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Archive for giugno 2017

Riprendo integralmente, così come la leggo, la notizia riferita da Laura Bismuto, consigliera comunale demA a Napoli e il suo intervento amaro che, però, è anche un secco invito a reagire. Di mio ci metto due parole, che non posso e non voglio tenere per me.  Ci si può girare attorno, dirlo pacatamente, ma la sostanza non cambia: una sfida mortale, impastata di disprezzo per i diritti e per la stessa natura umana, impone a ogni singola coscienza e a tutti noi assieme di organizzare una risposta all’altezza della ferocia della sfida. Dal genocidio mediterraneo, alla violenza sui lavoratori, dal massacro delle giovani generazioni, alla volontà di eliminare quelle ormai “fuori produzione”, tutto ci parla ormai di “eversione dall’alto”, di un capitalismo che non riconosce limiti e fa della forza bruta la misura dei rapporti tra le classi sociali. Esiste un solo modo per replicare: ragionare in termini di Resistenza, nel senso storicamente più ampio ed estremo della parola.

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MORTO UN LAVORATORE SE NE FANNO ALTRI… DI MORTI!

19511257_1904629669804767_7164819524238825792_nIl tentato suicidio di Concetta Iolanda Candido, una donna di 46 anni di Torino licenziata da 6 mesi, anticipa di poche ore la morte di un altro lavoratore, Nicola Di Giacomo, 51 anni, Lavoratore Socialmente Utile del Comune di Napoli morto di infarto.

Minimo Comune Denominatore: uno Stato che nega i diritti, che fa ammalare i suoi figli, uno Stato che colpisce al CUORE!

Come donna e come madre, prima che come rappresentante di questo Stato sordo e cieco, sento forte un senso di impotenza, un dolore profondo, una rabbia che non trova tregua!

Alle loro famiglie, la mia più sentita vicinanza.

Questi avvenimenti devono servire da sprono per continuare a lottare, per non lasciare da soli i nostri fratelli ed amici in difficoltà, che siano loro uomini, donne, migranti, o chicchessia.
Lottare per i propri diritti è un dovere. Farlo insieme, una necessità.
Questo genocidio di Stato non è più tollerabile!!!

 

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Di_padre_in_figlio_ARAGNO-360x240Alla Domus Ars di Napoli c’è l’aria delle grandi occasioni. E si capisce perché. Marco Lillo presenta il suo Di padre in figlio. Le carte inedite sul caso Consip e il familismo renziano, un libro che da solo è un programma. Il baraccone mediatico spara a palle incatenate – è “azzardato”, è “provocatorio” – ma non ci sono dubbi: è uno di quei libri che per definizione si definiscono “coraggiosi”.

Per Vincenzo Iurillo, che fa da moderatore, l’autore è il migliore tra quelli che fanno inchiesta giudiziaria, ma lui, Marco Lillo, ti colpisce soprattutto quando ringrazia gli intervenuti per la loro presenza “rassicurante” e senza atteggiarsi a vittima, ammette che sta attraversando il momento più “delicato” della sia vita professionale. Nessuno l’ha pronunciata, ma ti torna in mente la parola “coraggio”, che farà da padrona per l’intera presentazione. Di coraggio ti parla, infatti, Iurillo e di coraggio è impastata la figura dell’altro ospite, un uomo che non ha bisogno di presentazioni: Luigi De Magistris, che Marco Lillo l’ha conosciuto da magistrato, quando si è messo contro il sistema, ha rischiato e pagato. Da politico, De Magistris non è cambiato molto: è lui il motore di quel “laboratorio Napoli” di cui si può dire tutto, meno che non sia un coraggioso esempio di “governo alternativo delle Istituzioni”. Ieri come oggi, il sindaco di Napoli naviga controcorrente e vive una “vita pericolosa” per il fatto stesso di esistere: gliel’hanno giurata e la guerra che gli si fa non ammette esclusione di colpi. Non c’è, ma è come ci fosse, un ex collega di De Magistris, il Pubblico Ministero Henry John Woodcock, indagato dalla procura di Roma, dopo aver scoperchiato la pentola della corruzione e – misteri italiani – inquisito per il reato di rivelazione di segreto di ufficio. Una fuga di notizie che non avrebbe avuto alcun interesse a propalare. Woodcock non c’è, ma al suo posto è seduto, autentico convitato di pietra, un invisibile monito: “lascia stare, è pericoloso”.

