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guerra

Il ritornello è antico e maligno e lo canta persino il “governo del cambiamento”: quando dici pubblico, dici imbroglio, spreco e  corruzione. La conseguenza diretta di questa convinzione  è un principio maledettamente dannoso: il “privato” è la soluzione per i mali “pubblici”. Nascono da qui l’apologia dell’impresa, la santificazione dell’imprenditore e la convinzione che l’indebitamento del nostro Paese sia una questione che riguarda la sfera pubblica e ricade perciò naturalmente su noi cittadini.
A chi faccia comodo questa menzogna è facile capire: fa bene agli imprenditori, che, guarda caso, per renderla sempre più credibile, posseggono direttamente  o indirettamente, buona parte dei mezzi d’informazione. Un esempio classico dell’efficacia di questo meccanismo di trasformazione dei diavoli in santi, che consente agli imprenditori ds arricchirsi e costringe i lavoratori a pagare i prezzi d’ogni ruberia è senza dubbio la prima guerra mondiale.
In genere, quando se ne parla, ci si ferma poco su un dato decisivo: per impedire che intervenissimo nel conflitto, l’Austria-Ungheria ci aveva offerto Trento, Trieste,e Bolzano e avrebbe trattato sull’Istria e sulla Dalmazia.. Quanto bastava per tenerci fuori, se la neutralità non avesse impedito agli industriali di fare affari straordinari per milioni e milioni di lire. Come tutti sanno, finì che si mise mano alle armi.
La guerra significò per gli imprenditori un “meccanismo di corruzione sistemica in grado di pompare dallo Stato risorse insperate” e si trasformò ben presto in un affare irripetibile per le imprese impegnate nella produzione militare e in un gravissimo danno economico per il Paese. Un danno praticamente incalcolabile, destinato a sommarsi ai debiti causati dalle guerre successive.
Quello che qui interessa, però, è capire come si comportarono gli onesti e santi imprenditori.
Ci sono due cose che colpiscono immediatamente chi prova a metter mano negli aspetti economici della guerra: da un lato enormi quantità di merce mai consegnata ma fatturata,, di merce pagata più volte, di  merce scadente o avariata, dall’altra il sistema di corruzione diffuso, capillare e pervasivo, che non è mai diventato parte della nostra memoria nazionale, nonostante le numerose commissioni parlamentari d’inchiesta, tutte sistematicamente svilite, insabbiate o vanificate, a amano a mano che il lavoro dei commissari si indirizzava decisamente sui grandi gruppi industriali, tutti coinvolti nel fenomeno e tutti collusi col potere pubblico.
Nell’Archivio Centrale delle Stato esistono trenta metri di scaffalature  a più piani, piene zeppe di documenti, sterilizzati da Mussolini, che aveva fondato il mito del fascismo sulla “grande guerra”. Non conosciamo l’entità del danno – i conti non li ha fatti nessuno – e d’altra parte non è sempre facile quantificare.  Quanto valeva il prodotto di quattro anni del lavoro di un un milione di lavoratori morti o inabilitati? Un milione all’anno, si è detto, ma potrebbero essere anche più. Quanto ci costò pagare i Venti,  miliardi di debito contratti con l’estero; quanto valeva e quanto costò il materiale bellico consumato e quanto incassarono a prezzi privilegiati o truccati gli imprenditori che fornirono armi, munizioni, vestiario, cavalli e farmaci?
Si potrebbe proseguire a lungo, mettendo nel conto la distruzione della metà della marina mercantile, dei territori delle province occupate dal nemico e la grave perdita di materiale forestale. Dati certi comunque ne abbiamo. Il debito pubblico che nel 1914 era di 13 miliardi – quello accumulato da tutti i governi italiani, compresi quelli regionali che avevano formato il Regno d’Italia – giunse a 94 nel 1919. In pratica, un debito capace di schiacciare per decenni sotto il suo peso insostenibile le generazioni future.
Sullo sfondo la corruzione di un sistema industriale che ha sempre vissuto all’ombra dello Stato e si è sempre avvalso della facoltà di garantirsi il controllo dei mezzi d’informazione. Sarebbe un lavoro utilissimo da fare oggi per la stampa dei nostri giorni, ma di certo sappiamo che tra il 1917 e il 1919 i nostri imprenditori ebbero mani in pasta in 221 testate locali, nazionali e straniere. Uno strumento potente di orientamento e condizionamento dell’opinione pubblica, che induceva ad applaudire o fischiare, sceglieva cosa far sapere e cosa tacere.
Fu così che, per fare un esempio,  nessuno fece caso ai cannoni dell’Ansaldo, pagati dalla Marina, e addebitati poi anche all’Esercito. Nessun giornale, del resto, pose l’accento sugli aerei Fiat Sai, totalmente inadatti al volo, origine di gravi e mortali incidenti e tuttavia regolarmente pagati. Non a caso 4 miliardi di lire erano passati dalle casse  delle aziende a quelle dei giornali.
Di tutto questo sappiamo poco e quasi mai raccontiamo la tragedia degli alpini armati con mitragliatrici Fiat raffreddate ad acqua nel gelo della Siberia. Da noi l’imprenditore è onesto per definizione e quando la sua onestà diventa debito, pagano immancabilmente i lavoratori.

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2017_06_30_fca1

Riprendo, senza nulla aggiungere, un articolo che fa parte della newsletter dei Clash City Warkers. La domanda che viene spontanea è una, apparentemente banale, ma fondamentale: perché la grande stampa ignora tutto questo? Perché tanto spazio per il meteo e per l’indice mibtel e un silenzio così ostinato sulle persone in carne e ossa e sulla loro immensa dignità? A che servono oggi giornali e televisioni? A incensare i padroni? A farci pagare una tassa per telegiornali che non vogliamo vedere? 

Da una parte turni massacranti, straordinari obbligatori, trasferimenti forzati. Dall’altra cassa integrazione, esuberi annunciati, licenziamenti mascherati da mancati rinnovi. Questo avviene in questi ultimi mesi nei diversi stabilimenti Fiat, da quando è sdoganato il modello Marchionne.

O anche nello stesso stabilimento, come quello di Cassino, dove sono iniziati i primi licenziamenti (ops mancati rinnovi) per i centinaia di interinali presenti e al contempo continuano i trasferimenti forzati da Pomigliano verso lo stabilimento laziale! Per La Repubblica questi sono processi “fisiologici” nell’azienda Fiat. Per chi viene spremuto in linea di montaggio, per chi deve rinunciare a stare con la famiglia la Domenica, per chi si ritrova a fare le notti, per chi di punto in bianco si trova senza lavoro o a stipendio dimezzato, di “fisiologico” non c’è niente.

