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Posts Tagged ‘Arturo Labriola’


Gli anni sconsigliano che mi riprometta futuri paragoni tra ultimo e penultimo sindaco di Napoli, ma mi stupisce che Manfredi scopra d’un tratto che De Magistris aveva ragione – non ci sono soldi – e mi  disgusta la rappresentazione consapevolmente falsa, che utilizza di fatto un principio nazista: una menzogna ostinata e spudoratamente ripetuta diventa verità.
Ce l’ho, se non si è capito, con i leccapiedi del nuovo Sindaco, che sputano veleno su Luigi de Magistris e sostengono che Napoli così ridotta non s’era mai vista. Ce l’ho col popolo dei “senzastoria”, di quelli che ignorano chi sono e da dove vengono. Gente i cui bisnonni consentirono senza fiatare che Quintino Sella declassasse il porto di Napoli a favore di quello di Genova, seminando miseria, perché Napoli, disse, “è troppo bella città per esporla a bombardamenti”.
Mussolini però dimenticò Sella, prese per i fondelli i padri e i nonni di chi ora protesta, rinnovò il porto, definì Napoli “città regina del Mediterraneo”, ma dimenticò la difesa della regina e gli Alleati la seppellirono sotto le bombe. Un regalo più grande la città l’aveva avuto molti anni prima da Liborio Romano, che, passato dai Borboni ai Savoia, coprì le spalle a Garibaldi diretto a Gaeta, facendo della camorra la Guardia Nazionale. Un  regalo così costoso che ancora oggi Napoli paga il conto.
Nel 1901 Francesco Saverio Nitti, studiando i bilanci dello Stato dall’unità alla fine dell’Ottocento, scoprì che Napoli e il Sud avevano pagato più tasse del Nord e avevano ricevuto la metà dei servizi. Nel 1904 e nel 1911 si vararono perciò due leggi speciali per Napoli, ma pochi anni dopo, nell’immediato primo dopoguerra, Arturo Labriola, socialista, ministro del lavoro con Giolitti e poi sindaco di Napoli, si trovò ad amministrare una città che – ebbe a scrivere – contava 20.000 accattoni e 100.000 selvaggi.  Era accaduto quello che i critici di De Magistris ignorano o fingono di non sapere: le leggi per Napoli erano diventate leggi per il Nord.
Gli imprenditori settentrionali, piombati a Sud come sciacalli perché lo Stato dava gratis la materia prima, non imponeva tasse e consentiva salari diversi da quelli settentrionali, fecero infatti soldi a palate finché durarono i privilegi delle due leggi, poi chiusero e si portarono i soldi a Nord. Ora dovrebbe essere chiaro: invece di rivoltarsi contro chi li tratta da sempre come selvaggi, i “senzastoria” puntano il dito su chi si è battuto per loro contro 160 anni di storia.
Quando De Magistris è diventato sindaco, la Napoli di Labriola era un paradiso; la città era ormai collassata: fabbriche chiuse, metà delle scuole inagibili, Sanità in ginocchio, mobilità allo stremo, turisti in fuga e strade attraversate da fiumi di disoccupati. Avrà commesso errori – chi non ne fa? – ma alla fine ha fatto quanto poteva con quello che aveva ed ha sbattuto il portone in faccia alla malavita organizzata, facendosi nemico chi la tiene in vita.
Si è capito subito che non si sarebbe adattato al sistema; per questo, non per altro, si è visto tagliare l’ossigeno: 1500 miliardi in meno dei sindaci precedenti e un debito mostruoso, risalente al 1980. Ha celebrato le nozze coi fichi secchi, ma ha lasciato una città più viva e gelosa della sua dignità, rientrata nel circuito del turismo e di gran lunga migliore di quella ricevuta al tempo delle montagne d’immondizia.

Agoravox, 22 novembre 2021

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Uno Stato socialmente pericoloso

Oggi si discute a Torino il ricorso in appello presentato da Maria Edgarda Marcucci contro il provvedimento soffocante e fascista della Sorveglianza Speciale, che subisce dal 17 aprile scorso. Eddi – così la chiama che la conosce – non ha commesso reati. Ha combattuto l’Isis e ha difeso la libertà e la giustizia. In segno di solidarietà e per ricordare a chi non conosce il suo caso, pubblico un articolo che scrissi per lei e le auguro di tutto cuore che i giudici vogliano cancellare questa triste e vergognosa pagina della nostra storia.

Maria Edgarda Martucci, Eddi per i compagni, tornata tra noi dopo aver combattuto per la libertà dei curdi, è stata sottoposta per due anni ai vincoli della sorveglianza speciale. Come tutti i sorvegliati speciali Eddi non ha commesso reati ma le autorità di pubblica sicurezza pensano che potrebbe commetterne. Il provvedimento che la colpisce, quindi, si fonda sull’opinione di un funzionario e di un giudice, che, secondo criteri lombrosiani, vedono in Eddi una tendenza a delinquere.
Se confermata nei successivi gradi del processo, questa opinabile scienza – che riduce lo Stato e un’entità socialmente pericolosa – priverà Eddi di alcuni diritti e di buona parte della sua libertà personale. Trasformata in suddita, la cittadina incensurata Maria Edgarda Martucci si vedrà sottrarre passaporto e patente e dovrà sottostare a obblighi stringenti: comunicare alla polizia l’indirizzo di casa, da cui non potrà allontanarsi senza informare le autorità; la mattina non potrà uscire prima di una certa ora e la sera dovrà rincasare presto. Dovrà lavorare, ma senza chiedere licenze di alcun genere, potrà svolgere solo mansioni di dipendente o fare un lavoro autonomo per cui non è richiesta l’iscrizione a un albo. Nessuna riunione, nessuna manifestazione, nessun compagno sottoposto a provvedimenti di polizia e per finire, niente bettole e osterie.
E’ opinione di funzionari e giudici, che questo trattamento impedirà a Eddi di creare problemi di ordine pubblico. Per dirla chiara, le insegnerà – o dovrebbe insegnarle – che è pericoloso agire secondo coscienza e manifestare liberamente le proprie opinioni. Tutto legale? Sì, ma è la legalità autoritaria, quella del codice Rocco, che consente ai giudici della Repubblica antifascista di esercitare la loro funzione secondo provvedimenti di ispirazione chiaramente fascista.
C’è un libro uscito pochi anni fa che pare scritto solo per “specialisti” e invece dovremmo leggere tutti, per capire come possa accadere che un Tribunale della Repubblica nata dalla guerra di  liberazione, giunga a condannare a due anni di sorveglianza speciale una giovane donna che – come riconosce la stessa accusa – non ha commesso  reati.
Il libro, scritto da Mimmo Franzinelli e Nicola Graziano, uno storico e un magistrato, è intitolato Un’odissea partigiana e ricostruisce l’incredibile storia di alcuni combattenti della guerra di Liberazione che, quando l’amnistia di Togliatti aprì le porte ai fascisti reclusi, si trovarono a fare i conti con giudici mussoliniani dal dente avvelenato, che inquinavano i Tribunali della Repubblica. La persecuzione fu così spietata che, pur di sottrarli alla vendetta, Terracini si rassegnò a ottenere condanne giustificate dalla pazzia. Amnistie e indulti, si disse l’avvocato comunista che aveva firmato la Costituzione con De Gasperi e De Nicola, avrebbero poi provveduto a tirarli fuori dai manicomi.
Le cose però non andarono così  e i “pazzi per la libertà” rimasero quasi tutti in manicomio, perché il codice fascista, che non abbiamo mai cancellato dalla vita della Repubblica, esclude da indulti e amnistie chi è considerato “socialmente pericoloso”. Si spiega così, con questa regola fascista che annichilisce la Costituzione quanto è capitato in questi giorni a Eddi, cha di fatto ha ripercorso la via amara di tanti partigiani.
Una esperienza di questo genere può capitare solo in un Paese come il nostro, che non ha fatto i conti col fascismo e ignora purtroppo la sua storia. Un Paese di sedicenti “liberali”, in cui è facile incontrare giudici che non conoscono il monumento levato in piazza dopo l’unità d’Italia a Santorre di Santarosa, il rivoluzionario borghese che passò dai moti carbonari, all’esilio inglese – cui l’aveva costretto un Tribunale – e incontrò la morte per mano turca, combattendo in Grecia per la libertà dei padri della democrazia.
Se non fossimo un popolo di “senzastoria”, Emanuela Pedrotta, Pubblico Ministero a Torino, si sarebbe guardata bene dall’utilizzare il codice penale secondo lo spirito che ispirò il fascista Rocco. La storia, maestra di vita, che trova purtroppo sempre meno allievi in grado di apprenderne la lezione, l’avrebbe indotta a riflettere, a ricordare che nel 1897, l’Italia liberale, che pure non fu modello di democrazia, non osò ricorrere al codice Zanardelli e non condannò i giovani tornati in Italia, dopo aver combattuto per la libertà di Candia, assalita dai Turchi. L’idea universale di libertà l’avrebbe fermata, benché tra quei volontari ci fossero soprattutto rivoluzionari, come il comunardo Amilcare Cipriani, Ettore Croce, futuro deputato comunista, poi perseguitato dai fascisti, e Arturo Labriola, futuro sindacalista rivoluzionario, sindaco di Napoli e ministro del Lavoro con Giolitti.
Qualora questi nomi non fossero bastati a imporle rispetto per chi difende della libertà di tutti i popoli, avrebbe certamente fatto un passo indietro di fronte al sacrificio di Antonio Fratti, giovane deputato repubblicano, partito con Cipriani, Croce e Labriola, ucciso in combattimento dai Turchi, ricordato in versi appassionati da Giovanni Pascoli e salutato dalla commemorazione rispettosa  dei colleghi parlamentari di ogni parte politica. Purtroppo l’Italia d’oggi ignora la sua storia. Eddi perciò, ideale compagna del giovane Fratti, di Cipriani, Croce e Labriola, non ha trovato ad attenderla il poeta e i suoi versi appassionati, gli sguardi rispettosi del Parlamento e un popolo che le si è stretto attorno come avrebbe meritato. Per lei ci sono stati solo la ferocia del Codice fascista e un giudice che ignora la storia del suo Paese e non si inchina ai grandi valori che ci fanno sperare in un mondo migliore.
Centoventi anni dopo il sacrificio di Fratti, questo nostro sventurato Paese è tornato purtroppo un modello di barbarie. Io però ricordo – e mi sembrano scritte per Eddi – le parole che in quei giorni lontani ebbe a scrivere Matteo Renato Imbriani Poerio. Parole troppo presto dimenticate, che vale la pena di ripetere per Eddi:
“In cospetto di un delitto che non ha nome contro un popolo che fronteggia la barbarie dell’Europa […] sappia il popolo italiano imporre al suo governo una politica che non significhi vergogna”.
Sono parole che non moriranno, come vivi saranno per sempre, al di là di sentenze che si commentano da sole, i nomi e le storie di quei giovani che hanno il coraggio delle loro idee e le difendono in ogni modo possibile, come hanno fatto sui monti i partigiani.

Agoravox, 27 marzo 2020

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Maria Edgarda Martucci, Eddi per i compagni, tornata tra noi dopo aver combattuto per la libertà dei curdi, è stata sottoposta per due anni ai vincoli della sorveglianza speciale. Come tutti i sorvegliati speciali Eddi non ha commesso reati ma le autorità di pubblica sicurezza pensano che potrebbe commetterne. Il provvedimento che la colpisce, quindi, si fonda sull’opinione di un funzionario e di un giudice, che, secondo criteri lombrosiani, vedono in Eddi una tendenza a delinquere.
Se confermata nei successivi gradi del processo, questa opinabile scienza – che riduce lo Stato e un’entità socialmente pericolosa – priverà Eddi di alcuni diritti e di buona parte della sua libertà personale. Trasformata in suddita, la cittadina incensurata Maria Edgarda Martucci si vedrà sottrarre passaporto e patente e dovrà sottostare a obblighi stringenti: comunicare alla polizia l’indirizzo di casa, da cui non potrà allontanarsi senza informare le autorità; la mattina non potrà uscire prima di una certa ora e la sera dovrà rincasare presto. Dovrà lavorare, ma senza chiedere licenze di alcun genere, potrà svolgere solo mansioni di dipendente o fare un lavoro autonomo per cui non è richiesta l’iscrizione a un albo. Nessuna riunione, nessuna manifestazione, nessun compagno sottoposto a provvedimenti di polizia e per finire, niente bettole e osterie.
E’ opinione di funzionari e giudici, che questo trattamento impedirà a Eddi di creare problemi di ordine pubblico. Per dirla chiara, le insegnerà – o dovrebbe insegnarle – che è pericoloso agire secondo coscienza e manifestare liberamente le proprie opinioni. Tutto legale? Sì, ma è la legalità autoritaria, quella del codice Rocco, che consente ai giudici della Repubblica antifascista di esercitare la loro funzione secondo provvedimenti di ispirazione chiaramente fascista.
C’è un libro uscito pochi anni fa che pare scritto solo per “specialisti” e invece dovremmo leggere tutti, per capire come possa accadere che un Tribunale della Repubblica nata dalla guerra di  liberazione, giunga a condannare a due anni di sorveglianza speciale una giovane donna che – come riconosce la stessa accusa – non ha commesso  reati.
Il libro, scritto da Mimmo Franzinelli e Nicola Graziano, uno storico e un magistrato, è intitolato Un’odissea partigiana e ricostruisce l’incredibile storia di alcuni combattenti della guerra di Liberazione che, quando l’amnistia di Togliatti aprì le porte ai fascisti reclusi, si trovarono a fare i conti con giudici mussoliniani dal dente avvelenato, che inquinavano i Tribunali della Repubblica. La persecuzione fu così spietata che, pur di sottrarli alla vendetta, Terracini si rassegnò a ottenere condanne giustificate dalla pazzia. Amnistie e indulti, si disse l’avvocato comunista che aveva firmato la Costituzione con De Gasperi e De Nicola, avrebbero poi provveduto a tirarli fuori dai manicomi.
Le cose però non andarono così  e i “pazzi per la libertà” rimasero quasi tutti in manicomio, perché il codice fascista, che non abbiamo mai cancellato dalla vita della Repubblica, esclude da indulti e amnistie chi è considerato “socialmente pericoloso”. Si spiega così, con questa regola fascista che annichilisce la Costituzione quanto è capitato in questi giorni a Eddi, cha di fatto ha ripercorso la via amara di tanti partigiani.
Una esperienza di questo genere può capitare solo in un Paese come il nostro, che non ha fatto i conti col fascismo e ignora purtroppo la sua storia. Un Paese di sedicenti “liberali”, in cui è facile incontrare giudici che non conoscono il monumento levato in piazza dopo l’unità d’Italia a Santorre di Santarosa, il rivoluzionario borghese che passò dai moti carbonari, all’esilio inglese – cui l’aveva costretto un Tribunale – e incontrò la morte per mano turca, combattendo in Grecia per la libertà dei padri della democrazia.
Se non fossimo un popolo di “senzastoria”, Emanuela Pedrotta, Pubblico Ministero a Torino, si sarebbe guardata bene dall’utilizzare il codice penale secondo lo spirito che ispirò il fascista Rocco. La storia, maestra di vita, che trova purtroppo sempre meno allievi in grado di apprenderne la lezione, l’avrebbe indotta a riflettere, a ricordare che nel 1897, l’Italia liberale, che pure non fu modello di democrazia, non osò ricorrere al codice Zanardelli e non condannò i giovani tornati in Italia, dopo aver combattuto per la libertà di Candia, assalita dai Turchi. L’idea universale di libertà l’avrebbe fermata, benché tra quei volontari ci fossero soprattutto rivoluzionari, come il comunardo Amilcare Cipriani, Ettore Croce, futuro deputato comunista, poi perseguitato dai fascisti, e Arturo Labriola, futuro sindacalista rivoluzionario, sindaco di Napoli e ministro del Lavoro con Giolitti.
Qualora questi nomi non fossero bastati a imporle rispetto per chi difende della libertà di tutti i popoli, avrebbe certamente fatto un passo indietro di fronte al sacrificio di Antonio Fratti, giovane deputato repubblicano, partito con Cipriani, Croce e Labriola, ucciso in combattimento dai Turchi, ricordato in versi appassionati da Giovanni Pascoli e salutato dalla commemorazione rispettosa  dei colleghi parlamentari di ogni parte politica. Purtroppo l’Italia d’oggi ignora la sua storia. Eddi perciò, ideale compagna del giovane Fratti, di Cipriani, Croce e Labriola, non ha trovato ad attenderla il poeta e i suoi versi appassionati, gli sguardi rispettosi del Parlamento e un popolo che le si è stretto attorno come avrebbe meritato. Per lei ci sono stati solo la ferocia del Codice fascista e un giudice che ignora la storia del suo Paese e non si inchina ai grandi valori che ci fanno sperare in un mondo migliore.
Centoventi anni dopo il sacrificio di Fratti, questo nostro sventurato Paese è tornato purtroppo un modello di barbarie. Io però ricordo – e mi sembrano scritte per Eddi – le parole che in quei giorni lontani ebbe a scrivere Matteo Renato Imbriani Poerio. Parole troppo presto dimenticate, che vale la pena di ripetere per Eddi:
“In cospetto di un delitto che non ha nome contro un popolo che fronteggia la barbarie dell’Europa […] sappia il popolo italiano imporre al suo governo una politica che non significhi vergogna”.
Sono parole che non moriranno, come vivi saranno per sempre, al di là di sentenze che si commentano da sole, i nomi e le storie di quei giovani che hanno il coraggio delle loro idee e le difendono in ogni modo possibile, come hanno fatto sui monti i partigiani.