In un Paese di normale democrazia borghese, in cui il “quarto potere” controlla gli altri tre senza che nessuno si scandalizzi, la storia che Marco Lillo racconta troverebbe l’unanime consenso delle Istituzioni. E’ la storia di Alfredo Romeo, che corrompe un funzionario pubblico; non sarebbe gran che, se Romeo non fosse entrato, però, nelle inchieste che costarono la carriera a De Magistris ed è decisamente inquietante scoprire che l’ex giudice, diventato sindaco, l’abbia trovato sulla sua strada di nuovo, stavolta come gestore del patrimonio immobiliare della città di Napoli, da cui l’ha mandato via. La storia di Lillo è la storia di un “facilitatore” di affari, che cerca di far quattrini per sé e per il suo amico Tiziano Renzi, che si dichiara all’oscuro di tutto, ma irrita il suo Matteo, che non gli crede. In ultima analisi, Lillo racconta l’Italia corrotta che Renzi non ha rottamato.
Negli Usa il giornalista che costrinse Nixon alle dimissioni fece un favore alle Istituzione e divenne una sorta di monumento nazionale; qui da noi il potere non gradisce e i suoi uomini fanno quadrato. Lillo è lapidato, Woodcock, rischia di fare la fine del collega De Magistris, per mano dello stesso magistrato che colpì l’ex PM.

Lillo sta raccontando lo sconcerto del figlio e De Magistris ha appena smesso di invitare a non arrendersi, a denunziare e a lottare, quando la gente capisce che in quella splendida sala non si sta parlando semplicemente di corruzione. Il tema vero del libro di Lillo è in fondo lo stato di salute comatoso della democrazia e il rischio sempre più concreto di una svolta autoritaria che è già nei fatti, come dimostra la vita eterna di un Parlamento che nessuno ha eletto e si è formato grazie a una legge che una sentenza della Consulta ha messo fuorilegge.
A questo punto della serata, se ti guardi attorno, ti accorgi che i presenti hanno capito e glielo leggi negli occhi ciò che pensa: ci sono libri che vanno letti, storie che vanno raccontate e ascoltate, uomini che vanno accompagnati e difesi. Perché di una cosa si può esser certi: viviamo tempi di malafede nei quali occorre stare insieme e tenere alta la guardia, perché o ci si salva assieme o non si salva nessuno.

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esame-universitarioNon sono più un ragazzo, ma c’è chi ancora mi invita a iniziative pubbliche di tipo “culturale”: convegni, conferenze, presentazioni di libri e incontri più o meno informali. Ogni volta che mi accade, faccio i conti con una richiesta, mi oppongo, spiego e talora finisce che respingo l’invito: “Grazie, ma non ci sarò”.
A molti sembra normale che locandine, manifesti e messaggi promozionali esibiscano titoli, meglio di tutti l’università in cui lavori e il ruolo che vi svolgi. Di solito l’invitato sbandiera la sua condizione di ordinario, associato, ricercatore o docente a contratto in questo o quell’ateneo e tutto finisce lì. Io no. Il “titolo” che a molti pare biglietto da visita prestigioso, per me è ormai un’autentica vergogna. Non a caso ho troncato ogni rapporto con l’università dopo la nascita dell’ANVUR, l’Agenzia di valutazione della ricerca, che costituisce ai miei occhi la quintessenza di tutte le miserie di questo sventurato Paese.

Se vi dicono che affondiamo, voi pensate subito alla politica, alla burocrazia e alla corruttela. Io penso invece alla classe docente. Soprattutto a quella universitaria. E non è stravaganza o demenza senile. E’ che nessuno più dei docenti ha contribuito alla distruzione delle Istituzioni formative nel nostro Paese. Sono stati per lo più docenti universitari a inventarsi le regole più distruttive e – a parte rare eccezioni – chi non ha agito, ha subito.
Mi costa molto dirlo, ma è andata così e i più integralisti e fanatici fautori delle ideologie che hanno distrutto l’università, provengono per lo più dalla sinistra. Chi pensa ancora che il PD sia “di sinistra”, lo sappia: il Gotha dell’ideologia che sta sfasciando il Paese è ai vertici di quel partito.

Nessun Paese al mondo ha pagato così tanto i suoi sedicenti intellettuali e ne è stato poi ripagato con un tradimento altrettanto grave. Nessuna rinuncia al ruolo di intellettuale libero e critico è stata così completa, totale e perniciosa come quella registrata nelle nostre università. In nessuna realtà del Paese la rinuncia alla dimensione critica e libera è stata così immediata e opportunistica. Non c’è stata battaglia, non perché non si sia capita l’importanza della posta in palio. Non ci si è battuti per calcolo, perché è stato subito chiaro che le risorse sottratte ai pochi “dissidenti”, sarebbero state spartite tra i collaborazionisti, i rinunciatari e i più ligi alle disposizioni.
E’ andata così anche con la funzione vitale di analisi e discussione culturale, scientifica e politica. Più attuali e vicini sono stati i problemi, più si è scelto di ignorarli o allinearsi. Ne è derivata così una sorta di condanna a morte dell’intelligenza critica, che non è stata giustiziata, cadendo libera davanti a plotoni d’esecuzione e fucilazioni di massa. E’ stata uccisa dal silenzio complice e dall’acquiescenza dei docenti. E’ andata come ai tempi delle leggi razziali, allorché, eccezion fatta per dodici persone perbene, acconsentirono tutti, in vista della spartizione delle cattedre degli ebrei.

