Pina entrò nella mia vita per caso. Ci si fece un posto che pochi hanno mai avuto e nessuno glielo avrebbe tolto se, quindici anni dopo il nostro incontro, una mattina di quelle che non sono uguali ad altre, non avessimo scelto di affidare la nostra sorte al caso. E allora sì, perché noi lo volemmo, poi ci si divise e ciò che venne dopo doveva venire: non si affida impunemente alla sorte ciò che dà un senso a molta parte della propria vita.
I fili che ci avevano condotti al nostro appuntamento erano parte di una storia collettiva: sessantottini si prendeva a dire qua e là, chi per invidia malevola, chi con disprezzo astioso, mettendo insieme qualche ragione e numerosi torti. E’ vero, si potrebbe provare a smentirli, ma a che servirebbe fare qui la storia di un manipolo di giuda mercanti, che vendono fumo dalle colonne di giornali prezzolati e s’arrampicano sugli scranni untuosi di quelle istituzioni tante volte spregiate? Ogni tempo li porta con sé: hanno largo consenso nei giorni della storia che dal passato si avviano a quel futuro che sarà il presente di nuove generazioni, poi, esclusi da ogni tempo, si perdono in una irrimediabile oscurità. Esistono sempre e non sono mai esistiti.
Io e Pina avevamo viaggiato sullo stesso treno, ognuno una carrozza, ma il binario era quello: dalla stessa parte, con gli stessi sogni, sulla stessa barricata. E ci eravamo attardati nella giovinezza senza accorgerci della maturità alla quale un’idea cronologica della vita ci aveva assegnati. E’ una verità banale, ma puoi stentare a capirla: col tempo che passa, occorre diventare adulti. Fa parte del gioco e, se non ci arrivi da solo, qualcuno prima o poi te lo dice. Ma è proprio vero che l’apparenza inganna: piccola, i capelli neri tagliati a caschetto, il viso lievemente largo che aveva preso a truccare molto tardi, usando il rimmel molto più che l’ombretto, Pina pareva una di quelle “signorine charleston” degli anni ’30.
Inganna l’apparenza, le avevo confessato in un giorno di stanchezza mortale, in cui tutti, chissà perché, persino lei, solitamente così acuta, tutti mi vedevano felice e forse, a vedermi, felice davvero dovevo apparire.
– Ma felice di che? – la interruppi, mentre mi si era messa sottobraccio e mi teneva stretto – Felice perché?
– E non lo vedi? I ragazzi ti stanno attorno, ti cercano, ti vogliono bene. Perché non sei contento?
C’era quasi timore nella sua voce dalle inflessioni fini, articolate, che se aveva paura tremava, se era felice si spezzava, se lottava con l’ansia era concitata. La voce di chi mette l’anima nelle parole ed esprime nel tono e nella musica dei suoni ciò che dentro gli vive.
Sembravo contento e sorridevo. Ma contento di che?
– ‘O pruvessore! – aveva gridato qualcuno mentre entravo in classe. Gli evviva mi avevano sommerso e Pina se li era goduti. Conoscevo da tempo la sua teoria:
– Se apri una breccia nei cuori, poi si parla. Parlano poi – diceva – e, se lo fanno, vai dal cuore alla testa e lasci il segno.
Contento di che? Che ne avremmo poi fatto di Formisano, se persino la natura s’era divertita a farlo doppio nel viso, come doppio sempre più gli facevano il cuore in petto la scuola della strada, le regole della famiglia e la miseria morale che gli affaristi della politica contrapponevano giorno dopo giorno alla miseria materiale da cui traeva forze la camorra. Che ne avremmo fatto di quello spilungone col viso d’un coniglio e un occhio storto che gli faceva il profilo destro diverso da quello sinistro e gli inquietava il volto che inquietava?
Contento di che? Tornerei a chiedertelo oggi ancora, amica mia, se solo sapessi come farmi ascoltare e dove andare a cercare la risposta. E una, una almeno tu l’avresti, non ho dubbi. Breve, di quelle che facevano luce nel buio che dentro mi insidia da sempre.