Agoravox, 27 marzo 2020

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rivoluzione_o1Caro Daniele, so che sul piano umano ci legano stima, rispetto ed esperienze di lotta lontane di qualche anno, ma vissute assieme, quando ero praticamente l’unico prof. e l’unico vecchio che stava con gli studenti nelle assemblee e nelle piazze. Di quei ragazzi, oggi più o meno adulti, tu, Viola, Giovanni, Diana, Mauro, Eddy, Federica, Luca, Salvatore e Roberto, per me eravate e siete i migliori. Ho seguito le scelte di tutti, senza schierarmi con nessuno. Ai miei occhi siete tutti uguali. Scrivo a te come farei con loro. A voi mi sento unito da sentimenti profondi e credo che, se non altro, anche voi mi riconosciate lealtà e onestà intellettuale.
Non sarò breve, ma non ti annoierò. Esco dal Comitato di lotta per la salute mentale. Ci passerò davanti per il tempo che ho da vivere, ma tirerò diritto. Poche decine di metri e m’infilerò nell’Archivio di Stato, come faccio da sempre. Qualche volta, passando, ricorderò che lì dentro un tempo aveva sede la fascistissima Opera Nazionale Maternità e Infanzia e un “Consultorio”: promesse di farmaci e cure che non aveva e donne ridotte a sguattere di padri e mariti, buone per soddisfare bisogni sessuali e produrre carne da cannone. Come le persone, anche i luoghi si portano dentro il meglio e il peggio della loro vicenda ed è un conflitto perenne.
Lì, in questi ultimi mesi, la bella storia dei disoccupati organizzati mi è sembrata scontrarsi con i fantasmi di un passato atroce, ma i disoccupati non c’entrano nulla con il Comitato. Me ne sono andato, quando ho capito che lì non si combatte la violenza assassina della psichiatria securitaria, ma si replicano meccanismi di esclusione che producono disagio. Il dissenso e ogni rifiuto di stupide verità di fede lì diventano “tradimento” e il colpevole è trattato secondo modalità impregnate di esclusione: un atto di guerra, che genera sofferenza e si traduce in una maggiore e più grave esclusione. E’ un pericoloso paradosso: chi affonda il coltello pretende di curare il dolore della ferita.
Io penso che tutto ci insegni qualcosa e oggi capisco meglio il senso di una storia che nessuno racconta più: quella dei primi socialisti napoletani che ruppero con la liturgia del “muro contro muro” e con la bibbia rivoluzionaria e per la prima volta nella storia della città portarono militanti operai a Palazzo San Giacomo. Anche allora i “puri e duri” gridarono allo scandalo; qualcuno passò per “traditore” e qualche altro fu minacciato o aggredito da chi è sempre più rivoluzionario di tutti e sta nell’ombra, in attesa di un passo falso, pronto a sputare sentenze: io ve l’avevo detto! Quei socialisti aprirono una stagione di crescita collettiva; sindacato, partito, coscienza di classe e sciopero contro il nemico di sempre: la disoccupazione. Fino a qualche decennio fa, al cimitero degli uomini illustri, ogni tanto qualche vecchio operaio lasciava sulla tomba di Arturo Labriola, pro sindaco di Napoli per una breve stagione e Ministro del Lavoro con Giolitti, un piccolo foglio con su scritto: “Grazie”. Il “traditore” Labriola, il figlio di quella stagione felice in cui capimmo che la politica è soprattutto costruzione di alternative che ci chiedono di sporcarci le mani, metterci la faccia, l’anima e il corpo per spostare tutto dalla nostra parte, Labriola assicurò una pensione agli invalidi di guerra. Erano più di mezzo milione. Certo, talvolta sbagliò, ma tu lo sai bene: chi fa può sbagliare, ma chi se ne sta fuori, tanto sa già come finisce, chi tace quando va bene e si prende i vantaggi, però se va male punta il dito, quello sbaglia di certo. E sbaglia più di tutti.
Me ne sono andato dal Comitato di lotta con l’etichetta del “traditore” e poiché non sto al gioco, rompo con consuetudini omertose e porto fuori dal Comitato calunnie, menzogne e minacce. C’è un treno che passa. Porta con sé speranze di cambiamento e non voglio prenderlo. Voglio stare con voi, ragazze e ragazzi, che siete cresciuti e state dando una grande prova di maturità, tutti, nessuno escluso. Io non credo che voi siate “ignari della vostra triste ignoranza”, come pensa il Comitato che lascio.
A Napoli da un po’ c’è un Osservatorio sulla Salute Mentale, preziosa risorsa per la difesa di diritti negati e la tutela di gente che soffre. Finora non ha funzionato; lo hanno impedito alcuni sedicenti rivoluzionari, per ragioni che non hanno nulla da spartire con la rivoluzione. Abbi pazienza e stammi a sentire.
Alla fine del 2014, il Comitato di lotta per la salute mentale mi chiese di parlare con il sindaco, per ricordargli una pratica aperta: quella dell’Osservatorio per la salute mentale di cui s’erano perse le tracce. A me questi problemi stanno a cuore, perché mia madre ha subito elettrochoc e ricoveri coatti e anche io ho avuto problemi, perciò accettai e mi sembrò chiaro: se ti rivolgi a un sindaco, sai di parlare con un esponente delle Istituzioni. Potrai avere il massimo dell’autonomia, ma questo la sai. Si può fare in altro modo? Certo. C’è sempre una via alternativa, ma è chiaro che nessuno avrebbe riconosciuto un organismo senza un ruolo istituzionale. Ne parlai più volte con De Magistris e con me sono venuti anche componenti del Comitato; il sindaco riconobbe l’utilità dell’iniziativa e fece la sua parte. Nacque così un organismo composto da militanti designati dal Comitato, che sono però nominati formalmente dal sindaco. Non ci sono mai entrato, ma lo ritengo patrimonio di tutti, prezioso per aiutare chi soffre: può chiedere dati sui ricoveri, entrare nelle strutture dove si bada – o si dovrebbe badare – alla salute mentale, osservare e denunciare irregolarità e maltrattamenti. Un organismo istituzionale, certo, ma autonomo, perché la controparte non è il Comune. Il sindaco, infatti è garante della salute dei cittadini, ma le scelte politiche e la gestione delle strutture sono competenza della Regione e delle ASL.
Ottenuta la delibera, sono cominciate le polemiche perché l’Amministrazione non ha ancora provveduto per una sede. Il Comune ha offerto un locale a Sant’Eligio, ma ci vogliono parecchi soldi per ristrutturarlo. Una sistemazione dignitosa in un centro sociale non interessa al Comitato che, però, a ridosso delle elezioni, ha manifestato all’esterno della sede di Sant’Eligio, attaccando il sindaco. Sono mesi che un’arma aguzza, forte del lasciapassare necessariamente istituzionale, invece di mirare alla Regione e all’ASL, è puntata contro il Comune che l’ha fatta nascere e si perde in chiacchiere e polemiche senza capo né coda. Durante la campagna elettorale, un membro del Comitato ha fatto circolare feroci attacchi al sindaco. La guerriglia in atto, che ufficialmente si fa in difesa di un’autonomia mai negata, non ha senso.
Lo scontro frontale è nato per un protocollo d’intesa tra Comune, Tribunale dei minori e Vigili Urbani, che riguardava i ricoveri coatti. Era un pessimo protocollo e l’Osservatorio lo ha contestato. Anche stavolta mi è stato chiesto di contattare il sindaco per una riunione con lui e con l’Assessore Gaeta. L’Amministrazione è stata chiara: avete ragione, ma noi non siamo psichiatri e non sappiamo farne uno migliore; fatelo voi un testo che Tribunale e Vigili possano firmare. Si è scelto di fare così. Il Comitato si è impegnato, nessuno ha fatto obiezioni, nessuno ha contestato, ma nessuno ha riscritto il protocollo. Purtroppo la contraddizione non si risolve: o stai fuori delle Istituzioni – e sai di non poterlo fare – o stai dentro e fai un lavoro politico, come hai concordato. Tertium non datur. Viene la volta nella vita che devi decidere cosa vuoi fare da grande. Poiché la contraddizione è di quelle paralizzanti, tutto si è fermato. Questo comportamento irresponsabile avrà una sola conseguenza: il protocollo passerà com’è e i pazienti pagheranno i capricci di un Comitato che non sa cosa vuole. Da un po’ i colpevoli di questo immobilismo sono stati individuati: siamo due, chi scrive e Raffaele Di Francia, i «complici» di De Magistris.
Credo che ora tu possa capire il senso delle lettere che potrai leggere qui, dopo questa premessa. La prima è di Adriano Coluccia che se la prende con chi non va più al Comitato, poi ce n’è una di De Notaris che è lunghissima. Ne ho estratto il cuore fangoso. Il resto è degno di un rivoluzionario universitario che non vuole avere a che fare con nessuna Istituzione, tranne l’università. Quella più istituzionalizzante. Se vuoi, la trovi cliccando su un link in coda a questa lettera. Io lo ringrazio per l’inatteso regalo: non mi considera “compagno”. Mi preoccuperei del contrario e poiché mi chiede di uscire da un’ombra che lui solo conosce, porto all’unica luce possibile ciò che finora è stato chiuso in un circuito chiuso. Ognuno ha la sua storia. La mia la tengo per me, ma per quanto riguarda il presente, che manda su tutte le furie un rivoluzionario da operetta che mi definisce “agente del partito De Magistris”, dico solo che ho rifiutato candidature e un ruolo. Era presente Michele Franco e può confermare. Da due anni non ho tempo per me stesso; di tempo me ne resta poco e non riesco a terminare un libro che sto scrivendo. Credo che Napoli sia di fronte a un’occasione storica di cambiamento e ho fatto quanto potevo per aprire un dialogo tra sindaco e movimenti, ma ho agito alla luce del sole. Se ho sbagliato, sarò il primo a dolermene, ma non ho chiesto nulla a nessuno, come sempre nella mia vita.
Ora sì, ora puoi leggere le lettere che seguono. Poiché tieni alla dignità, capirai di che si parla.
Un abbraccio.
Geppino Aragno

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From: Adriano Coluccia
To:
Sent: Tuesday, June 21, 2016 11:58 AM
Subject: convocazione assemblea osservatorio
Anche io sono perfettamente d’accordo. Ma c’è solo un dubbio: perché nessuno si è espresso subito sulla mia di martedì 14 giugno e su quella di enrico immediatamente dopo. Credo della fine del comitato di lotta per la salute mentale non se ne fotti nessuno (in generale….)!!
Adriano Coluccia

From: Giuseppe Aragno
To:
Sent: Tuesday, June 21, 2016 6:11 PM
Subject: Re: convocazione assemblea osservatorio
Non sono entrato per caso nel Comitato: mia madre era “pazza” e per ben due volte, nonostante le mie convinzioni, ho voluto il suo ricovero coatto. Sono scelte dolorose, forse sbagliate, ma ero stremato e temevo di essere travolto. Voi però lo sapete: queste cose ti segnano e se capitano in momenti di particolare difficoltà non reggi. E’ toccato così anche a me stare male. Nessun ricovero, per fortuna, ma un piccolo calvario sì. La mia salute mentale non è di ferro, i momenti difficili ogni tanto tornano e li devo affrontare.
Nel Comitato pensavo di poter aiutare chi soffre, invece paradossalmente mi sono fatto male e ho sofferto io; anche questa mail non mi fa bene scriverla, ma vi dico quello che penso: se la lotta smette di essere strumento e diventa inconsapevole fine, c’è il rischio che a volte il “nemico” uno se lo inventa. Quando si scrive che del Comitato di lotta non se ne fotte nessuno, un nemico alla fine si è trovato. Qualcuno dirà che non è vero, qualche altro, come sto facendo io, risponderà per spiegare le sue ragioni, ci si dividerà – sei stato tu, no, è stato lui – e il Comitato “lotterà”. Anche quella che da mesi si fa tra compagni del Comitato è una lotta. Sorda, nascosta, negata, ma lotta.
Sono tra quelli che non si esprimono da tempo. La data non me la ricordo, ma il momento in cui ho deciso di stare zitto, quello sì, quello me lo ricordo bene. Era una sera di alcuni mesi fa a Piazza Municipio, dopo un confronto col sindaco e la Gaeta. Durante la riunione, avevo proposto che fosse l’Osservatorio a scrivere un protocollo che a noi non andava giù e l’assessore ammetteva di non saper scrivere. Quando ce ne andammo, i compagni avevano tanta fretta, che mi piantarono in asso nella piazza e se ne andarono senza salutare. Furono generosi, no? E’ il minimo che dei rivoluzionari possano fare a chi contratta con le Istituzioni. Questo peccato io l’ho commesso, lo confesso, ma non mi presento a Canossa con la testa cosparsa di cenere, non chiedo l’assoluzione e non faccio penitenza. Quella sera a me venne in mente il momento della mia vita in cui sono finito al tappeto, quando i lavoratori andavano al macello e, per vincere le lotte – non le loro, di quelle non s’interessava quasi più nessuno – per vincere le lotte interne alla CGIL, non si trovava di meglio che isolate dirigenti e distruggere rapporti umani. Oggi uno dei miei limiti è questo: se si tratta di lottare contro qualcuno che considero davvero un nemico, le mie paure non resuscitano. Una incomprensibile battaglia tra compagni, invece, le richiama in vita, soprattutto se prima è condotta nell’ombra e fatalmente divide, poi, quando non c’è più rimedio, si sceglie di mettere sulle spalle degli altri la responsabilità delle inevitabili conseguenze.
Volete leggere i silenzi come disinteresse? Va bene. Non nego, non fuggo, non rimando. Più semplicemente lo dico chiaro: non m’interessa, anzi, me ne fotto di un Comitato di lotta che, per quanto mi riguarda, ha lottato solo contro la mia salute mentale. Mi spiace, non è eroico, ma è l’unico modo che ho per difendermi dai miei fantasmi che tornano. Ve l’ho detto e ve lo ripeto: a me le azioni scelte in ambito non assembleare fanno male, perché mi dicono che c’è chi ha ridotto il nostro sforzo collettivo a strumento di lotta di gruppi interni al Comitato. Non finisce mai bene. E’ un’esperienza che ho già fatto, mi è costata molto, l’ho pagata cara e non intendo ripeterla.
Mi sono “pronunciato”. Questa è la mia decisione. Unilaterale? Sbagliata? Infondata? Pazienza. Ognuno ha i suoi limiti. Io riconosco i miei e li dichiaro apertamente, perciò sono certo che capirete, se vi chiedo di tenermi fuori dalle vostre discussioni.
Se e quando capiterà, ci vedremo a un presidio o a una manifestazione.
Cari saluti.
Geppino

