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Archive for novembre 2014

16221079-vintage-vecchia-sedia-di-legno-nero-in-interno-grungy-la-solitudine-straniamento-concetto-alienazionSono venuto alla luce sul confine temporale che separò l’Italia monarchica da quella repubblicana, Era un altro Paese e la parabola della vita correva tra nascita e morte, in una sorta di produzione a «ciclo continuo», fondata sulla convivenza delle generazioni: figli e nipoti nascevano in casa e in casa – quasi sempre la stessa – morivano i nonni. La trasmissione della memoria era un tessuto da filare in racconti serali, durante cene di povera gente, ricche di scambi, opinioni e ricordi. Negli anni che seguirono, la polverizzazione della famiglia, l’affermazione del modello americano e una rinnovata organizzazione capitalistica della metropoli e dei tempi della nostra vita, regalò ai vecchi il sapore amaro della solitudine, in un mondo che mette ai margini chi esce fuori dai circuiti della produzione. Nella sua terribile durezza, il fenomeno conservava, tuttavia, un che di «naturale», era un dato fisiologico dai connotati patologici: la vecchiaia è in qualche misura sinonimo di solitudine, l’età che avanza ci priva a poco a poco dei compagni e ci lascia fatalmente soli in una realtà che cambia e si fa sempre più estranea.
Il punto più basso di questa china disperante, però, l’abbiamo toccato da qualche anno, quando, in una società sempre più organizzata in funzione delle logiche del profitto, per le quali più sei debole e meno sei tutelato, è emersa d’un tratto, patologica e devastante, una solitudine nuova e contro natura: la solitudine dei giovani, che non sono uguali tra loro, non costituiscono una categoria sociale, ma si trovano in buona parte soli davanti a tempi bui che hanno la tragica durezza degli inverni della storia e della civiltà.
I più giovani, quelli che meglio conosco, gli studenti, sono così soli e occupano ruoli così irrilevanti, che la sedicente «Buona Scuola» di Renzi non ha nemmeno un paragrafo dedicato a loro. Come se la scuola non li riguardasse, Renzi li ha ridotti a spettatori muti della pantomima utilizzata per descrivere il futuro che li attende. I giovani non esistono, ma è in nome loro che la riforma dell’ex «rottamatore» disegna la scuola su modelli del mercato e dei suoi meccanismi: produttività, concorrenza, competitività, leggi della domanda e dell’offerta e sfruttamento della forza lavoro regoleranno, infatti, la vita scolastica, ricorrendo al peggior armamentario ideologico liberista. I giovani però non la vogliono la scuola che Renzi prepara e lottano per far sentire la loro voce che nessuno intende ascoltare. Non la vogliono perché hanno letto il progetto, ne hanno discusso tra loro e hanno capito che non è una scuola, perché non forma più cittadini consapevoli, in grado di ragionare con la propria testa e di affrontare con equilibrio la dura complessità del mondo in cui vivono; è una fabbrica che produce lavoratori e si propone di farne tecnici specializzati e alfieri dell’ammaccato «Made in Italy»; un pianeta misterioso che sospinge il Paese indietro, fino a porti nebbiosi che parevano esclusi dalle rotte della civiltà: porti in cui scuola e lavoro si incontravano negli istituti di avviamento professionale, dove chi non poteva pagarsi l’esame di ammissione alla scuola media era costretto a prepararsi al lavoro. E’ amaro, ma vero: alle giovani generazioni che soffocano per mancanza di occupazione, la scuola della repubblica fa dono dello spettro di un lavoro contrabbandato per studio e formazione e intende tornare all’Italia che Pasolini disprezzò: quella col «popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante».
Forte di una ideologia che è «verità di fede» – la globalizzazione è fenomeno irreversibile – per piegare alle regole del capitale i nostri giovani, padroni e professori vengono fusi in un rapporto spurio, che artifici linguistici definiscono «alternanza scuola-lavoro». E’ questo ciò che Renzi e il PD pensano di imporre alle scuole secondarie superiori, licei compresi, ricorrendo a sotterfugi e formule oblique. Un meccanismo sostanzialmente reazionario, che assegna «qualità formativa» all’attività lavorativa prestata in realtà esterne alla scuola e fornisce ai padroni l’opportunità di far conto sul lavoro gratuito, utilizzando studenti sfruttati invece dei lavoratori. Duecento ore all’anno negli ultimi tre anni degli Istituti Tecnici e Professionali, la formula dell’«impresa didattica» che trasforma attività di formazione a scuola in mansioni finalizzate alla produzione di reddito, quella della «Bottega Scuola», che inserisce studenti in ambiti aziendali di natura artigianale e, dulcis in fundo, per gli ultimi due anni di scuola, un sistema di convenzioni che decide le regole d’ingaggio per un «Apprendistato sperimentale» già regolato dalla legge 104 del 2013.
Sullo sfondo di questo delirio oscurantista, la solitudine dei giovani, in prima linea in una battaglia disperata per la formazione, ha i contorni della tragedia e l’assenza degli adulti sa di tradimento. Mentre una generazione senza futuro viene trascinata con inaudita violenza verso un mondo da incubo, che nega il diritto allo studio e chiude i lavoratori nei campi di concentramento di uno sfruttamento garantito dalla cancellazione di ogni diritto – ai padroni si consente ormai persino il licenziamento senza giusta causa – gli studenti provano a presidiare come possono gli istituti scolastici attaccati; i giovani protestano, organizzano cortei, ma sono soli, sotto il fuoco di fila della stampa padronale, che criminalizza le «okkupazioni»; soli di fronte a un potere che, non avendo risposte credibili e non potendo fare appello a una autorevolezza che non ha, ricorre alla Digos e al Codice Rocco e presenta gli studenti come sprovveduti in mano alla teppaglia estremista, raccolta nei «collettivi». Della sentenza dell’Unione Europea non parla nessuno; eppure, proprio in questi giorni, l’Italia di Gelmini, Profumo, Carrozza, Giannini e Renzi è stata condannata per aver tenuto 300.000 lavoratori in condizione di precarietà professionale ed esistenziale e aver sottratto per anni agli studenti il diritto alla continuità didattica. Di questo naturalmente si tace e nessuno denuncia le gravissime violazioni di quella legalità di cui ipocritamente ci si riempie la bocca, quando si tratta di criminalizzare e bloccare gli studenti che lottano in nome del diritto allo studio, al lavoro e al futuro.
Di fronte a una così feroce solitudine e a una riforma che in altri tempi avrebbe riempito di sdegno le piazze, i genitori sembrano assenti, frenati probabilmente da problemi di sopravvivenza e dalle paure alimentate da una stampa sempre più reazionaria; in quanto ai docenti, intimoriti dal clima repressivo che si vive nelle scuole e dalle reiterate campagne sui “fannulloni”, anche quelli che riconoscono le ragioni dei giovani stentano a schierarsi e li lasciano soli. Di solitudine, però muore spesso la speranza e lascia spazio alla disperazione, abituale compagna della barbarie che si sta seminando a piene mani. Invano la storia insegna che le grandi tragedie nascono della solitudine dei giovani e dalla diserzione dei vecchi. E’ sempre più raro che qualcuno si fermi ad ascoltarla.