Contento di che, Pina? Di essermi trovato a passare con l’auto davanti al crocchio dei giovani eccitati, chiusi a cerchio attorno all’aggressione? Perché fu naturale soccorrerlo Formisano, che la lingua e le mani non sapeva e non voleva tenerle a freno, messo sotto da tre, quattro ragazzi più grandi e più grossi, mentre prendeva calci e pugni e, senza lamenti, restituiva come poteva, colpo su colpo, persino coi morsi, e soccombeva insanguinato? Perché il pugno che presi anch’io mi spezzò un dente, mentre qualcuno s’era messo a urlare: E’ ‘o pruvessore!
Contento di che? Del filo di sangue che disegnando un rivolo giù, fino alla camicia, sconfiggeva penosamente le mie impossibili lezioni sulla superiorità del dialogo? Quella superiorità che il ragazzo insanguinato non aveva mai voluto accettare e tornò a rifiutare in un soffio, mentre lo strappavo a viva forza dalle grinfie dei suoi carnefici:
– Avite visto chi aveva ragione?
Contento di che? Di quel consenso che mi trasformava in uno di loro?
– Solo così si può provare a parlargli – mi disse Pina senza rabbuiarsi – solo così e lo sai: tu suoni a orecchio. Uno di loro. E’ la musica giusta.
E suonai, Pina, suonammo, dopo che un terremoto più terribile di quello che aveva scosso ogni pietra della città divenne un’onda d’urto micidiale che investì le coscienze e tutti incarognì. Suonammo, Pina, senza gli strumenti. Me la ricordo ancora la tua ragazza violentata dal padre – quanto parlasti, quanta strada facesti dal cuore alla testa! – quella ragazza che un giorno si lanciò a corpo morto nella vetrata del balcone dell’aula. E quell’improbabile fantino grassoccio che giorno dopo giorno mi incalzava:
– Venite pruvessò, stasera è sicuro, ve facit’e sorde. Tengo ‘o cavallo buono e a vuie v’o dico! Stasera arrivo primmo, pure si trovo nu cavallo ch’è chiù forte. Venite pruvessò, stanotte chiudimm’a strada pe’ Casoria e ve facite ‘e sorde.
Suonammo, Pina, sorridendo, quando la malizia delle ragazzine che sapevano tutto della vita ci sussurrò all’orecchio:
– Site ‘na bella coppia, ma tenite famiglia… – e i colleghi maligni se ne stavano zitti, ma facevano sì con la testa.
Ex sessantottini, Pina. Ma cosa vuol dire? Quelli che sanno mettere insieme un “Comitato genitori e docenti” a Via Cannola al Trivio, nel vecchio Rione Sant’Alfonso, alla Siberia, dove siamo di casa e dove gli alunni che hanno già un “nome” ci fanno da scorta? Dove comanda ‘O romano, un criminale latitante, ufficialmente super ricercato all’estero, mentre i nostri ragazzi ci dicono orgogliosi che va e viene da casa perché “ten‘e sorde e si paga l’amici pulite, ‘a gente comm’ a vuie?”.
Cosa vuol dire? Che siamo gente che nel “Comitato” hanno saputo portare le mogli e le sorelle dei camorristi e quelle si rivoltano contro i padri e i mariti che fittano la scuola data in prestito ai terremotati per farne casa d’appuntamento, deposito di droga e refurtiva, covo per ricercati? Che tutto quessto non serve a niente perché finiamo contro il muro invalicabile dei silenzi e delle collusioni? Contro il muro custodito da scienziati della borghesia passati ai posti di comando?
– Vedite, pruvessò, chi aveva ragione?
Ex sessantottini, Pina. Che vuol dire? Che tutti i giorni la stampa cittadina confeziona un prodotto da tre soldi per raccontare, come fossero imprese coraggiose ed epiche, che il “gruppo di fuoco legato alla potente famiglia di Bakù ha riaperto lo scontro per il controllo del territorio“. Tutti i giorni, là dove si potrebbe titolare semplicemente: “Un deliquente esce dal fango e spara“? Che vuol dire? Domandiamolo al giornalista famoso, sceso una volta al Sud dal suo Piemonte – è storia antica. Quello che, entrando in città dalla tangenziale, attraverso lo svincolo del Corso Malta, sull’alto viadotto che sovrasta la “Siberia”, si ricorda – chi vuoi che non lo sappia? – che quella è la “più insanguinata strada di Napoli perché la città per cui passa è divisa fra i clan della camorra; le rese dei conti avvengono nei punti di confine, rapide sparatorie, scontri e fughe su motociclette potenti, e, a cose fatte, arrivano i “falchi”, i poliziotti motociclisti o gli “zingari”, come chiamano i carabinieri in divisa nera. I cadaveri non li tocca nessuno prima che arrivino le autoambulanze a ritirarli. Lungo la tangenziale avvengono anche molti scippi classici; due in motoretta che raggiungono la donna con la borsetta a tracolla e gliela tirano via come una frustata“.