From: Enrico De Notaris
To:
Sent: Wednesday, June 22, 2016 3:56 PM
Subject: Re: convocazione urgente assemblea
Ho letto con amara compassione la mail di Aragno e ne sono rimasto spiacevolmente colpito, oltre che allarmato […]; ritengo che nessuno dei “nemici” sia pagato dalla CIA […] purtroppo temo si tratti di vicende umane di altra natura. E ben più misera.[…] Aragno […] non ti è mai stato chiesto di contattare a nome nostro l’istituzione, se lo hai fatto come ammetti nella tua mail, ritengo per esclusione che tu l’abbia fatto per tua scelta, non so ovviamente a quale scopo ma questa volta “me ne fotto” altamente io dei tuoi scopi nella circostanza.
E siccome però mi dicono che sei un “compagno” ti ribadisco che, per l’importanza che attribuisco a questa parola (perdonami ma non mi sento di considerarti tale) per me, poiché come te non amo le decisioni prese nell’ombra della non conoscenza ed ignorandone lo scopo, tu hai agito nell’ombra.
[…] Rassicurati Aragno, non ti tiri fuori dalle nostre discussioni per il semplice fatto che, con tutta evidenza, non ci sei mai entrato; ma queste mie riflessioni non le considerare come il volerti tener dentro a qualche cosa, non ti angustiare, anche noi, dopo questa mail, ti terremo fuori dalle nostre discussioni, siine certo.
Enrico De Notaris.

From: Teresa Capacchione
To:
Sent: Friday, June 24, 2016 3:51 PM
Subject: Re: [Nuovamente-listainterna] convocazione urgente assemblea
Caro Enrico,
condivido molte delle cose che hai scritto nella tua mail. […] Su una cosa però dissento. Giuseppe Aragno si offrì di contattare De Magistris, quando della delibera dell’osservatorio si erano perse le tracce, su nostra richiesta. E questo è avvenuto più di una volta. Non ritengo che egli abbia interessi personali in questa vicenda, tant’è che non ha mai chiesto di entrare nell’osservatorio, e fummo noi piuttosto a pensare che potesse divenirne parte attiva. Non voglio entrare nel merito di questioni che dovrebbe essere lo stesso Aragno a chiarire, ma per amore di verità sentivo di dover intervenire su questo punto.
Teresa

From: Adriano Coluccia
To:
Sent: Friday, June 24, 2016 11:50 PM
Subject: [Nuovamente-listainterna] FINITELA DI FARE GLI STRONZI!!!
Adesso basta. è il colmo. finitela voi AGENTI DEL PARTITO DE MAGISTRIS. ve la volete vedere con me? sono ADRIANO COLUCCIA militante comunista rivoluzionario. non ho mai, dico mai parteggiato per le istituzioni. voi rinnegati di classe sotto mentite spoglie di un sociale antagonista meriterete la fine che farete solo quando finalmente LA CLASSE PROLETARIA farà il suo bagno di sangue. tu professore non nasconderti dietro i giovani ignari della loro triste ignoranza…e tu falso familiare in sofferenza ricordati solo del “DOPO DI NOI” e cioè di tuo figlio!!!
La nostra crisi finalmente svela il ruolo di chi non sta dalla parte delle masse anche se esse sono dormienti, drogate proprio da voi AGENTI DEL PARTITO DE MAGISTRIS. la cosa finirà, siamo alla stretta finale: il movimento anche se contraddittoriamente verrà finalmente sotto i palazzi del potere: e voi da che parte starete in quel momento? finitela…il COMITATO è BANCHI NUOVI: MISURATEVI CON NOI allora e poi si vedrà. INTESI? siete merda e come merda sarete spiaccicati. nell’ora in cui le cambiali e i nodi verranno al pettine, la vostra FALSA UMILTA’, la vostra tracotanza assetata di potere avrà la giusta risposta!!!

NON CI FATE RIDERE. IATEVENNE. ANDATE ALLA MENSA DEL VOSTRO PADRONE: siete cani e qualche avanzo lo mangerete!!!

ADRIANO COLUCCIA
membro del “Collettivo Banchi Nuovi”.

From: Giuseppe Aragno
To:
Sent: Saturday, June 25, 2016 12:53 AM
Subject: Re: convocazione urgente assemblea
Vi invio, per conoscenza, la mail che oggi ho scritto a Teresa Capacchione.
Due parole al fascista Coluccia: non mi nascondo dietro nessuno. Se uno vuole, mi trova. Se è più grosso e più giovane di me, mi farà male. Pazienza. Coluccia, non mi fai paura.
Ora è tardi e voglio riposare. Domani decido se rendere pubblici i capolavori epistolari tuoi e del tuo amico Enrico, che in ogni caso manderò a tutti i compagni che conosco. Io lo so. Voi siete tre, ma il terzo, quello che manovra gli altri due, se ne sta zitto. E’ il più coraggioso.
Un’ultima cosa: visto che non volete togliermi dalla mailing list, vi metto nello spam, la posta indesiderata, che non leggo.
Da questo momento non esistete più.
Giuseppe Aragno

Cara Teresa,
ti ringrazio per l’intervento. Infine giunge. Doveroso e incredibilmente solo.
Scrivi ciò che tutti sappiamo e nessuno ha avuto il coraggio di dire: “Giuseppe Aragno si offrì di contattare De Magistris, quando della delibera dell’osservatorio si erano perse le tracce, su nostra richiesta. E questo è avvenuto più di una volta”.
C’è una piccola sbavatura: Aragno non si offrì, accettò il vostro ripetuto invito e conserva ancora molti messaggi. Sono dettagli, però. La verità l’hai detta e non c’è altro da chiarire.
Scusami, ma non leggerò nemmeno stavolta la mail di Enrico, che mi fai avere in coda al tuo intervento. A me non interessa ciò che ha scritto. Tu confermi che ha mentito, io aggiungo che sapeva di farlo. Il resto vale quanto la sua credibilità: zero. Questo dovrebbe disgustarti.
Ti lascio due domande:
1) Perché Enrico mente?
2) Perché sta distruggendo il Comitato e l’Osservatorio?
La risposta è scritta chiara nelle mail del Comitato, ma è Enrico che deve dartela. Enrico, sì, prima di fare le valigie, come chiunque al suo posto. In quanto a me, lascio perdere le considerazioni, che pure mi sembrano necessarie, su provocatori e violenza di psichiatri.
Cari saluti.
Geppino

Ho letto con amara compassione la mail di Aragno

CantoLibreContropiano, 3 luglio 2016

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IMAG0158Lo sanno tutti: l’intelligenza critica terrorizza il potere. A Socrate, che insegnava alla gioventù ateniese il valore del dubbio e l’autonomia di pensiero, la “democratica” Atene riservò la cicuta. Non stupisce perciò se oggi una democrazia autoritaria che sfocia in regime, sia particolarmente interessata al significato e al ruolo della storia e provi a chiuderla nella gabbia del passato. Per quel che riguarda Napoli, nulla più di una memoria manipolata, che ci soffochi tutti nello stereotipo della “città di plebe” , torna utile al malaffare politico. La storia, infatti, è una preziosa chiave di lettura del presente e non è vero che non insegni nulla: non si spiegherebbe perché ogni dittatura miri a falsificarla.
A leggerla con la lente deformante della vulgata storica, Napoli vive fuori dal tempo: l’eterna camorra, la plebe sanfedista quasi per vocazione, la borghesia mai veramente nata, una classe operaia inesistente. Una città incline alla collusione, che il ’99 priva delle sue più lucide intelligenze e perciò storicamente incapace di stare al passo coi tempi. A Napoli il vento viene sempre dal Sud: è africano, languido e dissolvente. Vento del Sud persino le “Quattro Giornate” degli scugnizzi, sicché pare quasi che l’altro vento, quello del “cambiamento”, il “vento del Nord”, si spenga al Sud non perché la mancata epurazione, decisa nel cuore del Paese, ricicla il fascismo, ma per il sudaticcio scirocco che aiuta il trasformismo dei notabili, produce i Lauro e la corruttela che la città si porta nel Dna come male genetico. Una banda di neofascisti ci ammazza un ragazzo a Roma, nell’inspiegabile torpore della Forza Pubblica che poco prima, a Piazza Barberini, aveva massacrato di botte i movimenti antagonisti? Per l’immaginario collettivo la cicuta è pronta: “Genny ‘a carogna” è il colpevole vero e con lui Napoli, che sta coi camorristi. Sul tasto della plebe si torna, quando un carabiniere uccide a sangue freddo un ragazzo di periferia. Colpo “accidentale” che non indigna nessuno. Scandalosa, ammonisce Serra dal pulpito di Repubblica, è la città che pretende le scuse dei carabinieri.
Mentre fiumi di soldi per “riqualificare” Bagnoli mettono in moto camarille e comitati d’affari politico-malavitosi, questa tragica sceneggiata fa da sfondo alla sospensione del sindaco e scatena l’attacco concorde della “libera stampa”. Il sindaco è l’ennesimo pulcinella napoletano e i suoi elettori la consueta zavorra che frena lo “sviluppo,” in omaggio alle solite logiche clientelari. E poiché la faccenda allarma la parte più viva della città, centri sociali, movimenti di lotta, comitati per l’acqua e l’ambiente che l’hanno portato a Palazzo San Giacomo fuori dalla tutela di sedicenti partiti, è un gioco da ragazzi: il sindaco è un disperato che si aggrappa persino a estremisti e “sovversivi”, i movimenti e i collettivi hanno accantonato le critiche all’Amministrazione, “ben consapevoli che gli spazi che da tempo occupano, potranno essere sgomberati con l’arrivo di un nuovo inquilino a Palazzo San Giacomo”.
La storia, però, quella vera, insegna ben altro e rimanda all’alba del Novecento, a una pagina tra le più belle della vita politica della città: un giornale, “La Propaganda”, una pattuglia di fuorusciti dalla borghesia che si raccoglie attorno alle sue colonne – Arturo Labriola, Arnaldo Lucci, Enrico Leone, per far dei nomi – e quelli che allora erano “sovversivi”: le prime leghe operaie, più o meno “fuorilegge”, i gruppi di internazionalisti, la pattuglia di lavoratori che tra domicilio coatto e patrie galere mettono insieme un’idea di sindacato. E’ un accordo politico forte, che scrive una pagina di storia della città. Da lì trova forza il nucleo operaio che per la prima volta siederà a Palazzo San Giacomo con un programma per quei tempi rivoluzionario, scritto da una commissione di militanti di base. Oggi nessuno ricorda più il tipografo Arcangelo Botta e il guantaio Michele Balsamo, nessuno ricorda Giovanni Bergamasco, al quale si riservò il trattamento De Magistris, per buttarlo fuori dal Consiglio comunale con una legge-vergogna: ineleggibile perché “ex coatto”, condannato da una legalità che non aveva nulla a che spartire con la giustizia. Lo scontro fu aspro, ma ne nacque una Commissione d’inchiesta parlamentare – la Commissione Saredo – che decretò la momentanea sconfitta della cupola delle mafie istituzionali del tempo: la “triade Casale- Summonte-Scarfoglio”. Il deputato Aniello Casale fuggì in Grecia, Summonte fu battuto alla Camera e il direttore del “Mattino” Scarfoglio fu coinvolto in una storia di fondi occulti, giunti al giornale perché sostenesse il “sistema”.
E’ in un contesto di questo tipo che occorre leggere la vicenda De Magistris e il suo tormentato rapporto con i “movimenti”. Ai primi del Novecento la “battaglia morale” si riempì dei contenuti politici di cui erano portatori i “sovversivi”, per scrivere una pagina di storia che fa piazza pulita del cliché della città di plebe. Giolitti “ministro della malavita”, parò poi il colpo, ma non tutto fu vano. Arturo Labriola, poi sindaco della città, diventato ministro del Lavoro, fece approvare una legge sulla previdenza che fu alla base del nostro stato sociale e tra i “sovversivi” passati per quella esperienza, ci fu chi costituì il nucleo di quella sinistra che, raccolta attorno a Bordiga, fu protagonista della nascita del PCI. Da quella scuola veniva Enrico Russo, protagonista della più bella battaglia per un sindacato di base mai combattuta in Italia.
Nel solco di questa esperienza storica, può nascere un rapporto nuovo tra Amministrazione e movimenti. Nel clima di crisi della democrazia, che Renzi incarna con venature neofasciste, collettivi e movimenti – i nuovi “sovversivi” – hanno l’occasione per sperimentare con l’Amministrazione De Magistris un percorso nuovo, che faccia di Napoli un modello nazionale e rappresenti un argine contro la reazione che avanza. Cessione di potere verso il basso è formula impegnativa, che rischia di essere retorica, ma un rapporto organico tra base e vertice, l’impegno al reciproco rispetto, a non prendere decisioni sui temi scottanti dell’ambiente, dell’acqua, della riqualificazione del territorio, senza aver ascoltato chi sul territorio spende la vita in nome di un sistema di valori profondamente democratico, antitetico alla speculazione politica e alle sue intese con la malavita, non è solo possibile, ma necessario e realizzabile. Nessuno chiede a nessuno di snaturare se stesso e la propria storia. C’è davanti una strada. Occorre percorrerla assieme con grande lealtà. Non farà male a nessuno e sarà, anzi, ossigeno e vita entro e fuori i confini di Napoli.

