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Posts Tagged ‘Napolitano’


Ieri Mattarella ha ribadito ufficialmente la sua posizione sul tragico conflitto che ci vede protagonisti nel ruolo incostituzionale di cobelligeranti. Ha reso così ancora più fitta l’ombra che avvolge il suo ruolo di garante della Costituzione da quando, dopo sette anni di presidenza, ha accettato la rielezione. Un’ombra fitta e profonda, perché, da giurista qual è, per ragioni di costituzionalità, aveva più vole e giustamente rifiutato di tornare al Quirinale.
Con quest’ombra che ne appanna la figura, ieri ha sostenuto la legittimità del nostro intervento in una guerra scoppiata per controversie internazionali. Ha fatto, cioè, il contrario di quanto gli ordina quella Costituzione di cui dovrebbe essere garante. Invece di assumere il ruolo neutro di pacificatore, ha ospitato, infatti, i diplomatici di un Paese in guerra e ha sbattuto la porta in faccia a quelli che stanno dall’altra parte.
Poteva utilizzare un criterio unico – tutti o nessuno – ha scelto invece una parte, si è schierato e da bravo cobelligerante ha dettato le condizioni: la guerra finirà solo quanto tutto tornerà com’era prima che scoppiasse. Costi quel che costi, anche un conflitto nucleare. Non una mediazione, quindi, non un intervento per la pace e l’invito a una trattativa, ma un vero e proprio ultimatum.
Il nostro Parlamento, intanto, che nel suo insieme, è molto preoccupato per la sorte della sedicente democrazia ucraina, si disinteressa completamente di ciò che accade alla nostra Repubblica. Così stando le cose, oggi non si fa festa per la Repubblica, ma si prende atto che ormai da anni i nostri bipresidenti, Napolitano e Mattarella, hanno “fatto la festa” alla Repubblica e alla sua Costituzione democratica e antifascista, fondata sul ripudio della guerra come soluzione delle controversie internazionali.

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Si era detto che era l’uomo giusto nel momento giusto. Era vero e ricordo gli inchini e le riverenze, i salamelecchi, le apologie e i capolavori di artisti del contorsionismo. Si sono scritte pagine evangeliche su stupefacenti passeggiate sulle acque e quotidiane moltiplicazioni dei pani e dei pesci.
L’uomo al posto giusto nel momento giusto. Certo. Si era dimenticato però un dettaglio: qual era il posto giusto? Quello da cui è più facile fucilare nella schiena ciò che sopravvive della democrazia dopo la cura di Napolitano e l’incuria di Mattarella.
La guerra ci ha mostrato l’uomo per quello che è: il pericoloso tamburino dei guerrafondai.
Fatevi avanti, leccapiedi, servi sciocchi e pennivendoli da cabaret.
Quella che avete chiamato “Resistenza” dei nazisti, conduce i democratici alla lotta. Mirate a far cadere Putin per mano di qualche movimento prezzolato e non sentite il terremoto che avete sotto i piedi.
Ancora un po’, poi capirete cos’è stata davvero la Resistenza e pagherete la vostra ferocia per mano del popolo italiano che intendete massacrare.

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84189341_653954322079684_4444624954687750144_nInsistere troppo sul rischio di una sventura non è mai un’idea geniale. A dar retta a chi vive di superstizioni, il male evocato può svegliarsi davvero. Da mesi si insiste su un pressante allarme per una fantomatica, salviniana e fascista “onda nera” e l’onda alla fine si è materializzata. Un’onda fascista? No. E’ un nauseante  fiume di fango puzzolente che si è improvvisamente abbattuto sul Collegio 7 di Napoli, dov’è in corso la campagna elettorale per le elezioni suppletive di un un senatore. I fascisti naturalmente non c’entrano niente. Il protagonista della sconcertante vicenda, che sta rendendo l’aria irrespirabile è – guarda caso – il paladino della democrazia che ha lanciato l’allarme, quel Sandro Ruotolo che la stampa padronale va presentando come “Santo Ruotolo martire”,  pronto a fare miracoli per la sventurata città di San Gennaro.
Le cose stanno così e sono davvero scandalose.
Avevo proposto un #ConfrontoDemocratico tra noi candidati nell’interesse delle napoletane e dei napoletani.
Ho ricevuto il rifiuto inaspettato di #Ruotolo.

Una scelta, a mio avviso, profondamente sbagliata, ma l’accetto.

