Ho scoperto per caso che, intrappolato nella giungla delle leggi elettorali, alle recenti comunali di Aosta, Potere al Popolo!, pur avendo raggiunto il fatidico traguardo del 3%, non solo non è entrato nel Consiglio Comunale, ma si trova ora di fronte a un complicato dilemma: 1. Decidere che, essendo comunque lontani da quelle che sono di fatto due destre, la battaglia dei ballottaggi non ci riguarda; 2. Dare indicazioni di voto, perché tra i due candidati uno è più o meno apertamente fascista, ed è appoggiato da tutte le destre, compresa Casa Pound, l’altro è espressione di una coalizione in cui non c’è solo il famigerato PD, che si finge antifascista e però sta sulle posizioni fasciste di Minniti, ma anche liste civiche e associazioni di autentici antifascisti. 3. Seguire la via dell’astuzia, in grado di toglierci apparentemente le castagne dal fuoco: starsene zitti in pubblico, esprimere un voto antifascista nel segreto delle urne e poi, se interrogati, negarlo. Prima di esaminare il valore delle scelte possibili, mi sono chiesto com’è accaduto che ad Aosta, città medaglia d’oro della Resistenza, sia giunto quel 3%, un risultato che non era facile ottenere. Non conosco la realtà locale, ma non credo di sbagliare se dico che i compagni di Aosta hanno saputo parlare a chi non è schierato su posizioni molto radicali, ma è contemporaneamente stanco della vergogna che da troppo tempo caratterizza ovunque la nostra realtà politica. Quel 3%, quindi, raccolto in una città medaglia d’oro della Resistenza, appartiene tutto a Pap, ma non è esclusivamente il voto della “nostra gente”. Averlo ottenuto significa aver mostrato una via possibile, che promette un vantaggio – una speranza concreta di andare oltre la “testimonianza” – ma ti crea un problema di flessibilità. E’ solo avendo presente questa duplice condizione, che si può provare a scegliere tra il primo e il secondo corno del dilemma, avendo chiare le conseguenze. Se dici a chi si è avvicinato a Pap che il ballottaggio non ti riguarda e pazienza se vince il fascista, perdi per strada gran parte di chi non proviene da Potere al Popolo!, ma l’ha votato. Sei indiscutibilmente coerente, ma sei anche rigido sino al punto da rischiare di cancellare la crescita e arroccarti nella difesa di una identità. Se invece dai indicazioni di voto, scalfisci la coerenza, ma difendi il dialogo che hai allargato e i rapporti che hai costruito. Se, infine, fai il gioco delle tre carte, rischi una pericolosa figuraccia. Ed è un rischio probabile e dalle conseguenze penose. A me pare che il problema più urgente non sia quello di sapere qual è la posizione giusta. Trovo piuttosto necessario chiarire che le tre opzioni rappresentano in fondo concezioni della politica diverse tra loro, che non riguardano semplicemente l’assemblea territoriale di Aosta e gli organismi dirigenti del movimento, ma l’intero corpo di Potere al Popolo! e – in senso più lato – tutta la gente di sinistra. Questo perché dietro quelle che potrebbero sembrare questioni interne a una delle sue componenti – in questo caso Potere al Popolo! – emergono nodi da sciogliere e discussioni da fare alla luce del sole riguardo alla cosiddetta “unità”. Il fascismo storico passò anche perché la percezione del pericolo giunse tardi, dopo una serie di divisioni che indebolirono irrimediabilmente la sinistra, quando la crisi del dopoguerra diventò devastante e il capitalismo divenne così forte da imporre le sue leggi a ciò che restava di una sinistra ormai residuale nella coscienza del Paese. Sì capì tardi che la sconfitta non era stata solo politica, ma anche e soprattutto culturale. Fatte le debite differenze, gli anni Venti di questo secolo ci pongono di fronte a una situazione che, al di là della forma, nella sostanza non è molto diversa da quella che vide cadere invano Matteotti. Un socialdemocratico. Una situazione tale che nessuna forza politica avrebbe potuto fermare da sola la catastrofe, che, come sappiamo, giunse puntuale. Al di là delle apparenze, anche oggi la catastrofe che temiamo è in parte già giunta e mi fa ricordare le parole di un partigiano di Giustizia e Libertà, Gaetano Arfè, uno dei politici più intellettualmente onesto che io abbia mai conosciuto, il quale, prima di andarsene, più volte ebbe a scrivere, come in un testamento morale, parole che val la pena di ricordare: è in corso una terribile battaglia e noi non ce ne siamo nemmeno accorti. Torno al tema dell’unità, ricordando che, se è stato un errore gravissimo lasciar morire i “Comitati del No”, dopo la fine ingloriosa della Riforma Boschi, sarebbe ancora più grave non tenere in vita oggi quei comitati che allo sfascio della Costituzione hanno opposto comunque un 30% di no. Suppongo che ci sia ancora tempo e modo per ragionare di una confederazione di forze, che, pur conservando la più totale autonomia, si raccolgano attorno al Comitato sulla base di punti che non ci possono vedere divisi: la difesa della rappresentanza – quindi la pretesa di una legge elettorale proporzionale e senza sbarramento (che potrebbe aprire contraddizioni profonde nell’apparente unanimismo del PD, soprattutto della sua base) -, la questione dell’ambiente, per il quale si fa ormai il conto del tempo che manca alla distruzione della vita umana sul pianeta, il ritorno alla Sanità pubblica, semidistrutta dalla religione neoliberista, la centralità di un sistema formativo statale, gratuito e sottratto al suo stato di coma, il ritorno alla Costituzione del 1948 e quindi l’abolizione dei vergognosi sì ai diktat della finanza (pareggio di bilancio e fiscal compact, per fare qualche esempio); l’abolizione delle leggi contro i lavoratori. E mi fermo qui, sapendo di aver omesso chissà quanti altri punti unificanti. Può darsi che sbagli, ma mi chiedo se una confederazione siffatta, con un riferimento comune costituito dai Comitati del No, con una base forte di quel 30 % di elettori che si sono raccolti e uniti attorno a questi temi, sia oppure no il terreno di una possibile unità, che raccolga un ampio fronte anticapitalista e diventi un formidabile strumento di lotta nelle piazze e in tempi brevi anche nelle Istituzioni. E’ una domanda che merita una riflessione e una risposta molto ponderata.
– Guarda, stavolta voglio essere chiaro: l’acquisto online ormai non è solo una comodità. E’ uno dei caratteri nuovi della modernità! Quante volte Antonio le aveva sentite così entusiaste e convinte, le reclute del «nuovismo» e quante volte aveva chiesto dove mai fosse scritto che ciò che è nuovo è sempre buono. Risposte non ne aveva avute, ma spesso gli era piovuto addosso, come un bollino qualità, il giudizio sprezzante di quelli che Antonio chiamava «neofuturisti del consumismo»: – Il problema, caro Antonio, non è che seiinvecchiato. Il guaio è che tu sei nato vecchio, che è una cosa diversa! E’ una vita che fai il rivoluzionario, ma sei la prova vivente che tu e la tua sinistra siete stati e sarete sempre la peggiore espressione della conservazione! Non sapete guardare al futuro. Perché avesse cambiato d’un tratto opinione non era facile capire e una spiegazione non ce l’aveva nemmeno lui. Stanco di fare il bastian contrario, di ostentare con puntiglio una diversità che ricordava l’odiato anticonformismo radicalchic? Antonio non l’aveva capito, tuttavia, anche se non l’avrebbe mai confessato, ci entrava di certo una speranza: cogliere un segno di approvazione negli occhi castani e dolci della signorina Maria, un’insegnante di musica che, nonostante gli anni, gli aveva risvegliato nel cuore inaridito turbamenti di cui non aveva più memoria. Fosse quel che fosse, era andata così: all’ombra di un platano, nel solleone di fine giugno che scottava nonostante il rosso del tramonto, tra i soliti commenti sconci dei «giovanilisti» ormai settantenni su cosce, culi e tette delle badanti slave in giro tra aiuole e panchine coi loro vecchi incartapecoriti, Antonio l’aveva annunciato un po’ farfugliando, un po’ guardando di sott’occhi Maria che a quell’ora, nel parco, non mancava mai: – Ho ordinato un libro online alla Feltrinelli! Qualcuno applaudì, ma un commento feroce spense i consensi: – Adesso bisogna solo aspettare cheFeltrinelli chiuda! Tra applausi, commenti e battute sconce, Antonio colse l’ombra che attraversò come un velo gli occhi profondi e ancora limpidi di Maria e sentì la ferita dolorosa della delusione. “Ma come, pensò, pareva che fossi la prima a criticarmi e ora mi guardi come ti avessi tradita?
