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Archive for novembre 2020

Quando si parla di Napoli, lo stereotipo della città di plebe, tutta camorra e degrado, è ormai inevitabile. E’ stata la narrazione, stavolta prudente ma comunque mistificante, che ha segnato per giorni anche il ricordo di Diego Armando Maradona dopo la sua scomparsa. Il gioco, d’altra parte è facile. Lo sa bene Saviano, che parla di Gomorra e dimentica Siani, che Gomorra l’ha combattuta e s’è fatto ammazzare. Basta guardare con un occhio aperto e l’altro chiuso, ricordare istituti di pena pieni di minorenni e tacere su Eduardo che porta al Senato le ragioni di quegli sventurati e chiede di tutelarli; straparlare di Cutolo e ignorare la condanna senz’appello delle «madri coraggio» e degli studenti riuniti a migliaia negli interminabili cortei che attraversavano le vie della città.
Parlare seriamente di quegli anni, significherebbe ricordare la camorra, ma anche i suoi legami con la politica e l’imprenditoria locale e nazionale, le lotte per la casa, che giungono fino all’occupazione della «Piazzetta» di Capri e i Comitati che nella «città pericolosa» – «alla «Siberia», per esempio – uniscono docenti e genitori, mogli di camorristi comprese, nella difesa di una scuola che rappresenta ancora la possibile alternativa al reclutamento malavitoso.
I camorristi non sono mai stati padroni della città, nella quale hanno agito, lottato e fatto cultura Gerardo Marotta e il suo Istituto di livello internazionale, Mario Martone e il suo «Falso Movimento», Pino Daniele e la sua musica, Mirella Barracco e la «Fondazione ‘99», Massimo Troisi, suo figlio geniale e il suo cinema. Di Troisi fu in quegli anni la «Smorfia»  che, con Enzo De Caro e Lello Arena, costituì un trio spettacolare, capace di partire dai mali di Napoli, per puntare poi il dito sulla miseria morale della politica nazionale, sulla superficialità di sociologi da tre soldi e di pseudo intellettuali sempre più complici di un potere malato.
Negli anni in cui Maradona giunge a Napoli, malavita e degrado morale non sono la cifra di Napoli, ma quella di un Paese in cui la politica, prigioniera di se stessa, è sostanzialmente malaffare. Al Nord, quanto e più del Sud, a Milano certamente più che a Napoli, come diranno di lì a poco le inchieste della Magistratura.
Di questa realtà complessa, volutamente ignorata e probabilmente unica nel Paese, Maradona, un calciatore a sua volta unico, per le impareggiabili qualità tecniche e per l’animo, anticonformista, ribelle e apertamente schierato dalla parte dei deboli e degli emarginati, diventa un riferimento naturale e c’è poco da fare i moralisti giocando sulla vita privata, che comunque non fu solo droga.
Personalmente ricordo Diego fuori dal campo, in una mattina di sole, quando portò al parroco della «Siberia», assediata dalla malavita, magliette, scarpe, un assegno per la povera squadra dei ragazzi del posto e accettò di palleggiare nella palestra della scuola con gli scugnizzi incantati che non si sapeva come tenere a bada. Fu un lampo. Venne e sparì, ma bisognava sentirlo parlare a quei piccoli sventurati e incoraggiare i docenti, per capire perché Napoli non piange semplicemente il campione impareggiabile, ma l’uomo che riconosce come figlio. Un figlio che ebbe nemici giurati nel Nord dell’Italia e del mondo soprattutto. Ricordarlo da morto, come si fosse trattato di un Platini più dotato, ma un poco scombinato e «capa pazza», un personaggio tutto sommato accettato universalmente e riconosciuto per quello che fu è stato vergognoso.
Si è insistito molto –  e non a torto – sul valore morale di quel «gol da mariuolo» segnato agli immorali colonialisti inglesi, ma Diego io voglio ricordarlo oggi, a mente fredda, ai tempi di «Italia ‘90» e della ritorsione, quando genio e pazzia non bastarono e la banda dei sedicenti «onesti» lo derubò. Quel giorno non perse Diego; vinsero la prepotenza e l’arroganza dei ricchi e uscirono sconfitti soprattutto il calcio e Napoli. Fummo in tanti a leggere in quella vergogna un avvertimento camorristico, che puntualmente si trasformò poi un una incredibile squalifica. Tutto iniziò a Milano, coi fischi all’inno argentino e Diego che rispondeva a modo suo: «Hijos de puta!», figli di puttana. Fu un potere senza vergogna a regalare la vittoria a una Germania mediocre e ladra. Maradona, l’Argentina e Napoli, che aveva accolto l’Italia come meritava, non dovevano vincere.
A Maradona quelli che nel calcio contano hanno fatto una guerra feroce. Nel calcio della Juve, degli Agnelli e dei Platini, autentico simbolo dello stile Juve, un argentino povero e geniale, diventato scugnizzo napoletano, un amico di Castro, Chavez, Morales e Maduro, imbattibile sul campo e sempre schierato dalla parte della povera gente, era una provocazione intollerabile, che ha pagato caro. Tanti tra quelli che oggi applaudono l’hanno odiato profondamente.
Per ricordare Maradona, sarebbe stato necessario riportare alla luce le dichiarazioni rilasciate, quando fu stroncato da una squalifica eterna, di chi era inserito nel sistema a cominciare da Baresi. Careca è stato chiaro e lo si vede in campo e fuori campo ogni giorno: il Napoli giocava e gioca contro tutti, altro che sport e «vinca il migliore»! E quando fu evidente che in campo non c’era speranza, si andò a cercare la cocaina nelle urine. Non lo si faceva mai, perché non è una sostanza che aiuta a giocare meglio. Serviva per farlo fuori. Oggi applaudono tutti, ma io ricordo il primo articolo scritto per il suo esordio da Brera, maestro di arroganza e incompetenza. A marcare Diego c’era un tedescone – Briegel credo si chiamasse – e per il giornalista settentrionale si trattava dello scontro tra un gigante e un clown. Un’infamia idiota, peggiore di quella dell’«abatino» appioppato a Rivera, che trovò mille consensi. Il pagliaccio però oggi è la storia del calcio. Del gigante non si ricorda nessuno e l’anima di Brera non trova requie. Invisibile, quando gioca il Napoli, dirige puntualmente i cori di veronesi, bergamaschi e juventini.
A proposito di juventini, un amico mi dice che oltre al Covid, in questi giorni hanno un nuovo problema: un’epidemia di travasi di bile. Pare che Agnelli sia diventato più giallo di un cinese. E si capisce, un protocollo di vergogne non si è potuto improvvisare e – chi per convenienza, chi per amore o senso di giustizia – tutti hanno dovuto ammettere: Maradona poteva «nascere» solo a Napoli. La Juve può truccare campionati, ma il grande figlio della povera gente, quello che ha scritto la storia, poteva vivere, ha vissuto e vivrà sempre con la maglia azzurra.  E Diego, che lo sa, se la ride: chi pensava di averlo ucciso, l’ha reso praticamente immortale.