Basta guardarsi attorno, per valutare la portata del disastro prodotto da un rigoroso controllo della cultura in un Paese non a caso attestato su posizioni da sottosviluppo persino sul terreno delicatissimo quale quello della libertà di stampa: la dimensione qualitativa della ricerca è del tutto ignorata; la partita si gioca sul terreno quantitativo ed è legata al potere dei grandi editori, alle scelte di un pugno di docenti, che fa il bello e il cattivo tempo nel controllo delle collane, negli inviti ai convegni, nel meccanismo di scambio di citazioni tra autori di testi privi di ogni qualità scientifica.

Ho rinunciato ai titoli. Ho rifiutato ogni ruolo in un sistema formativo in cui tutto conta, la teoria del metodo, le tecniche di valutazione totalmente decontestualizzata, la capacità di formulare in astratto unità didattiche, piani di lavoro e compagnia cantante, l’assoluto disinteresse per quello che effettivamente si sa di ciò che si insegna. La conoscenza dell’italiano e della matematica, quella della storia, della geografia, delle scienze e chi più ne ha più ne metta, non contano praticamente più nulla.
A chi mi chiede titoli, rispondo “storico” e mi rifiuto di essere associato a un mondo da cui sono andato via perché non ha più spazio per il dubbio, pretende che il risultato della mia ricerca rientri nella gamma dei “prodotti” e serva ad arricchire un mostro comunemente  chiamato “offerta formativa”. Non ce l’ho con i giovani. E’ stata la mia generazione la responsabile principale di una Caporetto che ha lasciato loro un deserto da attraversare.
Buona fortuna.

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L’intenzione era quella di provocare e sfidare senza offendere, ma i nervi sono subito saltati. Al mio breve e tutto sommato civilissimo articoletto, scritto per un amico che se lo meritava, Simone Scotto di Carlo, di cui non so altro, se non che è persona civile, ha replicato esponendo la sua opinione: “Non c’è un dato importante nell’analisi politica: Josi la rivoluzione l’aveva già fatta due anni fa con il 65% dei voti, ovvero circa 8900 voti. Oggi con il 48% e circa 6200 voti raccoglie una sconfitta personale”. Altrettanto garbatamente mi sono limitato a un’osservazione: “Senza polemica”, ho scritto, “e rispettosamente: quando l’analisi del voto si riduce ai numeri, i politici non servono. Basta un pallottoliere”.
Apriti cielo! Saltando di palo in frasca, una non meglio identificata Manuela Cuccurese, s’è inalberata e non ci ha pensato due volte: “Signor Aragno”,
mi ha intimato, “smetta la politica. E vada a lavorare, qualsiasi professione lei eserciti”.
Ecco qua, mi sono detto, bersaglio centrato! Poi, ridendo tra me, le ho risposto: “Ho 71 anni, sig.ra Cuccurese, e ne ho trascorsi 40 insegnando. Dalla scuola elementare all’università. Mai fatto il “politico”. Di mestiere faccio lo storico e le assicuro che è un lavoro faticoso. Naturalmente tutto questo non c’entra niente con quello che ho scritto. Come, del resto, il suo sconcertante commento che naturalmente chiude la discussione”.  Non gliel’ho detto, per non mandarla ulteriormente in bestia, ma mi sono davvero divertito e dovrei ringraziarla!
Ecco il corpo del reato:

JosiIn questo nostro benedetto Paese che prima cambia e meglio è c’è una regola fissa, buona per mischiare le carte in tutte le occasioni. Giochi male? Conta il risultato… E pazienza se sul filo di lana all’ultimo momento ci si mette assai spesso anche la “distrazione del direttore di gara”. Conta il filo  tagliato. Per carità. Ognuno si contenta del mondo che vuole e della vittoria che ottiene, però, per fortuna, la gente che ragiona aumenta ogni giorno di più e passo dopo passo, se vinci giocando male, cominci a prendere più fischi che applausi…

Vi interessa? Cliccate e proseguite

 

 

