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Archive for Maggio 2014

Lo «strepitoso» successo di Renzi, «neodemocristiano» levato sugli scudi dal circo mediatico, avrebbe fatto piangere lacrime di vergogna a De Gasperi e alla DC autentica, che i suoi 40 e più elettori su cento li conquistava quando alle elezioni si contavano percentuali di votanti superiori al 90 su cento. E’ chiaro come la luce del sole: a Renzi mancano forza, carisma e volontà per cambiare d’una virgola la linea Monti-Letta; si accoderà scodinzolante alla dottrina tedesca e annegheremo lentamente. Qui da noi, tuttavia, nel coma profondo dell’Europa unita, un coro di esaltati celebra il trionfo dei primi della classe. E’ un gioco da illusionisti: tamburini, sbandieratori e majorettes creano ad arte l’aria della festa, poi, in un clima di «ritrovate certezze», chi denuncia la coltellata liberticida alla Costituzione o punta il dito sulla muta dei cani che azzanna il lavoro, su cui fonda la Repubblica, rischia il ricovero coatto in un centro di salute mentale.
Mentre l’Inghilterra dice no all’Europa delle banche, creando dal nulla un brutto partito di governo e l’Ungheria è in mano ai neonazisti, formazioni fasciste spuntano ovunque come funghi e la democratica Francia scarroccia, scivola a destra e torna al razzismo di Petain, spinta dall’odio per il socialismo alla Holland, più che da nostalgie per Vichy. In questa situazione devastante, l’Italia, Narciso allo specchio, è inchiodata a una realtà virtuale da tecniche ipnotiche e gioca la partita su un’abile distorsione lessicale. Sembrerebbe del tutto evidente: Renzi non è di «sinistra» e non sa cosa sia il riformismo, ma la scommessa riuscita è tutta lì, nell’inganno tenace che lo presenta come un riformista di sinistra. Il Paese sbanda, prova a destarsi dal sonno della ragione, ma non c’è tempo: l’estrema destra cresce, si mimetizza e torna al trucco dell’antiborghesia. Noi siamo un’isola felice, si racconta, e Renzi vittorioso guida ormai una nuova DC; eppure basterebbe poco per capire che la DC si sarebbe vergognata di un risultato elettorale così ambiguo, di un quaranta per cento che si calcola su poco più della metà del corpo elettorale e, a conti fatti, esce più o meno dimezzato dal confronto con la realtà.
Non è forse chiaro, ma Renzi «vittorioso», che a parole «rottama» e nei fatti ricicla l’«usato sicuro», è paradossalmente il sintomo più chiaro di una malattia grave: l’impotenza rispetto al tema cruciale della rappresentanza, cuore della democrazia parlamentare. Impotenza palese, perché l’ex sindaco non approfitta nemmeno della condizione privilegiata di un governo agli esordi, che gode di tutti i cospicui vantaggi di chi ha in pugno il potere e non paga ancora il dazio dell’impopolarità per il cappio che solo dopo il voto stringerà al collo del Paese; perde la partita vera, quella con i delusi, gli arrabbiati, gli scontenti e i milioni di italiani che soffrono di nausea solo a sentir parlare di politica, e riesce a rappresentare a stento gli interessi di chi, nella crisi, resiste. Ottanta miserabili euro e il tentato suicidio di Grillo, terrorizzato da una vittoria che l’avrebbe costretto a far politica, non sono bastati a convincere il fiume di elettori che costituiva il vero banco di prova: quello che soffre le pene dell’inferno e non ha creduto al capo imposto dall’alto. La stampa padronale, le televisioni epurate, che hanno imparato a memoria la lezione dell’Istituto Luce, parlano di una legittimazione conquistata sul campo, ma l’inganno è palese: legittimato da chi? Dalle legioni di italiani che si sono tenute puntigliosamente lontane dalle urne e ogni giorno, dal 25 in poi, hanno continuato a bestemmiare negli autobus che non passano, nei posti di lavoro a rischio, nei centomila tormenti dei call center, nella disperazione di una vita mortificante e nel dolore di chi muore di lavoro o sceglie di farla finita perché il lavoro l’ha perso o non ce l’ha?
Nel baccanale massmediatico, tra satiri ebbri e giovinette nate al governo per opera e virtù dello Spirito Santo, l’Europa è sparita. Renzi, che pure è parte integrante della devastante crisi dell’europeismo, occupa la scena, ma sembra estraneo alla crisi. In realtà, la maniera in cui è giunto al potere, il disprezzo che mostra per la Costituzione calpestata, il rifiuto della mediazione, l’elemosina intesa come surrogato dello stato sociale, l’attacco feroce al lavoro, tutto ciò che ha fatto o promette di fare lo inserisce a pieno titolo in quella destra che da anni ha «sgovernato» l’Europa, suscitando le tossine che ormai corrono nel sistema linfatico dell’Unione, la mistura di bassi istinti, il velenoso composto d’odio, rabbia e disprezzo per la democrazia, l’idea di gerarchia tra «nazioni» e classi sociali che dovrebbero indurre a riflettere sul significato profondo e sulla carica di violenza che si cela nell’esito del voto. Siamo andati ben oltre il dilemma Europa sì-Europa no e appare chiaro che le politiche disumane dei tecnocrati, le astratte ragioni dell’economia, anteposte a quelle dei popoli che rivendicano il diritto a una vita dignitosa e alla solidarietà nella sventura, suscitano ormai antichi mostri. In questo quadro, Renzi non è la cura che guarisce, ma la medicina sbagliata che aggrava la crisi italiana e fa male a un’Europa, che si copre le spalle, minacciate dall’ira popolare, producendo consapevolmente una destra due volte pericolosa: guardia armata dei privilegi e spauracchio per chi aspira a un’autentica Unione dei popoli.
Nella nebbia sempre più fitta spunta la fiammella della Lista Tsipras; non è molto, ma è molto più che niente. Vivrà e crescerà, però, solo se terrà fede a una premessa: il Pd di Renzi è alternativo alla sinistra e sempre più spesso rappresenta ormai il volto pulito della destra pericolosa.