Agoravox, 30 novembre 2020

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Questa è casa mia. E’ raro che ci entri qualcuno se io non voglio. Capita solo se leggo qualcosa mi colpisce. Per la morte di Maradona mi preparavo a scrivere ciò che sento perché, piaccia o no, la sua scomparsa è per me dolorosissima. Prima di farlo, ho letto le parole di mio figlio e ho aperto la porta.
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Diego è calcio, fantasia e rivoluzione.
È Il calcio, la fantasia e la rivoluzione.
Diego è un’idea. E le idee non muoiono.
È morto Maradona.
E seppelliranno il suo corpo.
Un corpo che in campo ha donato al mondo bellezza nella forma più pura.
Un corpo che in campo e fuori dal campo si è sacrificato, spesso immolato, per difendere i più deboli.
Un corpo donato al Sud. Il Sud del Mondo.
Un corpo del quale Diego stesso aveva scelto di abusare. Avendone pieno diritto.
Un corpo di cui tutti – istituzioni, federazioni, squadre, aziende, colleghi, giornalisti – hanno preteso un brandello. Senza averne diritto e quasi sempre senza averne alcun rispetto.
Il corpo di Maradona ha solo scelto di cedere definitivamente il passo all’idea di Diego.
È morto Maradona. Viva Maradona.Da oggi sono tutti maradoniani. Soprattutto i suoi nemici. Soprattutto i suoi detrattori. Soprattutto i suoi sfruttatori. Chi l’ha tradito. Chi l’ha abbandonato. Chi l’ha odiato. Chi ha cercato di metterlo a tacere. Chi gli ha tolto il calcio. Chi l’ha demonizzato. Oggi ricordano la leggenda. Domani dimenticheranno anche l’uomo. Ma va bene così.
Non importa.
Noi no.
Noi non dimentichiamo.
Noi non dimenticheremo.
Non dimenticheremo la bellezza. Non dimenticheremo il sacrificio. Non dimenticheremo le emozioni, le gioie che ci ha regalato col calcio e il dolore che abbiamo provato quando il calcio è finito. Non dimenticheremo il calciatore, non dimenticheremo il combattente, non dimenticheremo l’uomo.
È morto Maradona.
Seppelliranno il suo corpo.
Ma non potranno seppellirne l’idea.
Diego vivrà per sempre.
Calcio, fantasia e rivoluzione.
Negli occhi e nei cuori di chi lo ha amato davvero. Nella coscienza di chi lotta da sempre per un mondo migliore.
Che la terra ti sia lieve, fratello.
Adelante, Diego. Hasta la victoria! Siempre.