Uscito su Fuoriregistro il 29 novembre 2014, su Agoravox e sul Manifesto, col titolo Nella scuola la nuova solitudine dei ragazzi, il 3 dicembre 2014.

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Il partito dell’astevoto_elettorale_fondo-magazinensione chiese al partito del voto che il risultato del non voto fosse calcolato tra i voti dati. «Se non voto, ho votato per il partito del non voto», gridavano i leader astensionisti, ma urtavano contro la resistenza del premier uscente che a muso duro, aspramente replicava: «questo partito non esiste, perciò chi non vota non può essere e non sarà calcolato tra gli elettori votanti».
Tutto in fondo sembrava estremamente logico, ma il brutto imbroglio, che sapeva maledettamente di broglio morale, perché nessuno avrebbe mai potuto dimostrare che qualcuno l’avesse materialmente organizzato, prese ad un certo punto corpo e da dubbio ch’era, diventò certezza, quando si giunse all’esito della competizione. Lo scrutinio si fece e i voti si contarono dopo una stranissima campagna elettorale, durante la quale il premier uscente aveva parlato e tenuto banco, chiedendo ripetutamente al Paese un «voto per il cambiamento», mentre gli avversari avevano chiesto ai cittadini di non recarsi alle urne, perché da cambiare c’era solo quel deficiente del Presidente in carica.
Non si muore due volte e perciò Josè Saramago non morì d’invidia: se n’era andato per sempre prima del risultato elettorale, che non era costato complicati conteggi e verifiche attente. Il premier, infatti, aveva vinto e il voto che aveva chiesto, a rigor di legge, l’aveva avuto. Dai seggi infatti, il responso delle urne era giunto chiarissimo: tutto il Paese s’era astenuto, tranne un elettore. Non c’erano dubbi: un avente diritto aveva votato. Poiché si trattava di un solo voto, l’unico espresso in tutto il Paese e un solo elettore, il premier uscente, s’era presentato alle urne di buon mattino, capirono tutti e non era difficile: quel voto l’aveva dato a se stesso l’uomo più odiato del Paese: il premier del partito del voto, che aveva così sbaragliato il campo degli avversari. La sera il leader vittorioso, si presentò alla televisione per un messaggio diffuso a reti unificate. «Forse – dichiarò – oggi non ha vinto la democrazia e la maggioranza di governo che io legittimamente rappresenterò, poi vedrò se da solo, farà le sue riflessioni. Devo dire però che a me della democrazia non interessa sinceramente nulla e ciò che volevo l’ho ottenuto: un voto per il cambiamento. E’ un voto che nella migliore tradizione del Paese, promette di cambiare tutto, per non cambiare niente».