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imagesLeggo qua e là di un “tentativo realistico” di Pisapia in cui una “sinistra intelligente” avrebbe occasione di fare la sua parte nella costruzione del progetto e rispetto a temi rilevanti.
Personalmente Pisapia me lo ricordo nella trincea del sì e non gli farei credito perché penso che il suo “realismo” conduca difilato a fianco del PD. Nella palude, per intenderci, in cui quotidianamente navighiamo, a rischio di affondare in una sorta di pattumiera della storia. Aggiungo di mio che da troppo tempo purtroppo si scambiano per l’oceano mare squallidi letamai. Benedetto chi conserva quel tanto di forza morale e onestà intellettuale per denunciare a lettere chiare l’indigenza culturale e la miseria etica di una politica ridotta “a maneggio” di periodo breve, al tempo delle campagne elettorali!
In quanto al realismo, se diventa “campanello d’allarme”, individua nel vorticoso susseguirsi delle iniziative elettorali il sintomo premonitore di una patologia cronica e ormai mortale, beh, c’è ancora da sperare. Come non concordare? Dove cercare segni di vita di quella “grande politica” di cui parlava Gramsci? Chi, al momento, sente la necessità di un progetto oltre il dato contingente, di immaginare modelli di Stati, nella crisi di quelli nazionali, cui si somma l’esito desolante sul piano sociale del grande progetto europeista? C’è l’Eurostop, progetto necessariamente di tempo lungo, che un’attenzione la meriterebbe, e c’è  Varoufakis, che, però, indugia su giusti principi astratti, ma non disegna percorsi praticabili e concreti.

Dietro il respiro corto del “maneggio” elettorale, ci sono molti buchi neri: teoria senza prassi, prassi senza masse e masse senza lotte; c’è il rischio di contagio del più diffuso dei germi distruttivi: l’operazione d’immagine – bisogna far parlare la stampa a tutti i costi- la conquista del centro del palcoscenico  e poi, sempre incombente, il rischio delle alleanze costruite sulle leggi del mercato: i sondaggi, lo sbarramento e, per quanto rispettabile, l’urgenza della rappresentanza che alla fine non rappresenta nemmeno se stessa, perché ha mille ragioni tattiche, ma soffre d’asma per mancanza di spessore strategico.
E’ vero, sì, è un errore fare di Renzi il tipico e unico modo di evolversi di questa malattia, quasi che Gentiloni e soci costituissero l’alternativa o addirittura un antidoto. Meno vero è al momento – domani si vedrà – che nell’ analisi-diagnosi dagli esiti letali, si possa inserire una iniziativa come quella di Anna Falcone e Montanari, se non altro, perché ha alle spalle – e in essa affonda le radici – la battaglia per il no al referendum istituzionale e un’autentica stella polare: il forte richiamo all’articolo 3 della Costituzione, suo cuore pulsante, uscito dall’antifascismo e dalla Resistenza, bussola per un programma che abbia ambizioni molto più che elettorali.

A Roma non ho visto reduci. Mi è piaciuto ascoltare un giornalista del “Corsera” che ci raccontava la tecnica della disinformazione – ci voleva del fegato per farlo. Ho apprezzato moltissimo il gesto dell’eurodeputata Eleonora Forenza, che ha ceduto la parola ai giovani di un collettivo, e negli interventi spesso ho riconosciuto temi dell’esperienza napoletana di questi ultimi anni: Costituzione da attuare, lotta alle disuguaglianze sociali, economiche, ambientali e culturali, neomunicipalismo come restituzione di centralità ai territori entro una rete di solidarietà sociale, accoglienza e difesa delle minoranze e degli esclusi, capacità di unire i contributi delle forze che lottano per il bene comune e la finalizzazione della proprietà pubblica e privata al godimento dei diritti fondamentali, crescita della democrazia mediante la sperimentazione di nuove forme di partecipazione alla vita politica.
Parte dei “napoletani” ha portato i valori di DemA,  movimento fortemente legato all’esperienza amministrativa di De Magistris, che di originale, ha la scelta di produrre atti normativi che traducono in sostanza giuridica principi e punti programmatici; un modello che può avere dimensione nazionale, la “rivoluzione attraverso il diritto” che significa governare in senso costituzionale le barbare leggi imposte dal sistema liberista a un Parlamento sempre meno legittimo e sempre più reazionario.
Anche questa credo sia “battaglia delle idee” e scelta di campo: il movimento del sindaco con ogni probabilità seguirà il processo politico ormai aperto dall’appello, ci sarà, non creerà vuoti che sarebbero  riempiti dai protagonisti dello sfascio del Paese, darà un contributo di proposte, farà muro contro il peggio e spingerà verso il meglio. Ci sarà, dovrà esserci, in nome di una convinzione: la crisi devastante della democrazia si va consumando troppo rapidamente per stare a guardare.