Alessio Aragno

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Com’era facile prevedere, nove protagonisti dei fatti di Napoli del 23 ottobre scorso sono stati denunciati per «devastazione e saccheggio». Fossero o no estranei ai movimenti sociali, sulla vicenda, tra le tante chiacchiere inutili, ho letto un intervento acuto, in cui c’è un punto fermo, che fissa una data e segna un confine. Il reato, certo, risale ai tempi di Rocco, ma la nostra borghesia è riuscita a imporci il codice fascista anche dopo la guerra di liberazione, la repubblica e la Costituzione e lo troviamo sempre più spesso, pericoloso e intimidatorio, in mano a magistrati ai quali nessuno ha spiegato che il fascismo è caduto. Lascio da parte l’intreccio forte tra disastro del sistema formativo e qualità della Giustizia – scuola e università dovrebbero essere la nostra prima preoccupazione – e mi fermo all’intervento cui ho fatto cenno.
Dopo il fascismo, c’è scritto giustamente, fino al 2001, l’articolo del Codice fu utilizzato solo raramente. Da quell’anno maledetto, invece, entra spesso in gioco, vince la partita in tribunale e ottiene l’effetto intimidatorio che si propone. A me pare che il caso Puglisi e il suicidio della povera Paola Ferla avrebbero dovuto essere un forte campanello di allarme, ma l’agenda purtroppo ce la detta da tempo chi ha in mano il potere e corriamo di qua e di là senza fare bilanci e verificare una linea.
Al 2001, in sostanza, al momento di svolta, si ferma l’analisi, che sarebbe stato invece utile proseguire, per provare a capire come mai «devastazioni e saccheggi» siamo diventati sempre più frequenti. È solo questione di rapporti di forza o c’entra in qualche modo anche la nostra capacità di organizzarci? E quanto pesano su questa capacità le divisioni, la tendenza a marciare in ordine sparso, la volontà di questo o quel gruppo di stare in testa a un corteo, l’attenzione volta a «noi dentro la piazza», invece che a chi ci sta intorno? Non è forse per questo che non blindiamo uniti le manifestazioni? Eppure uniti, per questo almeno, se non per altro, dovremmo essere.
Qui l’analisi però non giunge. A me pare perciò «storicamente» corretta l’individuazione di un anno di svolta, ma credo anche che occorrerebbe andare oltre e approfondire. Credo – e temo – che fino a quando ragioneremo solo degli altri e non ci occuperemo anche – e direi soprattutto – di noi, saremo responsabili di saccheggi e devastazioni di cui nessun tribunale ci chiamerà a rispondere: quelli che il capitalismo realizza a nostro danno, profittando abilmente dei nostri errori.
In questi giorni, se n’è andato Francesco Ruotolo, amico e compagno di grande spessore umano, politico e culturale. L’ha ucciso il Covid, in conseguenza del disastro della Sanità, della distruzione dell’ambiente e – per non farla lunga – delle colpe imperdonabili di una classe dirigente che meriterebbe di essere fucilata nella schiena per alto tradimento. La perdita è stata così dolorosa, che non ho trovato la forza di ricordarlo. Mi sono limitato a poche parole in un commento su Facebook. Francesco, gli ho detto, «quando se ne vanno quelli come te, le parole, che in genere non mancano mai, spariscono. Io non ne ho. Ciò che resta di una generazione di compagni se ne sta andando e non c’è rimedio. Sono convinto però che quelli come te lasciano un vuoto fisico, ma non muoiono per davvero. Tu ci sei, vivi e vivrai nel ricordo di chi ti ha conosciuto e visto all’opera. È da stamattina che me lo dico. Non è vero che non ci sei più. Chi è stato un esempio continua a vivere fra noi. Tra i giovani soprattutto, che portano con loro tutto quanto hai saputo dare. E hai dato tanto. Tantissimo. Non ti saluto, perciò. Ti ringrazio».