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ImmagineIn Italia vota ormai solo il 37 % degli aventi diritto o, se preferite, su cento elettori il 63 % non ritiene utile votare perché non si sente rappresentato.
Sia chiaro, non pretendo che le percentuali siano esattissime, tuttavia, trovo un mistero davvero glorioso – nessuno finora ha saputo spiegarlo! – l’atteggiamento convinto dei deputati!?? e senatori!?? del Partito Democratico, che sono entrati in Parlamento grazie a una legge illegale e non hanno sentito il dovere morale di andarsene a casa; questa banda di irregolari, infatti, non solo continua a sostenere di voler cambiare l’Italia perché questo è il mandato che hanno ricevuto dagli  italiani che li hanno votati!??  ma, con incredibile faccia tosta, afferma che Renzi rappresenta il 40 % degli italiani. La stampa naturalmente non smentisce e spesso anzi conferma, sicché bisogna prender atto: la matematica è un’opinione. Bisogna credere per fede non solo che il PD gode di un invisibile però largo consenso, ma che Renzi vincerà le elezioni col 40 % anche quando andrà a votare solo sua moglie.

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rivoluzIl 26 maggio del 1927, nel discorso dell’Annunziata, Mussolini, che di reazione s’intendeva più degli intellettuali della nuova destra, presenta l’Italia come «una democrazia accentrata, […] nella quale il popolo circola a suo agio, perché, afferma, o immettete il popolo nella cittadella dello Stato, ed egli la difenderà, o sarà al di fuori e l’assalterà». Come l’Italia d’oggi, il fascismo non era una democrazia, ma i profeti della «governance» nel trionfo della post democrazia ignorano persino la lezione del duce: conservatore o progressista, chi sente nemico lo Stato entra in conflitto con le Istituzioni che non lo rappresentano. In un punto, però, la polemica sulla «sinistra conservatrice», animata da intellettuali attenti alla nuova scala delle gerarchie sociali, coincide con i temi del dibattito politico di quegli anni di crisi: anche allora, di fronte al dilemma inquietante – «o trasformarsi o perire», per dirla con Alfredo Rocco, la borghesia imboccò la via della violenza, addossandone la colpa alle utopie egualitarie dei ceti subalterni.
Per ingabbiare i processi dialettici di un corpo sociale in ebollizione, però, al duce servì quel Codice Rocco che noi oggi abbiamo, sicché, mentre i proconsoli dell’Impero smantellano la Costituzione antifascista, il sistema di regole che strangola il conflitto – l’«indisciplina collettiva» direbbero Rocco, Macrì e Saviano – è entrato subito in gioco, come ben sanno gli operai di Terni. Sul versante sociale, quindi, l’«autoritarismo democratico» di Marchionne, Monti, Fornero, Sacconi e – buon ultimo – Renzi, non ha avuto problemi e senza colpo ferire Squinzi ha salutato la Caporetto dei sindacati. Lo Stato, uscito dall’agnosticismo in tema di lotta di classe, è in campo coi padroni e il Corporativismo è nei fatti.
Si può anche ignorarlo, ma è un dato di fatto: chi definisce il conflitto «conservazione» riprende la polemica sul sindacato «passatista», tant’è che ascoltare Renzi è come leggere Bottai, che ai suoi tempi diceva: «Doveva essere entusiasmante mettersi alla testa del proprio Sindacato e affermare la battaglia sulla piazza» ma «oggi questi argomenti non servono più a nulla, perché la forza è nello Stato e solo nello Stato». Anche oggi, si afferma che il conflitto tende alla «conservazione» e gli si oppone il vento della «Rivoluzione, […] lo stabilirsi di una nuova morale e di una nuova politica». Cosa sia stata negli anni Venti, in tempo di crisi, la «rivoluzione» cui tornano oggi Renzi e gli intellettuali della nuova destra, fu presto chiaro: il trionfo dei «rivoluzionari» in camicia nera sugli operai rossi e conservatori non «modernizzò», né creò l’impossibile riequilibrio tra «uguaglianza» e «mercato», che oggi si riesuma dal peggiore armamentario liberista. Consentì, questo sì, grazie al manganello e al Codice Rocco, la riorganizzazione dell’economia, sbilanciata in senso finanziario, e una ristrutturazione industriale sulla pelle dei lavoratori, ma dimostrò l’incompatibilità della democrazia col capitale finanziario e consentì a Grifone di denunciare «la mitologia delle necessità oggettive, del primato della tecnica e delle soluzioni obbligate», strumenti ideologici di politiche creditizie e monetarie tese a far sì che «le scelte del potere si ammantino, assai più che le scelte produttive, di un falso velo di necessità oggettiva».