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A Genova, nel luglio 2001, Francesco Puglisi non uccise e non torturò. La Cassazione, però, che per Bolzaneto e la Diaz ha evitato la galera ai poliziotti, gli ha dato 14 anni e chi s’è visto s’è visto. Un avviso chiaro: se ti prudono le mani, fa la trafila legale e passa all’incasso. Una «guerra per la pace», un’idea di democrazia da esportazione, tutta ammazzamenti umanitari e bombe intelligenti, che se centrano ospedali e scuole è un caso di fuoco amico o nemico sbagliato, poi la carriera in polizia. Ai modi bruschi lì si bada poco.
Genova, per dirla con Labriola, evoca gli «spettri del ’98» e chi sa di storia ricorda processi politici messi su ad arte contro gli operai e Giovanni Bovio che dava voce alle loro ragioni e ammoniva le classi dirigenti: «Noi chiediamo di rimuovere gli ostacoli che fanno il lavoro impossibile e voi ci rispondete con aspre sentenze e i figli armati contro i padri. Per carità di voi stessi, giudici, per quel pudore che è l’ultimo custode delle società umane, non fateci dubitare della giustizia. Noi fummo nati al lavoro, non fate noi delinquenti e voi giudici!». I tribunali li «fecero delinquenti» e Umberto I, che aveva premiato le fucilate sul popolo inerme, pagò con la vita. La violenza del potere genera violenza e il tribunale nazista che volle morti i cospiratori della «Rosa Bianca», quello repubblicano che da noi assolse i responsabili morali del delitto Rosselli, benché legalmente costituiti, non hanno legittimità storica. Tra Bruto e Cesare la storia non cerca colpevoli ma registra un dato: il tiranno arma la mano dell’uomo libero.
Sul terreno della giustizia siamo fermi a Crispi che, accusato di violare la legge proclamando lo stato d’assedio, antepose la sicurezza alla legalità: «una legge eterna impone di garantire l’esistenza delle nazioni; questa legge è nata prima dello Statuto». Un principio eversivo, che fa dell’eccezione la regola, ignora la giustizia sociale, unica garante della sicurezza dello Stato e di fatto ispira ancora i nostri legislatori in materia di ordine pubblico e conflitto sociale. Nel 1862, all’alba dell’Italia unita, la legge Pica sul cosiddetto «brigantaggio», mezzo «eccezionale e temporaneo di difesa», prorogato però fino al 31 dicembre 1865, apre l’eterna stagione delle leggi speciali. Di lì a poco, in una riflessione affidata a un volantino sfuggito al sequestro, Luigi Felicò, un internazionalista che conosce la galera borbonica, non ha dubbi: con l’unità, la sorte del dissidente politico è peggiorata.
Cultura della crisi, normativa emergenziale, indeterminatezza e strumentale confusione tra reato comune e reato politico, sono da allora i perni della gestione e della regolamentazione del conflitto sociale. Un’impostazione che non muta nemmeno nel gennaio 1890, col codice Zanardelli. Per il giurista liberale, la sanzione rispetta i diritti dell’uomo. Di qui la libertà condizionale, l’abolizione della pena capitale e la discrezionalità del giudice nella misura dell’effettiva colpevolezza del reo. Zanardelli, però, affida la tutela dello Stato nei momenti di crisi sociale a un “Testo unico” di Polizia, cui offre forti basi teoriche e strumenti efficaci, ma pericolosi: vilipendio delle istituzioni, incitamento all’odio di classe e apologia di reato, crimini imputati a chi esalta «un fatto che la legge prevede come delitto o incita alla disobbedienza […], ovvero all’odio tra le varie classi sociali in modo pericoloso per la pubblica tranquillità». La definizione volutamente vaga del reato offre agili strumenti repressivi e lo Stato, deciso a non dare risposte positive al malessere delle classi subalterne, può criminalizzare le lotte operaie, grazie a norme che sono contenitori vuoti, pronti ad accogliere le strumentali “narrazioni” di una polizia per cui anche il generico malcontento è pratica sovversiva. Indeterminatezza, crisi e natura emergenziale della regola – un’emergenza spesso creata ad arte e più spesso figlia legittima dello sfruttamento – diventavano così dato storicamente caratterizzante di una giustizia fondata su una “legalità ingiusta”, sulla tutela di privilegi a danno dei diritti, mediante apparati normativi che consentono di tarare gli strumenti repressivi sulle necessità dei ceti dirigenti.
Il fascismo al potere sterilizza molte norme introdotte da Zanardelli, finché nel 1930 si dà un «suo» codice firmato da Alfredo Rocco e destinato a sopravvivere al regime. La repubblica, infatti, sacrifica alla continuità dello Stato l’iniziale intento di tornare a Zanardelli e conferma Rocco, molto più autoritario, ma “tecnicamente” più moderno, in attesa di un nuovo codice che non verrà. E’ grazie a quell’attesa delusa, a quella grave scelta, che oggi, in un clima di nuovo autoritarismo, si può tornare al reato di «devastazione e saccheggio» e spezzare così la vita di un giovane, senza che in Parlamento una voce denunci la natura classista dell’operazione e i «caratteri permanenti» che segnano trasversalmente le età della nostra storia contemporanea: la criminalizzazione del dissenso, l’indeterminatezza di norme volutamente discrezionali e l’impunità assicurata alla «genetica devianza» di alcuni corpi dello Stato. Una voce libera che domandi perché il codice penale italiano che non prevede il reato di tortura, consente al torturatore di perseguire il torturato che si ribella.
Si fa un gran parlare di democrazia, ma si finge d’ignorare il nodo storico che la soffoca, un nodo che non si è sciolto col mutare della vicenda storica e ha impedito cambiamenti radicali persino nel passaggio dalla monarchia alla repubblica: liberale, fascista o repubblicana, in tema di ordine pubblico, l’Italia ha un’identità che non muta col mutare dei tempi. Da un lato, infatti, l’uso intimidatorio e per certi versi terroristico dell’emergenza legittima la ferocia delle misure repressive presso l’opinione pubblica; dall’altro l’indeterminatezza della norma lascia mano libera alle repressione. E’ una sorta di blando “Cile dormiente”, che si desta appena una contingenza negativa fa sì che, per il capitale, mediazione e regole democratiche siano merci costose e prive di mercato. Su questo sfondo si inseriscono le più o meno lunghe fasi repressive – lo stato d’assedio nel 1894, le cannonate a mitraglia nel maggio ‘98, la furia omicida in piazza durante i moti della Settimana Rossa, il fascismo, Avola, e, per giungere ai nostri giorni, Genova 2001. In questo quadro si spiegano l’indifferenza per la tortura, le impunite morti «di polizia» e i loro tragici connotati: Frezzi ammazzato di botte in una caserma di Pubblica Sicurezza, Acciarito torturato, Passannante ridotto alla pazzia, Bresci «suicidato» e il suo fascicolo sparito, Anteo Zamboni linciato dopo un oscuro attentato a Mussolini che consente di tornare alla pena di morte, e via via, Pinelli, Cucchi, Uva, Aldrovandi e i tanti sventurati che nessuno paga.
Non è questione di momenti storici. Se nel 1894, per colpire il PSI, Crispi si «affida» all’esperienza di un prefetto per un processo che non lasci scampo – e il processo truccato si farà – la repubblica cancella la verità col segreto di Stato. In ogni tempo, indeterminatezza e discrezionalità della legge consentono di colpire il dissenso come e quando si vuole. In età liberale a domicilio coatto ti manda la polizia, col fascismo il confino non riguarda i magistrati e il “Daspo” che Maroni e la Cancellieri, avrebbero voluto estendere al dissenso di piazza, è sanzione amministrativa. Quale criterio regoli da noi il rapporto legalità, tribunali e dissenso emerge da dati che non ci parlano di età liberal-fascista, ma repubblicana: dal 1948 al 1952, mentre nei grandi Paesi europei si contano in piazza da tre a sei morti, qui la polizia fa sessantacinque vittime. Nove furono poi i morti nel 1960, in due caddero ad Avola nel 1968 e si potrebbe proseguire. Nel 1968, quando una legge poté deciderlo, l’Italia scoprì che la repubblica aveva avuto quindicimila perseguitati politici con pene carcerarie dure come quelle fasciste. Di lì a poco, all’ennesima emergenza – stavolta è il terrorismo – si replicò col fermo di polizia, la discrezionalità della forza pubblica nell’uso delle armi e leggi sulla detenzione, nate per essere eccezionali, ma ancora vigenti, quasi a dimostrare che di eccezionale da noi c’è stata solo la stagione democratica nata con la Resistenza.
Così stando le cose, mentre una protesta di piazza costa a un giovane dodici anni di galera e un poliziotto che uccide per strada un ragazzo inerme se la cava con nulla, una domanda è d’obbligo: perché si fanno carte false per archiviare la Costituzione antifascista e nessuno si preoccupa di cancellare il codice fascista?

Uscito su “Report on Line” il 19 giugno 2013 e su “Liberazione.it” il 30 giugno 2013

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Non mi dilungo sul tema dell’egemonia culturale. A che servirebbe? Mi limito ad osservare che l’eccesso di attenzione dedicata alla ditta “Noemi e associate” e, per legge di contrappasso, alla spazzatura messa in circolo quotidianamente dal pennivendolo di turno, fa il gioco dei “padroni del vapore”, quale che ne sia la parte politica, se di politica a questo punto si può ancora parlare. Dopo il “vuoto a perdere” del sedicente federalismo fiscale, dopo gli esempi di pochezza politica, indigenza culturale e miseria morale, confezionati, impacchettati e messi in vendita sotto l’etichetta di quel lucido delirio chiamato “emergenza sicurezza”, la “riscoperta” delle “gabbie salariali”, non è una stravagante “trovata” della Lega Nord, alla quale quel genio di Sacconi copre prontamente le spalle con la formula del salario differenziato. Quella che ognuno di noi che sa “leggere, scrivere e far di conto” si trova ormai di fronte va ben oltre la volontà e la consapevolezza che appartengono anche a chi è fazioso, egoista e ferocemente razzista. Dietro la cosiddetta “Questione settentrionale“, così come la pongono Cota, Bricolo e Calderoli, c’è, deformato, il problema del “dualismo“: è l’alfabeto della vicenda storica e della vita economica e politica del Paese. Il tono del dibattito, la debolezza dell’analisi, l’insufficienza delle soluzioni, persino le timide e parziali risposte che provengono dal campo sedicente “democratico” dimostrano ampiamente che di questo si tratta: alfabeto. Manca, s’è perso, se n’è andato via assieme alla memoria storica e ci ha ridotti, come temeva Arfè, a un popolo di “senzastoria”. Il testo che qui ripropongo, con sincera umiltà, uscì sulla rivista “Prospettiva Settanta”, diretta da uno studioso di grande valore come Giuseppe Galasso, alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, è perciò certamente “datato” – e non ha altra pretesa se non quella di tornare al tema centrale e irrisolto della nostra vita nazionale: la “questione meridionale”. Per Cota e compagni potrebbe essere un primo strumento per porre rimedio a quello che appare un evidente e pericoloso “analfabetismo di ritorno”.

Il «risorgimento» industriale di Napoli a inizio secolo

Un corretto inserimento nella storia dello sviluppo economico italiano della legge 8 luglio 1904 per il ‘risorgimento’ industriale di Napoli non può prescindere dalla definizione degli obiettivi politici complessivi in cui la scelta industriale per Napoli certamente rientrò (1).
In tal senso, una ricerca a carattere locale sarebbe fine a se stessa. Se ad inizio secolo, infatti, Napoli non era più la capitale di uno Stato, era certa­mente capitale della più ampia area d’arretratezza economica del Regno d’Italia. È evidente, quindi, che solo una corretta individuazione delle linee di tendenza e delle scelte di fondo che caratterizzarono lo sviluppo economico italiano dai primi anni dell’unità all’età di Giolitti può servire a comprendere la funzione reale che, in quello sviluppo, era chiamato ad assumere il tardivo processo d’industrializzazione avviato nel Napoletano (2).
Questi brevi appunti, utili, all’eventuale elaborazione di un discorso più articolato sulla storia dell’industria in Campania, intendono solo mettere a fuoco alcuni aspetti della questione. In tal senso appare necessario accennare, anzitutto, a quella linea di tendenza della ricerca storiografica, che addebita lo sviluppo dualistico dell’economia italiana alla mancata attuazione nel Sud del Paese di grandi opere di bonifica, alla sopravvivenza del latifondo e del sistema feudale, ad una borghesia riluttante ad incrementare gli investimenti e a modificare i contratti agrari, proclive ad attività industriali dai caratteri meramente speculativi. In altri termini, alla condizione di debolezza e di rista­gno in cui versava l’economia meridionale nel 1860.
Su questa linea si muovono quegli studiosi che non assumono l’entità del divario economico tra le regioni italiane nel 1861 come parametro attraverso cui valutare la complessiva crescita economica del Regno d’Italia, ma subordinano a quella disparità iniziale l’accentuarsi sempre più marcato del dualismo e, quindi, l’esistenza delle cosiddette ‘due Italie’.
Gino Luzzatto, ad esempio, uno dei più autorevoli esponenti di questo indi­rizzo storiografico, rilevando come, in un Paese che nel 1861 versava in condi­zioni di arretratezza secolare (3), già negli anni successivi alla crisi del 1873-74 fosse nata un’industria concentrata quasi esclusivamente nelle regioni nord­occidentali, prima è indotto a sopravvalutare i progressi compiuti poco prima dell’unità da alcune regioni, poi, per giustificare gli errori della Destra Storica, ricorda la necessità di « riparare all’inerzia dei passati governi» (4).
Seguendo questa linea, egli giunge così a giustificare una politica che, dal 1861 al 1875, aveva sì portato la ferrovia da Bologna ad Otranto e la rete ferroviaria del Sud dal 7,25 % al 32 % del totale nazionale, ma aveva anche espropriato in soli sei anni, dal 1873 al 1878, ben 29.554 agricoltori meridionali (1’88 % degli espropriati del Regno) per l’irrisorio debito complessivo d’imposte di £. 2.948.110, pari ad una media di £. 99,75 per ogni espropriato (5).
Persino la ripartizione territoriale della spesa sostenuta dal 1870 al 1876 per l’acquisto di macchine agricole (77% al nord, 12 % al centro 11 % al sud) sembra giustificata al Luzzatto

«dalla mancanza, nell’area centro meridionale, di vaste pianure, dalla maggior dif­fusione delle colture arboree, distribuite spesso a breve distanza dei campi seminativi, !’impiego di aratri, specialmente adatti a scavi profondi », insomma da motivi di ordine tecnico per cui «l’impiego di aratri […] di seminatrici e di falciatrici risulta – il più delle volte – inopportuno» (6).

Soffermarsi sulle contraddizioni di uno studio per tanti aspetti fecondo di positive indicazioni sarebbe, però, solo sterile esercizio polemico. Più utile mi pare notare come ognuna di esse, in fondo, sia determinata dal fatto che altro è rilevare come, nel 1860, il Sud versasse in condizioni di maggiore arre­tratezza economica nei confronti del Nord, altro che la disparità fosse tale che al Nord esistessero già le premesse dello sviluppo che vi si è realizzato, mentre il Sud fosse condannato sin da allora al sottosviluppo.
Ciò è difficile da accettare, perché equivale a dire che la maniera in cui avvenne l’unificazione nazionale e la politica dei governi postunitari non abbiano influito sulla vicenda economica dell’Italia o, peggio ancora, come afferma il Morandi, che lo sconcerto economico e lo squilibrio erano fatali (7).
Questo significa, in pratica, che ad un’Italia politicamente unita dovevano, per forza di cose, corrispondere ‘due Italie’ economicamente separate dalla diversità del loro sviluppo.
In verità, io non credo alla fatalità della Storia. Mi pare inoltre che, pur giungendo a spiegazioni diverse del dualismo, gli studiosi che rilevino dispa­rità tra le strutture economiche del Nord e del Sud, esprimano tutti serie per­plessità sulle prospettive complessive di sviluppo dell’Italia del 1861 (8).
Morandi stesso, del resto, scrive che il dominio austriaco sulla Lombardia era stato durissimo e che il Piemonte e la Liguria avevano languito sotto i Savoia. Insomma che l’Italia era fuori della partita che metteva in gara i paesi del continente

«nel dare impulso all’industria come fattore principale di innovazione del vecchio sistema della produzione e degli scambi» (9).