Avrei dovuto continuare, ma non ne avevo la forza e la voglia. Avrei dovuto dire che Francesco ci lascia una domanda che attende risposta. Mentre giungeva alla fine, benché molto sofferente, tornava infatti su ciò che a molti sembra forse la «fissazione» di vecchi un po’ rimbambiti: l’unità dei compagni, oggi soprattutto, dopo lo sfascio della Costituzione. Era un cruccio che condividevo. Quando gli raccontai che, insistendo su questo tema, avevo avuto una risposta dura – «l’unità è diventata la tua droga», mi fu detto – osservò che da quando la Costituzione conta poco o nulla, non siamo più in grado di difendere le nostre conquiste e siamo diventati residuali. Non riusciamo nemmeno a stare assieme in lotte come queste, sulle quali dividersi è imperdonabile.
Questa sua «fissazione», molto simile alla mia «droga», Francesco l’ha difesa, finché un’oncia di forza l’ha sostenuto. La sua domanda di unità sui problemi di fondo, però, se n’è andata con lui e non ha avuto risposta. Io non insisto più: la Costituzione è fuori gioco e il Paese è andato a destra. Francesco invece ha insistito finché ha potuto e se ci penso, credo che questa attesa sempre più inutile sia stata per lui, come per gran parte della generazione di vecchi militanti che il Covid va sterminando, l’ultima, amara sconfitta.

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Il Coronavirus uccide soprattutto gli anziani; qualche volta, però, ammazza purtroppo anche persone giovani e senza problemi di salute. Non sappiamo se dipenda da problemi genetici o dalla carica virale che causa l’infezione, ma dall’inizio di questa seconda ondata pandemica sono morti 72 uomini e 37 donne con età compresa tra 0 e 39 anni. E sono dati di certo approssimati per difetto.
Non sono invulnerabili nemmeno gli atleti. Si finge di non saperlo, ma In Iran Elham Sheikh, professionista e componente della nazionale iraniana di fusal, una sorta di calcetto giocato su campi in terra battuta da squadre di cinque giocatori, è morta di Coronavirus a 23 anni.
Vulnerabili e quindi, come tutti noi, possibili “portatori più o meno sani”, contagiosi o eventuali vittime dovrebbero essere considerati tutti coloro che vivono di calcio., ma le cose non stanno così.
Fuori dalla legge, infatti, mondo privilegiato e pericoloso con licenza di uccidere, gli uomini del calcio, a partire dai milionari che si esibiscono in mutande su prati verdi, possono fare ciò che vogliono: per loro, figli di un padreterno particolarmente potente, non conta il divieto di assembramento – in campo si affollano, si abbracciano e si strattonano – non valgono le disposizioni delle ASL per i contagiati, né i confini segnati dalle zone rosse.
Gli uomini del calcio si autogovernano. Lo fanno in maniera camorristica e siamo al punto che una squadra bloccata dall’ASL di competenza, non ha scelta: o commette un reato penale o subisce ignobili punizioni dal clan che dirige la baracca dei milionari. Sarebbero affari loro e di quei tifosi che ancora credono si tratti di uno sport, se la faccenda non ci costringesse a riflettere sulle condizioni comatose in cui versa la politica nel nostro Paese. Se, per intenderci, il modo in cui vive il mondo del calcio non fosse la prova provata che qui da noi Governo e Istituzioni non contano nulla. Comandano i più ricchi e i più prepotenti.