Uscito su “Fuoriregistro” il 29 maggio 2014

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La notizia era certamente interessante: “Il segretario generale della Nato definito criminale di guerra e imbrattato di 10294267_320004278153141_4916936147499018485_nvernice rosso sangue”. Seguiva il video con la documentazione visiva dell’accaduto: Vedi il video. Ora, però, chi prova a guardare il filmato scopre che le cose stanno così: youtube ha cancellato tutto. Chi apre il link infatti, può solo leggere la seguente scritta: “Questo video è stato rimosso per una violazione della norma di YouTube che vieta i contenuti studiati per molestare, vessare o minacciare”. Youtube si guarda bene dall’approfondire il concetto, perché la contraddizione è stridente. E’ chiaro, infatti, che rimuovere la testimonianza di un fatto di cronaca è di per sé una molestia nei confronti di chi vorrebbe essere informato e una vessazione per chi prova a informare.
Pare strano, ma è così: c’è ancora chi crede alla favola della democrazia sul web…

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Dedicato agli indecisi…

Dici Europa e pare cosa semplice. C’è una storia, ci sono uomini come Rossi e Spinelli e un Manifesto nobile che nasce a Ventotene, nel cuore di una tragedia che ci accomuna e che, a parole, tutti rifiutiamo: la barbarie nazifascista, come estrema conseguenza d’una crisi della democrazia, la guerra come esito fatale della competizione liberista sui mercati, quando l’economia occupa il posto della politica.
Parli di Europa e tutto è complicato. Si va al voto con l’ago della bussola impazzito: qui improperi, urla, attacchi personali, lì la calma artificiosa dei tecnocrati che riduce la politica a slogan e non si apre al dibattito; è il trionfo dei televenditori: più Europa, troppa Europa, Europa delle banche, Europa dei popoli, Europa da cambiare, Europa da negare…
Diciamocelo chiaro e sapremo almeno di che stiamo parlando: non esiste un criterio di valutazione che non corrisponda a un sistema di valori che lo determina. L’alto sentire etico di Seneca, che nel mondo romano chiese al padrone umanità verso il servo, ma non mise in discussione la schiavitù, oggi pare barbarie. La diversa valutazione nasce dalla diversità dei riferimenti in un tempo dato. Prendi l’Italia, messa così com’è nell’Europa, e scopri che l’unione è una forte contraddizione: una Costituzione che esplicitamente ripudia la guerra appare irrimediabilmente sbilanciata a sinistra – troppo socialista – per un’Europa che si “sente potenza”. Un’Europa in cui, di fronte alla crisi ucraina, il socialdemocratico Martin Schulz, alleato di Angela Merkel, auspica ovviamente il dialogo, ma in eurovisione non esclude quel confronto armato, che, per loro conto, più o meno apertamente minacciano il candidato liberale Guy Verhofstadt e il popolare Jean-Claude Juncker. Che matrimonio è mai questo? O l’Italia cambia Statuto – e rinnega la sua storia – o pretende che l’Europa torni se stessa, cerchi alimento nelle radici sue profonde e prenda immediatamente le distanze dai fascisti padroni di Kiev.