E’ facile oggi, in una grave crisi della democrazia, spacciare per «riforme istituzionali» le tappe di una svolta autoritaria, utilizzando concetti astratti come progressismo e conservazione. La verità è che il conflitto sociale è sotto processo, perché sotto processo è la democrazia. Poiché non si può negare che il movimento operaio, pagando con la galera e col sangue, conquistando potere in fabbrica e nelle compagne, costringendo i padroni ai contratti, ha legittimato e consolidato la democrazia, si alimenta nell’immaginario collettivo la falsa convinzione che la forza della sinistra italiana del Novecento, pur rispettando le regole, abbia alterato il rapporto sviluppo-eguaglianza e spezzato il nesso Stato-mercato. Più che storia, però, questa è mitologia.
Mito è la borghesia liberale «tollerante», perché, senza tornare a Crispi o ai connubi col fascismo, fermandosi ai primi vent’anni di repubblica, la «tolleranza» lasciò in piazza un centinaio di morti e dal 1946 al 1966 produsse 15.000 perseguitati politici, riconosciuti da una legge dello Stato. Una classe dirigente così arrogante da processare i giovani cui lascia un Paese di gran lunga peggiore di quello ricevuto in eredità, definendoli conservatori, è ingenerosa e irresponsabile. Un giovane oggi è per forza di cose conservatore: lotta per conservare almeno parte dei diritti di cui ha goduto chi oggi si erge a giudice mentre glieli nega. Né, del resto, progredire è sinonimo di migliorare: si può anche avanzare verso il peggio e a contare non è la direzione di marcia, ma i valori di riferimento. Se la civiltà arretra di fronte alla barbarie, si progredisce arretrando.
Su un punto occorre esser chiari: chi processa la sinistra, in nome di valori liberali e liberisti, rischia di muoversi verso la melma crispina, gli spettri del ’98, i modernizzatori alla Mussolini e i cialtroni che tollerarono Hitler per scagliarlo contro i bolscevichi. Per Mussolini e i fascisti, Gramsci fu conservatore, lo scrissero mille volte e videro il progresso nelle Corporazioni e la conservazione nel sindacato di classe. Proprio come oggi. Di questo passo, i giovani finiranno sovversivi, ma non sarà conservazione: sovversivi furono Gramsci e Pertini. Se un Paese ripudia i valori della Costituzione e cancella dal suo orizzonte persino Montesquieu, è fatale: i progressisti veri diventano banditi come i partigiani. Si può giocare con le parole quanto si vuole, ma il progressismo di Marchionne esiste solo se manipoliamo la storia per fare la morale ai giovani che non si rassegnano. La storia ci dice che quando Cesare è il progressista, Bruto mette mano al pugnale; quando il pane del popolo sono i dolci della regina, la ghigliottina cala inesorabile; quando il progressismo colpisce la povera gente e si arrocca al sicuro nel Palazzo d’Inverno, i giovani diventano così conservatori, da schierarsi con giacobini e bolscevichi, bruciare la Bastiglia e portare il ferro e il fuoco negli stucchi e negli ori di Pietroburgo. Si dirà che sono violenti, ma è una menzogna. I giovani odiano la violenza, ma non intendono subirla inerti. Perciò oggi sono conservatori: conservano il diritto alla legittima difesa.

Uscito su Agoravox e Fuoriregistro il 21 novembre 2014 e su MenteCritica il 24 novembre 2014

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EL PAÍS
El Perìodico Global

CATALUNYA

L’obra de teatre ‘Radio Libertà’ aporta un episodi amagat en la història de Barcelona

Toni Polo Bettonica, Barcelona 18 NOV 2014

a“Ningú no en sap res, d’aquesta història. S’ha d’investigar i és un episodi tremendament interessant”. Qui parla és Ida Mauro, historiadora italiana resident a Barcelona i membre actiu de l’Associació AltraItàlia, que aplega italians progressistes i antifeixistes residents a la capital catalana. Igual que fa tres anys van denunciar l’Estat italià pels bombardejos de l’aviació feixista sobre
Barcelona durant la Guerra Civil, ara, dins de la Setmana d’AltraMemòria, que han organitzat amb la collaboració del Memorial Democràtic i la Pompeu Fabra, han portat a les Cotxeres Borrell l’obra de teatre Radio Libertà. És la història de la família Grossi, napolitans fugitius del feixisme que van arribar a Barcelona el 1936 i van muntar una emissora que es va convertir, entre finals del 1936 i el maig del 1937, en “la veu de l’Espanya ensangonada” per a tots aquells antifeixistes que sobrevivien a la Itàlia pletòrica de Mussolini o a l’exili.
La representació és gairebé un monòleg basat en l’assaig de l’historiador napolità Giuseppe Aragno Il “no” firmato “emme”. Renato Grossi. “Vaig trobar el fil gairebé de casualitat fa sis anys”, diu l’historiador. “El culpable d’aquesta obra de teatre és el titellaire i actor Alfredo Girladi, que es va enamorar de la història i ara l’ha adaptat i la interpreta sota la direcció de Luana Martucci. Giraldi, en un exercici interpretatiu notable, ens narra l’epopeia familiar a partir dels interrogatoris el 1941 a Renato, el fill gran del matrimoni Grossi, a qui la burocràcia feixista va “sepultar en vida” en hospitals psiquiàtrics. És pura narració i recitació, plena d’emoció, indignació i desencís.