Quello che invece non posso accettare è che uno dei principali media nazionali decida in maniera assolutamente arbitraria la quantità di spazio di cui ogni candidato ha diritto.
Quattro candidati su cinque avevano accettato di partecipare al confronto di un‘ora proposto da Repubblica Napoli per il prossimo Lunedì sera, con tempi e modalità prefissate.
Perché si è deciso di concedere un monologo di 45 minuti all’unico candidato che si era sfilato dal confronto?
Non credo che se io avessi rinunciato al confronto, sarei stato trattato alla stessa maniera.

Non lo posso accettare perchè questo modo di operare mette a rischio la partecipazione e la giusta informazione dei cittadini e delle cittadine.

Faccio appello a chi crede nella democrazia perché chieda a gran voce uguali spazi per tutti i candidati alle #Suppletive2020.

  

Qui il comunicato stampa congiunto:

 

ARAGNO, GUANGI, GUARINO E NAPOLITANO: “Ruotolo rifiuta confronto. Chiediamo gli stessi spazi per tutti i candidati e un confronto democratico”

“Dopo avere visto in diretta sul sito di Repubblica l’intervista a Sandro Ruotolo, ringraziamo la redazione di Repubblica Napoli Tv per l’invito di una diretta di confronto tra i candidati, ma decliniamo.
Non abbiamo intenzione di partecipare a un confronto politico sui temi delle elezioni suppletive del Senato previste per il 23 febbraio prossimo che non vedrà tutti i candidati presenti, soprattutto quando all’unico candidato che ha declinato il confronto democratico viene concesso uno spazio esclusivo di più di mezz’ora.

Lo declineremo finché non si organizzerà tale confronto tra tutti e cinque i candidati, con regole precise e stesse condizioni, oppure finché non venga concesso lo stesso spazio anche agli altri candidati.
È questione di democrazia.

Resta il nostro disappunto per la scelta di volere ospitare Sandro Ruotolo da solo, cioè senza contraddittorio politico, quando era già previsto il confronto per la prossima settimana.”. Lo affermano i candidati alle elezioni suppletive campane per il Senato della Repubblica previste per il 23 febbraio prossimo Giuseppe Aragno, Salvatore Guangi, Riccardo Guarino e Luigi Napolitano.

Napoli, 14 febbraio 2020

 

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ED-img13549102-990x716Dopo la decisione aberrante di Mattarella, sui social si è scatenata la caccia al… precedente. Naturalmente sono casi che non hanno nulla da spartire con quello attuale. E’ necessario perciò essere precisi.

Nel 1979 Pertini chiese di dare a Darida il ruolo di sottosegretario agli Interni, invece di quello di Ministro. Darida è stato successivamente ministro dal 1980 al 1987.
Previti era l’avvocato di Berlusconi e ,come Ministro della Giustizia creava un evidente conflitto di interessi. Passò alla Difesa.
Maroni, che è stato comunque Ministro degli Interni, fu “sconsigliato”, perché era stato condannato per oltraggio a Pubblico Ufficiale.
La vicenda Gratteri non è stata mai chiarita e molto probabilmente è una favola. In ogni caso Napolitano non fa testo. E’ stato il peggior Presidente della repubblica. Se non ci credete, leggete la lettera che scrisse Luigi De Magistris, quando lasciò la Magistratura. Ora naturalmente Mattarella lo ha superato.

L’articolo 92 della Costituzione non sancisce alcun diritto di veto del Presidente della Repubblica soprattutto se le motivazioni sono quelle addotte da Mattarella: le “preoccupazioni del mercato”.