Le cose allora sono due: o noi ci adattiamo alle esigenze dispotiche di aziende assetate di profitti, oppure le costringiamo ad adattarsi alle esigenze della nostra vita, visto che si riempiono la bocca di parole come “flessibilità” – che evidentemente è a una sola direzione.

sciopero fcaPer questo la giornata di lotta di oggi davanti alla Fiat di Cassino organizzata da diverse sigle del sindacato di base – che segue gli scioperi molto riusciti dei trasferiti da Pomigliano -, era una giornata importante, anche nelle sue dimensioni ridotte. E che ha registrato momenti significativi di solidarietà da parte degli altri stabilimenti, non solo attraverso le varie rappresentanze presenti, ma anche per le discrete adesioni allo sciopero arrivate sin da Mirafiori. Questa giornata dimostra che c’è ancora chi resiste al modello Marchionne, ora che questo si esprime con tutta la sua violenza e dilaga nell’intero mercato del lavoro. Ancor più importante, indica una via da seguire per trasformare la rabbia che cova tra chi ne sta subendo gli effetti perché si trasformi in lotta e non in senso d’impotenza o, peggio, in gesti di violenza contro sé stessi – come nel caso dei diversi cassintegrati suicidi. Visto che a questa rabbia i sindacati confederali hanno rinunciato a dare ascolto, dicendo addirittura che va tutto bene.

Per questo La Repubblica termina il suo articolo parlando delle limitazioni del diritto di sciopero, delle varie beghe sulla rappresentanza sindacale… perché il timore che la corda stia per spezzarsi agita i sogni felici di padroni e portavoce.

Questa giornata insieme a quelle di sciopero di domani e dopodomani a Termoli contro gli straordinari obbligati nel weekend, possono allora essere un inizio. Al modello di sfruttamento e arroganza di Marchionne dobbiamo cominciare a opporre il nostro modello, l’unico razionale in un mondo sviluppato, ricco (per pochi) eppure pieno di disoccupati, mentre chi lavora si ammazza di fatica: lavorare meno, lavorare tutti!

Qui sotto vi riproponiamo il video che realizzammo l’anno scorso proprio in sostegno della lotta dei lavoratori FCA contro i “sabati comandati”. Che sia di buon auspicio per lo sciopero di domani e per il proseguimento della lotta contro il “Modello Marchionne.

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marchionne-suicidioMimmo Mignano, operaio Fiat, licenziato per un manichino appeso che, dopo tanti suicidi di operai, metteva in scena un finto suicidio di Marchionne, è esempio di coraggio, dignità e umanità. Mi “tagga” su facebook e di fronte alle sue parole mi vengono in mente le mie mille storie di antifascisti perseguitati. Domani, scrive,  alle

ore 13,00 ingresso 2 Fiat pomigliano ASSEMBLEA PUBBLICA
Il 5 aprile al tribunale di Nola i 5 licenziati politici della Fiat saranno nuovamente processati per aver denunciato i suicidi avvenuti in un reparto confine come quello di Nola . Un processo che vede imputati 5 operai per aver esercitato il diritto di critica, di satira, e di espressione, un diritto che la Fiat in vuole far passare tramite una sentenza, come legge. Assemblea con megafono aperto, un megafono che deve denunciare i soprusi, le ingiustizie, che oggi sta subendo la classe operaia, denunciare senza se e senza ma le espulsioni che i compagni Destadis e gli altri hanno subito dalla più infame giustizia interna sindacale, ma tutto questo non basta. La solidarietà da sola non basta
.

Per me purtroppo sta diventando molto difficile andare oltre la solidarietà e partecipare fisicamente, come vorrei e come ancora farò quando e finché poterò. Questione di età e soprattutto di malanni, che però passeranno. Tuttavia, non lo dico per dire: ci sarò veramente con la testa e con il cuore, perché questo processo, questa storia di prepotenze, questo gioco vigliacco che devasta la vita dei lavoratori e disprezza la loro immensa dignità, mi fa veramente schifo. E schifo mi fanno Marchionne e i padroni della Fiat. Fascisti, più fascisti del fascista Valletta.