És la història de la família Grossi, napolitans fugitius del feixisme que van arribar a Barcelona el 1936

El desencís d’un advocat que va creure en el socialisme pur i el 1926 va haver de fugir del Nàpols dels camises negres dels fasci i va decidir donar la seva vida a combatre un mal que, n’estava convençut, s’estenia en una guerra global. A l’Argentina va esdevenir un element clau entre els italians exiliats fins que les notícies d’Espanya 10 anys més tard el van fer creuar de nou l’oceà, esborrant rastres tot el que va poder, fins que es va instal·la al carrer Còrsega, 250 de Barcelona.
Amb 49 anys, l’advocat Carmine Cesare Grossi va arribar al novembre del 1936 a una ciutat que era el bressol de la revolució: “Plaça de Catalunya és com un gran port on troben allotjament els estrangers vinguts per intervenir en la lluita d’alliberament d’Espanya de la invasió dels reaccionaris (…), de marroquins i de feixistes italians”. Va rebre la complicitat impagable de la seva dona, Maria Olandese, una cantant d’òpera fascinant, “la més forta, la més decidida i segura de si mateixa”; dels seus fills Renato i Aurelio, que van lluitar al front amb l’exèrcit republicà, i de la filla Ada, que va esdevenir la veu de Radio Libertà.

La guerra es va menjar la revolució.
“Aquí Mussolini va sentir parlar de la desfeta dels seus soldats a Guadalajara!”, recita Giraldi,

“Ada i el pare expliquen als italians ignorants la feroç veritat de la guerra”. Cesare Carmine escriu i la filla verbalitza els missatges que desencadenaran la ira del duce”. “Ens sentim identificats amb aquesta família que critica, jutja i condemna”, diu Ida Mauro, subratllant que els Grossi van relatar la guerra des de la rereguarda de Barcelona i amb fil directe amb el front. a l’escenari. “I va escoltar tants i tants missatges verinosíssims per al seu règim que molts a Itàlia van ser condemnats per sintonitzar una emissora prohibida”.
bPerò Grossi, a més de ser “un advocat antifeixista i bo”, era un romàntic. Un idealista. I a Barcelona va descobrir com “la guerra es va menjar la revolució”. La família, perseguida pels feixistes, va acabar caient víctima de l’espionatge estalinista a Barcelona. Radio Libertà va acabar a mans bolxevics el març del 1937 i l’esperit internacionalista i socialista de Grossi es va anar esvaint. “Es va trobar al centre d’una batalla mortal entre companys d’armes, entre la visió llibertària d’un conflicte que vol ser revolució social i la visió ‘centralitzada’ i gradualista dels estalinistes, que temen les conseqüències de la col·lectivització i invoquen un ordre i una disciplina militars”.
“Tots cinc” van acabar coneixent l’exili, de nou, en unes condicions ferotges i desenganyats del somni socialista en una fugida a peu travessant la frontera i sobrevivint, separats, en camps de concentració francesos. “Van conèixer la delusió de les grans democràcies que han temut més el triomf de la revolució que el feixisme”.

Grossi, a més de ser “un advocat antifeixista i bo era un romàntic.Un idealista.I a Barcelona va descobrir com “la guerra es va menjar la revolució”.

L’episodi requereix un estudi intens. “Hi ha molt poca informació”,  insisteix Aragno, que ha remenat entre arxius, cartes, memòries…  a Argentina, Nàpols, Bèlgica, França, Barcelona. Ara hi ha un fil que es pot començar a estirar per acabar de donar forma a uns fets representatius de tota una època en la qual Barcelona va esdevenir capital de la revolució.
Però en el drama dels Grossi (els fills Aurelio i Ada, nonagenaris, viuen a Nàpols), una història duríssima, cruel, amarga, hi trobem ara, 70 anys més tard, emoció. Un cop acabada la representació, dissabte passat, saluda des de l’escenari, amb els ulls brillants, Silvia Guzmán Grossi, filla d’Ada Grossi, la veu de l’Espanya ensangonada. És el fruit de la unió entre Ada i un anarquista madrileny al camp d’Argelers… “Sóc madrilenya”, diu, orgullosa i en català, “però nomarianista”. Potser el seu avi no li hauria perdonat mai ser-ho.