Agoravox, 28 maggio 2018

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AlfanoImmaginiamo un ministro, uno vero naturalmente, non un «figlioccio» di Napolitano, un servo sciocco di Draghi o un ragioniere del Fondo Monetario; uno che rappresenti un governo sostenuto dalla fiducia di un Parlamento legalmente eletto. Lo so, un ministro così non ce l’abbiamo da quasi dieci anni, però mettiamoci un po’ di fantasia, fingiamo che prender posto a uno di quei tavoli di Bruxelles così grandi, che Piazza San Pietro pare una piazzetta. Non è una bella compagnia, ma è là che deve accomodarsi, tra un mezzo mariuolo lussemburghese, un francese costruito in provetta, i fascisti venuti dall’Est e gli «onesti» tedeschi targati Volkswagen. Immaginiamo che intervenga, dopo due o tre mezze cartucce e godiamoci la festa.
Più parla, il «ministro normale», e più Piazza San Pietro diventa un mare un tempesta: l’imbroglione lussemburghese, la provetta francese, i fasci magiari e i motori tedeschi truccati drizzano le antenne. Più furiosa di tutti è la Merkel, devastata da un insolito tic. Più il «ministro vero» va avanti, più la palpebra destra le si stringe verso il basso, fa l’occhiolino all’angolo sinistro della bocca, che, per suo conto, pulsa a più non posso e coinvolge tutto il viso contratto.
«Noi italiani – le soffia all’orecchio irrequieto il traduttore istantaneo – abbiamo rispetto di una Germania che pare abbia infine capito il valore della democrazia, ma non abbiamo dimenticato ciò che i tedeschi hanno combinato ottant’anni fa e siamo stati molto sfavorevolmente impressionati dal contegno adottato con la Grecia. Vogliamo esser franchi: non è stato certo per consentirvi questi riprovevoli ritorni di fiamma che il nostro Spinelli le ha preparato la poltrona su cui lei siede qui con i suoi colleghi, nonostante l’olocausto, signora Merkel».
Il tic assume a questo punto ritmi forsennati, ma il ministro italiano prosegue senza incertezze. «Noi conosciamo bene, l’abbiamo attentamente studiata la sua Costituzione e ci conforta l’idea che abbiate inserito al suo interno un giusto monito: se qualcuno intendesse violarla, la difenderete in tutti i modi e con ogni mezzo. Poiché crediamo che questa decisione ci accomuni, non ci pare nemmeno il caso di ribadirlo: gli italiani hanno un sacro rispetto per i principi espressi dalla loro Costituzione. Quella che state prendendo oggi qui», prosegue, «è una decisione che potrà anche passare nonostante la nostra assoluta contrarietà, ma la vostra scelta non potrà modificare la nostra ed è bene sappiate che in Italia non potrà avere alcun effetto concreto. Non sarà mai attuata. Noi siamo certi, del resto, che voi capirete e concorderete: non ci lasciate scelta».
Nemmeno chi conosce il gelo dei poli può immaginare l’effetto di quelle parole piombate, inattese e improvvise sull’immenso tavolo.
«Noi non mettiamo in discussione l’euro, non minacciamo uscite e non diventiamo antieuropeisti dopo aver insegnato per decenni a tutti voi il significato di Europa unita. Più semplicemente chiediamo se c’è tra i presenti chi, in buona fede, possa sostenere che dalle sue parti il governo può legittimamente imporre una norma contraria allo spirito e alla lettera della Costituzione. Da noi non funziona così e perciò non sottoscriviamo decisioni europee contrarie alla legge fondamentale del nostro Paese. Da noi non c’è norma ordinaria che abbia più valore di quelle costituzionali e questo principio vale anche per ciò che si decide qua, in un organismo multinazionale che non ha saputo o voluto darsi una Costituzione approvata dai popoli. Se qualcuno tra voi pensa che questo sia un problema di poco conto, commette un errore molto grave. Questa questione non avrà soluzione, finché non sarà affrontata con spirito europeista. Se la Germania ha tanto a cuore la Costituzione, ci aspettiamo che non solo sia d’accordo, ma si faccia promotrice di una radicale trasformazione di questa ormai malaticcia Unione. Se lo farà, avrà la piena collaborazione dell’Italia. E’ giunto il tempo che l’Europa si dia una Costituzione votata e approvata dai popoli che ne fanno parte. Senza l’Italia questa Unione non sarebbe mai nata. Oggi è l’Italia a dirvelo; se non vuole morire, l’Unione deve ripartire da dove abbiamo iniziato. Deve ripristinare un principio fondamentale: il primato della politica sull’economia».
Quando manderemo a casa Gentiloni, Minniti Alfano e compagnia cantante, questo discorso non sembrerà più fantapolitica.

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rossoni“Vi racconto cos’è un fascista, anche oggi”, scrive il grande amico di Napolitano e s’avventura in una lucida e puntigliosa critica a quanti, con troppa superficialità sottovalutano la crescente, “abominevole sensualità” presente “nel nazionalismo, nel sovranismo, nel razzismo, nell’antiparlamentarismo, tutte cose alle quali i popoli soccombono nel modo più penoso”.
Gli farei un applauso se non ricordassi bene che nel luglio di sei anni fa, quando il sindacato si inchinò senza nemmeno tentare la lotta alle regole imposte da Marchionne, la mia denuncia del fascismo che avanzava nella nostra società, pubblicata sul Manifesto, fu bollata proprio da Macaluso come “chiacchiere da bar”. Naturalmente sono lieto che finalmente egli scopra che da anni il fascismo sta rimettendo radici nel nostro Paese, nell’inerzia di una sinistra distratta o complice. Sei anni non sono molti, ma sono bastati purtroppo a condurci alla situazione in cui siamo. Quando si poteva fare molto, Macaluso non fece niente, oggi che siamo praticamente spalle al muro, il vecchio “migliorista” suona l’allarme. Perché meravigliarsi? Macaluso ha sempre strenuamente difeso Giorgio Napolitano, uno dei principali protagonisti della crisi della nostra democrazia.
Ecco il mio articolo, non così lontano da essere oggi illeggibile.