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Condivido ciò che scrive Cremaschi sulla scelta di Monti: si candidi in prima persona o pensi di prestare il suo nome immacolato alla marmaglia adunata attorno a quella Confindustria che foraggiò il “duce” e alla finanza impunita per gli amorazzi fascisti, il tecnico “super partes” ha gettato la maschera. Presentato come l’uomo della Provvidenza, il terzo, dopo Mussolini e Berlusconi, tutto casa, famiglia, Europa e Vaticano, consacrato da Napolitano, immancabile comunista pentito, aveva promesso di tornare alla Bocconi, come Garibaldi a Caprera e ai suoi campi Cincinnato, ma s’è invece ulteriormente “sporcato” mani già grondanti del sangue dei diritti ammazzati. Sceso dall’Empireo dove l’ha messo la stampa – peggio non fecero ai tempi loro Interlandi e Spampanato – ha voluto aprire a Melfi la sua campagna elettorale, per mostrare l’intesa che lo lega a Marchionne, un manager cui calza a pennello la miserabile tradizione dell’impresa italica, fotocopia ritoccata in peggio del fascista Valletta, finito su un nobile scranno al Senato della Repubblica, accanto ai capi partigiani. Qui da noi s’usa così e il giurista Azzariti, presidente del tribunale della razza, s’insediò senza problemi sulla poltrona di primo presidente della smemorata Corte Costituzionale.
Marchionne e la Fiat, quindi, una versione se possibile peggiorata delle visite di Mussolini, al quale, però, poteva anche capitare di trovarsi di fronte al gelido silenzio operaio, quando il gerarca di turno lanciava il suo “viva il duce” e gli rispondeva solo la “brigata balilla” puntualmente mobilitata. Monti non rischia e Marchionne è una tigre di carta: il primo soffio di vento lo sbianca e gli pare tempesta. Modificato il protocollo fascista, il dissenso s’è tenuto lontano e in fabbrica sono entrati i balilla. Qualcuno autentico e tutti gli altri solo sventurati che la fame ha piegato.
Per quel che s’è visto, l’adunata s’è svolta secondo le regole del gioco e il “film Luce”, ieri come oggi, ha narrato più verità di quante volesse mostrarne. C’è un Paese che non è domato: la FIOM, messa alla porta, sbatteva sul muso dei complici cronisti le sentenze dei giudici ignorate, gli operai illegalmente licenziati ma non ancora rasseganti, reagivano alla rappresaglia con la lotta. Il conflitto, insomma, ancora presente dietro la sceneggiata del consenso.
E’ difficile dire se, di qui a qualche decennio, storici compiacenti e “liberali” sosteranno di nuovo le banalità di Mosse, ignorando  bastone, carota e fabbrica del consenso, e racconteranno che “se non c’è un’attesa, un desiderio da parte delle masse, non c’è propaganda che tenga“. Nel dubbio, meglio esser chiari: fu il sangue di Amendola e Mattotti, non il “listone” a decidere del “consenso” e oggi c’est la meme chose: quelle che ci attendono, più che elezioni politiche, potrebbero essere il primo atto di una rinnovata tragedia. Vada come vada, con Bersani nella trincea neoliberista, dalle urne Monti uscirà  probabilmente vittorioso comunque. Se è vero, però, come pare incontestabile, che il “professore” ha fatto impunemente ai diritti e alla democrazia ciò che Marchionne ha fatto alla Fiat, non avremo di fronte un blocco di potere clerico-moderato. Quando il vincitore non riconosce il sindacato ed è pronto ad affermare, costi quel che costi e con ogni mezzo, la preminenza dell’Esecutivo sul Parlamento, l’appoggio del Vaticano e dei cattolici della CISL sono solo un dei rovesci della medaglia: la sua anima clericale. Ciò che rende Monti l’avversario più insidioso e ambiguo che abbiano avuto i lavoratori dalla nascita della repubblica ad oggi è la filosofia della storia e la natura eversiva d’una guerra di classe scatenata dall’alto, che supera di molto e anzi trascende il berlusconiano disprezzo per la democrazia. Una filosofia inconciliabile col ruolo storico dei “moderati”. Gli operai della Fiom tenuti a forza fuori i cancelli della fabbrica, sono il biglietto da visita di una borghesia mossa da una visione politica autenticamente e pienamente reazionaria.
E’ vero, la messa in scena dello scontro tra una destra che si finge moderata e una formazione  interclassista di comunisti pentiti e cattolici neoliberisti più papalini del papa, privi dell’anima sociale e delle radici popolari della sinistra democristiana, può dar vita, per dirla con Cremaschi, a un Parlamento che più montiano non si può. Non è tutto, però, manca il secondo volto della medaglia. Da elezioni politiche svolte in un clima di ricatto greco, con la legge Calderoli che rende accettabile persino la memoria di Acerbo, un Parlamento più montiano di Monti può essere solo espressione di un fascismo riveduto e corretto. L’Europa non consentirebbe? Non è così. Il rischio, se mai, viene proprio dai carnefici della Grecia. Meno forte, perciò, sarà  il montismo in Parlamento, più debole sarà la reazione in Europa e più agevolmente costruiremo la resistenza. Quale resistenza? Questo è il punto: non è detto che la partita sia parlamentare. 

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Stupisce che Marchionne stupisca ancora. Lo stupore si fa poi fastidio, se chi si stupisce si ferma all’indignazione e cancella così, per i corpi sociali e la dinamica della storia, il principio di reciproca influenza per cui ogni azione reale provoca una reazione uguale e contraria. “Siamo alla rappresaglia“, titola la stampa, e lì si ferma senza domandarsi com’è che non vedi cortei spontanei di protesta e non senti organizzazioni sindacali che denunciano per risposta l’autoregolamentazione dello sciopero e gli accordi sottoscritti in tempo di pace. Alle ripetute azioni d’una guerra di annientamento scatenata contro la classe lavoratrice, i lavoratori non rispondono con la guerra. E’ soprattutto questo che dovrebbe stupirci e, ancor più, interrogare le coscienze sul funzionamento effettivo dello Stato e sul rapporto reale che c’è tra legalità e giustizia sociale.
Si dice che la storia non si ripete e sarà vero, non si scrive, però, che essa si svolge su percorsi dati e schemi preesistenti in cui agiscono i suoi protagonisti. La lotta di classe è un dato fisso, è il contesto uguale nei secoli con cui fanno i conti i protagonisti; a mutare sono le scelte che decidono i risultati dello scontro, sicché, comunque vada, il dato costante è il conflitto. Chi conosce l’asprezza della lotta di classe e la storia del movimento operaio sa che Marchionne segue il solco d’una tradizione e non si meraviglia per le sue scelte. Sa che i diritti nascono storicamente da lotte condotte contro un quadro di “legalità” che ha sempre garantito i ceti dominanti con leggi repressive fatte apposta per colpire coloro che lottavano per la giustizia sociale.
La ritorsione è uno dei volti di una repressione unilaterale che è regola per uno Stato che non solo riconosce come prioritari i diritti del padronato rispetto a quelli del lavoro, ma è lì per favorire, approvare e se necessario imporre con la forza la barbarie del “libero” mercato. Qualora ce ne fosse ancora bisogno, Marchionne dimostra coi fatti che per i padroni non ci sono tribunali, giudici e sentenze. Sui lavoratori che non rispettano il verdetto del magistrato lo Stato esercita prontamente la forza che è suo esclusivo monopolio. Per i padroni questo non accade. La storia è piena zeppa di lavoratori incarcerati o uccisi nelle piazze. Nessuno ricorda scioperi terminati coi padroni arrestati o uccisi in piazza dalle cosiddette forze dell’ordine. Della ritorsione di Marchionne si stupisce solo chi fa il gioco delle tre carte e confonde le idee, perché non vuole che la gente sappia e capisca. In questo senso si spiega bene e assume, anzi, significati chiaramente classisti l’attacco contemporaneo che il padronato porta agli operai nelle fabbriche e ai loro figli nella scuola pubblica. Un attacco in cui la Fiat di Agnelli e di Marchionne, alla testa dello schieramento padronale, non solo è in prima linea ma parte da posizioni di forza, poiché ha collocato i suoi uomini, che nessun lavoratore ha eletto, direttamente nei banchi del governo. Sono i tecnici alla Profumo, che sottraggono soldi alla scuola pubblica per passarli a quella privata e togliere ai figli dei lavoratori ogni possibilità di capire ciò che accade attorno a loro.
Così stando le cose, è chiaro che nella “società della conoscenza”, scuola e università sono il terreno avanzato dello scontro di classe. I docenti vanno colpiti, la scuola disarticolata e la ricerca messa sotto controllo, perché nessuno deve spiegare ai giovani che sono stati rapinati del loro diritto alla vita, non devono sapere nulla di Crispi e della Banca Romana, degli stati d’assedio che non c’erano nello Statuto Albertino ma portarono in piazza la cavalleria contro la povera gente, di Mazzini, “padre della patria”, morto esule a Firenze sotto falso nome, ancora e sempre “condannato a morte in contumacia”, di Garibaldi, “eroe dei due mondi”, tenuto sotto stretta sorveglianza da nugoli di spie e confidenti, delle crisi del capitale pagate periodicamente con la disoccupazione e la fame dei lavoratori, delle leggi speciali che ignorano il dettato costituzionale, dei soldi dei lavoratori utilizzati per armare e pagare gli uomini in divisa che po li hanno sempre massacrati, da Milano nel 1898, a Reggio Emilia nel 1960, ad Avola nel 1968 e via così, anno dopo anno, fino a Genova nel 2001. Non devono sapere, per tornare alla Fiat, del gerarca Valletta che perseguitò i lavoratori prima coi fascisti e poi con la Repubblica. Non devono sapere, perché ai padroni come Marchionne non serve gente che pensa, ma servi che chinano la testa. La scuola, se funziona, produce intelligenze critiche, cittadini non servi. E il cittadino non subisce. Reagisce. E’ legge fisica.