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Uno Stato socialmente pericoloso

Oggi si discute a Torino il ricorso in appello presentato da Maria Edgarda Marcucci contro il provvedimento soffocante e fascista della Sorveglianza Speciale, che subisce dal 17 aprile scorso. Eddi – così la chiama che la conosce – non ha commesso reati. Ha combattuto l’Isis e ha difeso la libertà e la giustizia. In segno di solidarietà e per ricordare a chi non conosce il suo caso, pubblico un articolo che scrissi per lei e le auguro di tutto cuore che i giudici vogliano cancellare questa triste e vergognosa pagina della nostra storia.

Maria Edgarda Martucci, Eddi per i compagni, tornata tra noi dopo aver combattuto per la libertà dei curdi, è stata sottoposta per due anni ai vincoli della sorveglianza speciale. Come tutti i sorvegliati speciali Eddi non ha commesso reati ma le autorità di pubblica sicurezza pensano che potrebbe commetterne. Il provvedimento che la colpisce, quindi, si fonda sull’opinione di un funzionario e di un giudice, che, secondo criteri lombrosiani, vedono in Eddi una tendenza a delinquere.
Se confermata nei successivi gradi del processo, questa opinabile scienza – che riduce lo Stato e un’entità socialmente pericolosa – priverà Eddi di alcuni diritti e di buona parte della sua libertà personale. Trasformata in suddita, la cittadina incensurata Maria Edgarda Martucci si vedrà sottrarre passaporto e patente e dovrà sottostare a obblighi stringenti: comunicare alla polizia l’indirizzo di casa, da cui non potrà allontanarsi senza informare le autorità; la mattina non potrà uscire prima di una certa ora e la sera dovrà rincasare presto. Dovrà lavorare, ma senza chiedere licenze di alcun genere, potrà svolgere solo mansioni di dipendente o fare un lavoro autonomo per cui non è richiesta l’iscrizione a un albo. Nessuna riunione, nessuna manifestazione, nessun compagno sottoposto a provvedimenti di polizia e per finire, niente bettole e osterie.
E’ opinione di funzionari e giudici, che questo trattamento impedirà a Eddi di creare problemi di ordine pubblico. Per dirla chiara, le insegnerà – o dovrebbe insegnarle – che è pericoloso agire secondo coscienza e manifestare liberamente le proprie opinioni. Tutto legale? Sì, ma è la legalità autoritaria, quella del codice Rocco, che consente ai giudici della Repubblica antifascista di esercitare la loro funzione secondo provvedimenti di ispirazione chiaramente fascista.
C’è un libro uscito pochi anni fa che pare scritto solo per “specialisti” e invece dovremmo leggere tutti, per capire come possa accadere che un Tribunale della Repubblica nata dalla guerra di  liberazione, giunga a condannare a due anni di sorveglianza speciale una giovane donna che – come riconosce la stessa accusa – non ha commesso  reati.
Il libro, scritto da Mimmo Franzinelli e Nicola Graziano, uno storico e un magistrato, è intitolato Un’odissea partigiana e ricostruisce l’incredibile storia di alcuni combattenti della guerra di Liberazione che, quando l’amnistia di Togliatti aprì le porte ai fascisti reclusi, si trovarono a fare i conti con giudici mussoliniani dal dente avvelenato, che inquinavano i Tribunali della Repubblica. La persecuzione fu così spietata che, pur di sottrarli alla vendetta, Terracini si rassegnò a ottenere condanne giustificate dalla pazzia. Amnistie e indulti, si disse l’avvocato comunista che aveva firmato la Costituzione con De Gasperi e De Nicola, avrebbero poi provveduto a tirarli fuori dai manicomi.