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2014_11_07_bagnoliLeggo un articolo dei miei giovani amici del Collettivo Autorganizzato Universitario e lo trovo ineccepibile. Ci accusano di essere conservatori e pensano così di intimidirci, metterci in difficoltà, confonderci e chiuderci in un angolo. E’ gente che vale poco, come poco o nulla vale Renzi, che gli fa da battistrada. Oggi mi sento sinceramente conservatore e non faccio fatica a dirlo: io sono fermamente deciso a conservare quel tanto di diritti che ancora sopravvivono, deciso a conservare il mio odio di classe, deciso a conservare intatta la mia onestà intellettuale contro la disonestà culturale e morale del progressismo che è la quintessenza dell’astrazione.
Progredire di per sé non significa andare verso scelte positive. Quello che conta non è la direzione di marcia, ma il sistema di valori di riferimento. Se la civiltà arretra di fronte alla barbarie, si progredisce solo arretrando. Chi assume i valori liberali e liberisti, va nella stessa direzione dei massacratori della Comune, degli spettri del ’98, dei modernizzatori alla Mussolini e dei cialtroni che lasciarono crescere il nazismo, per scagliarlo contro i bolscevichi. Per Mussolini e i suoi squadristi, Gramsci era un conservatore. Lo scrissero e Io sostennero in mille articoli e, a dar retta ai benpensanti borghesi, il progresso riposava nelle Corporazioni e la conservazione era rappresentata – proprio come oggi – dal sindacato di classe conflittuale. Io sono apertamente sovversivo, come lo erano Gramsci e gli antifascisti. In un regime che rinnega addirittura i valori borghesi affermati nella Costituzione e cancella dal suo panorama culturale persino Montesquieu, io sono bandito come i partigiani. Il progressismo di Marchionne lo lascio agli analfabeti travestiti da storici, ai ladri di cattedre, ai mercanti di carriere, a chi ha moltiplicato i posti del ruolo ordinario nelle università come fossero pani e pesci. Ladri travestiti da intellettuali, miserabili, che ci fanno la morale con la destra, mentre con la sinistra riscuotono la paga dai padroni sfruttatori. 
Io sono sovversivo perché non c’è altro modo che la violenza dichiarata e di massa per mettere al muro i responsabili della tragedia di un’intera generazione. A me le parole non fanno paura: se il progressismo è quello di Cesare, io sono Bruto; se il progressismo è quello delle brioches di Maria Antonietta, io ricorro alla ghigliottina; se il progressismo si nutre dei valori della Belle Epoque, prepara una guerra feroce e si ritiene al sicuro, arroccato com’è nel Palazzo d’Inverno, io sono così conservatore, che mi schiero con i giacobini e i bolscevichi e sono deciso a diroccare la Bastiglia e a portare il ferro e il fuoco negli stucchi e negli ori di Pietroburgo. Io odio la violenza, ma non accetto di subirla inerte. Perciò oggi sono orgogliosamente conservatore. Conservo il mio diritto alla legittima difesa.

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Radio Libertà Barcellona 15 novembre 201415 novembre 2014, Centre Civic Cotxeres Borrell, Carrer de Viladomat, 2, Barcellona, messo a disposizione dal “Memorial Demoratic”. Una foto che porterò nel cuore per quel tanto che ancora mi resta da vivere: i ringraziamenti finali al termine di “Radio Libertà“. Giuseppe Aragno e Sylvia Guzman, figlia di Ada Grossi. sono tra gli splendidi protagonisti Alfredo Giraldi e Luana Martucci, che ha in braccio il piccolo figlio, il biondissimo Matteo. Non sono sul palcoscenico, ma meritavano certamente di esserci, Pasquale Napolitano e soprattutto Ida Mauro di AltraItalia, che ha messo l’anima perché l’iniziativa fosse realizzata e riuscisse bene. L’aveva annunciata il 14 novembre un’intervista a “Zibaldone” di “Radio Contrabanda“, affacciata sulla splendida Plaça Reial, e una presentazione di “Antifascismo e potere. Storia di storie“, il libro da cui è tratto “Radio Libertà”, con Steven Forti alla libreria Italiana “Le Nuvole“, in Carrer de Sant Lluis, 11.
Questa non è solo la foto conclusiva di un lavoro teatrale degno della nostra migliore tradizione. E’ il momento in cui una pattuglia di antifascisti napoletani, tragici eroi dimenticati dal loro Paese, dopo aver combattuto il fascismo durante la guerra di Spagna, trascorsi molto più di settanta anni, sono finalmente tornati nella “loro” Barcellona. Era giusto così.
Per una volta la storia non l’hanno scritta i vincitori.