Uscito su “Fuoriregistro” l’1 novembre del 2012

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C’è la crisi, si dice, e pare tutto chiaro. Al buio, però, sullo sfondo, c’è qualcosa di “non detto” o forse d’indicibile e sul proscenio la luce inquadra un’altalena: oggi chincaglierie scintillanti vendute come gioielli ai creduloni, domani cadute di stile ripetute e negate col sorriso innocente e i toni pesanti di chi cerca la guerra. Nulla di più vicino all’inquietante paradosso di Orwell: “Il linguaggio politico è concepito in modo che le menzogne suonino sincere, l’omicidio rispettabile e l’aria abbia parvenza di solidità”.

A scuola, dopo i tagli, ecco, fatale, la “ristrutturazione aziendale”, ma il Ministero gioca tutto sulle parole della “narrazione” e i funzionari, pena la testa, aprono di concerto il fuoco di sbarramento: c’è una “logica gestionale dell’accorpamento”, fa il Solone di turno, ma è il funerale di Stato della didattica; occorre ripensare la “geografia dei plessi”, sentenzia solenne il solito “esperto”, che ha “studiato il sistema” e dà numeri certi: se si “smistano” bambini di prima elementare nelle classi terze della media “comprensiva”, la maestra malata non c’entra nulla e nemmeno i soldi mancanti per una supplente. Non si tratta di crisi: è un modo di ripensare “l’amministrazione del fare”. In questo contesto, i sottosegretari all’Invalsi studiano i criteri di valutazione d’azienda, in base a tecniche rivoluzionarie: una gestione seria della formazione che riduce all’osso le risorse economiche, solleva l’animo di quelle umane, afflitte dalla monotonia del posto fisso. Flessibilità! Sì, ne occorre ancora molta e c’è quella buona, quella cattiva, quella in entrata e quella in uscita. Flessibilità: è la chiave della ripresa.

Per quanto occultato dalla neolingua, il non detto talvolta traspare e, a ben vedere, si legge chiaro nell’ethos che muove il ministro Fornero e il suo vice, Martone, fiori di serra di quell’università ove regnano incontrastati merito e democrazia: “Andremo avanti comunque!”, è la filosofia. Anche qui, se prendi Orwell come punto di vista, la scienza della comunicazione fa un’ottima prova e dopo i pensionati che hanno miracolato l’incontrollabile spread, salvando l’Italia degli evasori, dopo l’investimento “mirato” su un manipolo di farmacisti che ci avvia alla crescita finalmente e salva i giovani disoccupati, ecco, solenne, l’ora del mercato del lavoro. Un fuoco d’artificio orchestrato da pattuglie di geni, il soliti minuetto ai limite dell’indecenza, tutto dichiarazioni e smentite, e infine il perno del programma in una vocazione: “toccare i tabù”.

Per chiudere la stagione del conflitto tra capitale e lavoro, Marchionne non ci ha pensato due volte: ha messo alla porta il sindacato e ci ha ricondotti all’Italia “più avanzata del mondo”: quella fascista di Bottai. Tuttavia, se resta in piedi l’articolo 18, prima o poi, la Fiat dovrà ingoiare il rospo e “riassumere” gli iscritti alla Fiom, che tiene accuratamente fuori i cancelli di Pomigliano. Fornero e Martone hanno il compito d’impedirlo. E’ quello il punto: schiacciare i diritti. Di qui le chiacchiere da neolingua sul rapporto inesistente tra crisi e Statuto dei lavoratori, mentre si vuole una Carta del Lavoro e un’idea di gerarchia. Dietro i fumogeni della trattativa, la decisone è presa: un arbitrato, la beffa d’un indennizzo economico e il limite invalicabile della proprietà: la giusta causa dell’impresa è quella dei padroni.

La scuola è avvisata: pensare è pericoloso, c’è bisogno di giovani “cinesizzati” per far concorrenza ai cinesi. In un mondo globalizzato, formare cittadini è sovversione. In quanto ai sindacati, Fornero non ha tempo da perdere con la cantilena sulla concertazione e lacrime ne ha già versate: è ferma su posizioni che hanno radici antiche nella nostra storia: basta lotta di classe, “il sindacalismo, per essere una forza viva dello Stato, deve uscire dagli accampamenti demagogici e dagli atteggiamenti ringhiosi contro il capitale”.

Non c’è membro di questo governo che non metterebbe la firma sotto queste parole. Monti in testa. Questa, però, non è neolingua e Orwell non c’entra nulla. E’ il linguaggio attualissimo del “Popolo d’Italia” nel gennaio del 1929. Dopo la parentesi buia di Gino Giugni e Giacomo Brodolini, la firma pare tornata di moda: Mussolini.

Uscito su “Fuoriregistro” l’8 febbraio 2102.