Le cose però non andarono così  e i “pazzi per la libertà” rimasero quasi tutti in manicomio, perché il codice fascista, che non abbiamo mai cancellato dalla vita della Repubblica, esclude da indulti e amnistie chi è considerato “socialmente pericoloso”. Si spiega così, con questa regola fascista che annichilisce la Costituzione quanto è capitato in questi giorni a Eddi, cha di fatto ha ripercorso la via amara di tanti partigiani.
Una esperienza di questo genere può capitare solo in un Paese come il nostro, che non ha fatto i conti col fascismo e ignora purtroppo la sua storia. Un Paese di sedicenti “liberali”, in cui è facile incontrare giudici che non conoscono il monumento levato in piazza dopo l’unità d’Italia a Santorre di Santarosa, il rivoluzionario borghese che passò dai moti carbonari, all’esilio inglese – cui l’aveva costretto un Tribunale – e incontrò la morte per mano turca, combattendo in Grecia per la libertà dei padri della democrazia.
Se non fossimo un popolo di “senzastoria”, Emanuela Pedrotta, Pubblico Ministero a Torino, si sarebbe guardata bene dall’utilizzare il codice penale secondo lo spirito che ispirò il fascista Rocco. La storia, maestra di vita, che trova purtroppo sempre meno allievi in grado di apprenderne la lezione, l’avrebbe indotta a riflettere, a ricordare che nel 1897, l’Italia liberale, che pure non fu modello di democrazia, non osò ricorrere al codice Zanardelli e non condannò i giovani tornati in Italia, dopo aver combattuto per la libertà di Candia, assalita dai Turchi. L’idea universale di libertà l’avrebbe fermata, benché tra quei volontari ci fossero soprattutto rivoluzionari, come il comunardo Amilcare Cipriani, Ettore Croce, futuro deputato comunista, poi perseguitato dai fascisti, e Arturo Labriola, futuro sindacalista rivoluzionario, sindaco di Napoli e ministro del Lavoro con Giolitti.
Qualora questi nomi non fossero bastati a imporle rispetto per chi difende della libertà di tutti i popoli, avrebbe certamente fatto un passo indietro di fronte al sacrificio di Antonio Fratti, giovane deputato repubblicano, partito con Cipriani, Croce e Labriola, ucciso in combattimento dai Turchi, ricordato in versi appassionati da Giovanni Pascoli e salutato dalla commemorazione rispettosa  dei colleghi parlamentari di ogni parte politica. Purtroppo l’Italia d’oggi ignora la sua storia. Eddi perciò, ideale compagna del giovane Fratti, di Cipriani, Croce e Labriola, non ha trovato ad attenderla il poeta e i suoi versi appassionati, gli sguardi rispettosi del Parlamento e un popolo che le si è stretto attorno come avrebbe meritato. Per lei ci sono stati solo la ferocia del Codice fascista e un giudice che ignora la storia del suo Paese e non si inchina ai grandi valori che ci fanno sperare in un mondo migliore.
Centoventi anni dopo il sacrificio di Fratti, questo nostro sventurato Paese è tornato purtroppo un modello di barbarie. Io però ricordo – e mi sembrano scritte per Eddi – le parole che in quei giorni lontani ebbe a scrivere Matteo Renato Imbriani Poerio. Parole troppo presto dimenticate, che vale la pena di ripetere per Eddi:
“In cospetto di un delitto che non ha nome contro un popolo che fronteggia la barbarie dell’Europa […] sappia il popolo italiano imporre al suo governo una politica che non significhi vergogna”.
Sono parole che non moriranno, come vivi saranno per sempre, al di là di sentenze che si commentano da sole, i nomi e le storie di quei giovani che hanno il coraggio delle loro idee e le difendono in ogni modo possibile, come hanno fatto sui monti i partigiani.