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Parlo a me stesso. Il cambiamento verrà. Non lo dico per dire, ci credo. Verrà però molto lentamente purtroppo ed è evidente: non sarà facile vederlo. Si sta in mezzo al guado, bersaglio facile, sicché sempre più rapidamente s’aprono vuoti terribilmente dolorosi. Alì se ne’è andato, colpito dal Covid. Quando se ne va uno come lui, non si perde solo un compagno, ma è a rischio una storia che andrebbe narrata, perché il peggio che ci possa capitare è che si spezzi il filo della memoria. Toccherà ai giovani militanti il compito di tenere umilmente uniti e ben stretti tra le mani i due capi troncati. Intanto saluto come merita il compagno che ha sempre lottato: Onore ad Alì! Onore al combattente!
Edito da Intra Moenia, il libro è appena uscito. Una “storia fotografica”, che ho scritto con cura e rigore scientifico assieme ad Attilio Wanderlingh. E’ un contributo serio alla conoscenza storica di Napoli, impreziosito dalle numerose foto inedite, molte delle quali provenienti dall’Archivio storico dei Pompieri. Quella che riporto qui è la mia introduzione. Non dovrei dirlo io, ma non amo le inutili ipocrisie: vale la pena di leggerla, magari un po’ alla volta, senza fretta e con attenzione, ma devo essere onesto e avvisarvi: se lo farete, metterete poi mano alla tasca e comprerete il libro. Quello che posso dire senza timore di smentite e che non ve ne pentirete. Ne vogliamo parlare insieme? Se vi va, organizzate una presentazione e accetterò con piacere l’invito.
Giuseppe Aragno, Attilio Wanderlingh, Napoli in guerra. La città dei cento bombardamenti e del riscatto delle “Quattro Giornate”, Intra Moenia, Napoli, 2020
Introduzione
L’antica via mostra i solchi delle ruote dei carri che l’hanno segnata nei secoli, ma non ricorda i sentimenti di chi l’ha percorsa, non ci restituisce le dolenti scintille del cavallo stramazzato. Gli edifici sono testimoni impassibili di moti popolari, pene capitali, lamenti di sventurati morti al gelo di inverni maledetti, sfilate di truppe in marcia verso la guerra, o giunte a imporre leggi straniere e barbare. Ci sopravvivono, ma non parlano di noi. E’ così anche con le opere urbane realizzate a Napoli dal fascismo. La guerra, le bombe e il lavorio degli anni, non le hanno cancellate, ma non parlano più a chi vive la città come l’abituale palcoscenico della vita o al turista che la percorre e consuma emozioni. In questo senso, ricostruire per immagini la storia di Napoli dal fascismo alla guerra e al dopoguerra non significa solo cogliere la sensibilità di un tempo in cui l’immagine ha ruoli centrali; vuol dire anche tornare al messaggio originario che vie, monumenti ed eventi fissati dall’obiettivo intendevano diffondere per ricordare, ma anche deformare la realtà secondo criteri culturali e sociali appositamente definiti. Le foto, insomma, celano segreti e narrano storie. Benché le utilizzi a fini di propaganda, il fascismo non può evitare che il dato di testimonianza della realtà, presente comunque nelle foto, diventi «documento» e mostri anche ciò che si vorrebbe nascondere.
Nel 1925 l’istituzione del Commissariato per la Città e la Provincia di Napoli, consente al regime di dare enorme impulso alle iniziative urbanistiche. Michele Castelli, il funzionario che ricopre l’incarico, conta su poteri e finanziamenti tali, da garantire la realizzazione delle opere intraprese. Messi da parte scugnizzi e suonatori di mandolino, nelle foto degli anni Trenta del Novecento, la città è mostrata come un centro laborioso, attivo, inserito nel progetto fascista, con un popolo inquadrato in «milizie del lavoro», che costruiscono la potenza industriale e militare del Paese. In realtà, più che «regina del Mediterraneo» e base navale di un redivivo «impero romano», pronto a conquistare le terre d’oltremare, Napoli è un efficace ma fragile strumento di propaganda del regime. Grazie all’ampio mandato, Castelli realizza il progetto, concepito inizialmente quasi come una «storia del fascismo scritta dai fascisti», ma non può evitare che la difficile convivenza tra modernizzazione e retorica del «porto dell’impero», sconti le inevitabili contraddizioni delle politiche innovatrici affidate al piccone. Per conservare le simpatie di imprenditori e gruppi finanziari, il regime non tocca la rendita mobiliare, abbandona l’iniziale intento di tutelare il patrimonio storico e artistico e non affronta le piaghe sociali dei vicoli in cui vive la povera gente. Com’è naturale, la politica del mattone apre così la via alla speculazione edilizia e strade, gallerie, edifici marmorei e imperiali come i palazzi della Questura, della Provincia, dei Mutilati e delle Poste, diventano il paravento di antichi mali, coperti da una maschera di ordine e modernità: mancanza di case, fondaci, analfabetismo e insufficienza delle strutture sanitarie. Napoli era ed è una città che si legge a strati: ce n’è uno che brilla, abbaglia e copre quelli impresentabili. Il fascismo si adatta: nasconde e spesso peggiora ciò che non può o non vuole cambiare. Esemplare è la sorte dei «bassi», i tuguri in cui vive il sottoproletariato. Sbandierata l’urgenza di farli sparire, il regime ne chiude una piccola parte, pone una targa con la scritta «terraneo non abitabile» accanto a quelli che restano, poi, non avendo risposte concrete da dare, chiude in ricoveri per i poveri chi non può fittare una casa. Una «politica di occultamento», che, a partire dal 1932, è rafforzata dal decreto sulla «disurbanizzazione degli immigrati privi di possibilità di lavoro», che consente alla Questura di spedire per via coatta un gran numero di disoccupati ai paesi di provenienza.
Scelte disumane che non riguardano solo poveri e disoccupati. Anche gli scopi dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia sembrano nobili: tutelare la maternità e l’igiene sociale dei bambini, prevenire la tubercolosi infantile e la delinquenza minorile, reprimere i crimini contro l’infanzia e rieducare i fanciulli devianti. In realtà, strutture, fondi e distribuzione di farmaci sono inadeguati e l’Ente serve solo a sostenere la «battaglia demografica», voluta da un regime per cui la propaganda ai metodi anticoncezionali è proibita, l’aborto è delitto contro lo Stato e «la maternità sta alla donna come la guerra sta all’uomo». La verità è che l’Ente non può tutelare la donna dal suo vero nemico: un regime al quale l’ossessione della quantità, sinonimo di potenza, impone di aumentare le nascite perché il numero dei soldati accresce la presunta forza militare. Schiava di una morale maschilista, la donna paga a scuola il doppio delle tasse dei maschi, è esclusa da molti posti di lavoro, persino dalla dirigenza scolastica e dall’insegnamento di materie tecniche lettere e filosofia nei licei. L’«angelo del focolare», la «donna-madre», simbolo di fecondità e salute della razza, ha solo un compito: produrre soldati per le guerre del regime. In quanto ai minori, il fascismo crea per loro un corretto tribunale e avvia la «bonifica umana» che Dino Grandi fonda sul carcere, cloaca per minorenni irrecuperabili e socialmente pericolosi. Ragazzi e allo stesso tempo rifiuti umani, secondo criteri tipici di un regime perennemente in bilico tra inganno e violenza.
Di là dalla reale entità degli interventi sul tessuto industriale delle aree periferiche della città, gli impegni in parte traditi, soprattutto la rinuncia a colpire il blocco d’interessi che lega banche, imprese edili e proprietà fondiaria, non modificano i connotati parassitari di larghi strati della borghesia. Ha ragione perciò Francesco Soverina: più che fare di Napoli una moderna metropoli, il regime crea uno «spazio critico, in cui coesistono – e spesso si sovrappongono – arretratezza e modernità». E poiché è uno spazio in cui il fantasma della guerra è onnipresente, è quasi naturale che, al momento di mettere a frutto il lavoro svolto, è la guerra – l’atroce seconda mondiale – a impedire alle autorità comunali di rendere operativo con un regolamento edilizio il piano regolatore varato nel 1939 da esperti quali Luigi Piccinati, della Fondazione Politecnica del Mezzogiorno, Riccardo Fiore, ingegnere capo del Comune, Vincenzo Gianturco e Marcello Canino, del sindacato ingegneri e architetti e Giuseppe Cenzato, dell’Unione Industriali. Di fatto, l’eredità del regime non consiste nella parziale modernizzazione, ma nei danni della guerra ciecamente voluta. E’ la guerra, peraltro, a tener vivo il regolamento del 1935, che offre agli speculatori margini di manovra ben più ampi di quelli concessi dal Piano e l’occasione di avviare la cementificazione che prima della conflitto, ma soprattutto dopo, consente di stravolgere e talora distruggere elementi notevoli dell’ambiente e del territorio napoletano. Purtroppo alla realizzazione del «sacco della città», contribuisce il Comitato di Liberazione Nazionale, che nel 1945, ritenendolo figlio del fascismo, rinvia l’attuazione del piano del 1939, respinto poi dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici nel 1950; le varianti favorevoli ai «palazzinari», volute dalla Giunta guidata dall’ex fascista Achille Lauro, consentono così di devastare le zone collinari della città.