Escludendo un raffronto tra l’entità della produzione e del patrimonio indu­striale, egli afferma che un altro distacco

«che si accentuerà tanto più rapidamente in pochi decenni, è invece già segnato molto nettamente nel processo capitalistico che ha avuto l’avvio nel Nord e che va incatenando cospicue masse della popolazione rurale. Il mercante imprenditore è ormai sulla soglia di trasformarsi in industriale» (10).

Morandi individua così una figura sociale che al Sud era lontana dal configurarsi e che fece sentire il suo peso nello sviluppo successivo del Paese; una figura che non poteva, tuttavia, avere da sola la forza: di imprimere al Nord la spinta che condusse alla formazione di un’industria moderna e proiettò «la sua ombra cupa nella involuzione parallela del Sud» (11).
Resta infatti da chiarire come il mercante-imprenditore abbia potuto tra­sformarsi in capitalista e mutare in industriale un’economia. la cui base agri­cola era così prevalente pochi anni prima, da riflettere i suoi caratteri anche su quel settore tessile, che solo pare al Morandi degno di menzione (12).
Come che stiano le cose, appare evidente che le contraddizioni sin qui rile­vate derivano da analisi diverse, ma tutte fondate su un comune, errato presup­posto. Intendo dire che, non solo è inesatto addebitare l’origine del duali­smo al divario esistente fra gli Stati italiani al momento dell’unità, ma addi­rittura che, avviata in tal senso, una ricerca si muova su un terreno imprati­cabile. La consistenza di materiali informativi sulle singole economie regionali, infatti, è eterogenea, offre dati disparati e scarse possibilità di raffronti tra lo stato dei vari settori industriali e le condizioni dell’agricoltura tra una zona e l’altra del Paese, ad una data più o meno precisa o in un arco di tempo ampio abbastanza per esser valutato (13).
È qui, nello iato tra l’inconsistenza dei dati a disposizione eterogenei e dif­ficili da compararsi, e l’entità dei problemi cui si vorrebbe dar risposta, che esiste probabilmente il difetto di analisi: nel vedere all’origine delle ‘due Italie’ quel dualismo preesistente all’unità, del quale non è poi possibile valutare con esattezza l’entità.
A me pare che il problema vada ribaltato e che non da un dualismo ‘in nuce’ occorra partire, ma da ciò che dopo l’unità fu fatto perché esso, anziché aumentare a dismisura, diminuisse.
Partire dall’assunto che l’economia italiana nel suo complesso, al momento dell’unità, offriva ben poche prospettive di sviluppo industriale, e poi argo­mentare sulla maggiore o minore arretratezza di singole realtà territorialmente limitate è, in sostanza, fuorviante, perché realtà tali da presentare compiuta­mente i caratteri di un’economia in grado di produrre un autonomo sviluppo di tipo industriale sono, in fin dei conti, escluse proprio dalla considerazione iniziale.
Inoltre, riferirsi ad esperienze e possibilità economiche realizzate in alcune regioni a metà Ottocento, significa introdurre nell’analisi una variabile dai caratteri indefiniti, già difficile da valutare in relazione a un ristretto ambito territoriale e in un quadro politico definito, impossibile da determinare in una realtà territoriale diversa e più ampia, in un quadro politico del tutto mutato e in fase di stabilizzazione, in una situazione assai carente di prospettive di sviluppo industriale.
Anche a voler condividere, infine, i giudizi positivi espressi sulla politica seguita nel Regno di Sardegna prima del 1860, va notato che la stessa politica produsse nel Regno d’Italia più guasti che sviluppo. Ma ciò non meraviglia: la politica degli Stati regionali mal s’adattava ad uno Stato più vasto e dalla realtà ben più complessa, qual era quello italiano.
Quando osserva che, dopo l’unità, i provvedimenti presi dal governo aggra­varono gli squilibri tra il Nord e il Sud (14), non ad un preesistente dualismo il Candeloro imputa il carattere territorialmente parziale dell’industrializzazione italiana, ma alla persistente crisi agricola del Sud (15). Sia stata o meno questa la causa prima della limitatezza territoriale della base industriale italiana e della sua incapacità di estendersi al Sud, egli scinde correttamente la realtà degli Stati regionali da quella dello Stato unitario e pone l’accento sulle scelte della classe governante italiana.
In questa ottica si può ritenere che la causa storica del dualismo sia nella maggior precocità della rottura col sistema feudale registratasi nel Nord del Paese (16). Storica, in quanto ereditata dallo Stato unitario, e, come tale, destinata a essere eliminata dal nuovo Regno.
Quando i primi governi italiani, con scelte conservatrici della struttura agraria e con il salvataggio del latifondo meridionale, impedirono che la rot­tura col sistema feudale avvenisse anche al Sud, quando le disparità tra Stati regionali furono ereditate da uno Stato unitario che non operò per equilibrare il quadro economico, allora quelle che erano solo diverse potenzialità si muta­rono in elementi portanti di ciò che definiamo ‘sviluppo dualistico’. Prima no. Prima le realtà regionali erano entità a sé, che nulla avevano a che dividere con la successiva realtà del Paese. Costituivano, questo sì, uno dei nodi che la classe dirigente italiana doveva sciogliere, ma non sono l’origine del problema centrale della nostra storia nazionale.
Non al malgoverno borbonico o alla politica degli Asburgo occorre, quindi, risalire, e nemmeno alla lungimiranza di Cavour (17), ma ai programmi economici dei primi governi italiani e alla concezione dello Stato che guidò i successori di Cavour. A quei Ministeri, insomma, che posero in sincronia la politica econo­mica con gli interessi di proprietari fondiari e ceti professionali emergenti, la politica estera con le ambizioni dei Savoia, cercando sostegno diplomatico in Inghilterra e Francia ed estendendo l’indirizzo liberista piemontese ai territori annessi.
Naturalmente il liberismo garantì alle aree più equilibrate e moderne nella suddivisione e conduzione della terra un primo accumulo di capitali, maggior occupazione e circolazione di manodopera, crescita e consolidamento di ceti sociali più attivi sul piano economico. Colpì duramente, invece, le regioni in cui latifondo, arretratezza nella gestione delle terre e immobilismo fondiario impedivano di profittare di nuove opportunità commerciali e richiedevano ben altri interventi legislativi (18).
Ristrutturare i catasti, intaccando il latifondo senza generare una polve­rizzazione della proprietà fondiaria, e ridistribuire gli oneri sociali, avrebbe potuto favorire un aumento di produttività agricola e colpire lo strapotere di baroni e, ‘galantuomini’. Sarebbe stato possibile avviare opere di bonifica, incoraggiare investimenti produttivi, favorire il credito agricolo. Nulla di ciò fu fatto.
Mentre l’artigiano era proletarizzato e il piccolo proprietario espropriato, l’agricoltura del Sud non tornava utile nemmeno all’attività manifatturiera e commerciale legata alla produzione rurale; di conseguenza,

«con il crollo improvviso delle vecchie bardature protezioniste si riducevano le potenzialità dell’industria napoletana» quando «al Nord numerosi erano gli stabili­menti sorti negli ultimi anni con grande dispendio di mezzi e di capitali» (19).

Che ciò sia poi accaduto perché a governare erano

«reduci dalle lotte per l’unità nazionale che, proprio per l’importanza” assegnata “alla causa dell’indipendenza politica, ritenevano pressoché concluso il loro compito» (20),

ha scarso rilievo, perché, più che mediocre statura politica, mi pare che quei ‘reduci’ dimostrarono la volontà egemonica della classe sociale minoritaria di cui furono espressione. Talune scelte economiche sembrano così poco chiare, da indurre il Luzzatto a scrivere che sarebbe assai utile

«spingere l’occhio molto più addentro in alcune vicende» per «scoprirne la vera natura, su cui gli atti ufficiali ci lasciano sovente all’oscuro» (21).

Come che sia, non v’è dubbio che, individuando due realtà distinte della società italiana al momento dell’unità, due logiche evolutive diverse e poco comunicative tra loro, e inserendole in un ‘fenomeno’ duali­stico verificabile in ogni Paese in cui un processo di sviluppo sia avviato in condizioni di partenza caratterizzate da separazione originaria e fortemente ineguali quanto a livello (22), si è compiuto l’errore di negare il nesso di causa ­effetto che è insito nel maggior sviluppo di una sezione in rapporto al minore sviluppo dell’altra.
In effetti, senza inserire nel modello adottato una variabile ad esso estra­nea, e cioè il legame organico che l’azione politica determina tra lo sviluppo del Nord e quello del Sud, una simile operazione restringe solo in una astratta staticità un fenomeno del tutto dinamico. Se è vero infatti che al momento dell’unità

«la questione fondamentale per le regioni del Nord era di trasformarsi, da una sezione per tanti versi periferica e subalterna, in un’area autonoma di sviluppo; altrove invece, nel resto del Paese, il problema essenziale era ancora il riscatto da condizioni mortificanti di miseria endemica e di secolare arretratezza» (23),

è altrettanto vero che, solo venticinque anni dopo, al Nord il problema era di difendere e potenziare lo sviluppo economico che la politica liberista vi aveva determinato, mentre al Sud era quello del sottosviluppo che si era aggravato.
Sulle condizioni dell’industria meridionale al momento dell’unità si è discusso spesso con l’intento di dimostrare che gli scrittori meridionali ne sopravvalutarono l’entità (24). I problemi in effetti sono due: le possibilità di sopravvivenza di una parte dell’industria borbonica e la distribuzione delle commesse dello Stato dopo l’unità.
Dalla vicenda della Wenner, un’industria tessile costituita da un complesso di opifici ubicati tra Napoli e Salerno e che fu prospera fino al 1860, narrata dal suo proprietario, si ricava che essa si salvò dal disastro che colpì l’industria meridionale dopo l’unità grazie alla disponibilità di forti capitali, che permisero una rapida ristrutturazione (25).
Il successo del cotonificio, contemporaneo a quello di altri della zona e rea­lizzato nel corso di una profonda crisi internazionale del settore (26), è partico­larmente significativo, perché lascia supporre, infatti, che, se al Sud fossero stati reperibili quei capitali che, come ammette l’Einaudi. furono trasferiti al Nord, alcuni opifici meridionali avrebbero potuto sopravvivere e riprendersi. Su una tale ipotesi, cui fa cenno anche Luzzatto, non sarebbe forse inutile tornare a riflettere (27).
Alcuni indizi sembrano indicare che anche il disastro toccato all’industria bellica meridionale, che certamente risentiva poco della concorrenza straniera, non fu determinato solo da congenita debolezza ma anche da pregiudicanti scelte politiche.
Nel 1861, ad esempio, lo Stato italiano ereditò il complesso che sfruttava il minerale estratto dalle miniere di Stilo in Calabria, lo fondeva nel vicino stabilimento di Mongiana e riforniva l’Arsenale di Napoli. La sua produzione di ghisa costituì in quell’anno circa 1/10 di quella nazionale (28). Nel 1866 il complesso passò in appalto gratuito a un privato; condizione unica, l’esauri­mento delle giacenze di magazzino. Scaduto il contratto, l’azienda fu vendute ad azionisti francesi, inglesi e torinesi che facevano capo al Credito Mobiliare (29). L’officina meccanica di Pietrarsa a Napoli, nata dalla fusione con una fabbrica dei Granili, tra le migliori d’Italia e attrezzata per produrre rotaie, non ebbe miglior sorte: ricevette commesse solo per un sesto delle locomotive previste dal piano d’incremento della rete ferroviaria del Sud e negli anni ‘80 era già in crisi (30). È almeno naturale chiedersi, a questo punto, se tra l’esiguità delle commesse e la cessione dell’Officina a un gruppo finanziario napole­tano nel 1863, non corra più d’un legame.
La sorte dei cantieri navali non è più chiara. In Italia, è vero, l’industria cantieristica per costruzioni in ferro non

«avrebbe potuto sorgere […] grazie alle commesse […] della Marina, perché lo Stato da anni costruiva nei propri arsenali tutto il materiale necessario alla flotta» (31).