Ma che dice, Pina, questo giornalista scrittore e partigiano? Il giornalista che non si ferma giù nell’inferno, non scende là dove i cadaveri si toccano: che storia è mai questa, chi glielo ha detto dei carabinieri zingari e di quello che si tocca? Non scende, no, perché gli basta vedere dall’alto l’oleografica strada che va dall’aeroporto al mare, e mostra in fondo il Vesuvio a gobbe da cammello e raccontare alla gente la favola delle borsette a tracolla e degli scippi sulla tangenziale. Gli basta raccontare con le parole di un tassista che è inutile dirlo, “ha una bella faccia feroce e istrionica“, gli parla del tempo che è cambiato, del “sole acqua” che sta sulla città e non inserisce il tassametro perché vuole rubargli qualcosa sulla corsa: “uno o due euro, purché sia lui a deciderlo, lui che è più intelligente del forestiero. La maledetta presunzione individualista per la quale un napoletano è pronto a dannarsi“.
Che vuol dire, Pina, ex sessantottini? Che ogni denuncia del “Comitato genitori e docenti”, in via Piazzolla al Trivio, cadeva sistematicamente nel vuoto e per un miracolo del Signore vecchi malati comparivano d’incanto nei loro lettucci nella nostra scuola data in prestito a inesistenti terremotati ogni volta che a sirene spiegate arrivavano in forza polizia e carabinieri?
Tutto questo ci siamo raccontati in un giorno, un giorno solo, uno di quelli che non sono uguali ad altri e ti lasciano il segno. Quel padre – ricordi? – che ci aveva pregato in un italiano inusuale e stentato di non continuare a denunciare il figlio che non veniva a scuola.
– Lavora, gli ho trovato un posto – ripeteva – e cu ‘sti carabinieri ‘o posto chillo ‘o perde!
Il posto ce l’aveva davvero: una bancarella che ufficialmente vendeva sigarette di contrabbando ma copriva lo spaccio di eroina.
Tutto ci siamo raccontati in un giorno. Che la scuola chiudeva, perché ora a sinistra ci si orientava per l’efficienza e i tagli alla spesa pubblica e, a conti fatti, costavamo troppo. Dimensionamento, razionalizzazione, accorpamento erano le parole d’ordine della scuola azienda. Tutto ci siamo raccontati quel giorno, e io ti ricordai – ridesti fino alle lacrime – di quella rappresentante dei genitori in Consiglio di classe ch’era venuta a una riunione affannata e in ritardo, con una creatura stretta tra le braccia, chiedendo scusa a tutti – c’eravamo guadagnati un gran rispetto! – e s’era accomodata al suo posto.
– Scusate per il bambino, nun tenevo a chi lasciarlo!
Ma il bambino tutto sporco, che lei teneva in braccio con amore, puzzava in maniera insopportabile e anche di questo la donna si scusò:
– Se tornavo a casa per lavarlo, ccà nun ce venevo. E ci tenevo a venire. Sapete come vanno qua le cose. Sono uscita dal portone, pochi metri e hanno cominciato a sparare. Tenevo davanti ‘o cassunetto ‘e zinco da’ munnezza. Voi che avreste fatto al posto mio? Ci ho messo dentro il bambino e me so’ arreparata. E’ per questo che puzza!
Non so più quante volte l’avevamo detto, Pina:
– Ma perché non chiediamo il trasferimento? Sono quindici anni che stiamo qua.
– Sono stanca, dicesti.
– Anch’io, risposi.
– Testa o croce, mormorasti, e mi desti la monetina. Croce. E’ il trasferimento…
Un lampo di tristezza.
Uscito su Fuoriregistro il 28 febbraio 2006
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