Ciò che sta accadendo a Napoli meriterebbe cenni specifici; troppo spesso se ne parla in termini di “masaniellismo”, becero “sudismo”, populismo o “cesarismo”. Deformazioni. Replicare sarebbe lungo. A voler stare al gioco, però, sul filo del paradosso, si potrebbe ricordare Gramsci. Cos’è, in fondo, il “cesarismo” se non uno stato di fatto in cui forze contrapposte trovano un “equilibrio catastrofico” e la prosecuzione della lotta non può risolversi che con la distruzione scambievole? Varrebbe la pena di riflettere su quello che sta accadendo nel Paese per capire se il presunto “cesarismo” s’è affermato a Napoli con De Magistris o non sia accaduto il contrario: dall’equilibrio distruttivo tra forze divise nel nome, ma tutte di destra, compreso il PD, non siano nati spazi per una forza di sinistra autentica e moderna. E, per stare al gioco fino in fondo, mettiamo che l’equazione sia verificata, che cesarismo e laboratorio Napoli siano i termini di una equivalenza. Perché non dovrebbe essere lecito ricorrere a Gramsci, per trovare una chiave di lettura? Di certo c’è che il grande pensatore ebbe a scrivere: “ci può essere un cesarismo progressivo e uno regressivo e il significato esatto di ogni forma di cesarismo, in ultima analisi, può essere ricostruito dalla storia concreta e non da uno schema sociologico”.
Finora questa ricostruzione nessuno l’ha tentata e la storia concreta è un processo in via di costruzione. Questa è, in politica, la funzione delle formule: giudicare la storia, prima che sia accaduta. Propaganda.

Contropiano, 28 giugno 2017

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ImmagineHo letto con molto interesse un’acuta riflessione sul Decreto Minniti, scritta da Laura Bismuto, Consigliera DemA al Comune di Napoli. La offro ai miei tre lettori e di mio ci metto la convinzione che siamo molto più preparati di quanto si pensi e abbiamo la qualità e la passione civile necessarie a rintuzzare l’attacco. Come accade assai spesso, una riflessione ne provoca un‘altra e le ho scritto un commento che desidero riportare qui, sul mio Blog.

«Cara Laura, la volontà di distruggere la scuola pubblica, sottomettere la ricerca storica alla valutazione di agenzie governative ed estromettere gli storici dal dibattito politico dei “salotti buoni” ha avuto uno scopo preciso. Quanto accade in questi giorni costituisce il primo frutto velenoso di questo lavoro: l’imposizione violenta di quella che tu molto efficacemente definisci “pedagogia dell’ubbidienza”, Non ho trovato scritto da nessuna parte – ecco il peso del silenzio degli storici – di dove venga e quale ben definita radice culturale abbia quest’idea di “decoro” intesa come “orpello estetico che cela in sé una grave indecenza”. E’ verissimo e condivido pienamente l’autentica indecenza nasce dal fatto che chi rende la vita un inferno, precarizza, ruba il futuro e distrugge, pretenda poi di costruire una sorta di vasca per i pesci, nella quale la disperazione non ha voce e la realtà è prigioniera di una acquario. vita è un acquario. Non sarebbe andata così, se qualcuno avesse potuto dirlo: questa indecenza non è figlia di Minniti. Lui l’ha solo rubata. A chi? A un decreto del 1934, anno XIII dell’Era Fascista… E’ il passato che non passa. A noi però la storia l’insegnano i servi del potere. E dirò di più. I fascisti avevano Giovanni Gentile. Noi abbiamo Paolo Mieli. Il paragone è tutto a favore di Mussolini, Una vergogna, ma la gente non se ne accorge nemmeno. Basta ascoltare le notizie dai fronti di guerra e dai confini di terra e di mare disseminati di morti, per capirlo: se e quando la ragione si risveglierà, i nostri nipoti scopriranno che abbiamo assistito indifferenti a un nuovo e più atroce genocidio».

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minniti-decreto-migranti-altra-il-manifestoQuesto governo illegittimo, figlio di amplessi contro natura.

questo governo nato da nozze incestuose tra una legge truffa e un Presidente eletto abusivamente due volte,

questo governo che poggia sulla fiducia di un Parlamento che non abbiamo eletto,

questo governo che ha giurato fedeltà alla Costituzione e l’ammazza a tradimento,

questo governo che ruba i soldi ai pensionati e la vita ai lavoratori,

questo governo governato dall’Unione Europea che non ha Costituzione,

questo governo pianta ogni giorno un coltello nella schiena dei cittadini liberi!

Come che lo si guardi, questo governo è una violenta minaccia alla legalità repubblicana.

Agoravox

 

 

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Torino-cariche-sulla-movida-Stefano-Bertolino-1-564x423Tiriamo le somme.
Abbiamo la malavita organizzata più impunita del pianeta.
Gli evasori fiscali fanno più danni delle cavallette, però non li tocca nessuno.
Nei rapporti politica-malaffare, siamo il Paese pilota.
Da noi non si muove una foglia, se non la spinge il vento di una tangente.
Siamo una repubblica parlamentare, ma non eleggiamo i deputati: le Camere si formano grazie a una legge che truffa i cittadini.
Siamo con le pezze al culo, ma paghiamo stipendi d’oro a un oggetto misterioso che è nato in Parlamento nel 1953. Più o meno quando Napoleone sbarcò a Sant’Elena.
Da noi i direttori dei “grandi giornali” fanno soldi a palate, però la “grande stampa” ha i conti in sospeso con la verità. La sua vocazione è la disinformazione.
Abbiamo un primato: i comici d’avanspettacolo. In nessuna parte del mondo calcano le scene assieme Salvini, Berlusconi, Renzi e compagnia cantante.
Siamo messi come Cristo in croce, non abbiamo un centesimo, ma non ci facciamo mancare navi, aerei,  bombe e carri armati.
Poiché siamo l’unico Paese al mondo che ha abbattuto una dittatura e si è tenuto il codice penale del dittatore, paghiamo gli stipendi a tre o quattro corpi di polizia specializzati nella caccia ai barboni e nell’assalto ai cittadini.