E non è questa la sola contraddizione. Prendi il lavoro e ti scontri con la sterilizzazione del conflitto e un’idea corporativa del sindacato; guardi alla formazione e incappi nell’ideologia del “merito”. Non c’è che fare: se al centro del mondo metti il mercato e riduci i saperi a una nobile merce, valuti in senso negativo tutto ciò che contrasta con la logica del profitto: le nostre università, per te, sono “arretrate” perché non hanno adottato supinamente il principio privatistico della “conquista” dei finanziamenti, che ormai provengono dal sistema produttivo; il sistema formativo non ha colto al volo l’occasione, non si è attrezzato per la competizione, perciò va bene così: ti pago, sì, ma solo se fai ciò che ti chiedo. Se invece pensi che la formazione non possa rispondere al mercato, ti pare chiaro che in Europa non vince chi è bravo, ma chi sta alle regole di un gioco al massacro che non premia il merito, ma la capacità di adeguarsi ai parametri di valutazione di chi tira fuori i quattrini. Guerra, lavoro e sistema formativo, segnano perciò un confine chiaro e definitivo tra chi vuole disciplinati soldatini del capitale, manovalanza generica rassegnata e prepara per Socrate la cicuta e chi, invece, reputa il filosofo greco un irrinunciabile maestro.
Se la metti così, cogli le differenze, vedi confini, là dove si dice di averli aboliti e liberamente scegli ciò che ti pare giusto. Sei per la cicuta? Pensi che sia ora di farla finita con la religione del dubbio? Sai chi devi votare. Se ti pare che un diritto debba dipendere dai vincoli di bilancio e il mercato del gas possa ben valere un cedimento al neonazismo che avanza, sai cosa fare. Se, più realista del re, credi che il ripudio della guerra sia una bellissima utopia che, tuttavia, non sta nei binari della storia, hai l’imbarazzo della scelta. C’è chi promette nazionalismo, lotta all’immigrazione e ha già trasformato il civilissimo Mediterraneo in una tomba che marchia d’infamia un tempo della storia. Non ti va? C’è allora chi non si sporca le mani direttamente, ma pensa a un’Europa arroccata, che non fa riferimento a un sistema di valori espresso in una Costituzione approvata dai suoi abitanti, dialoga con le banche, ignora i popoli, criminalizza il dissenso e riduce in servitù la Grecia, maestra di civiltà. Populista o liberista, questa Europa non crede più nella democrazia. Se la pensi così sai chi votare.
Per quanto se ne parli poco, c’è tuttavia, per buona ventura, chi dell’Europa ha un’idea del tutto diversa. Chi esclude anche solo l’idea della guerra, chi è convinto che il merito sia un inganno sottile che aumenta l’ingiustizia, perché ignora i contesti locali e non intende perciò lasciare indietro nessuno; c’è chi pensa che la battaglia per l’ambiente riguardi ormai la sopravvivenza; chi crede che non esista legalità senza giustizia sociale, mette i diritti e le persone avanti a tutto e, senza promettere il paradiso terrestre, ha scelto di combattere l’inferno. Quest’idea di Europa esiste e chiede un voto a chi sente che non c’è più tempo, che siamo sull’orlo di un abisso pauroso e un solo passo indietro segnerebbe la fine. Tsipras e la sua lista sono di sinistra; non sarà tutta la sinistra, ma è certo sinistra e non è cosa da poco, perché altro non c’è e non si può aspettare che sorga. Non si può, perché non c’è più tempo e già un’altra volta, divisi, abbiamo aperto le porte alla tragedia fascista. Occorre averlo chiaro questo dato storico: purtroppo non stiamo discutendo di un’idea d’Europa. In discussione ci sono la democrazia e la tragedia autoritaria che si profila chiara all’orizzonte. Una tragedia di cui saremmo responsabili verso i nostri figli e verso le generazioni che verranno.