Dopo la guerra, del resto, col ritorno a una faticosa normalità, violenza e guerra fanno da sfondo ai ricordi della gente. Durante un’inchiesta, invitati a descrivere l’intervento del regime a Fuorigrotta sulle zone paludose, per costruire la Mostra d’Oltremare e avviare una nuova urbanizzazione, gli anziani del posto ricordano come una violenza subita le repentine demolizioni, le Case Popolari date a piccolo-borghesi e l’abbandono dei vecchi residenti, costretti a farsi ospitare dai parenti. «Fuorigrotta come la ricordo quando ero fanciullo, era un’oasi di pace», afferma un vecchio. E’ stato così «fino al 1939, quando è iniziato […] l’abbattimento di tutte le vecchie case, di interi rioni, compreso la bellissima chiesa di San Vitale, per far posto alla […] attuale Mostra d’Oltremare, al viale Augusto e a via Giulio Cesare». La sensazione dell’abbattimento inteso quasi come crollo è ancora così forte, da indurre un intervistato a dire che c’è «stata la guerra sul territorio ma non hanno abbattuto i palazzi e […] non si capiva più niente». L’uomo non pensa alle bombe inglesi, che nel 1940 distrussero il 60 % degli edifici della Mostra d’Oltremare: ricorda la violenza del piccone. D’altra parte, nella città che cambia, tutto parla di guerra: gli incrociatori, i soldati che sfilano, i ragazzi in armi per l’addestramento bellico, sicché dietro la «volontà rinnovatrice» di «sua maestà il piccone» è facile scorgere il delirio militarista e autodistruttivo, che, dall’Africa alla Spagna conduce alla guerra mondiale, quando la retorica delle «baionette» fa i conti con l’inferiorità degli armamenti e causa la tragedia narrata con dolente efficacia dalle foto del libro. Non so se abbia ragione Gabriel Garcia Marquez, se davvero «la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla»; sta di fatto che le foto del regime lontano dai problemi della gente ma trionfante, suscitano domande: l’ideale gerarchico fascista supera davvero l’innata indisciplina, il disincanto e la diffidenza di Napoli nei confronti del potere? La vocazione guerriera fascista e la politica di potenza giungono all’anima di una città che, con la fine di Matteotti, ha visto nelle sue piazze le ultime, grandi dimostrazioni dell’opposizione? E che ne è dei lettori del «Soviet» di Bordiga, del «Mondo» di Amendola e della «Rivista del Mezzogiorno» di Luigi De Filippis, che lotta con la censura fino al 1926 e a settembre del 1943 affronta il regime che l’ha imbavagliato? Per Renzo De Felice, grande storico del fascismo, nei primi anni Trenta il regime gode di forte consenso, ma i dubbi sono legittimi: la parola «consenso» riferita a una dittatura, non è una «contraddizione in termini»? Non trasforma in sinonimi due sostantivi antitetici – imposizione e adesione – rendendo realtà una finzione?
La verità è che non sempre una parola esprime compiutamente ciò che intende comunicare. Il «consenso» nasce da stati d’animo complessi e la ricchezza del latino, i suoi meccanismi logici nella scelta dei vocaboli, il suo affidare a parole differenti situazioni diverse tra loro, avrebbe impedito a De Felice un uso così ambiguo della parola consenso. In latino, infatti, consentire, nel senso che lo storico dà al verbo, indica sentire comune e condivisione di valori; è sinonimo di pace sociale, suppone piena libertà ed è incompatibile con la tirannia. «Opprimi», vale a dire sostegno forzato, è la parola adatta alla dittatura, per la quale il dissenso, come si manifesta é già sovversione. «Opprimi» però sta per cedimento ai colpi subiti, intollerabile pressione; indica la scelta di «piegarsi», non una libera adesione. Se pensiamo ai rapporti fra Chiesa e fascismo a Napoli nel 1929, dopo i Patti del Laterano, col cardinale Ascalesi che appoggia il regime, essi sembrano ottimi. Di lì a poco, però, il Federale Natale Schiassi denuncia preti e «circoline», le consorelle dei giovani cattolici, per propaganda antifascista coperta da fervore religioso. La Questura riderebbe di un dissenso fatto di prediche e messe cantate, se nel 1931 volantini clandestini e incidenti coi fascisti non svelassero la debolezza del «consenso». In realtà, l’urto sull’educazione dei giovani e la chiusura dell’Azione Cattolica sono benzina sul fuoco di un conflitto per l’egemonia sull’istruzione, che a Mussolini serve per imprimere nei giovani gli ideali fascisti di forza, virilità e conquista e la Chiesa contende al regime perché sa che la formazione crea legami decisivi con le masse popolari. I cattolici, profittando della disoccupazione, replicano agli assalti quadristi, promettendo lavoro e assistenza agli operai che aderiscono ai loro circoli. La ribellione giunge inattesa. Sono le donne, le «più addolorate del provvedimento di chiusura», soprattutto le insegnanti, a cospirare nelle abitazioni private e a manovrare abilmente bambini, che lacerano le foto di Mussolini nei libri di testo. Quando si giunge all’arresto delle maestre Annunziata e Anna Bonagura, per istigazione e oltraggio al capo del Governo, perché un alunno fa a pezzi il ritratto del duce e lo lancia dal balcone, dichiarando di appartenere a Gesù, non si sono dubbi: il regime ha contro i militanti di base del mondo cattolico, parte costitutiva della cultura politica del Paese. Parlare di «consenso» è quantomeno avventato. Cessata la bufera, il dissenso sopravvive e produce i fermenti da cui nascerà la Democrazia Cristiana. Le leggi razziali del 1938, con la Chiesa che prova a tutelare gli ebrei convertiti al cattolicesimo ma non si schiera apertamente per la dignità umana degli israeliti, e poi la guerra mondiale allontanano ulteriormente il cardinale Ascalesi dai cattolici napoletani. Una distanza di cui c’è traccia nella posizione filo-polacca dei gesuiti, nell’iniziativa del centro «Orbet», che alla fine del 1942 prepara uomini armati in vista della crisi del regime, nell’attività di una comunità di base, che pubblica «Le Orfanelle di S. Rita alla Salute», un foglio ritenuto pericoloso dalla Questura, e in quella di alcuni operai, confinati per aver fondato un «Partito cattolico dell’Umanità» contrario al regime.
Certo, a marzo 1929 i voti contrari al regime sono poco più di duemila e quattro anni dopo non giungono a cento; si tratta però di plebisciti con voto palese, mentre scuola, università e mezzi d’informazione manipolano le coscienze e la repressione spaventa gli oppositori. E’ innegabile: nel 1935-36, quando la guerra riempie il porto di militari, autorità ed emigrati diretti in Africa, nascono speranze. I più ricchi inseguono sogni di gloria, la povera gente sogna un «posto al sole» e riempie di effimero entusiasmo Piazza Plebiscito. Dietro le terre d’oltremare e l’emigrazione in ripresa, ci sono però la propaganda che fabbrica illusioni, il partito che impone la partecipazione e la repressione che colpisce il dissenso. Per chi vuole vederli, però, all’orizzonte, si affacciano la delusione, l’alleanza con un nemico storico e un imperialismo straccione che vuole la guerra.
Quale rilievo abbiano i sogni che diventano incubi, è impossibile dire. Conosciamo bene, invece, il valore morale di un dissenso che si fa calvario per una parola sfuggita, un segno di ostilità o la difesa cosciente dei valori delle culture politiche storiche del Paese – liberale, cattolica, anarchica, socialista e comunista – arricchite da un europeismo che conta su giovani come Antonio Ottaviano, poi partigiano delle Quattro Giornate, processato per aver fondato l’«Europa Unita», associazione clandestina, che oppone una Federazione di Stati europei all’alleanza italo-tedesca e alla guerra che essa scatenerà. E’ un filo che percorre la città per vent’anni e che il regime non riesce a spezzare. E’ il primo maggio 1925 – Michele Castelli è pronto ad avviare le opere volute dal regime – quando il socialista Enrico Motta finisce nel girone infernale dei «sovversivi schedati». In casa gli hanno trovato una foto di Matteotti e il testo di una canzone che circola per la città e ridicolizza il fascismo. Sono i mesi, in cui il regime sequestra per ragioni politiche il libretto di navigazione al marittimo Morello Canzio, che fino alla caduta del fascismo non avrà di che vivere e non saprà come provvedere ai figli. I mesi in cui Nestore Francia, un ferroviere licenziato per vendetta politica, fugge all’estero in tempo per evitare l’arresto, ma torna in città anni dopo e vive di stenti finché dura il fascismo. I tre perseguitati non si conoscono, ma come Antonio Ottaviano saranno assieme nella rivolta del 1943.