 

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images (1)Proviamo a immaginare un ministro, uno vero naturalmente, non un “figlioccio” di Napolitano e nemmeno il servo sciocco di Draghi o un ragioniere del Fondo Monetario; uno che rappresenti un governo nato dal voto di fiducia di un Parlamento legalmente eletto.
Lo so, un ministro così non ce l’abbiamo da quasi dieci anni, però mettiamoci un poco di fantasia, lasciamolo prender posto a un di quei tavoli così grandi, che Piazza San Pietro pare un angiporto in fondo a un vicolo dell’antica Pompei. Non è una bella compagnia, ma è là che deve sederdi, tra un mariuolo lussemburghese, un francese costruito in provetta, i nazifascisti dell’Est e gli “onesti tedeschi” targati Volkswagen. Immaginiamo che parli, dopo due o tre usurai e godiamoci la festa.
Più va avanti, il “ministro normale”, e più Piazza San Pietro diventa un mare in tempesta; l’imbroglione lussemburghese, la provetta francese, i fasci magiari e i motori tedeschi truccati drizzano le antenne e più furiosa di tutti è la Merkel, devastata da un insolito tic, con la palpebra destra che si stringe  verso il basso, fa l’occhiolino all’angolo sinistro della bocca, che per suo conto, pulsa a più non posso e coinvolge il viso contratto.
“Noi, le soffia all’orecchio irrequieto il traduttore istantaneo, abbiamo rispetto di una Germania che sembra infine capire il valore della democrazia, ma non abbiamo dimenticato ciò che i tedeschi hanno combinato settant’anni fa e siamo stati molto sfavorevolmente impressionati dal contegno adottato con la Grecia. Vogliamo esser franchi: non è stato certo per consentirvi questi riprovevoli ritorni di fiamma, che il nostro Spinelli le ha preparato la poltrona su cui siede qui con i suoi colleghi, signora Merkel”.
Il tic assume a questo punto ritmi forsennati, ma il ministro italiano prosegue senza incertezze. “Noi conosciamo bene, l’abbiamo attentamente studiata la sua Costituzione e ci conforta l’idea che abbiate inserito al suo interno un giusto monito: se qualcuno intendesse violarla, la difenderete in tutti i modi e con ogni mezzo. Poiché crediamo che questa decisione accomuni tutti i colleghi presenti rispetto alle loro Costituzioni, non ci pare nemmeno il caso di ribadirlo: gli italiani hanno un sacro rispetto per i principi espressi dalla loro Costituzione. Quella che state prendendo qui oggi, colleghi”, prosegue il ministro “normale”, “è una decisione che passerà nonostante la nostra assoluta contrarietà, ma la vostra scelta non potrà modificare la nostra ed è bene sappiate che in Italia essa non potrà avere alcun effetto concreto. Non sarà mai attuata. Noi siamo certi che voi capirete e concorderete: non ci lasciate scelta”.
Nemmeno chi conosce il gelo dei poli può immaginare l’effetto di quelle parole, piombate inattese e improvvise su Piazza San Pietro.
“Noi non mettiamo in discussione l’Euro, non minacciamo uscite e non diventiamo antieuropeisti dopo aver insegnato per decenni a tutti voi il significato di Europa unita. Più semplicemente chiediamo se c’è tra i presenti chi in buona fede possa sostenere che dalle sue parti il governo può legittimamente imporre una norma contraria allo spirito e alla lettera della Costituzione. Da noi non funziona così e perciò non sottoscriviamo decisioni europee contrarie alla legge fondamentale del nostro Paese. Da noi non c’è legge ordinaria che abbia più valore di quelle costituzionali e questo principio vale anche per ciò che si decide qua, in un organismo multinazionale che non ha saputo o voluto darsi una Costituzione approvata dai popoli. Se qualcuno tra voi pensa che questo sia un problema di poco conto, commette un errore molto grave. Questa questione non avrà soluzione, finché non sarà affrontata con spirito europeista. Se la Germania ha tanto a cuore la sua Costituzione, ci aspettiamo che rispetti la nostra e non solo sia d’accordo, ma si faccia promotrice di una radicale trasformazione di questa ormai malaticcia Unione. Se lo farà, avrà la piena collaborazione dell’Italia. E’ giunto il tempo che l’Europa si dia una Costituzione votata e approvata dai popoli che ne fanno parte. Senza l’Italia, questa Unione non sarebbe mai nata. Oggi è l’Italia a dirvelo; se non vuole morire, l’Unione deve ripartire da dove abbiamo iniziato. Deve ripristinare un principio fondamentale: il primato della sovranità popolare o, se preferite, degli intessei pubblici, sociali e collettivi su quelli individuali e privati”.
Quando avremo un ministro normale, questo discorso non sarà fantapolitica.