Contropiano e Agoravox.

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Il filmato parla da solo e sono parole drammatiche: questa è oggi l’Italia.
Lo guarda un’amica e mi scrive «Sai cosa intendo: proviamo a difendere, in primis da se stessi, gli ingenui sprovveduti, tentando di far intendere che il prezzo delle “soluzioni” a cui spianano la strada è troppo alto per tutti».
Per me, che talvolta sento ormai mancarmi le parole – e non m’era mai accaduto – è stato difficilissimo rispondere.

«E’ terribile», le ho detto. «Siamo in una condizione di autentico prefascismo, ma tanta parte della popolazione, confusa e spesso disperata, invoca ormai la soluzione autoritaria e somma la sua richiesta a quella di ceti borghesi storicamente inclini ad affrontare le gravi crisi del capitalismo, soprattutto quello finanziario, liquidando la democrazia. Il lavoro di smantellamento della scuola e della sua funzione di fucina di coscienze critiche comincia a dare i suoi frutti velenosi, mentre un sistema di valutazione della ricerca – che mira esclusivamente al «controllo» e spaccia per merito il servilismo – nelle università forma fanatici sacerdoti del neoliberismo».

Ormai, nelle carte di archivio degli anni in cui nasce, cresce e si afferma il regime mussoliniano, pare di vedere i giornali di oggi. E’ vero, abbiamo le leggi razziali, ma ci vuole prudenza e il paragone potrebbe essere fuorviante. Non andò così nemmeno in epoca fascista. Di certo c’è che la rappresentazione non è all’esordio, si è già messa in scena e come già prima evolve in tragedia. Presto «galantuomini» e «benpensanti» si lamenteranno del prevedibile aumento di furti e rapine, invocheranno un inasprimento delle pene, le galere si riempiranno sempre più di sventurati e chi proverà ad opporsi, a ricordare che la legalità è un’intollerabile prepotenza, se non produce giustizia, anzitutto sociale, avrà la sorte segnata: «sovversivo», giudicherà un qualche nuovo «Tribunale per la difesa dello Stato», resuscitato a tutela dei privilegi per la repressione del dissenso.

Quando sarà chiaro ciò che sta accadendo nel Paese, sulla scia della «civilissima» Unione Europea, amica delle banche e nemica dei popoli, sarà tardi purtroppo e ci vorranno ben più che un ventennio e un’assai più difficile e sanguinosa nuova Resistenza.
Segnali di risveglio li vedi, ma tutto pare lento e già superato dai ritmi di una crisi che è ormai di valori. Occorrerebbe un fortissimo impegno civile e politico degli intellettuali e dei militanti, ma ognuno coltiva ormai piccoli orticelli e – ciò ch’è peggio – non sa più o non vuole parlare alla gente.

Per quello che mi consentono gli anni, le mie scarse qualità e la condizione di forte emarginazione in cui mi trovo ridotto – nemmeno il Manifesto mi fa più scrivere – tuttavia non mi arrendo; so bene, però, che occorrerebbe ben altro. Sono convinto che, tuttavia, in vista di una condizione di totale sottomissione, tenere saldo in pugno il filo della memoria storica e impedire che si spezzi è un lavoro da fare. Non darà frutti immediati, ma risulterà probabilmente prezioso, quando le cose peggioreranno, i nodi verranno al pettine e si potrà ragionare solo in termini di nuova Resistenza.

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L’articolo va letto. Dalla “sicurezza” e dal decreto Minniti, infatti, DemA prende le distanze ed esprime critiche di fondo:

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ImmagineFrancesco Puglisi era a Genova nel luglio 2001 ma non torturò e non uccise. La Cassazione, che ha evitato il carcere agli uomini in divisa dopo la Diaz e Bolzaneto, a lui ha dato 14 anni di galera. Si sono incrementati poi ammazzamenti umanitari, bombe intelligenti e fuoco amico e chi s’è visto s’è visto. E’ stato come dire: ti prudono le mani? Bene. Percorri la via «legale» e passa all’incasso: una «guerra per la pace» o la «democrazia da esportare, tutta massacri «umanitari». E se poi centri ospedali e scuole, sta tranquillo, c’è la stampa che dice «è fuoco amico» o «nemico sbagliato». Tu rientri e fai la carriera in polizia. Lì ai modi bruschi non si fa caso: il terrorismo è un’infamia misteriosa buona per coprire altre infamie.
A chi sa di storia, il «caso Genova» e Francesco Puglisi ricordano gli eterni «spettri del ’98», i processi politici costruiti ad arte contro gli operai e Giovanni Bovio, l’avvocato che in Tribunale parlava per gli imputati e ammoniva le classi dirigenti:

«Noi chiediamo di rimuovere gli ostacoli che fanno il lavoro impossibile e voi ci rispondete con aspre sentenze e i figli armati contro i padri. Per carità di voi stessi, giudici, per quel pudore che è l’ultimo custode delle società umane, non fateci dubitare della giustizia. Noi fummo nati al lavoro, non fate noi delinquenti e voi giudici!».