Anche a tener contro solo degli antifascisti presenti nelle Quattro Giornate, lo stillicidio di arresti, processi e misure di polizia racconta venti anni di lotte mai davvero domate. Sono militanti noti, come Antonio Cecchi, segretario della Camera del Lavoro, che, spedito al confino nel 1926, vivrà di stenti fino al crollo del regime, o antifascisti sconosciuti persino all’onnipresente Polizia Politica. E’ il caso di Amedeo Coraggio, un muratore che paga un canto socialista scritto su un muro dell’Ospizio di San Gennaro alla Sanità con la galera e una vita da «sorvegliato», vissuta da eterno disoccupato, tra miseria, arresti e perquisizioni. Un incubo da cui il Coraggio esce solo a settembre del 1943, quando affronta armi in pugno i nazifascisti e libera nello stesso tempo la città e quanto resta della sua vita. Non sempre si tratta però di oppositori isolati. Carlo Cerasuolo, per esempio, sorpreso col comunista Espedito Ansaldo, ha contatti col PCI clandestino, sicché non a caso i due si ritrovano poi nelle Quattro Giornate. Alla famiglia di Federico Mutarelli, ex tramviere licenziato, confinato e ridotto alla fame, badano il «Soccorso Rosso» e compagni impauriti ma solidali. In Italia e all’estero vive tra soprusi e licenziamenti Tito Murolo, che guiderà la rivolta nella zona dell’Arenaccia. E’ in contatto con Ezio, il fratello, legato a sua volta agli antifascisti fuggiti in Francia, con i quali nel 1937 raccoglie fondi per i trenta volontari napoletani accorsi in difesa della Spagna assalita dai nazifascisti.
Mentre esalta le «opere del regime», la stampa ignora la repressione, di cui ci parlano oggi le carte della Questura. Nel 1927, il regime che apre la Via Litoranea toglie la gestione del Mercato agricolo di Pianura al dissidente Ruggiero Baiano, ma i figli, memori della miseria e dei soprusi patiti, dall’armistizio all’uno ottobre del 1943 guidano alcuni partigiani che impegnano duramente i nazifascisti. Nel 1928, mentre apre il cantiere per l’Ospedale XXIII marzo – l’attuale Cardarelli – ed entra in funzione la Funicolare Centrale finisce in manette il calzolaio Salvatore Mauriello, che nel 1921, nella Russia di Lenin, ha rappresentato i lavoratori italiani al congresso dei sindacati rossi. L’uomo però non cede, frequenta un gruppo legato a Bordiga e partecipa alla rivolta. Nel 1929, quando aprono lo Stadio Littorio e il Teatro Augusteo, finisce al confino il socialista Ermanno Solimene, che resiste fino al 1943, quando fonda il partito «Social Liberale» e di lì a poco combatte in un gruppo legato al giovane Adolfo Pansini. Nel 1930, anno di nascita di Piazza Medaglie d’oro e Piazza Sanluigi, un tentativo di ricostituire il PCI costa il confino a Ciro Picardi che però nel settembre 1943 organizza gruppi comunisti armati. A Capodanno del 1931, socialisti, anarchici e comunisti, tra cui Gino Vittorio, Saverio Merola, Eduardo Corona e Alfredo Pasqua, futuri insorti delle Quattro Giornate, beffano il regime con uno striscione rosso che, appeso al ponte della Sanità, rivela l’esistenza di contatti con gruppi di altre città e invita a non cedere: «Lavoratori, imitate i compagni di Milano e Torino. Scioperate!».
Si potrebbe proseguire, perché il dissenso attraversa il Ventennio. Si prenda, ad esempio, il 1936, l’anno dell’impero che riappare «sui colli fatali di Roma», dei palazzi della Posta e della Provincia, dell’autostrada per Pompei e della Stazione Marittima. Un anno di trionfi, nel quale tuttavia c’è chi prova a riorganizzare il PCI, ci sono trenta antifascisti che vanno a difendere la Spagna dai fascisti, gli oppositori aumentano e tra loro troviamo Luigi Blundo, Salvatore, Giovanni e Alberto Angelotti, Gaetano Caso e Luigi Mazzella, tutti protagonisti del settembre 1943. Non bastasse, giunge da Barcellona, inattesa e rivelatrice, la voce di Ada Grossi, la speaker napoletana di «Radio Libertà». Una voce così ascoltata, che, per zittirla, il regime colloca un’antenna disturbatrice sulla Prefettura. Il dissenso c’è e va ricordato, perché la sua dignità spiega la resistenza a fascisti e tedeschi. Certo, per anni Napoli insegue sogni diventati incubi. Eppure nella città in cui delle «grandi opere», del mito dell’impero presto distrutto dalle bombe, la polizia non smetterà di colpire oppositori, benché facciano i conti con la fame dei figli e la disoccupazione. Molti tra loro – più del 10 % dei combattenti – guideranno gli insorti nelle Quattro Giornate.
Dal 1938 a Napoli, come ovunque nel Paese, il «regime guerriero» prova a creare un clima di artificiosa mobilitazione; continue adunate, stretta di mano proibita, uso del voi, esami di laurea in camicia nera, vita audace e scomoda, «battaglia antiborghese». E’ il ridicolo «stile fascista» che infastidisce un popolo ironico e scettico. Quale distanza divida la gente dai «capitan fracassa» in camicia nera, dicono con chiarezza due episodi registrati dalla polizia. Anzitutto un fascicolo intestato a ignoti, da cui emerge l’ostilità di un popolo dissacratore, che il 5 maggio 1938 gioca con le parole, fa del Führer il «furiere» e mentre il tedesco percorre la città col braccio teso nel saluto nazista, trova una voce per il commento ironico: «sta vedenno si fore chiove! (Sta vedendo se fuori piove!)». Anche questo è dissenso. Così come due anni dopo, Paola Palombo, moglie di Eugenio Furolo, antifascista e partigiano delle Quattro Giornate, alla notizia che l’Italia è in guerra con l’Inghilterra, dichiara in tono gelido che lei si «sente inglese». In effetti, l’antifascismo non è un dato marginale, non vive nel salotto di Croce e non fa da riferimento solo alla «dissidenza intellettuale», come accade per la «Libreria ‘900», di Ugo Arcuno e Salvatore Mastellone, a Calata Trinità Maggiore, la «libreria Detken» in Piazza Plebiscito, lo studio legale di Giovanni Benincasa a via Duomo e, finché visse, la casa di Giustino Fortunato. Più radicale il dissenso di un grande autore teatrale imbavagliato dal regime, Roberto Bracco, che apre la sua casa a esponenti dell’antifascismo popolare. Un ruolo attivo ma breve ha il comunista Emilio Sereni, che lavora all’Acquario, nella Villa Comunale, stampa «L’antifascista», ma nel 1930 è travolto dalla repressione. Un gruppo di letterati antifascisti, tra cui Giuseppe Marotta e Ubaldo Maestri, frequenta in via Duomo il «Caffè Uccello», che non è l’unico «bar sovversivo». «Sgambati», di fronte al Tribunale, ospita infatti avvocati antifascisti come il comunista Mario Palermo e il socialista Giuseppe Giudicepietro; «Perna» e «Cavour», alla Ferrovia, alloggiano rispettivamente comunisti e anarchici; in via Foria, il «Caffè Napoli» di Vincenzo Pinto è un covo di repubblicani e al «Gambrinus», a Piazza Plebiscito, si vedono Eugenio Mancini e alcuni comunisti; qualcuno li chiama, beffardo, la «cellula Gambrinus», ma in molti faranno le Quattro Giornate.