Ma quale Stato, quali arsenali? Prima dell’unità, i cantieri liguri lavora­vano per i Savoia, quelli campani per i Borboni. Chi costruì per la Marina da guerra italiana?
I cantieri navali di Castellammare di Stabia, che, proseguendo un lavoro iniziato per i Borboni, dopo l’unità, vararono per la Marina la prima coraz­zata (32) e, dal 1864 al 1881, la fregata ‘Messina’ e le corazzate ‘Duilio’ e, ‘Italia’ non erano certo inferiori a quelli liguri per efficienze e potenzialità (33).
Nel 1884, però, in vista d’un riarmo navale a sostegno di ambizioni espan­sionistiche in Africa, il governo italiano invitò la società inglese Armstrong ad aprire un cantiere navale a Pozzuoli, presso Napoli (34). Perché si scelse la Campania e non la Liguria non è dato sapere, ma è fin troppo chiaro che l’Armstrong col tempo avrebbe sottratto commesse ai suoi ‘vicini’. Alla scelta, poi, non fu certo estranea la considerazione che, come vedremo, al Sud ,la forza-lavoro era molto meno cara che al Nord (35).
I dati che possediamo sulle fabbriche d’armi sono scarsi, ma sono anche i meno utili: il Regno dei Borboni non dipendeva dall’estero per fucili e baionette più che gli altri Stati italiani. Se pochi anni dopo l’unità le sole industrie di armi degne di esser menzionate erano quelle bresciane (36), ciò può significare solo che, anche in questo settore, le commesse statali al Sud vennero a mancare.
Troppo frettolosamente, mi pare, si è giunti alla conclusione che l’industria meridionale non possedeva in sé forza vitale né radici (37). È probabile, invece, che là dove radici esistevano o potevano esser messe, la politica economica dei primi governi italiani provvide a reciderle.
Quando, a inizio secolo. il capitale settentrionale scese al Sud (di dove in qualche misura probabilmente proveniva), il campo era sgombro. Come per un lapsus freudiano non si parlò però di far sorgere, ma ‘risorgere’ l’industria a Napoli. Un risorgimento che non sarebbe stato nemmeno tentato se liberismo prima, protezionismo poi, non ne avessero determinato i presupposti e la legge speciale non avesse garantito materie prime a buon prezzo e decennali esen­zioni fiscali.
In effetti, la politica di protezione doganale non mirava a correggere errori del passato, ma a sostituire quella liberista che aveva esaurito la sua funzione. Essa fu adottata, del resto, solo quando gli agrari, pressati dal crollo dei prezzi, dalla crisi di produzione agricola e zootecnica e dall’abolizione del corso forzoso, invocarono dallo Stato una ‘protezione’ che già gli ambienti industriali ritenevano indispensabile per sostenere una concorrenza straniera che metteva a nudo la debolezza dell’economia nazionale.
Frutto di un’equivoca comunanza d’interessi, che ben s’accordava, del resto, con le ambizioni di casa Savoia e dei nazionalisti, ormai pronti per l’avventura coloniale, la nuova politica doganale servì a meraviglia a tacitare gli agrari, a soddisfare gli industriali e a potenziare una debole industria pesante, chiamata a rafforzare la Marina militare.
Dall’unità non erano trascorsi più di trent’anni. Non era chiaro, ma si delineava in quell’ambigua fusione d’interessi, il progetto egemonico dell’ala più avanzata della borghesia nazionale che, in nome del prestigio e della sicurezza del Paese, mirava alla totale subordinazione degli interessi pubblici a quelli privati, del potere politico a quello economico.
In realtà, l’allineamento della componente più dinamica della borghesia sulle posizioni tenute da radicali e socialisti durante la crisi di fine secolo, il favore stesso con cui fu accolta la mediazione giolittiana, furono scelte tattiche consapevoli nel quadro d’una strategia già sperimentata anni prima, quando il protezionismo era stato ottenuto mediante un compromesso con gli agrari che, alla fine, aveva indebolito proprio la posizione politica di questi ultimi (38).
Anche la crisi di fine secolo si risolse con un compromesso, quello liberal-­socialista attuato da Giolitti e Turati, che consentì all’economia italiana di pro­seguire nel suo sviluppo, anzi di assumere i suoi caratteri definitivi. In quegli anni, infatti, inserendosi sempre più profondamente nei gangli dell’or­ganizzazione statale, il potere economico (alta finanza e grossa industria al Nord e, in posizione sempre più subalterna, gli agrari del Sud) prese a spin­gere a senso unico lo. politica italiana (39). Questo non sarebbe accaduto senza un avvenimento dalla portata ben più ‘rivoluzionaria’ dell’avvento della Sinistra al potere: l’appoggio socialista alla politica di Giolitti, che significò il passaggio da una opposizione dura e di principio del gruppo parlamentare socialista, a un atteggiamento di confronto più costruttivo.
Una delle conseguenze della politica di Giolitti fu la totale emarginazione del Sud dal processo di sviluppo economico del Paese. Un’emarginazione che, a lungo andare, indebolì le potenzialità complessive del Paese e ne rallentò lo sviluppo democratico e civile. Essa però fu determinata, non meno che dalla politica di Giolitti, dalla incapacità dei socialisti di valutare il senso del « rifor­mismo» giolittiano e di elaborare un progetto politico alternativo a quello borghese.
Persino i sindacalisti rivoluzionari, che si opponevano ad ogni compro­messo con la borghesia, nel dibattito sull’intervento speciale per il Sud, furono decisi assertori d’una opzione industriale che, senza effettive contro­partite per il proletariato meridionale, offriva a imprenditori e finanzieri l’op­portunità di investire capitali garantiti dalla più ampia esenzione fiscale, di accedere a mercati poveri, ma utili come riserva, e di sfruttare una manodopera tanto più economica quanto più abbondante, dequalificata e poco organizzata a livello sindacale (40).
Pur tenendo conto della perdurante debolezza del movimento operaio nazionale negli anni immediatamente precedenti il varo della legge speciale per Napoli, il 1898 appare particolarmente adatto per tentare un confronto tra le capacità organizzative e combattive del proletariato nelle diverse aree del Paese. In quell’anno, 256 scioperi scossero il Paese da un capo all’altro, scate­nando la dura reazione governativa e preparando il terreno a quella svolta desti­nata a identificarsi col nome e la politica di Giolitti (41).
Benché le organizzazioni politiche e sindacali, più presenti nell’area centro­settentrionale del Paese, fossero state sciolte, al Nord si registrò il 56 % degli scioperi del settore industriale, con il 61 % degli scioperanti e il 67% delle giornate di sciopero. Nell’Italia centrale gli scioperi furono il 29 % del totale nazionale con il 22 % degli scioperanti e il 18 % delle giornate di sciopero; in quella meridionale invece gli scioperi attuati furono solo il 15 % del totale con il 17 % dei partecipanti e il 15 % delle giornate lavorative perdute (42).
Anche la durata degli scioperi separa nettamente le tre aree del Regno. Infatti 6 sono al Nord e 5 al Centro gli scioperi che superano la durata di un mese, solo 2 (entrambi attuati in Sicilia) quelli registrati al Sud. Ancora all’Italia del Nord tocca il primato per gli scioperi durati dai 10 ai 30 giorni 43, per quelli durati da 4 a 10 giorni (44) e quelli vhe non andarono oltre i 3 giorni (45).
Il diverso esito delle agitazioni conferma le disparità sin qui rilevate. La percentuale degli scioperi terminati al Sud con esito completamente o parzial­mente favorevole, il 46 %, è inferiore sia a quella dell’Italia centrale [62 %], che settentrionale [52 %].
Al contrario, la percentuale degli scioperi terminati con esito sfavorevole agli operai è di gran lunga più alta al Sud che non al centro e al Nord: 54 % contro 38 % e 48% (46).
Per quanto concerne i motivi che li determinano, gli scioperi si possono dividere in rivendicativi (richieste di aumenti di salario e di riduzione di lavoro), difensivi (resistenza contro la riduzione del salario o 1’aumento delle ore di lavoro) e, infine, di carattere indefinito, determinati da cause diverse dalle precedenti (47). Anche in questo caso, la situazione di debolezza del Sud appare evidente. Al Nord si hanno infatti il 48 % degli scioperi rivendicativi, il 56 % di quelli difensivi e il 75 % di quelli determinati da altre cause. Le percentuali al centro sono rispettivamente del 33 %, del 23 % e del 16 %; al Sud, infine, del 19 %, dell’8 % e del 9 % (48).
È evidente che quello meridionale rappresentava, in un proletariato già disgregato come quello italiano, l’elemento più debole, più disposto, cioè, a produrre di più e a più basso costo, il parametro inferiore, la variabile su cui contare per gestire sia l’asfittico processo di sviluppo che la legge speciale per Napoli innescava sia le inevitabili crisi cui esso conduceva.
Sulle disparità salariali tra le diverse aree del Regno e all’interno dei me­desimi comparti industriali mancano dati precisi, ma alcuni confronti confer­mano !’ipotesi d’una netta sperequazione tra Nord e Sud (49).
Fino al 1877 il salario medio risulta in Campania inferiore a quello di Lombardia, Liguria e Piemonte. Le differenze variano per gli uomini da un minimo di £. 0,28 ad un massimo di £. 1,25; per le donne dai 15 ai 30 centesimi; per i ragazzi dai 16 ai 28 centesimi. È un dato generico, ma non insignificante (50).
Per gli anni successivi sono possibili confronti più attendibili. Nel 1891, ad esempio, alla Keller, uno stabilimento tessile di Villanovetta, in provincia di Cuneo, 13 operai di diversa specializzazione percepivano assieme, per un giorno di lavoro, £. 10,74. Se avessero lavorato in una fabbrica tessile di San Leucio, in provincia di Caserta, avrebbero percepito £. 2,49 in meno. In pratica, pagando i salari corrisposti al Sud, la Keller avrebbe risparmiato il costo dell’intero reparto delle incannatrici (51).
Paragonato a quello di una fabbrica di Forlì, la Brassini, il salario degli operai di San Leucio era ancora più basso: assieme, nove operai casertani ricevevano infatti in una giornata £. 2,60 in meno di nove operai della Brassini con identica specializzazione. Coi salari di San Leucio la Brassini avrebbe risparmiato il costo di cernitrici, strusere e mazzanti (52).
Disparità non meno chiare emergono dal settore meccanico. Nel 1893, all’Ansaldo di Sampierdarena, il lavoro di ventuno operai, divisi in sette specia­lizzazioni con tre livelli salariali ciascuno, più quello di cinque capi laboratorio costava £. 150,50, cioè £. 7,69 in meno che alla Hawthorn & Guppj di Napoli (53). Sommando la retribuzione media delle sei specializzazioni che, nel 1898, costituivano l’organigramma operaio delle due aziende, si ricava che, alla Hawthorn & Guppj si risparmiavano, in media, £ 2,60 al giorno per ogni sei operai (54).
Più indicativi sono i dati sulla Società Strade Ferrate del Mediterraneo, con sede a Milano e opifici a Torino, Genova, Milano e Napoli, perché con­sentono di confrontare salari di operai di uguale mansione occupati in sedi diverse d’una medesima azienda. Nel 1899 la giornata di trenta operai era pagata a Torino con £. 110,90, a Milano con £. 109,38 e a Napoli con £. 103,79: una differenza di £. 7,1I in più rispetto a Torino e 5,29 rispetto a Milano. L’officina napoletana era quella di Pietrarsa (55).
Il basso costo della forza lavoro non giovava molto al capitale meridionale, praticamente inesistente (56). Su di esso, al contrario, poteva ben contare chi, senza molto temere da un proletariato disgregato, s’accingeva a ‘industrializ­zare’ il Napoletano, allettato da protezioni ed esenzioni fiscali e rassicurato per­sino dai socialisti, i quali, ricordando che

«la prudenza e la moderazione è una necessità per ogni specie di movimento operaio, ma in modo particolare in un ambiente che soffre appunto per difetto d’industrie» (57),

assicuravano:

«a Napoli […] scongiuriamo quasi sempre lo sciopero e lo consigliamo solo nei mo­menti di assoluta legittima difesa» (58).

Enrico Leone trascinava addirittura i sindacalisti rivoluzionari sulle posi­zioni duramente contestate ai riformisti, invitandoli a favorire la formazione del capitale (59). Paradossalmente, il patto di tregua sociale che legava Turati a Giolitti trovava garanti al Sud proprio in Labriola e Leone, nei suoi critici cioè più severi. Ecco dunque che, proprio negli anni in cui la borghesia italiana perse­guiva obiettivi ormai abbastanza definiti e, movendosi su  una linea strate­gica sperimentata, finalizzava gli indirizzi politici a quelli economici, il dibattito nel P.S.I. si faceva più lacerante, la sua strategia più confusa, più incerti gli strumenti per realizzarla.
Quando iniziò l’esperienza liberal-riformista, il P.S.I., impegnato a conci­liare una dottrina rivoluzionaria con una prassi parlamentare riformista, si trovò subito costretto a contentarsi di piccoli e mai determinanti successi e ad offrire il fianco all’azione di logoramento che la borghesia andava compiendo, utilizzando l’innegabile perizia tattica di Giolitti.
Nell’attesa messianica che vi si compisse ad opera della borghesia la ‘rivo­luzione democratica’, il Sud rimaneva intanto del tutto estraneo al progetto riformista di Turati (60), che, attrezzato il partito per una navigazione di cabotaggio lungo la rotta liberaI-socialista, contribuì non poco a consolidare l’anomalo meccani­smo di sviluppo del Paese e agevolò, in ultima analisi, l’affermazione non solo economica, ma anzitutto politica del grosso capitale (61).
Non a caso, quando Turati volle sintetizzare il programma meridionalista del P.S.I., parlò di egemonia

«della parte più avanzata del Paese sulla più arretrata, non per opprimerla anzi per emanciparla e sollevarla» (62).

Era una formula inaccettabile, che codificava l’esistenza delle ‘due Italie’, quella progredita e in progresso al Nord, quella arretrata e da emancipare al Sud. In pratica riduceva il Sud a soggetto passivo dello sviluppo del Paese e ne relegava il proletariato in posizioni subalterne rispetto a quello del Nord. Sbandierando i vessilli della socializzazione delle terre e della conquista del Parlamento, Turati abbandonava il Sud al trasformismo (63).
Se alla fine dell’Ottocento la pratica trasformista, offrendo favori e spazio politico agli agrari, aveva consentito di far passare senza proteste le numerose protezioni e i sussidi concessi all’industria settentrionale (64), negli anni del ‘boom industriale’ quel sistema di forzature divenne pienamente operante: ciò avvenne, in pratica, quando Giolitti, approfittando della crisi d’identità del P.S.I., portò a perfezione quel meccanismo per il quale sin dall’Unità le zone depresse del Paese si erano trasformate in aree di sfruttamento e il sottosvi­luppo del Sud era sempre più diventato funzionale allo sviluppo del Nord.
C’è chi tende a far passare per fisiologico l’instaurarsi d’un tale rapporto, come se avesse generato un meccanismo di sviluppo in grado di funzionare autonomamente. Al contrario, il meccanismo non avrebbe funzionato senza che, a Nord e Sud territorialmente intesi, non avessero fatto da complemento un Nord e un Sud della classe lavoratrice, senza che il compromesso liberal-socialista non avesse fatto da contraltare al trasformismo, conferendo all’ala riformista del P.S.I. la funzione che, nella prassi parlamentare, era stata assolta dai 1atifondisti.
Non fisiologico, ma patologico fu, a ben vedere, quel rapporto. Da esso non poteva nascere che uno sviluppo economico ma1certo, limitato a un’area del Paese e garantito dalla miseria di quelle rimanenti; uno sviluppo in cui la povertà d’una classe sociale fu istituzionalizzata e resa funzionale alla prospe­rità di un’altra, quanto il sottosviluppo del Sud lo fu allo sviluppo del Nord.
È in questa ottica che si inserì la legge per Napoli, una legge altrimenti inspiegabile per la sua estraneità al contesto sociale ed economico cui si appli­cava, tanto discordante nei presupposti e negli obiettivi che Savarese, pur ritenendo che senza di essa l’industria a Napoli avrebbe rischiato di sparire, non può evitare di precisare che questa constatazione non ne contraddice altre,

«altrettanto fondate, sull’esito deludente dei programmi di rapida preindustrializ­zazione» (65).

Ma quell’esito deludente, più che indurre a ripensare criticamente gli indi­rizzi meridionalisti intorno alle specializzazioni concretamente incentivabili, nel quadro unitario dei meccanismi di produzione operanti, che non sono poi così generici come sembrano al Savarese (66), dovrebbe proporre interrogativi sulla volontà politica di elaborare un progetto di sviluppo economico del Sud. A me pare addirittura che non si possa parlare dell’esito deludente della legge spe­ciale per Napoli come di un non riuscito aggancio delle regioni del Sud alla crescita della società italiana (67). Non si può, perché quell’aggancio non fu nemmeno tentato. In realtà, la legge del 1904 non si inquadra in una ‘politica per il Sud’ nel senso stretto della parola, perché elude i motivi di fondo della tematica del Nitti, che sembra ispirarla, e si modella sullo stereotipo dello sviluppo della borghesia nazionale, a cui risulta, in definitiva, funzionale. È per questo che riesce difficile condividere l’opinione di chi ritiene la linea politico-economica seguita dopo l’unità pienamente rispon­dente all’interesse della collettività e il sacrificio di interi settori economici e di gran parte della classe lavoratrice necessari e reversibili (68).
Di recente Savarese ha provato a fondare su basi diverse l’analisi del dualismo dell’economia italiana e, pur sopravvalutando probabilmente la comprensione del problema del Sud da parte dei fautori del ‘filone industriale’, ha colto importanti contraddizioni nell’abusata prassi delle leggi speciali, osservando come, con l’epilogo del decollo industriale del periodo giolittiano,

«il patrimonio produttivo meridionale ha aumentato la sua incapacità a far fronte persino alle più elementari necessità delle popolazioni locali», che la Campania, la zona più industrializzata, ha assunto «una funzione trainante anche nei processi di sottosviluppo»

e che Napoli, infine, ha subito

«paradossalmente tanto la solidità ben superiore della struttura produttiva del Nord, che la desolante miseria dell’area eco­nomica in cui è inserita» (69).