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Venerdì’ prossimo, 28 gennaio, sciopero generale della scuola e dell’università con la Fiom. E sarà bene dirlo: è sciopero politico. Non sarà la Procura di Milano a chiudere la partita col neoliberismo all’italiana e, assente in Parlamento un’opposizione pronta a una battaglia di democrazia, la piazza fa supplenza.
Semaforo rosso per ogni soluzione autoritaria d’una crisi economica e sociale, che chiude nell’unico modo possibile la seducente “età dell’oro” promessa dal capitale dopo la caduta del muro di Berlino.
C’è un filo diretto tra il massacro di Marchionne alla Fiat e la decimazione del Ministro Gelmini. Si vede chiaro e bisogna far fronte, reagire e scompaginarlo: è un pericoloso progetto politico. Non si tratta solo di pugnalate alla ricerca, di università privatizzata, di 140.000 posti tagliati tra docenti e Ata, di un bando di espulsione di massa dei precari, dell’aumento delle cattedre che superano le 18 ore e degli alunni per classi che sono ormai 35. E neanche è questione del mortale squilibrio tra aumenti peggiorativi e peso insostenibile delle riduzioni: ore di lezione, insegnamenti, materie, sforbiciate al sostegno e impoverimento di ogni risorsa. Non è solo questo, che pure grida vendetta. E’ che la scelta è chiara: da un lato c’è il lavoro colpito e l’esercito dei disoccupati, buoni per diventar crumiri, dall’altro ci sono i diritti negati e la creazione del “bestiame votante” che legittimi un involucro democratico vuoto di contenuti. Chiuso il cerchio, gli estremi si toccano e la proletarizzazione crea le nuovo classi “subalterne” rassegnate a un futuro di servitù.
Del ministro Gelmini si son perse le tracce. Vive di comunicati-stampa e sfugge il contradditorio. Oggi smentisce “le indiscrezioni apparse […] su un quotidiano, secondo cui esisterebbero diversi punti di vista” col collega Tremonti, ieri, contornata dai baroni che le danno il là, dava per “finita l’era dei baroni“, ieri l’altro faceva scudo col corpo al “suo” Berlusconi, nella furiosa guerra che s’è inventato coi magistrati, e sosteneva con l’arroganza del potere sinora impunito: “tutto questo fango si tradurrà in ulteriore consenso“. A quale fango si riferisca, dopo la minorenne fatta uscire dalla Questura di Milano, nessuno saprebbe dire, nemmeno lei, ma non ci sono dubbi: la scuola, è l’ultima preoccupazione del ministro, che coi docenti non parla, dopo che in quattro provincie le hanno rifiutato il suo delirante “progetto di valutazione” e va avanti come uno schiacciasassi: imporrà con la forza una indecente “meritocrazia“.
Ovunque la scandalosa, oscena suddivisione della ricchezza, causata da quel neoliberismo di cui il governo si riempie la bocca, produce disastri. Fingere di non vederlo sarebbe un suicidio. Qui da noi – è un pericoloso paradosso – tutto si tiene e sta assieme grazie al ricatto separatista di Bossi e Maroni. Ma non occorre un’aquila per vederlo: ciò che unisce i leghisti divide il Paese e tutto potrebbe crollare da un momento all’altro. Non c’è più tempo. Frattini ha giocato per giorni con le parole e i rivoltosi tunisini, in lotta per la libertà, sono diventati “terroristi“, come suggeriva Ben Alì, che da noi è stato alleato privilegiato della criminale politica di espatri voluta da Maroni e in Tunisia il dittatore che fugge di fronte all’ira d’un popolo vessato. A Tunisi, come da noi, lo scontro tra studenti e governo è stato violentissimo e, come da noi, gli uomini della dittatura – anche quelli che oggi frenano lo sviluppo democratico della rivolta – ce l’hanno con la scuola. “E’ gente irresponsabile. Invito i sindacalisti corretti a ritornare alla ragione“, tuonava ieri il ministro Ibrahim, di fronte ai licei e agli istituti universitari che non si fidano e continuano a lottare. Accadeva anche qui, quando Berlusconi e Gelmini sostenevano in coro che la “scuola vera” studia, non protesta. Una menzogna tipica delle dittature. “L’anima, diceva giustamente Plutarco, non è un vaso da riempire, ma un fuoco da suscitare“. Noi non saremmo scuola oggi, se l’animo nostro non fosse acceso dalla continua violenza che ci colpisce.
Venerdì’ prossimo, 28 gennaio, sciopero generale della scuola e dell’università con la Fiom. E sarà bene dirlo: è sciopero politico.

Uscito su “Fuoriregistro” il 25 gennaio 2011

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Anche oggi, la “libera” stampa cuce, scuce e rattoppa il quadro d’un Paese che non c’è. Ci hanno detto mille volte che la riforma Gelmini è passata, ma hanno “dimenticato” che ci sono centinaia di statuti da approvare e, al primo tentativo, ecco il CNR occupato. Se per ogni statuto si fanno barricate, la notizia vera non è che la legge è passata, tanto più che nelle scuole di Napoli e Torino la meritocrazia pezzente e la strisciante gerarchizzazione del personale docente sono fallite. Chi si ricorda di Roma il 14 dicembre, lo capisce bene: la notizia vera è che la prova di forza continua.

Se un governo la forza ce l’ha, e pensa di usarla, può andargli anche bene. Ma la forza governa un Paese?

Chi ha visto dai cellulari tunisini studenti e professori uccisi e un popolo insorto che urlava “non abbiamo paura” chiede ai fatti se la forza governa. E i fatti dicono no. Lì in Tunisia, dicono, non è solo rivolta della fame e, interrogati, spiegano che Ben Alì, l’amico di Frattini, Gelmini, Berlusconi e soci, il dittatore tunisino di cui grancassa e sordina coprono da vent’anni il romanzo criminale, è stato cacciato sì dalla fame, ma era soprattutto fame di diritti.

C’è fame e fame, dicono i fatti, e meglio sarebbe ascoltarli.

Diritti. Sì, certo, qui da noi la difesa è all’ordine del giorno. C’è un diluvio di “notizie iraniane” e ci sono i mille ripetuti appelli per la povera Sakinè. Siamo liberali e liberisti, noi, non c’è dubbio, ma siamo soprattutto “occidentali” e qui da noi la globalizzazione farà i conti con la civiltà. Così dice la stampa ad ogni piè sospinto. Sta di fatto, però, che abbiamo avuto vent’anni di Sakiné tunisine e i nostri pennivendoli, sbadati, striminziti, col loro misurato contagocce, con la loro scientifica avarizia, se ne sono stati rigorosamente zitti. Mai un attacco, mai una denuncia. Né sì né no. Solo da un po’ qualche . Ed è stato già molto.

A scuola, da noi, la Tunisia è solo un paese mediterraneo; confini, economia, l’indipendenza nel ’56, poi storia in pillole e tanto turismo. Del sistema politico, poco o niente, ma si sa: gli amici del regime da noi sono potenti. A ben vedere, la Tunisia s’è quasi persa nella coscienza nostra e l’avremmo dimenticata, se la grancassa non togliesse la sordina per il can can sugli immigrati e i clandestini stupratori e delinquenti, persi tra motovedette corsare nel Canal di Sicilia, i CIE di Maroni e le nostre civili galere: carne da macello per la lega di Bossi e Borghezio. Ovunque cerchi, nell’elenco liberale e liberista di “fatti tunisini” non c’è traccia dei settecento colleghi di Marchionne alleati del regime di Ben Alì per spolpare l’osso, come comanda l’etica del profitto.