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giulio_cesareOgnuno ha la sua storia. Quella di un personaggio come Bruto, apparentemente lontano da noi, parla alle nostre coscienze di uomini del terzo millennio, soprattutto attraverso il momento chiave della sua vicenda personale. Una vicenda, che, tuttavia, riguarda l’intera umanità: il colpo delle Idi di marzo del 44 A.C., vibrato in Senato a Cesare, l’amato padre adottivo e l’odiato dittatore. Un evento così emblematico e per molti versi così attuale, che oggi, rivolgendosi a chi ha tradito la fiducia accordata, c’è chi con amaro stupore ricorda quel colpo e punta il dito – «Tu quoque Brute, fili mi» – e chi lo cita invece come testimonianza estrema di fede repubblicana. Basta poco a capirlo: sono i fatti compiuti a dire di noi chi siamo e in che tempo viviamo.
In questo senso, eloquente, per molti versi angosciante ma rivelatore è quanto racconta il caso recente di Pasquale Ciccolo, Procuratore Generale della Cassazione, che Renzi ha incluso in un suo decreto per supertoghe, tenendolo in servizio nonostante i raggiunti limiti di età. Un caso in cui per una volta ancora fedeltà e libertà si ritrovano assieme in un contrasto sordo ma rivelatore. Per capire com’è che a Ciccolo è toccato un privilegio ad altri negato, occorre esaminare la sua storia. E’ lì che si può trovare la chiave di lettura di ciò che è accaduto. I fatti, però, sono per loro natura muti e occorrono domande. Proviamo a interrogarli allora e vediamo che risposte ci danno.
Se nel 2007 Ciccolo non avesse scelto di colpire l’allora Pubblico Ministero Luigi De Magistris, impegnato in alcune inchieste che erano diventate fumo negli occhi per l’allora ministro Mastella e coinvolgevano il Presidente del Consiglio, Romano Prodi, Renzi, si sarebbe mai occupato di lui? Non l’avrebbe mai fatto e non si dica che Renzi non c’entrava nulla. Ci è entrato Napolitano, che di Renzi è stato a lungo il padre padrino e padrone. Quale peso hanno avuto, poi, sulla scelta di inserire Ciccolo nella pattuglia privilegiata dei “prorogati” i crediti acquisiti con il tentativo di interferire nella vicenda Mancino nel 2012? Non fu allora che Napolitano divenne il protagonista negativo della scottante indagine sui rapporti tra Stato e Mafia e Ciccolo provò a far cambiare indirizzo al titolare dell’inchiesta? La buona sorte del Procuratore Generale, infine, dimostra che la politica può scegliersi ormai impunemente i suoi giudici?
Fino a poco tempo fa, queste angoscianti domande non avrebbero avuto risposte certe, poi il sospetto è diventato purtroppo un amaro dato di fatto. C’è voluto il caso Woodcock e per capirlo bene, basta seguire nell’ordine la successione degli eventi. Come un fulmine a ciel sereno, tempo fa Woodcock scoperchia un pentolone puzzolente dal quale salta fuori il padre di Renzi. E’ il primo atto di una rappresentazione sempre più comune nella vita del Paese. Solo due giorni fa, per l’ennesima questione di banche, è toccato alla Boschi balzare in cima alla classifica degli scandali politici. E’ stato il sempre misurato e prudente Ferruccio De Bortoli a chiamarla in causa per un ripugnante intreccio tra ruolo pubblico e interesse privato. In quanto a Woodcock la sua inchiesta ha visto naturalmente Matteo Renzi nella bufera, alle prese con l’ennesimo scandalo e con il rischio concreto di esserne travolto. A questo punto della vicenda, guarda caso, è entrato nuovamente in scena il Procuratore Ciccolo, che, recitando la parte di un copione ormai imparata a memoria, non ci ha pensato due volte e ha messo sotto accusa il Pubblico Ministero Woodcock, per un’intervista mai concessa che – incredibile a dirsi – avrebbe turbato l’andamento delle indagini sulla fosca vicenda dei due Renzi.