I tribunali li «fecero delinquenti» e tali sono stati per sempre. Umberto I, che aveva premiato le fucilate sul popolo inerme, pagò con la vita. La violenza del potere genera violenza e il tribunale nazista che volle morti i cospiratori della «Rosa Bianca», quello repubblicano che da noi assolse i responsabili morali del delitto Rosselli, benché legalmente costituiti, non hanno legittimità storica. Tra Bruto e Cesare la storia non cerca colpevoli ma registra un dato: il tiranno arma la mano dell’uomo libero.

Sul terreno della giustizia siamo fermi a Crispi che, accusato di violare la legge proclamando lo stato d’assedio, antepose la sicurezza alla legalità: «una legge eterna impone di garantire l’esistenza delle nazioni; questa legge è nata prima dello Statuto». Un principio eversivo, che fa dell’eccezione la regola, ignora la giustizia sociale, unica garante della sicurezza dello Stato e di fatto ispira ancora i nostri legislatori in materia di ordine pubblico e conflitto sociale. Nel 1862, all’alba dell’Italia unita, la legge Pica sul cosiddetto «brigantaggio», mezzo «eccezionale e temporaneo di difesa», prorogato però fino al 31 dicembre 1865, apre l’eterna stagione delle leggi speciali. Di lì a poco, in una riflessione affidata a un volantino sfuggito al sequestro, Luigi Felicò, un internazionalista che conosce la galera borbonica, non ha dubbi: con l’unità, la sorte della povera gente e del dissidente politico è peggiorata.
Normativa emergenziale, come figlia naturale di una vera e propria cultura della crisi, indeterminatezza e strumentale confusione tra reato comune e reato politico, sono diventati così i perni della gestione e della regolamentazione del conflitto sociale. Un’impostazione che nemmeno il codice Zanardelli, adottato nel gennaio nel 1890, sceglie di abbandonare. Certo, per il giurista liberale la sanzione deve rispettare i diritti dell’uomo. Di qui, libertà condizionale, abolizione della pena capitale e discrezionalità del giudice nella misura dell’effettiva colpevolezza del reo. Non sarebbe stata un’inezia, se Zanardelli, però, non avesse affidato la tutela dello Stato nei momenti di crisi sociale a un «Testo unico» di Polizia, cui regalò basi teoriche forti e strumenti pericolosi quanto efficaci: istigazione all’odio di classe e apologia di reato, crimini imputati a chi esaltava «un fatto che la legge prevede come delitto o incita alla disobbedienza […], ovvero all’odio tra le varie classi sociali in modo pericoloso per la pubblica tranquillità».

La definizione volutamente vaga del reato fornisce agili strumenti repressivi e lo Stato, che non dà risposte al malessere delle classi subalterne, può criminalizzarne le lotte, in nome di norme che sono contenitori vuoti, pronti ad accogliere le strumentali “narrazioni” di una polizia per cui anche il generico malcontento e una marcata diversità rispetto alla cultura dominante è «pratica sovversiva». Nei fatti, istigo al reato e poi condanno. Tra crisi, indeterminatezza e natura emergenziale della regola – un’emergenza spesso creata ad arte e più spesso figlia legittima dello sfruttamento – diventavano così dato storicamente caratterizzante di una giustizia fondata su una “legalità ingiusta”, sulla tutela di privilegi a danno dei diritti, mediante un insieme di norme che consentono di tarare la repressione sulle necessità e sugli interessi dei ceti dirigenti.
Il fascismo al potere sterilizza molte norme progressiste introdotte da Zanardelli, poi nel 1930 vara codice «suo», firmato da Alfredo Rocco, che incredibilmente sopravvivere al regime. La repubblica, infatti, sacrifica alla «continuità dello Stato» l’idea di tornare a Zanardelli e conferma Rocco, “tecnicamente” più moderno, ma soprattutto molto più autoritario. In attesa – si dirà – di un nuovo codice che, però, non si farà. Delusa la legittima attesa, la conseguenza di quella grave scelta consente oggi, in un clima di nuovo autoritarismo, di tornare al reato di «devastazione e saccheggio» e spezzare così la vita di un giovane, senza che in Parlamento una voce denunci la natura classista dell’operazione e i «caratteri permanenti» che segnano trasversalmente le età della nostra storia contemporanea: nessuna risposta alla sofferenza di chi paga la crisi, criminalizzazione del dissenso, indeterminatezza di norme volutamente discrezionali e impunità assicurata alla «genetica devianza» di alcuni corpi dello Stato. Senza contare lo stretto rapporto tra politica e malavita organizzata. Ormai non c’è una voce libera che domandi perché il codice penale italiano, che non prevede in modo serio il reato di tortura, consente al torturatore di perseguire il torturato che si ribella.