Punti fermi per i militanti, sono Giuseppe Imondi e Francesco Lanza, i «dentisti rossi», noti per le cure gratuite offerte alla povera gente. Lanza, poi segretario delle sezioni del PCI di San Carlo all’Arena e Vicaria, tiene in casa riunioni clandestine, diffonde materiale di propaganda e partecipa alle Quattro Giornate. In casa degli anarchici Imondi, letterato e poeta, e della compagna Maria Beradi, troviamo molti combattenti delle Quattro Giornate: Alastor, figlio del dentista, gli anarchici Ciro Fortino, i fratelli Malagoli e il comunista Gino Vittorio, in veste di apprendista. A Piazza Dante, nello studio medico di Attilio Improta, si incontrano i socialisti liberali; in via Mezzocannone, Pasquale Schiano raduna anarchici, socialisti rivoluzionari e uomini di Giustizia e Libertà; al Policlinico l’ortopedico Salvatore Rollo, poi dirigente del Partito d’Azione e assessore nelle prime Amministrazioni della città liberata, raccoglie prima antifascisti e poi armi; nel palazzo del cinema Augusteo, orgoglio del regime, lo studio legale di Rocco D’Ambra e Gennaro Amendola è un covo di socialisti; al medico Giuseppe Sersale, fa capo infine la pattuglia di «Italia Libera», che si riunisce in un «basso» nei pressi di Piazze Dante, dove il partigiano Michele Di Stadio porta armi dei circoli fascisti con cui si lotterà sulle barricate di via Roma. Non mancano artisti dissidenti. Gildo De Rosa, lascia il pennello per non piegarsi e muore per un incidente sul lavoro; comunista e allievo di Gemito, Luigi Pepe Diaz espatria come Carlo Bernari, autore del romanzo «Tre operai», ma nel 1940, in Francia, per sfuggire ai nazisti, si consegna ai fascisti e finisce in carcere; Guglielmo Peirce paga col confino i rapporti coi comunisti; più prudente, Paolo Ricci se la cava con pochi giorni di carcere prima della rivolta. Di alto spessore l’opposizione di Eduardo Pansini, pittore e scrittore d’arte, che, nel 1921 fonda il «Cimento», una rivista che conduce una battaglia culturale col fascismo in difesa dell’arte, dell’artista, dei suoi diritti e delle sue polemiche e si scontra col fascismo. Quando il regime tocca la libertà di pensiero dell’artista, Pansini attacca l’arte di Stato, i soprusi, le proposte del «Sindacato Artisti» e chiede l’«abolizione dell’influenza del Governo sopra le belle arti», perché l’arte è «patrimonio spirituale e […] gli artisti non possono legarsi con lo spirito e con le azioni alla intonazione unica di un partito politico». E’ una critica inconciliabile col regime, che nel 1936 chiude la rivista.
Alla scuola di Pansini crescono i figli Enzo e Adolfo, che formano un gruppo clandestino di studenti, per i quali l’unione spirituale cui il fascismo dice di avere educato il Paese è una menzogna; la maggioranza degli italiani l’accetta per paura ma professa in pubblico una fede fascista che in realtà detesta. Una scelta che ai giovani pare vile e li spinge alla rivolta. Tornato libero nel 1940, dopo un anno di carcere, Adolfo torna alla militanza e cade nella rivolta. Il padre non consegna le armi e divide tra la popolazione grandi quantità di cibo provenenti dal mercato nero e trovate in casa dell’ex Federale Sansanelli, futuro sindaco di Napoli. Arrestato a ottobre del 1943 inizia l’ultima battaglia politica, condotta ancora una volta dalle pagine del «Cimento» e ancora una volta chiusa dal sequestro della rivista. Con la pace, giunta in anticipo rispetto a tanta parte del Paese, la città sogna cambiamenti, ma la realtà è terribile: la guerra continua, gli Alleati, attenti alle esigenze delle truppe, non aiutano la popolazione civile ridotta in condizioni insostenibili e governano Napoli come città occupata. Una rinascita morale, oltre che materiale, sarebbe urgente, ma sul conflitto tra gli interessi delle classi sociali, pesa molto l’influsso nefasto dei fascisti, colpevoli della tragedia e però impuniti. Mentre il baratro tra Stato e popolazione si allarga, le scelte per il futuro creano divisioni nei partiti della sinistra e una situazione che consente al Movimento dell’Uomo Qualunque il suo momentaneo ma significativo successo e spiega in parte perché al referendum del 2 giugno 1946 otto napoletani su dieci scelgono la monarchia. Nell’analisi del voto, Pansini rifiuta i luoghi comuni sulla maturità del popolo napoletano e indica responsabilità politiche. Per conquistare alla repubblica un popolo a cui si sono «tolti i diritti del cittadino», un popolo che nutre «l’idea del re magnanimo», cui il plebeo ricorre di fronte a un’ingiustizia, ci volevano esempi e segnali di cambiamento; a sinistra si sono viste invece scissioni ed espulsioni e si è parlato molto di un’epurazione mai iniziata. Si è lasciato così che una reazione in abito patriottico, padrona di vasti settori del potere e della stampa, instillasse un senso di frustrazione nello «spirito repubblicano» del settembre 1943. Gente che chiedeva attenzione, difesa e leggi rispettose dei Diritti umani, ha visto confermato il Codice Rocco. Sono nati così delusione e pentimento. E’ un’analisi condivisa dal Prefetto sin dalla fine del 1944, quando scrive che, nel proliferare di «Comitati sezionali d’intesa democratica», voluti dal CLN, la popolazione vede il «sistema di organizzazione capillare dei deprecati circoli rionali fascisti» ed è «scettica verso tutti i partiti, che ad onta della loro conclamata solidarietà, si mostrano disuniti». Anche Giulio Schettini, partigiano repubblicano passato al PCI, ha lottato per «un governo straordinario, dotato di tutti i poteri costituzionali dello Stato», in cui il CLN fosse l’anima di una rivoluzione democratica e intransigente; sono venuti invece compromessi che hanno creato sfiducia in «tutti i partiti, di destra, di centro e di sinistra», incapaci di compiere almeno un’epurazione che estirpi il fascismo e punisca i colpevoli della rovina. Colpevoli che tornano alla politica in questo o quel partito, mentre si tarda a riabilitare i perseguitati politici. Per i combattenti, è mancato lo sforzo di rieducazione, recupero e crescita di quanti non hanno potuto formarsi una coscienza democratica. Un giudizio fondato, ripreso anni dopo da Pasquale Schiano, protagonisti della resistenza a Napoli, per smentire chi accusa il popolo napoletano di essere stato con la «sua incoscienza politica […] la grande riserva della monarchia e del neofascismo». I responsabili del no di protesta alla repubblica uscito dalle urne nel 1946, afferma Schiano, sono stati «coloro che per debolezza o per tradimento verso lo Stato, sono venuti meno ai gravi compiti assuntisi di attuare il programma della nuova Italia».
Com’è naturale, sui social c’è un mare di interventi sull’esito delle elezioni regionali. Molto meno interesse riscuote il drammatico esito del Referendum. E questo non può che aumentare lo sconcerto. C’è bisogno di riflettere molto, valutare e attrezzarsi con estremo realismo e grande consapevolezza. Finora si faceva la guerra del ‘700. L’esercito in campagna, una battaglia in campo aperto, un vincitore, un vinto e accordo. Più pericolosa la peste al seguito delle truppe, che la guerra stessa. Comincia ora il tempo della guerra ai civili, del terrore sulle città. Fino a ieri c’era un freno alla barbarie. Funzionava poco e male, ma c’era. La barbarie si fa ora legge dello Stato. Uno Stato sempre più espressione del capitale finanziario, che qui da noi è come dire fascismo.
Domenica e lunedì in Campania si vota per le elezioni regionali. Per chi voto? Per Potere al Popolo! Perché? Rispondono per me Gianpiero Laurenzano e Giuliano Granato: Ascoltate le duemila ragioni del mio voto e anche voi voterete come me: https://www.facebook.com/giulianogranatopresidente/videos/355257482296636
In Campania la situazione è chiara e l’esito già deciso: vinceranno De Luca, le sue fritture di pesce e il peggior passato della nostra storia recente. Se alle elezioni non partecipassero Potere al Popolo! e il suo candidato Presidente, Giuliano Granato, dopo il voto tutto resterebbe com’era. Giuliano Granato però c’è e rappresenta una scelta possibile e concreta per studenti, precari, disoccupati e giovani costretti a cercar fortuna in altri Paesi. Siete delusi per il tradimento dei 5Stelle e non ne potete più di vecchi politicanti e giovani avventurieri che considerano la politica un’occasione di arricchimento personale? Bene. Un’alternativa esiste e non è un’illusione: è un movimento di giovani che farà tutto il contrario di quello che finora hanno fatto De Luca e la sua banda. Quelli hanno distrutto il vostro futuro per costruire le proprie fortune, Potere al Popolo! lavorerà per ricostruirlo. Il mondo cambia sempre così: quando non ne possono più, i giovani sostituiscono progressivamente i vecchi cialtroni e si comincia daccapo. Il futuro è già cominciato: nessuno lo dice, infatti, ma lo sanno tutti: Potere al Popolo! ha già messo al sicuro il suo 3% e si prepara a entrare in Regione. Ora si tratta di capire quanti candidati accompagneranno Giuliano Granato per girare con lui la pagina della storia. Mentre il cambiamento è già iniziato, la parola tocca a voi. Volete De Luca e la solita disperazione? Votate i suoi marpioni o statevene a casa. Se invece volete rafforzare il progetto nuovo e ricostruire con noi il vostro futuro, strappandolo dalle mani di chi l’ha distrutto, sapete che fare: votate Giuliano Granato e Potere al Popolo!, e votate NO al referendum. Fatelo e poi di corsa venite a far festa con noi.