Piaccia o no, il pugnale di Bruto ebbe a sua nobile discolpa un senso di lealtà verso i valori della Repubblica e un così forte bisogno di libertà, che alle coscienze libere, in ogni epoca della storia, quel colpo propone il tema angosciante e irrisolto del tirannicidio. In questa sorta di autunno della storia che ci tocca vivere, però, non solo è diventato impossibile tenere assieme Popolo e Senato, Governo e Governati, Legalità e Giustizia, ma Bruto si è fatto tiranno e liberticida è diventato il suo colpo di pugnale. Un colpo che va nella direzione uguale e contraria a quello degli antichi congiurati. E’ paradossale ma vero: si tratta ancora e sempre di libertà, ma mentre Bruto e Cassio intesero difenderla, oggi la si vuole ammazzare. Nella notte della repubblica in cui da tempo viviamo, la fedeltà al potere che ti ripaga conta ormai molto più della lealtà verso le Istituzioni. Dove non passarono il principe Borghese, il generale De Lorenzo, le bombe e le stragi, passano senza colpo ferire l’opportunismo e una inarrestabile crisi di valori. Accade così quando un Paese non forma coscienze critiche, ma riduce la scuola a una fabbrica du bestiame votante.
In fondo, il Procuratore Ciccolo è il miglior Bruto possibile in un tempo come il nostro.

Coordinamento DemAFuoriregistro, 13 maggio 2017; Ultima Voce, 14 maggio 2017

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visita-guidata-pedamentina-san-martino-640x400.jpgEsiste un elemento decisivo per la sorte di un progetto politico di svolta e rinnovamento: la sua necessità storica. O ha risposte da dare alle domande pressanti che non trovano ascolto nei partiti e nei movimenti presenti sulla scena – e si afferma perciò come motore di un cambiamento storicamente necessario – o un movimento politico è destinato al naufragio. Nella Francia dell’89, i club in cui si raccolsero gli uomini della rivoluzione rispondevano a un problema storico ineludibile: la necessità che le redini del potere politico passassero dalle mani ormai inadeguate dell’aristocrazia parassitaria a quelle delle classi sociali che producevano la ricchezza sperperata dalla nobiltà. Quando i parigini incendiarono la Bastiglia, i ceti popolari – il proletariato e le diverse componenti della borghesia – erano il cuore pulsante della vita economica e sociale del Paese, ma non avevano accesso alle leve del potere politico, perché lo Stato era modellato sugli interessi di un’aristocrazia che aveva esaurito la sua funzione storica. E’ sempre così nei momenti di svolta. Si dice solitamente che l’Impero di Roma cadde per l’urto dei barbari, ma molto prima che ciò accadesse il “civis romanus”, un tempo orgoglioso baluardo della “res pubblica”, oppresso dal fisco e nauseato dalla corruttela, varcava il sacro “limes” e si stabiliva presso i barbari, dov’era più libero e meno angariato. Si potrebbero citare mille esempi, anzitutto la rivoluzione d’ottobre, ma questa è una riflessione politica e guarda alla storia solo perché essa suscita domande, sollecita risposte e aiuta a definire un percorso.