Etica del profitto, certo. Se questa però è l’etica, ecco il senso reale della riforma Gelmini, ecco spiegata la volontà di sottomettere scuola e cultura al potere economico. Ecco, soprattutto, la saldatura della lotta per la cultura con quella per il lavoro. L’Italia che lotta nelle scuole e nelle università è la stessa che soffre a Mirafiori con la Fiat che “modernizza“. Diverso è il contesto, ma uguale l’origine della questione: la cosiddetta “globalizzazione“. Eccolo il problema. Di là, dal feticcio della globalizzazione, partono Gelmini, Sacconi e Marchionne, da una regola fissa: questo è, questo può e deve essere. Viste così, quale che sia l’angolo visuale, Italia e Tunisia diventano incredibilmente vicine: i giovani diplomati rapinati del futuro, i costi della “modernizzazione“, la difficile scelta tra vivere e sopravvivere che spinge in piazza e sconfigge la paura, i legami inconfessabili tra due governi complici nello sfruttamento delle risorse umane e materiali.

Lo sfruttamento. Non se ne parla più, ma esiste e cresce.

Ce l’hanno detto mille volte: a questo governo non c’è alternativa, come non c’è alternativa alla “globalizzazione“. La scelta è comunque tra fame e diritti. Da una parte ci sono il diritto al lavoro e il diritto allo studio, dall’altra la promessa d’un piatto di lenticchie. In ogni caso, scuola o lavoro, la condizione è una: rinuncia al diritto di avere diritti. Può darsi che sia così, può darsi che il civilissimo Occidente, geloso custode di una pretesa identità di fronte all’integralismo musulmano, sia al bivio fatale: o profitto o diritti. E’ la logica di Marchionne. E tuttavia, se quattrocento impiegati cinesizzano l’Italia, il modello Fiat nasce tunisino e, dopo Mirafiori, deciderà la piazza.

Uscito su “Fuoriregistro” il 17 gennaio 2011

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Michele Giraudo non sapeva molto di nulla e conosceva poco di quasi tutto ma, dopo anni di catena di montaggio, nessuno gli dava torto quando sosteneva che ormai l’unico modello di successo prodotto dalla Fiat, era la confusione.
Ma quella non fa concorrenza! commentava.
Da tempo i discorsi di padroni e politici gli parevano tutti uguali e non li capiva. e, in quanto ai sindacalisti, se qualcuno glieli nominava allargava le braccia sconsolato:
Chi li capisce è bravo! Ripeteva. E peli sulla lingua non ne aveva. Per lui, dietro i toni polemici, i gesti teatrali e le reazioni sempre più scomposte, c’erano disaccordi che non capiva.
Qui del lavoro non interessa niente più a nessuno. Che pensa il padrone? Che dicono gli imprenditori? Di questo si tratta. E noi? Noi che pensiamo? Noi stiamo con le armi in mano, ma io sparo a te e tu a me. Uno trova disastrosa la strada che l’altro ritiene miracolosa. Il muro contro muro lo fanno tra loro i sindacati, la lotta ce la facciamo tra noi e così dividiamo i lavoratori.
E come dargli torto? Non s’erano mai visti tanti licenziamenti e la situazione si faceva di giorno in giorno più confusa.
E’ un gioco al massacro. Prima dicevi prete, soldato, pacifista, e sapevi bene di cosa parlavi. Ora no. Ora i preti sono per la guerra perché con quella si fa la pace e i pacifisti collaborano coi militari armati sino ai denti, ma non vogliono sentir parlare di guerra. Loro sono solo “operatori di pace”.
Chi? gli domandava Luigi, un giovane operaio meridionale che non sempre lo seguiva nelle sue sfuriate in stretto torinese, ma aveva un fiducia sconfinata nel “compagno Michele” che in assemblea non la faceva buona a nessuno. E Michele gli rispondeva con sperimentata pazienza, anche se uno più pronto di Luigi gli avrebbe visto negli occhi un malcelato lampo di compatimento:
Soldati e pacifisti. Poi scuoteva la testa tonda, folta, bruna e arruffata, e sembrava dire: che vuoi che ti dica? Ecco qua, sei uno dei migliori prodotti dell’ultimo modello Fiat. Così va il mondo ormai. La scuola s’è sfasciata davvero e qui, in fabbrica, la cultura operaia sta scomparendo.
Di una cosa era esperto, Michele, e ne sapeva più dei centomila “esperti” che ogni sera si accapigliavano in questo o quell’angolo del “piccolo schermo”, discutendo del “bene del paese”, che, urlavano tutti, dandosi sulla voce, “è il bene più prezioso dell’operaio e dell’azienda”. Una cosa conosceva bene: “lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo” – come diceva, ironico e tagliente, quasi sillabando – visto però dalla parte di chi è sfruttato, non da quella dell’intellettuale che fa la teoria.
Te li raccomando gli intellettuali, Luigi. Brutta razza, dammi retta, Tienili alla larga.
Ma ora sono diventati “lavoratori della cultura”, non l’hai visto come difendono a scuola dello Stato? replicava Luigi sconcertato, ma a Michele le chiacchiere non piacevano e c’era una questione di solidarietà che lo mandava in bestia:
Già, lavoratori! – esclamava. Un attimo, poi esplodeva: ma la Gelmini ha licenziato centomila precari e che hanno fatto? Tu li hai sentiti parlare?
Beh, onestamente no…
E non li sentirai, sta tranquillo.
Luigi, giovane com’era, conosceva solo il “sindacato dei servizi” e di lotte non capiva nulla, ma il sangue nelle vene ce l’aveva, perciò stringeva occhi e labbra in un moto di genuino disgusto e, senza nemmeno sapere il perché, ritornava al punto centrale della questione:
Se tutti vogliono questo benedetto bene nostro, sbottava esasperato, perché non si trova mai la via che mette tutti d’accordo una volta e per sempre?
Perché? – replicava Michele, senza pensarci su – Perché è sbagliato il punto di partenza. Non sta in piedi questa teoria. Chi l’ha detto che il bene dell’operaio è sempre uguale a quello dell’azienda? Così hai voglia di cercarla una via che unisce. Non la trovi. Senza lottare per conquistare e difendere diritti, gli operai devono rassegnarsi: per stare bene, non solo devono vivere peggio dei padroni, ma devono riconoscere che meglio di questo “peggio” non potranno mai stare, anzi, se così peggio non basta, c’è il peggio del peggio. Questo è il mercato.
E allora che dobbiamo fare? Rispondeva Luigi intimorito ed eccitato.
Stare insieme, lottare e, se necessario, ribellarsi, caro Luigi. Ribellarsi. Quando non se ne può più, quando ti vogliono togliere tutto, anche la dignità, allora devi dire basta. Facci caso: quando si parla del bene dei lavoratori, la parola tocca a tutti. Parlano cani e porci ma l’operaio no, l’operaio non l’ascolta nessuno.
Luigi annuiva sconsolato, mentre guardava il compagno con evidente ammirazione. Col nonno e col padre, per tre generazioni, la sua famiglia, era stata alla Fiat. Il nonno era entrato al Lingotto sin dai tempi di Ugo Gobbato e c’era rimasto fino al 1939, quando era stato mandato a Mirafiori, Luigi l’aveva sentito mille volte raccontare la storia di quegli anni alla Fiat: era come parlassero assieme migliaia di operai.
Altro che operai fascisti, diceva Michele. queste cazzate le dicono i compagni intellettuali, che attaccano il somaro al carro del padrone. Qui, a Mirafiori, il 15 maggio del ‘39 venne Mussolini in persona per l’inaugurazione. I capoccioni del sindacato fascista gli avevano assicurato il trionfo, ma si trovò di fronte una massa di lavoratori muti. Fece domande, parlò agli operai, chiese risposte, ma niente. Gelo e silenzio: su molte migliaia di presenti, risposero solo quattro gatti. No, no, niente fascismo da noi.
Niente?
Niente, tranne i capi, i dirigenti e poche centinaia di scemi e venduti che si trovano in ogni tempo e in ogni paese.
Potresti fare il professore di storia, diceva talvolta Luigi e non aveva torto. Ma Michele, come sempre, era amaro e tagliente:
No, no. Agli studenti parlano i professori di storia, i compagni “lavoratori della cultura”, come li chiami tu, quelli che a Mirafiori gridavano viva il Duce e quando cadde il fascismo diventarono tutti socialisti e comunisti. La fabbrica è nostra, Luigi. Quelli come mio nonno lo sapevano bene ed erano pronti a lottare. Noi, no, noi non abbiamo più memoria, ce ne siamo dimenticati e questi qua ci fregano. Noi abbiamo detto no al fascismo dei padroni, noi abbiamo fatto gli scioperi nel ‘43. Noi siamo andati in montagna a fare i partigiani a difendere le fabbriche e a sabotare la produzione e dopo tutto questo ci hanno schedati tutti, ci hanno messo in galera e perseguitato peggio dei fascisti.