Oggi, mentre si leva la bandiera della democrazia, si continua a ignorare il nodo che la soffoca, un nodo mai sciolto, nemmeno col mutare della vicenda storica; un nodo che ha impedito cambiamenti radicali persino nel passaggio dalla monarchia alla repubblica: liberale, fascista o repubblicana, in tema di ordine pubblico, l’Italia ha un’identità che non muta col mutare dei tempi. Da un lato, infatti, l’uso intimidatorio e per certi versi terroristico dell’emergenza legittima la ferocia delle misure repressive presso l’opinione pubblica, dall’altro l’indeterminatezza della norma lascia mano libera a una repressione generalizzata. E’ una sorta di blando «Cile dormiente», che si desta appena una contingenza negativa fa sì che, per il capitale, soprattutto quello finanziario, metta in discussione mediazione e regole democratiche, che pretenderebbero di controllarlo: sono, afferma, merci costose che non hanno mercato. Su questo sfondo si inseriscono le più o meno lunghe fasi repressive – lo stato d’assedio nel 1894, le cannonate a mitraglia nel maggio ‘98, la furia omicida in piazza durante i moti della Settimana Rossa, il fascismo, Avola, e, per giungere ai nostri giorni, Genova 2001. In questo quadro si spiegano l’indifferenza per la tortura, le impunite morti «di polizia» e i loro tragici connotati: Frezzi ammazzato di botte in una caserma di Pubblica Sicurezza, Acciarito torturato, Passannante ridotto alla pazzia, Bresci «suicidato» e il suo fascicolo sparito, Anteo Zamboni linciato dopo un oscuro attentato a Mussolini, che consente di tornare alla pena di morte, e via via, Pinelli, Giuliani e i torturati di Bolzaneto e della Diaz, Cucchi, Uva, Aldrovandi, Magherini e i tanti sventurati che nessuno paga.
Non è questione di momenti storici. Se nel 1894, mentre lo scandalo della Banca Romana svela i contatti mai più interrotti tra politica e malaffare, per colpire il PSI, Crispi si «affida» all’esperienza di un prefetto per un processo che non lasci scampo – e il processo truccato si farà; più abile, la repubblica cancella mille verità col segreto di Stato. In ogni tempo, indeterminatezza e discrezionalità della legge consentono di colpire il dissenso come e quando si vuole. In età liberale a domicilio coatto ti manda la polizia, col fascismo il confino non riguarda i magistrati e il «Daspo» che Maroni e la Cancellieri, avrebbero invano voluto estendere al dissenso di piazza, con Minniti c’è ed è sanzione amministrativa e di polizia. Quale criterio regoli da noi il rapporto legalità, tribunali, miseria e dissenso emerge da dati che non ci parlano di età liberal-fascista, ma pienamente repubblicana: dal 1948 al 1952, mentre nei grandi Paesi europei si contano in piazza da tre a sei morti, qui la polizia fa sessantacinque vittime. Nove furono poi i morti nel 1960, in due caddero ad Avola nel 1968 e si potrebbe proseguire. Nel 1968, quando una legge poté infine deciderlo, l’Italia scoprì che la repubblica aveva avuto quindicimila perseguitati politici con pene carcerarie dure come quelle fasciste. Di lì a poco, all’ennesima emergenza – stavolta è il terrorismo – si replicò col fermo di polizia, la discrezionalità della forza pubblica nell’uso delle armi e barbare leggi sulla detenzione, nate per essere eccezionali, ma ancora vigenti, quasi a dimostrare che di «normale» da noi c’è stata solo la stagione democratica nata con la Resistenza. Anche quella seguita da innumerevoli processi, condanne e internamento in manicomio di numerosi partigiani.

Così stando le cose, con una protesta di piazza che costa a un giovane quattordici dodici anni di galera, mentre un poliziotto che uccide per strada un ragazzo inerme se la cava con nulla, una domanda è d’obbligo: perché si fanno carte false per archiviare la Costituzione antifascista e nessuno si preoccupa di cancellare il codice fascista? Perché così si può mandare in galera un barbone, cui peraltro non si è mai dato un aiuto, o per colpire il dissenso e assolvere ladri di Stato e mafiosi in veste di statisti?

Giuseppe Aragno, Coordinatore DemA

DemAFuoriregistro e Agoravox, 20 giugno 2017.

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