Nessuno si stupirà se dopo una premessa rivolta a eventi di immensa portata storica, giungono domande su una realtà apparentemente locale, come quella napoletana. Poiché le “piccole storie” ci aiutano spesso a capire la “grande storia”, Napoli può dirci se e fino a che punto esiste una necessità storica che giustifichi la nascita di un nuovo movimento politico. L’esperienza partenopea di questi anni, per cominciare, è compatibile con il quadro nazionale e internazionale nel quale si è realizzata, o siamo di fronte a realtà radicalmente alternative? Non è una domanda banale e non è la sola che ci pongono alcuni dati di fatto. Dopo la seconda affermazione elettorale di De Magistris, del suo “progetto di governo”, del personale politico che è stato in gran parte riconfermato, dopo il tracollo napoletano dell’intero schieramento politico nazionale, si può ancora parlare di isolamento e populismo? Di fronte all’innegabile maturazione di gruppi militanti e attivisti, alla loro scelta di autonomia spesso critica, ma dialettica e costruttiva, si può ancora parlare di una “narrazione” priva di fondamento? Se i dati formali e gli slogan elettorali si sono “riempiti” di scelte, di contenuti e di significati innovativi, la cosiddetta “città ribelle” è un’invenzione propagandistica? E’ propaganda, anche quando esistono ormai dei fatti e una storia con cui fare i conti? Anche quando essa fonda su un coagulo di principi, su una sia pur iniziale “teoria”  e una pratica ad essa legata, che spiegano il risultato e danno senso alla ostinata richiesta di autonomia che viene da più parti, da più territori e da classi sociali diverse tra loro?

Forse non è così, forse non è “narrazione” e non si tratta di slogan. Forse il consenso è dovuto alle prime risposte politiche date alla ostinata, incalzante richiesta di discontinuità, di rottura con quanto è accaduto e accade al livello romano nell’Italia di Monti, Letta, Renzi e Gentiloni. Una richiesta che viene dal basso e ha un peso fortissimo perché nasce da una necessità storica: uscire da una crisi economica che è crisi di sistema. L’esperienza napoletana esiste e ha vinto le sue prime battaglie perché ha dato le prime, sia pur parziali risposte a questa domanda e perciò non potrà convivere con l’Italia “romana” che l’assedia. Potrà vivere e affermarsi solo se non si adatterà alla convivenza, se lavorerà per costruire un sistema alternativo, se sarà il motore di un cambiamento reale e non solo locale, se impedirà che tutto resti com’è, e vorrà dare il colpo di grazia al passato che non intende morire.

Tuttavia, poiché nulla è più pericoloso delle speranze suscitate e deluse, un problema esiste: così com’è, il movimento che si organizza è di per sé proposta alternativa che risponde in pieno alla necessità storica della rottura del pensiero unico e delle strutture politiche che esso ha messo in campo, o ha bisogno di attrezzarsi? E’ questo il nodo politico da affrontare, senza badare troppo ai tentativi di banalizzazione – il populismo alla Masaniello – e senza voler replicare alla ridicola criminalizzazione – il sindaco dei sovversivi nella città di camorra. Quello che conta è ben altro. Conta cercare un modello organizzativo, che non sia scelta tecnica, ma politica, costruire un contenitore e metterci dentro contenuti all’altezza della sfida.

In questo senso, l’esperienza fin qui accumulata può essere preziosa, perché suggerisce in via diretta le domande cui dare risposte. I vincoli di bilancio, per esempio, con cui si scontra quotidianamente e sistematicamente l’Amministrazione, sono semplicemente un problema locale, l’esito fatale del presunto isolamento di Napoli, o, viceversa, la prova che l’Unione Europea e i vassalli e valvassori che governano per conto di Draghi e soci le provincie dell’Impero, costituiscono il nodo concreto da sciogliere, il terreno di scontro su cui si decide il futuro? Se, come pare evidente, l’Unione Europea è lo scudo del passato e dei privilegi di classe, se è la conservazione dell’esistente e ad un tempo la reazione al cambiamento, allora un movimento politico che nasce e si organizza per cambiare l’esistente, ha bisogno di definire le sue scelte sulle grandi questioni di questo tempo buio. Non basta dire che si è antiliberisti. Occorre che questa parola diventi una scelta di campo rispetto all’Europa così com’è; occorre che la Costituzione, levata come bandiera, significhi strumento di ribellione attorno a un principio: non è il bilancio che pesa sullo stato sociale, ma lo stato sociale che decide del bilancio.