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10383667_558846140881831_5447857145697321312_nNon smetterò mai di esser grato agli amici della comunità italiana di Barcellona, che mi hanno invitato.

Venerdì 14 novembre ore 20.30
Libreria italiana Le Nuvole

Carrer de Sant Lluis, 11, 08012 Barcellona (Metro Fontana o Joanic)
Incontro con lo storico Giuseppe Aragno e presentazione del suo libro
Antifascismo e potere: Storia di storie” (Bastogi edizioni)
Giuseppe Aragno dà voce a otto antifascisti italiani che lottarono contro i sistemi repressivi del regime; tra loro, Renato Grossi difese con la sua famiglia la Repubblica nella Guerra Civile.

L’incontro apre le iniziative della Setmana d’Altramemoria (14-21 novembre), organizzata dall’Associació AltraItalia – Barcelona.

A cura di Ida Mauro e Steven Forti

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“Il giorno dopo” – scrive l’ottimo Alfredo Giraldi – “ci sarà lo spettacolo Radio Libertà, che ha preso vita grazie all’incontro con lui, Giuseppe Aragno, un uomo perbene, intellettuale vero e intransigente, una persona straordinaria. Dalle sue pagine ho attinto la storia che racconteremo nel pomeriggio di sabato a Barcellona.Sabato 15 novembre il nostro spettacolo Radio Libertà varcherà i confini e giungerà in Spagna, a Barcellona, dove andrà in scena alle ore 18.00 nel teatro del centro civico Cotxeres Borrell, per la Setmana d’Altramemòria“…

Alfredo è molto generoso con me, io invece mi limito a dire solo la verità: lui e Luana Martucci toccano corde alte e sanno incantare. Quando infine si inchineranno per salutare il pubblico alla maniera degli eterni scavalcamontange, sarà come ascoltare l’invito degli antichi teatranti: “la commedia è finita. se vi è piaciuta applaudite“… e il gli applausi convinti romperanno il silenzio commosso.

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10169190_792592114140197_2326726142420761491_nA suo modo, Alessandto Mlòn ha ragione: Napoli Monnezza esiste. E’ l’alter ego dei paranoici, il lucido delirio d’un bene malato che si dichiara vittima d’un male che s’è inventato. Napoli Monnezza esiste soprattutto nella coscienza sporca dei monnezzari, quelli che, col rispetto dovuto agli operatori ecologici, senza monnezza non sanno come riempire la mangiatoia.
Napoli Monnezza è il napoletano Liborio Romano che recluta la camorra, ma il monnezzaro è genovese, porta la camicia rossa e di mestiere fa “l’eroe dei due mondi”: si chiama Garibaldi e riempie l’enorme carrozzone burlesque della polizia con la Napoli camorrista. Se uno non la dice questa cosa o fa finta di non saperla, la monnezza puzza di razzismo, sa di affare losco e si chiama malafede.
Mentre i napoletani garibaldini si fanno sparare gridando “viva l’Italia”, a Bronte il colonnello Nino Bixio, da buon monnezzaro genovese, fucila i contadini che ha imbrogliato e a Napoli i camorristi diventano polizia, così chi s’è visto s’è visto. Gioco di prestigio o colpo da campione, Napoli Monnezza è diventata subito l’Italia dei padroni e dei pennivendoli e la gente perbene, i lavoratori e i contadini, stanno peggio di prima. Al primo Bifulco che parla ci pensa la monnezza in divisa da carabiniere e guardia nazionale e se non basta, interviene un azzeccagaburgli prestato alla politica, Giuseppe Pica, uno come tanti, che scrive una legge subito approvata dai monnezzari di tutt’Italia e si fa un macello. Qualcuno protesta? E che ci vuole a farlo tacere? Si punta il dito, indignati: Gesù, ma che dici? Tu mò ti difendi persino i briganti?.
Il potere calato dal Nord non solo si mette maliziosamente d’accordo con Liborio Romano e manda da noi la Torino monnezza vestita da bersagliere, ma compra le penne d’ogni colore e va in scena la farsa: “la capitale del Mezzogiorno è una palla al piede per l’Italia!“. Mentre i monnezzari si fanno quattr’uova in un piatto, in galera ci vanno gli anarchici e i socialisti; liberi, invece, nei tribunali, nelle università, nei Parlamenti dei padroni, d’accordo con la monnezza napoletana e con tutte le monnezze nazionali e internazionali, con l’oro dello Stato borbonico e con le tasse della Napoli pulita, Garibaldi e compagni fanno la fortuna della peggiore monnezza che si sia mai vista a questo mondo: i padroni del Nord e gli agrari del Sud. Il monnezzaro lo sa: più si sporca le mani e più si arricchisce, perciò nella monnezza sciala. Poi, per salvare la faccia, dà la parola a quelli come Alessandro Mlòn e se la piglia con la monnezza che non si vuole ribellare. Mlòn lo sa bene, la colpa è dei monnezzari e di chi gli dà una mano ma nella monnezza sciala come loro.