La sua cultura, Michele se l’era costruita così, legando il filo della sua esperienza di vita ai ricordi, ai racconti, ai mille piccoli e grandi fatti appresi dal nonno e dal padre. Questo per anni era stato il merito suo vero, quello che gli aveva conquistato la stima e la fiducia dei compagni. Michele ricordava e pazienza se nessuno gli dava la parola. La difendeva come poteva, la memoria, fuori del piccolo rettangolo luminoso da cui era escluso, la “memoria storica” della grande fabbrica italiana di automobili.
Grosso e tozzo, come viene su chi non conosce palestre e s’è abbrutito precocemente nella fatica, Michele portava con sé quel miracolo di scienza comune che era allo stesso tempo vicenda personale ed esperienza collettiva. Quando si discuteva, le sue parole avevano i tratti semplici della storia popolare che non sa di lucerna, non si scrive nel chiuso delle biblioteche o nella polvere degli archivi, non s’insegna e non s’insegnerà mai nelle scuole della repubblica, ma s’è trasmessa per cento e più anni di generazione in generazione, seguendo il filo rosso della fatica, delle lotte feroci e delle nobili speranze, sempre più spesso liquidate in tre paragrafi asciutti e reticenti in manuali di storia buoni per coprire di motivi nobili, gli ignobili interessi e le passioni inconfessabili che stanno dietro la sequela noiosa delle date, delle guerre e dei trattati. Dietro la storia dei padroni che cancella la vicenda umana.
Di questo, anche di questo Michele era in grado di discutere. Che i libri di storia stessero cambiando, non poteva saperlo, ma capiva bene ch’era cambiato il mondo e non era solo geloso custode dei sui ricordi. Per lui, ogni occasione era buona per raccontare.
E’ una ricchezza anche questa, gli aveva detto più volte il padre quando s’era accorto della fine precoce che lo sorprendeva, non è facile spenderla, però tienila da conto che può tornarti utile talvolta.
Se ne ricordò una sera, tornando dalla catena di montaggio, tra degrado e cantieri della nuova modernizzazione, quando raggiunse le due stanze che gli facevano da casa, tra il Doria e la Barriera di Milano, e si lasciò cadere sul divano davanti alla televisione. S’era portato in casa l’odore medievale delle concerie, dei battitori da panno, delle peste da canapa e da olio che il nonno gli aveva insegnato a sentire cinquanta e più anni prima, conservato misteriosamente nella testa degli operai fino a oggi, impastato nel cemento che si sbriciola dov’erano fabbriche e ci sono covili d’immigrati. E’ un fatto psicologico si diceva da una vita, ma quella sera, come per incanto, l’odore familiare aveva ceduto il posto alla puzza inconfondibile della menzogna. S’era guardato intorno e c’era poco da sbagliare: la puzza era lì, nel piccolo e vecchio apparecchio televisivo che tra danni materiali e morali, canone d’abbonamento, corrente e pubblicità ingannevoli e petulanti, gli costava così tanto, che aveva pensato più volte di chiudere il conto e, se non l’aveva mai fatto, era stato perché è un mondo, questo, in cui si paga tutto col tempo del lavoro che ti ruba il tempo della vita, sicché anche chiudere un conto, quale che sia, chiede a un operaio sacrifici impossibili. La verità era semplice e amara. In quel piccolo e maledetto schermo una qualche scemenza per passare il tempo la trovi, una partita di calcio, un filmetto tutto sogni americani, uno sballo di scazzottate parlamentari, le curve procaci delle veline, sia quel che sia, in qualche modo passi la serata, ché altrimenti sei solo, ti scoli la bottiglia delle grandi occasioni che non verranno mai o ti fai di spinelli. E poi non è che vivi meglio.
Qui ci vendiamo tutti, mormorò disgustato, ma accese ugualmente e sibilò: è una droga.
Michele non avrebbe saputo descriverlo bene – tra le parole “colte” si muoveva male – ma a puzzare era uno dall’aria tonta e bovina, più furbo e maligno che intelligente, pesante troppo, soprattutto per chi può permettersi palestre, e soprattutto sfuggente, incapace di guardare negli occhi e sempre obliquo. Uno, pensò subito l’operaio, che se lo metti stasera alla catena domani marca visita e poi si dà da fare coi capi per patteggiare protezioni.
Perché tanta puzza? Era la manfrina di sempre. Domande concordate risposte senza un cane che dicesse ma che stai dicendo? E continuava così. Ogni parola un colpo di rivoltella:
La Fiat non ha debiti col Paese, abbiamo restituito tutto…
Tutto?
Michele saltava su dal divanetto traballante e per poco non lo sfasciava. Tutto? Anche i morti fatti in guerra dalle mitragliatrici raffreddate ad acqua inceppate nel gelo della Siberia? E che si pagano i morti? E il fascismo? E Valletta? E la salute che se ne va alla catena? Che cazzo hai pagato? Che hai pagato?
Ma quello non poteva sentirlo e il giornalista annuiva concordando.
Il mercato globale è questo: il lavoro costa, fuori si paga meno e perciò meno pause, meno malattie, niente sciopero e in fabbrica solo il sindacato che è d’accordo…
E per il giornalista tutto giusto.
Michele non urlava più da solo. Nel buio della stanza ora c’erano il nonno e il padre.
Luigi tradirà, ma ci vuole pazienza…
A loro non gli basta vincere, pretendono di stravincere.
Il nonno sibilò: poi c’è chi si lamenta di Piazzale Loreto.
Il padre annuì. Col padre solo due parole: tutto questo parte da lontano. Io mi ricordo la bomba di Piazza Fontana.
E la televisione continuava a gracchiare:
Due sindacati hanno già firmato. L’altro cederà. Basta lacci e lotta di classe. E’ un gran bel momento per tutti quelli che hanno faticato. Un’intesa è raggiunta, va bene per i lavoratori e per il futuro dello stabilimento. Mirafiori inizia oggi una nuova fase della sua vita.
– La fase del ricatto, sibilò il nonno.
Poi i due vecchi svanirono nel nulla.