Anche Giovanni Aliberti, del resto, osserva giustamente che qualsiasi tentativo di sviluppo economico della Campania, incapace di

«cogliere il nesso che legava l’eventuale crescita dell’industria urbana alla trasforma­zione economica del retroterra regionale mediante l’ammodernamento dell’impresa agraria e il rinnovamento della vita sociale nelle campagne» (70),

era destinato a fallire. Egli, come altri studiosi, addebita tale incapacità e, quindi, il fallimento della politica d’intervento speciale agli imprenditori (71). A noi pare, invece, che abbia ragione il Galasso, quando invita a non sottovalutare o deformare il ruolo e la figura dell’imprenditore campano, estromettendolo dalla struttura economica e sociale in cui si forma e opera (72). Ciò, aggiungerei, anche per evitare all’imprenditore la sorte dell’operaio campano, troppo spesso valutato nel suo comportamento sull’astratto metro della ‘coscienza rivoluzionaria’ maturata, più che in relazione alle concrete modificazioni economiche e sociali in atto. Non mi pare esatto, del resto addossare alla classe dirigente industriale del Sud un ruolo più che marginale nel fallimento della politica di legislazione speciale, almeno ad inizio secolo. E non è nemmeno del tutto esatto, a ben vedere, parlare di fallimento, perché la legge per Napoli produsse quanto si attendeva il legislatore. Se poi già nel 1908 i sindacalisti rivoluzionari scoprono di aver sbagliato ad associarsi

«all’inno degli arditi industriali settentrionali », perché «gli avvenimenti successivi han chiarito […] l’inganno di Napoli industriale» (73),

ciò non serve ad altro che a meglio inserire la vicenda economica della Campania e, in pratica, del Sud in quella complessiva del Paese. In quegli anni, in effetti, l’Italia s’avviava a pagare il prezzo della sconfitta patita da un partito operaio ancora incerto e immaturo, incapace quindi di contrastare effi­cacemente una strategia di sviluppo della borghesia che si fondava sullo sfrut­tamento e che affondava le sue radici nei rapporti di forza determinatisi già all’indomani dell’unificazione nazionale.
Nel periodo di Giolitti, e mi pare di poter così concludere le mie note, quel progetto economico divenne sempre più esplicitamente progetto politico. In tal senso va vista l’equivoca funzione della Banca, legata ormai a filo doppio alle Istituzioni e il ruolo determinante da essa assunto nella drastica mobilita­zione del risparmio. Privilegiando gli impieghi industriali del risparmio, la Banca risolse infatti il problema di un’industria che si sviluppava in un Paese dove né l’agricoltura né il commercio avevano dato luogo alla formazione di grossi capitali privati, né tanto meno il piccolo risparmiatore investiva in titoli industriali (74). In una simile situazione, assai più grave al Sud (75), un sistema di rigorosa distinzione tra banca commerciale e società di investimenti finanziari non poteva sopperire alla cronica deficienza di capitali. Di qui l’introduzione di un organismo capace di mediare le due funzioni: le cosiddette ‘banche miste’, che completarono il progetto economico della borghesia italiana.
La simbiosi tra Banca e Industria e il legame con le Istituzioni dello Stato, che si faceva garante di una settoriale politica d’investimenti, finirono per costi­tuire l’asse portante d’un sistema economico e politico che sacrificava, in pratica, le ragioni e gli interessi d’un sano sviluppo economico a quelli dei grossi gruppi finanziari, favorendo processi di crescita industriale e facendo sì che la nostra industria, tecnicamente deficiente e complessivamente arretrata, cre­scendo all’ombra dell’apparato di garanzie offerto dal sistema di protezioni, si trasformasse in un organismo parassitario.
La crisi del 1907, spingendo il mercato azionario a preferire ai titoli indu­striali i depositi bancari e le obbligazioni di Stato, indusse l’industria a ricor­rere sempre più al sostegno dello Stato e determinò fenomeni di accentramento di sempre più vasta mole, acuendo i fattori di squilibrio insiti nel sistema (76).
L’intreccio di partecipazioni e di interessi che si andava sempre più conso­lidando intorno al nucleo d’una industria pesante ch’era il settore più malato della nostra industria, anziché quello trainante, contribuiva d’altro canto alla radicalizzazione delle posizioni politiche, mentre i problemi di sovrapproduzione da cui era afflitta gran parte dell’industria italiana sembravano poter esser risolti solo da una intensificata domanda da parte delle Amministrazioni militari (77).
Ormai la mediazione giolittiana non tornava più utile e Giolitti fu allontanato dal centro della scena parlamentare. Quando vi fece ritorno, l’asse politico s’era spostato a destra e i bilanci non permettevano più di conciliare una politica di spese militari con una di riforme. Le forze che all’aprirsi del secolo avevano giudicato Giolitti l’uomo adatto al momento erano le stesse che, quindici anni dopo, lo mettevano in disparte, sostituendo ad ogni altra possibile prospettiva per l’economia italiana quella della guerra.
Che la guerra non sia una conseguenza ineluttabile di una crisi del capitale è opinione da condividere (78). È innegabile però che dall’inizio del secolo le guerre del Regno d’Italia furono combattute tutte nell’illusione di risolvere una crisi e tutte ne generarono un’altra di dimensioni più gravi. Si dirà che è difficile dimostrare che esiste un nesso tra le crisi economiche del Regno d’Italia e le sue guerre, e può essere vero; altrettanto difficile, tuttavia è negare che tra crisi e conflitto esiste un nesso che non si può definire congiunturale, a meno di volerle ritenere tutte accidenti casuali (79). In realtà il nesso esiste e va cercato nell’identificazione tra classe dirigente economica e politica. Sintetizzando, si può dire che, in effetti, la prima produceva la seconda sicché, quando la classe economica era di fronte alla crisi, quella politica la soccorreva con la guerra.
Questo discorso, però, condurrebbe lontano. A me basta osser­vare che a ogni guerra si registrava un ampliamento dei settori dell’industria pesante più presenti al Nord che al Sud, che c’erano secche perdite di capitale monetario colmate dallo Stato mediante la tassazione indiscriminata, che a ogni guerra, infine, diminuiva o si bloccava l’emigrazione. In altre parole, ogni guerra aggravò lo squilibrio economico del Paese, sicché paradossalmente si può dire che ognuna fu combattuta da ‘due Italie’ delle quali una, quella del sottosviluppo, il Sud, uscì sempre e comunque sconfitta.