Da secoli Napoli pulita combatte contro Napoli Monnezza, ma il monnezzaro non ha patria e non ha famiglia: è un figlio di buona donna o, come dicono a Napoli, è ‘nu figlio ‘e puttana. Si mette d’accordo con la monnezza, ci campa alla grande, però poi si lamenta e ci fa la morale. Nel ’99 Napoli pulita usava il bidet e faceva già la differenziata, ma i monnezzari inglesi, che senza la monnezza sparsa in giro per il mondo non potevano più fare affari per tutti i mari, si misero d’accordo con la monnezza napoletana e fecero fuori la città pulita, che s’era ribellata. Cirillo, Pagano, Fonseca, Russo, il fior fiore della cultura e della politica napoletana – il meglio che si potesse trovare nella penisola – finirono appesi per il collo. La monnezza sanfedista fece cose mai viste con l’appoggio dei monnezzari inglesi e col consenso di quelli francesi, che avevano tradito i rivoluzionari e se n’erano andati a fare i loro loschi affari con la monnezza di tutto il Continente Antico. Così la Napoli Monnezza tornò sul trono e divenne persino merce d’esportazione. Fu l’Italia Monnezza che combinò l’affare della Banca Romana e c’entravano, monnezzari in parti pari, il Nord e il Sud: Crispi e Giolitti. Pagò come sempre la povera gente.
Nel settembre del ’43, Napoli pulita cacciò a fucilate la monnezza napoletana e quella tedesca, ma gli americani, gli inglesi e i francesi, che con la città pulita affari sicuramente non ne avrebbero fatto, si presentarono con i monnezzari più esperti del globo terracqueo – Lucky Luciano, per fare un nome, quel nobiluomo del colonnello Poletti e chi più ne ha più ne metta – e la spuntò un’altra volta la monnezza. Quella locale e quella internazionale. A onor del vero, ci mise del suo anche qualche gran signore settentrionale e più di tutti si distinse una volta ancora un genovese, uno che monnezzaro non era, ma le cazzate le fanno pure quelli puliti e settentrionali. Dopo Pica, giunse Togliatti, che firmò una legge sul riciclo dei rifiuti politici e lasciò in eredità alla repubblica il fascismo e i fascisti: balle ecologiche che contenevano monnezza di provenienza soprattutto centro-settentrionale, sia nella versione pulita di Volpi di Misurata e di Bottai, che in quella sporca di Balbo. La legge sull’epurazione sembrava fatta apposta per lasciare a galla monnezza e monnezzari, passati pari pari nell’Italia pulita, quella della Resistenza e di Napoli partigiana. Persino gli Agnelli, i Lauro e i Valletta.
Da allora, la città pulita continua a ribellarsi e a lottare, ma sono ormai molti anni che nella “terra dei fuochi” come in Val di Susa, i monnezzari – che com’è noto vivono di monnezza – hanno fatto fuori la legalità repubblicana. Napoli Monnezza non si spiega senza “Milano da bere”, l’eterna tangentopoli, l’inestricabile intreccio tra politica e malaffare, senza i monnezzari che oggi come ieri fanno affari con la malavita organizzata e con le mafie istituzionali: mazzette, voto di scambio, irregolarità elettorali piemontesi, ripetute tragedie genovesi. Non c’è parte d’Italia che non sia Napoli Monnezza e non c’è monnezza che non abbia i suoi monnezzari: giornalisti – ‘e cecate ‘e Caravaggio – magistrati, gente in divisa, che non non ha mai intercettato un carico di rifiuti tossici, monnezzari provocatori, monnezzari confidenti e monnezzari pennivendoli, che sparano addosso alla città pulita che non vuole ribellarsi. Gente che gioca con le parole, ma è un gioco sporco, una monnezza di gioco. Il gioco del monnezzaro che piace da morire a scribacchini e velinari.

Ps: non pubblicherò repliche e tratterò come spam commenti che a riterrò inaccettabili come l’articolo di Alessandro Mlòn.

Uscito su Agoravox il 12 novembre 2014

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Leggo stupito: “Normalizzare Napoli e la Campania. Napolitano e Renzi d’accordo. Ranieri a Palazzo San Giacomo”.
Per me è un mistero. Com’è possibile trovare normale che due personalità evidentemente anomale – e quindi decisamente anormali – intendano normalizzare una città normale? Sarebbe più normale normalizzare gli anormali. Normalizziamo Renzi e Napolitano!

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