Mentre saliva a fatica su per gli ultimi tornanti e guidava attentamente, a filo di gas, Sebastiano Neghelli aveva l’impressione che l’auto fosse in difficoltà. Era come se il motore si fosse messo d’un tratto a pensare e chissà perché rifiutasse di andare avanti. Il piccolo paese, poco più di trecento metri sul mare, in equilibrio su un pizzo roccioso tra Policastro e Salerno, si raccoglieva indolente e non inseguiva certo la globalizzazione. Sul depliant della “Pro loco” tracce di cavalieri e Angioini, un Guido d’Albert che vi giunse al seguito di Carlo I e passaggi da un padrone all’altro: i Sanseverino, la badia di Cava, i d’Alemagna che l’acquistarono armi in pugno per venderlo ben presto ai principi Capano. I principi lo tennero a lungo, finché si estinsero alla fine del secolo dei lumi, del quale la “Pro loco” tace, perché non pare sia passato mai per questi monti. Il paese, con la sua gente e le sue case incantate tra il verde, non aveva percepito il cambiamento e non s’era mai del tutto scosso da una sua inspiegata sospensione del tempo. Quando fu nell’abitato, tra le vie domenicali strette e solitarie, Sebastiano si perse: la storia di una eterna nobiltà feudale gli si era parata davanti e aveva tempi suoi, lunghi e sfasati. La spia della benzina ferma al rosso, l’aveva ricondotto al presente ed era andato difilato alla piazza che ospitava il Municipio. L’uomo seduto su un muretto basso, davanti alla massiccia torre quadrangolare ch’era stata un tempo palazzo Capano, l’aveva guardato con sincero stupore: – E voi, la benzina venite a cercarla da noi? Qui non c’è un distributore. Tornate indietro, scendete giù in pianura fino al mare, svoltate a destra, salite verso nord e lì, se non ha chiuso, trovate un benzinaio. – Se non mi fermo prima… mormorò Sebastiano sfiduciato, mentre scrutava a fondo l’uomo che gli parlava.
Se il racconto ti piace o ti incuriosisce e vuoi continuare a leggere, ecco il link che ti porta a “Canto libre” che l’ha pubblicato:
Vorrei sbagliare, ma il branco di cialtroni che da alcuni decenni ha distrutto il Paese, sentendo puzza di bruciato, sta provando a indicare capri espiatori. Lo scopo è chiaro: creare confusione e tirarsi fuori dalla tempesta, alzando cortine fumogene e puntando il dito su chi per troppo tempo e con troppa pazienza ha avuto il torto di subire. Sento dire – e c’è chi abbocca all’amo – che il problema della scuola in questo delicato momento è rappresentato dagli insegnanti che – guarda un po’ – non vorrebbero finire come gli anziani lombardi e concludere la carriera in un contenitore trasportato verso cimiteri ignoti dai camion di un costoso e inutile esercito. E’ venuto il momento di dirlo chiaro: il problema di questo Paese, o, per dir meglio, tutti i problemi di un Paese ridotto allo stremo, non c’entrano nulla col senso di responsabilità dei docenti, dei pompieri ,degli infermieri e dei lavoratori in genere. Il senso di responsabilità è certamente mancato e manca. Ma chi non l’ha avuto e non l’ha è una classe dirigente che da almeno dieci anni avrebbe dovuto prepararsi a far fronte a un tragedia annunciata e non l’ha fatto. Questo, per non parlare dei tagli dissennati e delle criminali spese militari in eterna crescita. In quanto a noi cittadini, se avessimo davvero e fino in fondo il senso di responsabilità necessario a far fronte al dramma in cui siamo stati cacciati, dovremmo limitarci ad assicurare i servizi essenziali e nello stesso tempo mandare via con ogni mezzo i mariuoli corrotti e irresponsabili che hanno il coraggio di chiederci di essere responsabili. Dovremmo, per esser chiari, scendere in piazza, ribellarci e insediare un governo di salute pubblica e tribunali del popolo. A scusante dei criminali che occupano le Istituzioni, c’è solo un nostro gravissimo errore: poiché abbiamo accettato la distruzione della scuola e dell’università e abbiamo consentito che il popolo fosse trasformato in bestiame votante, oggi esistiamo contro la valanga di ingiustizie che subiamo e ci lasciamo condurre al macello. E’ necessario però che sia chiaro: il limite è stato superato e la pazienza è finita. Invece di accusare gli insegnanti, questa classe dirigente faccia spontaneamente le valigie e tolga il disturbo. Se non l’ha capito, lo sappia: la gente è stanca e quando la rabbia esploderà, nessuno potrà sentirsi al sicuro.
LE MANI SULLA SCUOLA Riforme per mantenere la struttura disuguale della società Giovanni Carosotti, “Casa della Cultura”, 24 agosto 2020
Per poter giudicare nel merito il lavoro di Anna Angelucci e Giuseppe Aragno è necessario, innanzitutto, comprendere la particolare prospettiva che gli autori hanno scelto per contestare in modo radicale le politiche di riforma scolastica in atto in Italia da ormai più di due decenni; e, aspetto ancora più rilevante, motivare le ragioni di questa scelta prospettica, incentrata sul lungo periodo.
La letteratura sulla scuola, in particolare quella che intende denunciare la strumentalità e l’infondatezza dei principi sulla base dei quali si vorrebbe, nel nostro Paese, rinunciare a una tradizione pedagogico culturale di grande spessore e tradizione, è ormai sterminata. Potrebbe ad alcuni sembrare addirittura ripetitiva, ma non è così; in effetti, alcuni testi che risalgono a più di due decenni fa, come quelli di Giulio Ferroni e Lucio Russo, non hanno perso affatto la loro attualità, e sarebbero da soli sufficienti a gettare uno sguardo significativamente critico sui presupposti politico-culturali perseguiti dai riformatori. Ma è proprio l’atteggiamento intellettuale di questi ultimi, indifferenti a tale patrimonio critico, a costringere a rinnovare queste analisi destrutturanti, e ad aggiornare l’atteggiamento critico in riferimento ai sempre nuovi contesti e provvedimenti che, senza sosta, mutano radicalmente in peggio il mondo dell’istruzione in Italia, senza peraltro riuscire a farlo in maniera definitiva.
Notiamo subito che il libro in oggetto parte da una valutazione decisamente pessimista; se all’epoca delle imprescindibili analisi di Ferroni e Russo l’intenzione era quella di lanciare un avvertimento al mondo della cultura, e mettere in guardia rispetto a un’azione politica che si presentava in modo evidentemente regressivo, oggi la «distruzione della scuola» – come recita il libro di un altro testo uscito quasi contemporaneamente[i] – è in parte già avvenuta, producendo mutamenti probabilmente irreversibili.
L’esigenza degli Autori è stata quella di indagare le radici storiche e culturali di tale trasformazione, per individuare la logica che ha reso possibile uno sconvolgimento privo di ragionevoli presupposti teorici, che non reggerebbero a un contraddittorio onesto, qualora ci fosse la possibilità di avviarlo. Un’esigenza di ricostruzione storica quanto mai avvertita in questa fase epocale, come testimonia anche il progetto del volume collettaneo La scuola dell’ignoranza, che è stato recentemente presentato e discusso proprio alla Casa della Cultura. La necessità di questo sguardo storico è quanto mai urgente, perché non solo presso l’opinione pubblica in generale, ma anche tra gli intellettuali, e persino tra gli stessi docenti, si fa fatica a scorgere il progetto unitario, la ratio, la coerenza profonda dei fini che sono stati perseguiti e in parte realizzati in questi due decenni. In effetti, a uno sguardo approssimativo, la strategia è sembrata spesso improvvisata e superficiale, e segnata anche da significativi fallimenti (dai grandi progetti di riforma targati Berlinguer e Moratti, sino alle strategie solo apparentemente diverse dei ministeri successivi). In realtà tale apparente incoerenza testimonia unicamente della difficoltà incontrate da questa azione politica, dovuta anche alla coraggiosa resistenza di buona parte della classe docente, che non ha accettato di rinunciare al proprio bagaglio professionale, immotivatamente delegittimato da tutti i sostenitori del pedagogismo.
Ma l’aspetto particolarmente interessante de Le mani sulla scuola, che lo distingue in parte da studi simili, sta nel fatto che la ricostruzione storica proposta non ha inizio con l’autonomia scolastica, ma parte addirittura dagli anni preunitari. Potrebbe sembrare uno sguardo retrospettivo eccessivo, sicuramente importante dal punto di vista della consapevolezza culturale, ma tutto sommato poco utile per rendere maggiormente consapevoli delle dinamiche attuali. In realtà non è così, in quanto, alla fine della lettura, ciò che si evince è una proposta interpretativa assolutamente coerente e, a nostra opinione, efficace.
