande dolore per me e per lei, qualora non ci fosse dato di vederci almeno una volta ancora». Un rifiuto opposto dal duce alla madre, che il 29 aprile 1942 gli confida «il timore e la pena che non danno pace» per il figlio «combattente, che non scrive dal mese di novembre». Forse, prosegue la donna, «non avrò molto da vivere, perciò vorrei vedere la mia cara figlia adottiva che non ho potuto abbracciare da 16 anni».
Alla clemenza, che temono sia letta come debolezza o ammissione di colpa, spesso i tiranni preferiscono nuove crudeltà e il senso di umanità cede il passo alla ferocia. Disumana è la risposta di Mussolini: la «domanda per ottenere una breve licenza a favore della Buonacosa Emilia non è stata accolta». La confinata sopporta anche questo dolore e va avanti. Di lì a poco, invece, Guida, che sente morire il regime, abbandona la nave che affonda. Passi felpati, ma chiari: i diritti non più legati alla sottomissione faranno dell’aguzzino un «esecutore d’ordini». Il braccio di ferro con Emilia ormai non ha senso e quando Roma decide di liberare i «politici» meno «pericolosi», Guida inserisce la Buonacosa in un elenco di 140 confinati e il 27 giungo 1943 appoggia la proposta di commutare in ammonizione la pena della donna che, a suo dire, ora «vive appartata dai gruppi politici». In realtà, Emilia è stata appena testimone alle nozze di Bice Mastrogiacomo col comunista Renato Olivieri e gode della stima delle compagne.
La notizia dell’arresto di Mussolini giunge a Ventotene il 26 luglio e gli antifascisti, formato un comitato, aprono subito trattative col direttore, che tolto il distintivo fascista dalla giacca e il quadro del duce dall’ufficio, insolitamente cortese accetta le condizioni poste dai confinati. Mentre Badoglio incalzato dai partiti risorti, libera i prigionieri politici, ma «dimentica» gli anarchici, a Ventotene Emilia protesta vivacemente e in nome delle «mutate condizioni politiche» chiede la liberazione. Il 23 agosto 1943, quando lascia l’isola, crede di tornare a casa. L’attendono invece Formia bombardata coi cadaveri tra le macerie e il campo di Fraschette d’Alatri, con migliaia di internati, per lo più donne e bambini.
La Buonacosa, che ha tenuto testa a Guida, è un riferimento per le slave giunte con lei da Ventotene e a loro nome, a nome di compagne ammalate e bisognose di cure, presenta a Badoglio, vecchio fascista chiamato a garantire la continuità dello Stato, un titolo che impone rispetto: la strenua lotta al fascismo: «Noi tutte protestiamo energicamente contro questo trattamento e chiediamo la nostra immediata liberazione come confinate ed internate politiche». Umberto Ricci, però, senatore, ex prefetto mussoliniano e ministro dell’Interno di un governo pronto alla fuga di fronte ai nazisti, diffida dei «rossi» e prende tempo. Invano il 31 agosto il direttore del campo di Fraschette chiede disposizioni per la confinata politica Emilia Buonacosa, giunta al campo il 24 agosto. L’ordine di liberare la donna, che per il direttore del campo è ancora una «politica», parte da Roma il 7 settembre, mentre il governo prepara la fuga e giunge al campo il 4 novembre, quando gli eventi bellici impediscono che Emilia raggiunga Pagani.
Tornata a casa il 7 agosto del 1944, la donna abbandona lentamente la militanza attiva e il sipario sembra infine calare sulla sua vicenda politica. Se alla vigilia della Liberazione, Nenni le scrive con familiarità e promette di incontrarla a Nocera, poco dopo, però, quando chiede il passaporto per  un viaggio a Parigi, il prefetto di Salerno, fermo al ventennio, scrive a Romita, socialista e ministro dell’Interno, che Emilia Buonacosa, «pericolosa alla sicurezza pubblica e agli ordinamenti dello Stato», confinata a Ventotene, si «allontanò a seguito della liberazione di detta isola da parte delle truppe alleate» e conclude con una frase terribile: «in atto, serba buona condotta in genere e non dà luogo a rilievi».
Per le autorità, quindi, Emilia, che non mai è stata liberata, è una «fuggiasca» sorvegliata. La melma in cui il prefetto rimesta per il momento non può sfiorare la «vedova Ustori», che parte per Parigi, rivede i compagni e la tomba del marito e poi torna a casa. Su quel fango, però, poggia in parte l’Italia nuova, che in anni di lotte e sacrifici migliaia di «sovversivi» hanno provato a costruire. Un fango destinato ad aumentare, se nel 1959, con Tambroni al Tesoro e Segni Presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, il fascicolo di Emilia «vive» ancora. E’ il Tesoro che, per decidere sull’eventuale diritto alla pensione assegnata infine ai perseguitati politici, chiede agli uomini di Segni notizie su quanto dichiara la donna. Nella domanda Emilia ha ricordato tutto: l’espatrio, l’arresto e il confino, ma gli uffici di Segni copiano note fasciste e tutto diventa chiaro: nella vita di Emilia, come nel suo fascicolo, incredibilmente «vivo», il «passato non passa», l’antifascismo minaccia le Istituzioni e l’anarchica è ancora una «sovversiva».
La nota si ferma lì, ma tra le sue righe si legge ancora la capacità di «azioni delittuose» e l’ex confinata è in fondo la «donna di facili costumi» che «convisse per circa tre anni more uxorio con un tipo politicamente pericoloso». E’ un rapporto che conduce difilato al 12 dicembre 1969, a Piazza Fontana, agli anarchici di nuovo in manette, a Valpreda, a Pinelli, staffetta partigiana e antifascista come Emilia, al fango del ventennio che sale, mentre i morti di Milano aprono quella che Zavoli chiamò «notte della repubblica». La notte in cui, incredula, guardando la televisione, Emilia riconosce Marcello Guida, carceriere di Ventotene, fantasma d’un passato che pensava chiuso. E’ lui, Marcello Guida,  il questore di Milano, che indaga sull’attentato e colpisce ancora gli antifascisti.
Emilia se ne va il 12 dicembre 1976, ancora e sempre «pericolosa» per  istituzioni in cui si muove libero Marcello Guida, protetto da «omissis» e segreti di uno Stato di cui è ad un tempo simbolo di continuità e naturale nemico.


[1] La storia di Emilia Buonacosa è stata ricostruita grazie ai documenti conservati nell’Archivio Centrale dello Stato a Roma, fondo Confino b. 164, f. «Buonacosa Emilia», e fondo Casellario Politico Centrale, b. 2422, f. «Giordano Federico (già Ustori Federico)». Utile è stato anche il lavoro di Annunziata Gargano, Resistenze. Esperimenti di microstoria attraverso tre biografie, Edizioni dell’Ippogrifo, Sarno, 2012. 
[2] L’8 luglio 1904 Orlando fissò l’obbligo all’età di 12 anni.
[3] Giovanni Giolitti, Memorie della mia vita, Garzanti, Milano, 1982, p. 115. Nel 1902 la legge Carcano impose per le minorenni atto di assunzione, libretto, certificato medico e un orario di lavoro che non superasse le 12 ore.
[4] Per la morte di Ustori, F. Ustori, “La Lotta Anarchica”, cit.

[5] La Buonacosa è più attiva del Corradi, un comunista dissidente che non svolge attività politica. Del Corradi esiste un fascicolo nel Casellario Politico Centrale b. 1480, f. “Corradi Pietro”.

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