Uscito su “Fuoriregistro” il 3 gennaio 2011

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Si faceva la guerra così: mancavano gli elmetti e in prima linea contadini e operai, dietro sacchi di sabbia e filo spinato, portavano berretti di feltro a sghimbescio. Per i mortai degli Asburgo era gran festa e i cecchini andavano a nozze nell’aria appestata di sangue rappreso su marci brandelli di cuoio capelluto e materia celebrale schizzata via coi proiettili e le schegge. Dietro – riparata ma pronta al tiro – la polizia militare tirava addosso a chi, preso dal panico, tentava di darsela a gambe. Di 600mila morti sventurati, 100mila si contarono tra i prigionieri che il governo non volle mai aiutare: un prigioniero è sempre un disertore, urlavano i nazionalisti imboscati e gli eroi da operetta. Vigliacchi i soldati, eroi gli strateghi, quelli morivano al fronte come mosche e questi si preparavano a casa per la guerra futura. E l’intento era buono: chi faceva cannoni s’arricchiva e si poteva sperare di far soldi poi anche con gli elmetti. Prima o poi il generale ministro avrebbe capito che occorreva produrli…

Per lo più delle scuole non c’è ancora la guerra – di qua e di là da Adro ci sono scaramucce – ma ovunque senti ormai l’aria di scontro. Il ministro generale, che se ne sta al riparo e gioca a far la guerra coi fucili di latta e i soldatini di piombo, ti dice sprezzante “sessantottino!” – è proprio il massimo della vergogna – e licenzia docenti quanti più ne può, così risparmia i soldi per reggimenti amici: le scuole cattoliche, apostoliche e romane. In quanto al suo collega preferito – “aver compagno al duol scema la pena” – una figura di mezzo tra il furiere e l’usciere, lui se n’è fatto un vanto di battere la fiacca, ché tanto se ne sbatte, e se la prende poi coi “fannulloni“. Son tutte storie. Il campione dei campioni è lui, il genio che comanda, e n’è convinto: “una scossa all’ambiente, ti sollevo il morale e tu ti batti meglio, sei un leone. Monumento all’imboscato, ché di rischiar la testa sua col feltro non ci pensa nemmeno, si limita a una guerra un poco sporca, ma il sangue non si vede – è guerra psicologica – e, se ci scappa il morto, c’è poco da fare, un successo gli pare: è un posto di lavoro per precari.

Si faceva la guerra così: con ottomilioni di baionette, morte di fame e freddo in grigioverde – “m’era compagno, / m’era compagno il pugnale, / il mio pugnale sol…” – contro i Katiuscia, le immacolate divise nemiche, i soldati invisibili e le armi automatiche dell’armata rossa. I soliti cecchini pronti per i fuggiaschi, bersagli sulla neve per rossi e per neri, le mitragliatrici Fiat Revelli puntualmente inceppate – la rottamazione del ’15-’18, ma la Fiat di Marchionne non ha conti in sospeso con l’Italia – e il duce dei fascisti ce l’aveva con gli italiani troppo borghesi, i generali se la prendevano coi soldati e gli antenati di Limina s’affannavano: “Taci! Il nemico ti ascolta…

A scuola ormai ci manca l’essenziale; non è la guerra, no, non sono i mitra, non le cartucce e manco i carri armati; manca la carta igienica, il gesso non si trova e le lavagne ormai son merce rara. Non c’è il “nemico“, o almeno non si vede, ma abbiamo i discendenti di Limina col bavaglio, le nuove, nuovissime disposizioni sulla razza, la continuità didattica che s’è suicidata, il sostegno che non si regge, il tempo scuola disastrato e il tempo pieno che s’è dileguato. Il furiere mezzo usciere delira di fannulloni e il suo collega Ministro generale, che non fa la guerra ma in pace non sta, ha trovato la panacea di tutti i mali, mentre i proconsoli colonnelli, stesi a zerbino, assentono per la carriera: “nella scuola c’è voglia di valutazione“. In queste condizioni, valutazione?!?… “Va lu ta zio ne!“, scandiscono assieme – salvo le debite e intollerabili eccezioni – i capi dell’armata fannullona. Non più presidi, ormai, ma dirigenti d’un grave fallimento. “Sono anni che aspettiamo provvedimenti di questo tipo“, fanno sapere. Manca solo chi canti: “Giovinezza, giovinezza…“. E’ un inno alla bellezza.

Guerra o pace, i grandi assenti sono gli insegnanti. Da valutare ormai non c’è più niente, tranne forse il Ministro generale, ma lì non serve certo un grande studio: “Onore al merito! E’ il ministro generale di Caporetto!“.

Uscito su “Fuoriregistro” il 28 ottobre 2010 e su “il Manifesto“, 20-10-2010 ( Flc-Cgil)

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