Questa affermazione di principio, nucleo di una teoria e allo stesso sangue e carne della Costituzione, chiede di essere definita in una linea politica. Un movimento che ha l’ambizione di essere nuovo e radicalmente alternativo, ma orienta l’ago della sua bussola verso la Costituzione del 1948 potrebbe apparire contraddittorio, se non rispondesse a una necessità e non si inserisse in un contesto che si intende cambiare. Si può avere perciò come guida la Costituzione e poi lasciare che essa viva con la ferita profonda del Trattato sulla stabilità e la governance nell’unione economica e monetaria, meglio conosciuto come “fiscal compact”? Probabilmente non c’è speranza di cambiare i trattati, ma fingiamo di crederlo possibile. Nel frattempo che si fa? Si lascia che essi dissanguino la povera gente, rendano impossibile la battaglia politica, screditando chi amministra, o si sceglie l’obiettivo programmatico immediato del ritorno alla Costituzione e alla sua totale incompatibilità con l’obbligo del perseguimento del pareggio di bilancio? Non è forse quest’obbligo che strangola la “città ribelle”, strangola il Sud e tutti Sud dell’Unione? E’ così, certo, ma non basta dirselo, occorre scriverlo e farne un obiettivo immediato e praticato, che cementi alla base il patto su cui si è costruita l’unità d’intenti con una base eterogenea, ma unita e compatta sulla battaglia del referendum. Diciamolo, quindi, ma scriviamolo e facciamolo. E’ questa una linea politica, su di essa si decidono alleanze e si produce una prassi: noi non accettiamo questa regola che impone una riduzione del rapporto fra debito pubblico e PIL, pari ogni anno a un ventesimo della parte eccedente il 60% del PIL. Non l’accettiamo perché non si concilia con i principi della nostra Costituzione e non sta in piedi nemmeno se si fa riferimento a Spinelli. Non lo facciamo, non per astratte velleità rivoluzionarie, ma perché dalla nostra c’è una sentenza chiarissima della Consulta – la n. 275 del 2016 – in cui si afferma a chiare lettere un principio che ci consegna un’arma: “È la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione”.

La ragione storica, anzi, la necessità storica per cui un movimento politico può e deve nascere, ha oggi le radici in un’antica scelta: quella tra socialismo e barbarie, perché oggi barbarie è sinonimo di Unione Europea. E’ il corso della storia che si ribella e ci chiede di scegliere tra l’Europa di Napolitano e quella di Calamandrei. Una scelta che impone di rovesciare la teoria e la pratica dei governi targati PD: non è l’equilibrio del bilancio a decidere del diritto alla salute e della libertà dei lavoratori, ma il contrario: é la garanzia dei diritti che impone al bilancio le spese e il rispetto dei lavoratori. Di questo, credo, si debba parlare, su questo prendere decisioni e fare scelte per costruire un movimento politico che intende governare e cambiare. Partendo da un punto: da Monti in poi, la Costituzione è stata stravolta. E’ vero che occorre applicarla, ma è necessario anzitutto restituirle ciò che le hanno tolto: la sua anima sociale. Quando l’avremo fatto, constateremo che è l’intero corpus normativo dell’UE che non si concilia con la nostra Costituzione.

 Agoravox, 24 aprile 2017, Fuoriregistro, 25 aprile 2017

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dscn4545Un occhio solo, ma non mi lamento: la cataratta è uno dei tanti regali della vecchiaia, però tutto cambia. A mia madre andò male e perse un occhio, a me un chirurgo, veloce come il lampo, ha risolto il problema in venti minuti. Luci di ogni colore, un traffico fastidioso nell’occhio violato, qualche comando secco – “guardi la lucetta!!” – poi, mentre pensi ai bambini dei reparti oncologici e ti chiedi che senso ha la vita, sei già in piedi. Bendato. Dopo una lista di attesa lunga quanto vuole la Regione del “governatore” De Luca, è il momento delle precauzioni noiose, dei colliri non “mutuabili” – chi non può comprarli che fa, perde l’occhio? – e di un farmaco in commercio da tre giorni, che non è facile trovare e puzza maledettamente di accordo tra medici e case farmaceutiche.
A casa, la televisione parla come sempre di Napolitano, uno che vivrà in eterno perché la morte non vuole averci a che fare, e mi domando chi sia davvero questo vecchio senza pudore, questo cumulo di privilegi incartapecoriti, questa montagna di quattrini e titoli ottenuti senza il sudore della fronte, la forza dell’intelletto e opere che abbiano dato lustro a una Repubblica che, in quasi settant’anni di Parlamento, ha premurosamente accompagnato al suicidio, prestando sia l’arma, che i colpi.
Così, con un occhio bendato, con la consapevolezza che Napolitano non lo troverai mai con te in una lista di attesa, la tenerezza per i nove anziani che hanno fatto come me i conti con le piccole e le grandi ingiustizie in cui affondiamo, mi sono sentito in pace con me stesso. Finché potrò, lotterò perché qualcosa cambi, farò le mie scelte, anche quelle inusuali e difficili, com’è accaduto e accade, negli ultimi tempi e riconoscerò, come ho sempre fatto, un solo, inappellabile giudice: la mia coscienza.

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