Agoravox, 27 marzo 2020

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A un amico mio vero il maledetto Covid ha fatto lo sgambetto, senza però per fortuna fargli danni seri. Lui, che già ce l’aveva coi “negazionisti” ora se la prende giustamente con loro e con “i minimizzatori”, che, sostiene a ragione, “sono (comunque) tutti di destra”. Tutti, dice, e come dargli torto? “novelli beoti suprematisti della salute. ”.
Poiché da un po’ non me la passo bene – niente di grave, ma scrivere così, tanto per farlo non è terapeutico e lui non se lo merita – m’è venuto di buttar giù comunque queste due parole, senza preoccuparmi troppo della forma e della rispondenza tra testo e commento. Perdonate perciò se scivolo un po’ sul “personale” e me ne vengo fuori con un commento che non si aspetta i like, ed è più che altro un parlare a me stesso, fingendo di non sapere che qualcuno sta a sentire.
C’è stato un tempo in cui ho creduto davvero che “essere di sinistra” significasse automaticamente stare dalla parte della povera gente. Ho imparato a mie spese che non è così. Per molti, quando la sinistra contava e spartiva potere, significava carriera. Non mancavano poi quelli che erano “di sinistra” perché questo significava essere nel filo di una corrente che ti faceva sembrare una persona ricca di grandi valori. Non costava nulla ed era gratificante. In ogni caso non era una cambiale firmata e al momento giusto potevi sempre fare una piroetta e passare dall’altra parte.
Oggi, che la sinistra non c’è più, molti si dicono di sinistra per sembrare coerenti e irriducibili. Sono quelli che ti fanno l’analisi del sangue e puoi stare sicuro, loro ce l’hanno sempre più rosso del tuo. È facile, ancora una volta non costa nulla e spesso poi, nella vita quotidiana, si comportano come e peggio dei fascisti.
Ciò detto, compagni, tutti potranno dire di me peste e corna e potrebbero avere ragione. Errori ne ho fatti tanti e – salute permettendo – ancora ne farò. Posso dire, però, che non ho mai sbagliato sapendo di sbagliare; quando mi hanno dimostrato che stavo facendo una cazzata, ho ringraziato e mi sono scusato.
Io “sono di sinistra” e ho sempre dato quello che avevo senza chiedere nulla per me.

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L’immagine che apre questo breve intervento mostra Enea che, vincendo la battaglia con l’istinto di conservazione, fugge da Troia in fiamme, portando sulle spalle il vecchio padre Anchise. E’ un’immagine che m’è venuta in mente mentre un tweet di Giovanni Toti scatenava una feroce e sdegnata polemica. Un tweet che ha letto mezzo mondo e che ripropongo:

Per quanto ci addolori ogni singola vittima del Covid19, dobbiamo tenere conto di questo dato: solo ieri tra i 25 decessi della Liguria, 22 erano pazienti molto anziani. Persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese che vanno però tutelate“.

Per quanto mi riguarda faccio tranquillamente a meno di un inutile sdegno, che sa d’ipocrisia. Mi domando piuttosto se chi è anziano come, leggendo, non si è sentito chiamare in causa dalla coscienza, più che dalle parole del tweet e non ha ritenuto giusto riflettere invece di puntare il dito. Riflettere sì, senza scandalizzarsi, senza chiamarsi fuori o – peggio ancora – ricorrere al giudice come parte lesa. Il problema che abbiamo di fronte infatti non è il tweet. Purtroppo Toti ha scritto quello tanti pensano ma non dicono.
Giunto ormai a un passo dai 75 anni, non posso fare a meno di chiedermi quali responsabilità abbiamo noi anziani, in quanto generazione, se il mondo che ci accingiamo a lasciare è popolato da gente come Toti. Più che sdegnarci, ricordiamoci che è un mondo che purtroppo abbiamo costruito noi. Chiediamoci perciò anzitutto dove e quando abbiamo sbagliato, se oggi la realtà che abbiamo costruito ci dice brutalmente che siamo vecchi, non produciamo nulla e possiamo anche togliere il disturbo.
Chiediamocelo, è necessario farlo, perché, ci piaccia o no, questo mondo popolato da analfabeti dei sentimenti umani è figlio nostro. Siamo noi che l’abbiamo generato.

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