Per comprendere la logica sottesa a tale impostazione, conviene partire da un’osservazione contenuta nell’Introduzione al volume, dovuta alla penna dello storico Piero Bevilacqua, il quale ricorda qual è la finalità autentica della scuola pubblica, senza conoscere la quale diventa difficile comprendere i motivi che nell’ultimo quarto di secolo hanno condotto scientemente a smantellare tale istituzione. La scuola, scrive Bevilacqua, «rimane la vera grande leva dell’emancipazione dei ceti subalterni e della mobilità sociale». Ora, dalla lettura dei capitoli dovuti alla penna di Giuseppe Aragno, emerge come la classe dirigente post unitaria si è impegnata proprio per contenere tale progetto emancipativo, per impedire che una sua piena realizzazione andasse a mutare la feroce diseguaglianza di classe e territoriale che presentava lo Stato italiano all’inizio della sua storia. Lo sguardo di Aragno si concentra esclusivamente sulla drammatica condizione delle regioni meridionali del paese, cioè su una situazione originaria di diseguaglianza della storia nazionale che non si è mai riuscita a risolvere, e di cui la politica scolastica rappresenta uno specchio fedele. Ma tale quadro storico, ampio e corroborato da tutta una serie di dati significativi, risulta essere anche un punto di riferimento adeguato, anzi obbligato, per intendere le strumentali finalità ideologiche della distruzione della scuola che avviene ai nostri giorni. Perché tra la storia di quel fallimento e la furia devastatrice che dagli anni Novanta perseguita la scuola italiana, vi è stato un momento in cui l’autentica finalità della scuola pubblica, sopra richiamata, fu perfettamente presente ai decisori politici, in questo caso ai padri costituenti. La “scuola della Repubblica”, o la “scuola della Costituzione” intendeva effettivamente eliminare tale insopportabile diseguaglianza. La scuola della Repubblica, la scuola della Costituzione, rimane punto di riferimento imprescindibile per concepire il ruolo dell’istruzione in una società democratica, proprio perché precisa che la finalità della scuola sta nel garantire «il diritto dell’alunno al rispetto pieno della sua personalità», ciò che era stato in buona parte disatteso negli anni post unitari. La scuola è dunque «diritto inalienabile della persona», l’«istituzione che più di ogni altra garantisce quella possibilità di uguaglianza e di pari opportunità nella vita sociale che non è data alla nascita»; l’istituzione che più può operare per rendere effettivo il secondo comma dell’articolo tre, e cioè garantire un’emancipazione intellettuale e materiale senza le quali non sarebbe possibile vivere concretamente quei diritti pure formalmente riconosciuti.
Ebbene, prima di proseguire nell’analisi del percorso proposto da Aragno e Angelucci, conviene avere presente il punto d’arrivo della loro fatica: la politica riformatrice sulla scuola, dai tempi dell’”autonomia scolastica” ai nostri giorni, intende effettivamente negare quelle finalità che la Costituzione assegna alla scuola e, sul modello delle classi dirigenti post unitarie, far sì che l’istituzione non metta a rischio la struttura gerarchica e disuguale della società che si è affermata in Occidente nel mondo globalizzato. Sarebbe interessante porre a confronto tale lettura con una considerazione più vasta dell’insofferenza che, già all’indomani del 1948, molti esponenti conservatori mostrarono verso la Carta costituzionale, nel momento in cui comprendeva al suo interno dei diritti sociali (anch’essi considerati diritti inalienabili), che essi avrebbero preferito fossero invece regolati dal leggi ordinarie. E in fondo tutti i tentativi di questi ultimi decenni di revisione costituzionale (compreso quello, purtroppo riuscito, della riforma del Titolo V) si sono mossi in tal senso. Nel caso della scuola, ciò che ci si propone è la presa di possesso dell’istituzione (le «Mani sulla Scuola» del titolo) da parte dei gruppi di potere privato, che vogliono controllare rigidamente l’istituzione, negarne la libertà di ricerca e di cultura, per asservirla ai propri interessi particolari, spacciati con noncuranza quali interessi collettivi. Ovviamente, come è proprio di ogni ideologia, tale trasformazione viene presentata in modo radicalmente opposto, definita coerente con lo spirito della Costituzione, attenta a combattere le disuguaglianze e a favorire l’inclusione; con argomentazioni poco fondate e in alcuni casi ossimoriche, come quando si pretende di coniugare e armonizzare fra loro atteggiamenti quali la “competitività” e la “inclusione”.
Lo spirito costituzionale, per quanto ostacolato da tutta una serie di non involontari impedimenti e difficoltà materiali, ha comunque contribuito a una forte acculturazione del nostro Paese, quanto meno a instaurare una consapevolezza critica diffusa. Uno dei momenti più significativi in questo senso–come viene giustamente ricordato- fu la riforma della scuola media unica. «Con l’abolizione dell’avviamento professionale e la prescrizione dell’obbligo scolastico a 14 anni […] ai bambini non fu più imposto quell’orientamento precoce tra studio e lavoro che, di fatto, fino a quel momento, ne aveva subordinato la maggior parte ai condizionamenti deterministici del contesto familiare […]. Con le sue criticità e imperfezioni, questa fu davvero una legge destinata a cambiare profondamente il profilo non solo della scuola italiana e dei suoi studenti, ma anche quello dell’intera società nel suo insieme e negli anni successivi». Pure la stessa Angelucci riconosce come «a dispetto dell’altro profilo politico e pedagogico che lo caratterizzava e della cornice costituzionale che ne legittimava il mandato», solo in parte il progetto raggiunse gli effetti auspicati. Le contraddizioni di sviluppo, in particolare al Sud, le differenze sociali enormi in un periodo storico di crescita economica dirompente solo in parte controllata nelle sue effettive conseguenze acuirono in alcuni casi i disagi. Fu in ragione di tali difficoltà che si svilupparono teorie che, pur partendo da una corretta analisi di contesto, fraintendevano drammaticamente, fino ad annullarli, i valori compresi nella dichiarazione di Vittorini. Lettere a una professoressa di don Milani, così come Le vestali della classe media. Ricerca sociologica sugli insegnanti, di Barbagli e Dei, risposero a tale drammatica situazione introducendo un bagaglio concettuale («astratto e concreto, ricchi e poveri, lingua e dialetto, teoria e prassi, tradizione e innovazione») che l’Autrice, in maniera condivisibile, considera quali «prodromi della regressione neoliberista della scuola deculturalizzata per tutti di oggi». Si tratta di un punto delicato, ma decisivo per sbarazzarsi di un equivoco di cui molti teorici delle riforme approfittano nella loro retorica giustificazionista. Ovvero quell’idea che il privilegiare il momento operativo rispetto a quello teorico, la concretezza dell’agire pratico rispetto alle riflessioni astratte, rappresenti di per sé una critica progressista a un’impostazione del sapere e della cultura conservatrice, trasferendo gli elementi di critica non a un’organizzazione che impedisce eguale emancipazione per tutti, ma agli stessi contenuti del sapere che, riservati fino ad allora a un élite che si imponeva come classe dirigenti, venivano essi stessi caricati di un plus valore ideologico considerato di per sé ostile alle classi subalterne. Un fraintendimento che ha pesato molto sulla cultura di sinistra che, non a caso, ha voluto a volte in maniera ancora più energica delle stesse forze conservatrici lo smantellamento dell’impianto culturale della scuola italiana. In realtà, tali problematicità non risolte non implicano affatto la messa in discussione dei contenuti disciplinari e del valore della cultura (e chi lo fa spesso non si rende conto di replicare quella pratica politica rappresentata in particolare dal lungo ministero Bottai, che si proponeva di smantellare la precedente esperienza gentiliana).
Ma, per ritornare alla “scuola della Costituzione”, tale lettura paleserebbe tutta la sua insufficienza se si limitasse a rimpiangere la scuola repubblicana, senza tenere conto dello scarto storicamente verificatosi tra i principi espressi nella carta e la loro effettiva realizzazione. Quelle speranze furono in parte disattese –e, ancora una volta, soprattutto nel Mezzogiorno-, e obbligano a rifuggire da qualsiasi tipo di mitizzazione di una realtà storica che è invece stata caratterizzata da forti problematicità e da una costante conflittualità. In particolare, il fatto che la scuola italiana continuò, nonostante le intenzioni, ad essere classista ed escludente. Sulle ragioni di ciò, però, si innestano tutta una serie di sviluppi e riflessioni, anche molto contraddittorie, senza conoscere le quali diventa difficile comprendere la palese demagogia con cui, nei nostri tempi, la trasformazione produttivistica e competitiva della scuola viene difesa come fosse una risposta democratica alla scuola classista della Repubblica. Sotto questo aspetto, l’analisi –condotta in questo caso in particolare da Anna Angelucci- risulta veramente precisa e rigorosa. Se quello spirito della Costituzione era autentico, come ricordano le splendide parole di Vittorini («la scuola può insegnare tutto ciò che occorre all’uomo per diventare soggetto di cultura e di coscienza, di libertà, di capacità creativa e di fede nel progresso comune»), pure la permanenza della “classi differenziali”, di docenti non epurati dal precedente regime, impedivano che tale quadro emancipativo andasse a coinvolgere in maniera efficace e ampia i ceti subalterni.