Note

1) Sulla legge speciale per Napoli del 1904, cfr. Marcella Marmo, L’economia napoletana alla volta dell’Inchiesta Saredo e la legge dell’8 luglio 1904 per l’incremento industriale di Napoli, in «Rivista Storica Italiana », 1964, IV, pp. 954-1023; Francesco Barbagallo, Stato e lotte politico-sociali nel Mezzogiorno, Arte Topografica, Napoli 1976; Alfonso Scirocco, Politica e Amministrazione a Napoli nella vita unitaria, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1972; Ferdinando Del Carretto, La legge del 1904 per Napoli e la sua applicazione, Napoli 1908; Giuseppe Russo (a cura di), L’avvenire industriale di Napoli negli scritti del primo Novecento, Unione Industriali, Napoli, 1963.
2) Per gli studi più significativi sui problemi dell’industrializzazione della Campania e sullo sviluppo economico del Napoletano, si veda Giovanni Brancaccio, La Campania industriale. Bilancio storiografico, in «Prospettive settanta », n. s. VIII (I986), n. 2-3, pp. 213-231.
3) Cfr. Gino Luzzatto, L’economia italiana dal 1861 al 1894, Einaudi, Torino 1968, p. 15.
4) Ivi, p. 19.
5) Ibidem, p. 41. Le elaborazioni sono mie. Pro­seguendo nella sua politica, il fisco espropriò, dal 1885 al 1897, altri 89.347 proprietari meridionali (1’82 % del totale nazionale), trascinando cosi nella rovina anche fittavoli e mezzadri e producendo effetti devastanti su piccola e media proprietà terriera del Sud. Il rapporto medio tra espropri ed abitanti (uno su 6.154 a livello nazionale, uno su 18.357 al Nord e uno su 2.835 nell’Italia centrale) fu al Sud di un abitante su 374. I dati riportati sono in Italo Giglioli, Malessere agrario ed alimentare in Italia. Relazione di un giurato italiano all’Esposizione universale di Parigi, nel 1900, sulle condizioni dell’agricoltura in Italia, in paragone colle condizioni all’estero, Stabilimento Tipografico Vesuviano, Portici 1903. Le elaborazioni sono mie.
6) Per i dati e la citazione, cfr. Gino Luzzatto, L’economia italiana…,cit., p. 113. Le percentuali sono mie. Il Candeloro, al contrario, scrive che dopo il 1871 si evidenziarono problemi nati dal modo in cui fu attuata l’unità, dal tipo di Stato costruito e dalla politica economica seguita nel primo decennio unitario e coglie il nesso tra crisi agraria, malgoverno e dualismo, affermando «che la crisi agraria degli anni ‘80 e i provvedimenti presi dal governo aggravarono gli squilibri esistenti […] tra il Nord e il Sud ». Cfr. Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, Feltrinelli, Milano, 1970, VI, pp. I4 e 2I6.
7) Cfr. Rodolfo Morandi, Storia della grande industria in Italia, Einaudi, Torino, I959, p. 279. Forse gli scrittori meridionali sbagliano «a rappresentare quasi una parità di livello tra il Nord e il Sud al momento dell’unificazione e ad attribuire quasi esclusivamente alla legislazione dello Stato Unitario la disparità che si stabilirà e si accrescerà di decennio in decennio ». Non è meno errato però sostenere che a tale disparità fu estranea una legislazione che fu «chiara espressione della totale impreparazione e della vacuità letteraria di una classe diri­gente disarticolata all’estremo e impregnata di un infantile provincialismo ». Ivi, pp. 278-279.
8 ) Con Luzzatto, anche Castronovo, come vedremo, esprime dubbi in tal senso. Grifone, poi, afferma che l’Italia nel I86I soffriva di «penuria di capitali […], scarsezza di materie prime, assenza di un grande mercato […] » e che «l’unità di per sé sola non crea il mercato, ma soltanto una delle condizioni essenziali perché un grande mercato sorga. Perché il paese offra possibilità d’investimento, di smercio, occorre attrez­zarlo». Cfr. Pietro Grifone, Il capitale industriale in Italia, Einaudi, Torino, I971, p. 5. Cafagna, a sua volta, scrive che alla data dell’unità, la condizione economica dell’Italia non consente di parlare minimamente di base industriale. Cfr. Luciano Cafagna, La formazione di una base industriale fra il I869 e il I9I4, in «Studi Storici », II, nn. 2-3 luglio-dicembre I961. p. 290. Per una critica alla tesi di chi vede il Sud, già prima dell’unità, in posizione irrimediabilmente compromessa e per un’efficace analisi delle cause del dualismo, cfr. Renato Zangheri, Dualismo economico e formazione dell’Italia moderna, in La formazione dell’Italia industriale, a cura di Alberto Caracciolo, Roma-Bari, 1969, pp. 285-296.
9) Cfr. Rodolfo Morandi, Storia della grande industria … , cit., p. 274.
10) Ivi, p. 276.
11) Ibidem, p.281.
12) Ibidem, p. 276.
13) L’Eckens ha provato a cercare un metodo di comparazione tra le fonti, ottenendo però esiti tanto inferiori alle intenzioni, che meglio sarebbe stato dire a conclusione del saggio, quanto, in tutta onestà è scritto all’inizio. «I dati […] sulle relative situazioni economiche del Nord e del Sud all’epoca dell’unificazione -egli osserva – non consentono un giudizio immune da […] interpretazione soggettiva. Non è infatti possibile sommare i dati regionali e confrontarli fra loro sulla base di un calcolo ‘pro capite’ ma è necessario confrontare alla meno peggio tipi di dati tra loro disparati». Cfr. Richard. S. Eckens, Il divario Nord-Sud nei primi decenni dell’Unità, in La formazione dell’Italia …, cit., p. 223.
14) Cfr. Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia … , cit., VI, p. 216.
15)  Ivi, p.231.
16) Ibidem, p. 231.
17) Per spiegare i Fasci Siciliani, ad esempio, il Luzzatto risale alla sfiducia della Sicilia nel potere centrale e periferico, accenna ai Vespri, alle illusioni sorte con la spedizione dei Mille, all’azione politica della dittatura garibaldina e, finalmente, alla divisione dei beni demaniali, all’alienazione di quelli ecclesiastici e al malcontento suscitato dall’iniqua distri­buzione degli oneri fiscali. Cfr. Gino Luzzatto, L’economia italiana … , cit., pp. 207-208.
18) Per il Morandi, il liberismo è una ‘mazzata’ calata su quel poco d’industria cre­sciuta al Nord.. È un’opinione difficile da condividere. Al Nord non c’erano ancora né industria né industriali. C’era, come scrisse lui stesso, una figura di mercante-imprenditore che governava con gli agrari e cercava una politica che, tacitando questi ultimi, consentisse la sua trasformazione in capitalista. Cfr. Rodolfo Morandi, Storia della grande industria … , cit., p. 279.
19) Cfr. Valerio Castronovo, L’industria italiana dall’Ottocento a oggi, Mondatori, Milano, 1980, p. 27. Al Castronovo, in verità, pare sfuggire che nuove ‘bardature’, avrebbero di lì a poco tute­lato i «numerosi stabilimenti» sorti al Nord. In quanto al ‘dispendio’ di capitali, persino l’Einaudi ammise che, con la vendita di beni ecclesiastici e del demanio e coi prestiti pub­blici, molta ricchezza del Sud fu trasferita al Nord, dove si contribuì di meno e si approfittò di più delle spese fatte dallo Stato, ottenendo la maggior parte dei pubblici appalti. Cfr. in proposito Renato Zangheri, Dualismo economico … , cit., p. 286.
20) Cfr. Valerio Castronovo, L’economia italiana … , cit., p. 24.
21) Cfr. Gino Luzzatto, L’industria italiana … , cit., p. 5.
22) Cfr. Il Nord nella Storia d’Italia. Antologia politica dell’Italia industriale, a cura di Luciano Cafagna, Laterza, Bari 1962, p. V.
23) Cfr. Valerio Castronovo, L’industria italiana … ,cit., p. 22.
24) Una ricostruzione completa della realtà economica meridionale al momento dell’unità non esiste, per quanto non manchino lavori anche pregevoli su suoi aspetti particolari e determinate realtà settoriali o locali, per i quali rimandiamo a Giovanni Brancaccio, La Campania industriale. Bilancio…, cit.
25) Cfr. Giovanni Wenner, L’industria tessile salernitana dal I824 al I918, s.l. e s.n., 1953. Del lavoro esiste una ristampa della Società Editrice Napoletana, (Napoli 1983) con un’Appendice curata da Ugo Di Pace.
26) La ristrutturazione fu avviata quando si avvertivano ancora le ripercussioni della guerra di secessione americana e ben prima dell’entrata in vigore del protezionismo doganale.
27) Cfr. Gino Luzzatto, L’economia italiana … , cit., pp. 24-25.
28) Nel 1861 la produzione nazionale di ghisa fu di 26.000 ton. Ivi, p. 121.
29) Ibidemi, p. 133. Si tratta di operazioni da cui il Sud non trae in verità vantaggio alcuno.
30) Per una storia dell’Opificio di Pietrarsa, si vedano gli Atti della Commissione di Inchiesta sull’esercizio delle Ferrovie, Roma 1881, parte II, voI. I, p. 449 e ss.
31) Cfr. Gino Luzzatto, L’economia italiana … , cit., p. 125.
32) Cfr. Angelo Mangone, L’industria nel Regno di Napoli, Fiorentino, Napoli, 1976, pp. 50-51.
33) Cfr. Giorgo Candeloro, Storia dell’Italia … , cit., VI, p. 245.
34) Cfr. Valerio Castronovo, L’industria italiana … , cit., p. 44. Un invito a dir poco incoerente, dopo che s’era fatto di tutto per smantellare gli stabilimenti militari del Napoletano, allo scopo – si disse – di evitare a Napoli, «troppo bella città », il pericolo d’un bombarda­mento! Cfr. Francesco Saverio Nitti, Il bilancio dello stato dal 1862 al 1896-97. Prime linee di una inchiesta sulla ripartizione territoriale delle entrate e delle spese pubbliche in Italia, ora in Scritti sulla questione meridionale, Laterza, Bari 1958, p. 214. In realtà i cantieri non furono poi mai aperti.
35) Cannoni e proiettili di ogni arma si producevano a Pietrarsa, alla Guppj, alla Fon­deria Reale e all’Arsenale di Napoli. Il Mangone cita anche, ma non specifica la fonte, fabbriche di armi di Torre Annunziata, Napoli e Lancusi. Cfr. Angelo Mangone, L’industria nel Regno … , cit., pp. 52-53.
36) Cfr. Gino Luzzatto, L’economia italiana … , cit., p. 123.
37) Cfr. Rodolfo Morandi, Storia della grande industria … , cit., p. 278.
38) È stato giustamente osservato che a fine secolo il Paese non era in grado di sostenere il peso d’una politica d’espansione che, inoltre era estranea agli interessi dei gruppi più accorti dell’alta borghesia. Cfr. Valerio Castronovo, L’industria italiana … , cit., p. 69. Appena gli agrari imboccarono la via del colpo di Stato, l’al1eanza fu rotta.
39) Il giudizio più penetrante sul ‘sistema’ di Giolitti resta ancora quello del Carocci, che lucidamente ha avvertito come «la democrazia giolittiana trapassava verso una oligarchia plutocratica nella misura in cui l’industria si avviava verso forme sempre più concen­trate e potenti ». Cfr. Giampiero Carocci, Giolitti e l’età giolittiana, Einaudi, Torino 1971, p. 53.
40) Sulle contraddizioni della campagna socialista per l’industrializzazione di Napoli, cfr. Giuseppe Aragno, Socialismo e sindacalismo rivoluzionario a Napoli in età giolittiana, Bulzoni, Roma 1980.
41) Il numero degli scioperi fu il più alto fatto registrare fino a quell’anno; gli scioperi terminati con la vittoria totale o parziale dei lavoratori furono il 54%. I dati sono in Ministero Agricoltura,.Industria e Commercio (MAIC), «Annuario Statistico Italiano. Statistica degli scioperi », Roma 1900, Tav. I, Rie­pilogo, p. 527. Le elaborazioni sono mie.
42) Ivi, p. 325, elaborazioni mie.
43) 22 scioperi contro i 7 del centro e i 4 del Sud. Cfr. «Annuario », cit., p. 527.
44) 37 contro i 10 del centro e del Sud. Ivi.
45).79 contro i 51 del centro e i 23 del Sud. Ibidem.
46) La Campania è al nono posto per numero di scioperi (superando Umbria, Puglia, Sardegna, Liguria e Calabria), al decimo per numero di scioperanti e giornate di sciopero (superando Puglia, Sardegna, Liguria e Calabria). Ibidemi, p. 325. Nessuno sciopero vi dura più di 30 giorni, uno se ne registra tra quelli di durata 10-30 giorni, due tra quelli di 4-10 giorni. Persino per gli scioperi di durata non superiore ai tre giorni, la Campania è superata da Lombardia, Piemonte, Emilia, Sicilia, Toscana, Veneto, Lazio e Marche. Ibidem.
47) Cfr. «Annuario … », cit., p. 526.
48) Ivi, pp. 526-527. Elaborazioni mie. In Campania gli scioperi rivendicativi sono solo 3 e impegnano 48 operai in 68 giornate di lotta. Altrettanti gli scioperi difensivi, con 197 scioperanti e 1.574 giornate lavorative perdute. Un solo sciopero, infine si registra per cause diverse dalle precedenti con 60 scioperanti e 780 giornate perdute. Ibidem.
49) Sulla storia del salario industriale in Italia cfr. Stefano Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale, La Nuova Italia,Firenze 1972, pp. 373-457, che si occupa, però, del salario in relazione al rapporto tra proletariato operaio e sviluppo del capitalismo italiano. In effetti, dai dati a disposizione, scarsi e spesso alterati dagli imprenditori, è impossibile ricavare un esatto quadro salariale. Io ho confrontato situazioni del Nord con realtà campane, ma le osservazioni sono senza dubbio valide per il Sud nel suo complesso.
50) Le medie erano le seguenti: in Campania £. 1,60 (uomini), £. 0,85 (donne), £. 0,65 (fanciulli); in Lombardia rispettivamente £. 1,88, £. 1, £. 0,53; in Piemonte £. 2,25, £. 1,15, £. 0,65; in Liguria £. 2,75, £. 1,15, £. 0,55. Cfr. MAIC, Direzione. Generale della Statistica, Ricerche sopra la condizione degli operai nelle fabbriche, Roma 1877, pp. 85 e 107 per la Campania, pp. 12, 41 e 62 per la Lombardia, pp. 112 e 77 per il Piemonte, p. 70 per la Liguria.
51) I dati sono in Stefano Merli, Proletariato di fabbrica … , cit., pp. 400-401. Le elaborazioni sono mi3.
52) Ivi, pp. 400-401. Le elaborazioni sono mie. Su 26 operai che svolgevano la medesima mansione, 26 percepivano a Genova un salario più alto.
53) Cfr. M.A.I.C, «Annuario Statistico Italiano », Mercedi agli operai, Roma 1900, cit., p. 504. Le elaborazioni sono mie.
54) II risparmio, che ben ripagava i 50 centesimi dati in più ad ogni fabbro era di £. 1,30 per calderaio, 20 centesimi per congegnatore, 30 per fonditore, 40, per operaio generico e 90 per addetto alla trazione. Ivi, p. 505. Le elaborazioni sono mie.
55) A Napoli 10 salari su 15 erano inferiori a quelli di Torino e 11 a quelli di Milano.
Abbiamo escluso i dati di Genova perché incompleti. Cfr. «Annuario … », cit., p. 505. Le elaborazioni sono mie.
56) Nel 1901, il capitale locale a Napoli era pressoché inesistente nell’industria e le azioni appartenevano tutte a stranieri o settentrionali. Cfr. Ernest Lémonon, Naples. Notes historques et sociales, Mayenne e Colin, Plon-Nourrit, Parigi 1912, p. 199. La legge speciale non mutò, in sostanza, la situazione. Ancora nel 1913 in Campania era collocato il 22% del capitale straniero inve­stito in Italia. In Liguria la percentuale era del 16 % e in Lombardia e Piemonte del 12. Cfr. Francesco Saverio Nitti, Il capitale straniero in Italia, Stab. Tipogr. Federico Sangiovanni, Napoli, 1915, pp. 42-43 e 94-123. Le elabora­zioni sono mie.
57) Cfr. «Avanti! », 13-2-1902, art. Bizantinismo, firmato A. Lucci.
58) Ivi, 11-2-1902, Artuto Labriola, Lo sciopero della Pattison: il movimento operaio napoletano. Ci pare che di rado si sia gettato lo sguardo su un panorama così vasto. A Napoli, infatti, è possibile verificare come l’industria italiana si trovò in condizioni ambientali e legislative che le permisero uno sviluppo privilegiato in un mercato quasi ine­sauribile di manodopera e mostrò, nonostante ritardi storici e tecnologici, un dinamismo legato alle capacità di domare e sfruttare la classe operaia, in cui sono da vedere i primi passi della grande industria italiana. Cfr. Stefano Merli, Proletariato di fabbrica … , cit., p. 39. Ancor più evidente risulta come quei ‘primi passi’ non avrebbero condotto lontano, se non fossero stati accompagnati, per così dire, da una strategia socialista confusa e perdente.
59) Cfr. «La Strada », 1-5-1903, art. La nuova fase del partito socialista a Napoli.
60) Probabilmente l’appoggio all’industrializzazione del Sud fu determinato dall’illusione di vedervi nascere una borghesia capace di porsi a capo d’una tale rivoluzione, borghesia della quale pochi anni prima s’era riconosciuta la mancanza in due terzi deI Paese. Cfr. Lettera di Anna Kulisciov ad Engels, in Marx ed Engels. Scritti italiani, a cura di Gianni Bosio, s.n., Milano 1955, p. 164.
61) Invano Antonio Labriola intravedeva il ‘socialismo’ nelle lotte dei contadini del Sud, cui mancava una direzione capace di dettare parole d’ordine unificanti e d’indicare obiettivi graduali, finalizzati alla disgregazione deI blocco agrario. Non era lontano dal vero il Labriola quando paventava la degenerazione del partito in strumento di requisizione del ‘bestiame votante’ e l’appiattimento su di una linea politica da cui «nasce, e vegeta poi, la setta, la consorteria, la combriccola, ma non sorge e vive il Partito ». Cfr. lettera di Antonio Labriola a Bosco Garibaldi in Arturo Labriola, Democrazia Socialismo in Italia, a cura di Luciano Cafagna, Universale Economica, Mi­lano 1954, p. 78.
62) Cfr. « Critica Sociale », 16-6-19°0, art. A proposito di Nord e Sud; per fatto personale.
63) La prassi dell’alleanza con forze ‘affini’ identificate nella comunanza d’interessi momentanei, produsse fatalmente, quando non vero e proprie collusioni, un’ambigua fusione tra maggioranze e opposizioni, governanti e governati, che aggravò le condizioni del Paese in generale, del Sud in particolare. E su questo dato, a nostro avviso, dovrebbero meditare seriamente i politici, più che gli storici.
64) Le tariffe doganali del 1887 garantivano un mercato interno riservato a produttori d’acciaio, manifatture tessili, coltivatori di barbabietola da zucchero, raffinatori e produttori di frumento, mentre emarginavano gli interessi di piccoli coltivatori ed esportatori di colture specializzate. Cfr. R. Webster, L’imperialismo italiano, Torino 1974, p. 31.
65) Cfr. Guido Savarese, L’industria in Campania (I9II-I940), Guida, Napoli 1980, p. 28.
66) Ivi.
67) Ibidem, p. 29.
68) Cfr. Rosario Romeo, Breve storia della grande industria in Italia, Cappelli, Bologna 1961. Per una critica alle tesi del Romeo cfr. Alexander Gersghenkron, Rosari Romeo, Consensi, dissensi, ipotesi in un dibattito, e Luigi Dal Pane, Alcuni studi recenti e la teoria di Marx, in Alberto Caracciolo, La formazione dell’Italia … , cit., pp. 53-81 e 83-92.
69) Cfr. Guido Savarese, L’industria … , cit., passim. Sulla politica ‘speciale’ per il Sud, interessanti risultano le osservazioni di De Marco e quelle più recenti di Galasso. Cfr. Paolo De Marco, L’industria italiana dal fascismo alla ricostruzione, in «Archivio Storico delle Province Napoletane », 1974, pp. 154-171 e Giuseppe Galasso, Il Mezzogiorno: ancora politica spe­ciale’?, in «Prospettive Settanta », n.s. VIII (1986), n. 2-3, pp. 232-239.
70) Cfr. Giovanni Aliberti, Struttura industriale e organizzazione del territorio nell’Ottocento, in Storia della Campania, a cura di Francesco Barbagallo, Guida, Napoli 1978, II, p. 380.
71) Cfr. Marcella Marmo, Il proletariato industriale a Napoli in età liberale, Guida, Napoli 1978; S. Sciarelli, P. Stampacchia, Imprenditore locale e sviluppo industriale. Il caso della Cam­pania, Isfa, Salerno 1978; Augusto Graziani, Radiografia del sistema industriale, in AA.VV., Napoli dopo un secolo, Napoli 1961.
72) Cfr. Giuseppe Galasso, L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Ita­lia, Mondatori, Milano 1982, pp. 191-216.
73) Cfr. «La Propaganda», 20-10-1908.
74) Al 30-6-1900 i depositi delle 184 Casse di Risparmio ordinarie del Regno ammon­tavano a £ 499.410.060. Di tali depositi, il 59 % era in banche del Nord, il 34 % in quello dell’Italia centrale e il 7% in quelle del Sud, il cui patrimonio collettivo costituiva peraltro solo il 4 % di quello complessivo delle Casse italiane. Cfr. M.A.I.C., «Divisione Credito e Previdenza», Bollettino sul Credito e sulla Previdenza, Roma 1901, II, pp. 218-219. Le elabo­razioni sono nostre.
75) Nel 1901 il capitale delle Società per azioni industriali costituiva a Napoli il 4% del totale nazionale, mentre quello di Genova, Torino e Milano rappresentavano rispetti­vamente il 10,34 il 10,35 e il 26,39 %, In pratica il capitale del nascente ‘triangolo industriale’ costituiva da solo il 47,09% del capitale azionario industriale del Paese. I dati sono ricavati da Ferdinando Piccinelli, Le società industriali italiane per azioni, Hoepli, Milano 1902; le elaborazioni sono mie. Ancora nel 1916, le poche società per azioni esistenti in Italia erano così suddivise: 66,35% delle società con il 63.69% dei capitali al Nord; 17,92 % con il 28,98 al Centro; il 15,73 % con il 7,33 % al Sud. Queste percentuali sono in Guido Savarese, L’industria … , cit., Tab. XI, p. 186. Le successive elaborazioni sono mie. La percentuale media del capitale investito, rispetto a quella delle Società esistenti, pur nel­l’estrema genericità del dato, offre forse l’elemento più significativo per una rilevazione il più possibile vicina alla realtà. Al nord la media è dello 0,9 %, al Centro dell’1,6 % e al Sud dello 0,4 %. La percentuale campana, 0,6 % supera quella dell’intero Sud e del Sud continentale, 0,4 % in entrambi, e quella delle Isole, 0,3 %, ma è inferiore a quella del Nord e del Centro. Questi dati mostrano come, nei primi 15 anni del secolo, il Sud veda aumentare il suo distacco dal Nord, si conferma il ‘sottosviluppo’ della Campania in rap­porto alle altre aree del Regno.
76) Le nuove emissioni di azioni, giunte a superare i 500 milioni annui, si ridussero negli anni 1910-13 ad una media di 361 milioni, scendendo, alla vigilia del conflitto mon­diale, a 342 milioni. Cfr. Francesco Saverio Nitti, Il capitale straniero … , cit., p. 19.
77) Le spesse militari, che nel biennio 1906-1907 costituivano il 16,5 % di quelle complessive dello Stato, nel 1913-14 salirono al 30 %. Cfr. Richard. Webster, L’imperialismo industriale italiano, einaudi, Torino 1974, p. 106.
78) Cfr. Guido Savarese, L’industria…, cit., p. 31,
79) Ivi., p. 32.

Da “Prospettive Settanta”, Nuova Serie, anno X, n. s. x (1988), n. 2-3-4, pp. 513-534.

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