Nonostante ciò, i principi della Carta costituzionale rimangono un momento imprescindibile per comprendere il ruolo che deve caratterizzare la scuola in una democrazia repubblicana. Finalità che fanno impallidire la bassa retorica che accompagna l’introduzione, proprio per l’anno scolastico che va ad aprirsi, del nuovo curricolo di Educazione civica, che presenta tutt’altri scopi –come abbiamo già argomentato– che non quelli di valorizzare la personalità degli studenti nel senso espresso da queste parole di Vittorini: «Ma è nell’interesse della civiltà che anche il più umile lavoratore manuale si trovi, di fronte ai libri, di fronte alle opere d’arte, di fronte al pensiero scientifico e filosofico, di fronte alle ideologie politiche, di fronte ad ogni ricerca e ad ogni esperimento della cultura, nelle stesse condizioni di assimilabilità in cui funzionalmente si trova l’ingegnere, il medico o il professore». Tale dichiarazione, citata da Anna Angelucci, rappresenta uno dei momenti più alti in cui viene difeso il valore emancipativo del sapere disciplinare, l’immediato contenuto etico connesso allo studio dei saperi specifici, che oggi ridicolmente sono ritenuti incapaci di veicolare valori, a favore di approcci trasversali tanto impossibili da conseguire quanto privi di ogni tensione sociale e politica capace di offrire senso critico a chi li studia.
Il percorso storico proposto da Anna Angelucci procede rigoroso sino ad arrivare alle successive, fondamentali riforme degli anni Settanta, necessarie per rendere effettiva e per democratizzare una scuola ormai di massa: l’istituzione della scuola materna statale del 1968, i nuovi esami di maturità dello stesso anno e la liberalizzazione degli accessi all’Università, sino ad arrivare ai “Decreti delegati” del 1974. «La scuola diventa democratica, assume una dimensione partecipativa di natura collegiale, e tendenzialmente autonoma, e si avvia nella direzione di quell’identità comunitaria sociale e civica legata al territorio cui poi la politica la spingerà per altre ragioni, come vedremo, nel corso degli anni Ottanta e Novanta, destinandola, forse anche per un’imprevedibile eterogenesi dei fini, verso le attuali forme di decomposizione e di frammentazione del sistema.» Come si evince da quest’affermazione, si prospetta già quell’esito paradossale per cui riforme concepite per affermare in via definitiva un principio realmente democratico e di massa, finiscono invece, nei decenni successivi, per offrire il destro a una direzione in senso contrario, come per esempio nel caso -cui qui si fa riferimento- delle autonomie regionali. Da un momento di controllo dal basso dell’organizzazione formativa, si giunge a utilizzare alcune strategie (il legame con il territorio, l’apertura della scuola al tessuto sociale) per esercitare un controllo sulla libertà didattica stessa, attraverso l’invasione di auto nominatisi stake holders, rappresentanti d’interesse che si arrogano il privilegio di dettare alla scuola le linee di comunicazione che dovrebbe applicare.
Detto ciò, è interessante ricordare l’accenno al progetto Brocca, giustamente definito «l’ultima ipotesi di una scuola ancora coraggiosamente declinata in una prospettiva culturale, in cui l’operatività delle attività didattiche non viene privata dei suoi fondamenti teoretici e scientifici, rifiutando qualsiasi impostazione esclusivamente addestrativa».
Dopo di che, dagli anni Novanta, inizia proprio questa deriva “addestrativa”, che le pagine successive seguono nel dettaglio. Vi è però, a questo punto, anche un aspetto diverso da considerare, che in parte spiega quella che poco sopra è stata definita «eterogenesi dei fini», per cui un bagaglio teorico nato con delle intenzioni emancipative finisce per diventare l’arma con cui la cultura e i poteri neoliberali mettono «le mani sulla scuola». Si tratta del nuovo contesto internazionale, con l’Unione europea che sceglie proprio un modello sociale improntato al neo liberismo per i suoi trattati fondativi, e che investono in questo senso in modo diretto il mondo dell’istruzione. Con il Libro bianco della Commissione europea presieduta da Jaques Delors e il Trattato di Lisbona ha inizio un processo teso a mutare radicalmente le finalità affidate alle istituzioni scolastiche, presso le quali deve prevalere «un’etica imprenditoriale», destinata a trasformare «l’essere umano in “risorsa umana” e le sue qualità in “capitale umano”», il «paradigma della performance e della valutazione», la concorrenza tra individui che si contendono le migliori posizioni nel mercato del lavoro. Due sono le osservazioni contenute a margine di questo excursus a nostro parere decisive: quella di «naturalizzazione» dell’attuale sistema produttivo e dell’ordine sociale che esso presuppone, che presuppone una riconfigurazione antropologica dell’individuo destinato a ricevere il processo d’istruzione, ma anche delle stesse figure docenti. A partire da questi documenti, e in ossequio a tali finalità, viene totalmente rifondato e stravolto in senso tecnocratico il lessico del mondo della scuola (nei documenti programmatici come in quelli legislativi). Un lessico volutamente anti filosofico, estremamente povero sul piano concettuale se lo si valutasse nei suoi effettivi fondamenti epistemologici, molto precari e che, come ha giustamente scritto Giulio Ferroni, ricordano una «ovvietà che si presenta come complessita»[ii]. La scelta di parte della sinistra politica di aderire a tale impostazione programmatica, ha condotto ad una risemantizzazione di alcuni vecchi concetti, come abbiamo visto già carichi di ambiguità nella loro originaria formulazione, per piegarli definitivamente alla logica tecnocratica e produttivistica. Per giungere infine alla «Buona Scuola», la Legge 107, che rappresenta solo l’esito definitivo di un processo di trasformazione dell’istruzione che si è totalmente allontanato dallo spirito della Costituzione. Si potrebbe a questo punto aggiungere, proprio a commento della Buona Scuola, un riferimento storico determinato; se è vero che quella legge è la trascrizione –in termini a dire il vero molto radicali e veramente iconoclastici verso il meglio della tradizione pedagogica e culturale del nostro Paese- dei principi contenuti nei documenti e trattati europei, dall’altra non possiamo non scorgere in questo legge uno spirito che è lo stesso con cui il ministro Bottai aveva proceduto allo smantellamento di fatto della scuola gentiliana. Senza citarlo, in parte questo viene affermato, quando si scrive: «il ritorno al binomio scuola-lavoro assume in questo senso il valore emblematico di un autentico ritorno al passato e riconduce ai drammatici processi di marginalizzazione di ampi strati sociali e di estese aree geografiche».
Detto ciò, non c’è dubbio che la Costituzione, per quanto colpevolmente contraddetta dalle politiche scolastiche degli ultimi venticinque anni, rimanga ancora in vigore; ed è grazie in particolare all’articolo 33, che ancora garantisce la libertà d’insegnamento, che la scuola italiana ha potuto non capitolare del tutto, e gli insegnanti non rinunciare al loro patrimonio professionale, mostrando nei fatti -anche agli altri appartenenti alla comunità scolastica- quanto l’involuzione di questi anni ha prodotto nella riduzione delle conoscenze e delle capacità delle generazioni più giovani.
Nonostante ciò, il tono conclusivo del libro che stiamo presentando è piuttosto pessimistico: «L’implacabilità di un’autonomia “di mercato” altamente prescrittiva e regolativa, che riduce ogni spazio di libertà pedagogica […] ha reso la scuola oggi un concentrato illiberale di insopportabile omologazione conformista. Un luogo infelice, respingente, da cui tutti vorrebbero fuggire. Forse, dopo una breve stagione di speranze, insegnare a imparare è diventato veramente, e definitivamente, impossibile». Conclusione che richiama il titolo dell’ultimo libro di Giulio Ferroni dedicato alla scuola, La scuola impossibile, appunto.
Conclusione che avremmo in parte voluto attenuare nel suo tono privo di speranze, contando ancora su una, seppur molto provata, capacità di resistenza dei docenti italiani. Il fatto è che, tra la pubblicazione di questo libro e il nostro commento si è inserita la drammatica emergenza provocata dal Covid-19, che ha disarticolato la scuola nella sua organizzazione più profonda e autentica. E abbiamo assistito, commentandolo anche sul presente portale, a un cinico e progressivo tentativo di sfruttare l’emergenza per piegare in modo definitivo la resistenza degli insegnanti e distruggere completamente la scuola in senso anti culturale. La lettura di questo libro e degli altri che sullo stesso tema sono contemporaneamente usciti, deve servire ad evitare questo totale resa di chi sa di essere dalla parte della Costituzione e della cultura.
[i] Angelo Conforti, Scuola e televisione, il declino dell’Italia. La distruzione della scuola pubblica e del pensiero critico, CSA Editrice, Castellana Grotte, 2020. [ii] G.Ferroni, La scuola sospesa, Einaudi, Torino 1997, pag. 95.