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La scuola che i nostri ministri stanno allegramente distruggendo…

 

Laboratorio di Storia. Prima parte
Scuola Media Statale Bice Zona – 23-05-2014

PREMESSA

Maggio 1993

Com’è nato questo lavoro e come, giorno dopo giorno, s’è andato realizzando in classe non si spiega in due righi e non vale provarci. Se non l’hai visti passare, i giovani autori, dall’iniziale scetticismo all’interesse e cedere, infine, all’entusiasmo dei momenti di autentica crescita collettiva, non puoi capire. In quanto al resto – scelte di fondo e metodo seguito – è presto detto. Si parte dall’idea d’un giornalino, che la classe vuole suo ma diventa di tutti, e da un abbozzo di drammatizzazione che naufraga sugli scogli della scelta del testo. La scena l’ho in mente: lampi d’accusa nei volti leali e il brusco tornare feriti al quotidiano antologico – grammaticale negato per seducenti “didattiche” alternative, nemmeno amate e subito tradite. Non resisto. Lascio al timone indomabili sensi di colpa e si approda alla riva misteriosa di un’isola incantata che battezziamo “libro”…

Giuseppe Aragno

LEGGI E SCARICA QUI L’INTERA PREMESSA

LA SETTIMANA ROSSA A NAPOLI
Giugno 1914: due ragazzi caduti per noi

Salvatore Adamo, Barbara Crisci, Vincenzo Caiazzo, Maria De Martino, Salvatore Di Sarno, Michele Elia, Filippo Esposito, Rosario Mammella, Loredana Patriota, Stefania Quintavalle, Giovanni Renzi, Sergio Tramice

1° CAPITOLO

Lo sciopero generale

Il “Roma” esce a Napoli da più d’un secolo e, come ogni pomeriggio, è nelle edicole anche l’otto giugno 1914. “Strage di operai ad Ancona” . Questo vi leggono i napoletani quel giorno, guardando i titoli. Molti lavoratori restano sconvolto e vanno alle loro leghe per chiedere giustizia
L’idea di fare sciopero, per dimostrare solidarietà ai compagni uccisi, è spontanea e perciò si decide subito di organizzare una riunione alla Borsa del Lavoro. Mentre a casa di ogni operaio si discute, alla Borsa del Lavoro si decide e il tipografo Eduardo Trevisonno fa la seguente proposta:

“la Commissione Esecutiva della Borsa del Lavoro, riunita d’urgenza, constatando come ancora una volta l’eccidio di Ancona accresce il numero delle vittime proletarie […], denuncia alla classe lavoratrice l’ignobile reato di cui si è macchiato il governo […] e, nel mandare un reverente saluto ai fratelli caduti, convoca d’urgenza tutti i Consigli delle leghe” .

La proposta è approvata da tutti gli operai presenti, che decidono di rivedersi alle 20 del giorno seguente. La mattina del 9 giugno la città sembra ancora tranquilla, poi la situazione comincia a cambiare …

Vuoi continuare a leggere? Mi permetto di consigliartelo. Il lavoro è sulle splendide pagine di “Fuoriregistro”. Clicca e prosegui: “Laboratorio di storia“.

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L’Italia benpensante e «progressista» crede – o finge di credere? – che Renzi sia il segretario di un partito della sinistra democratica, che l’Unione Europea sia il paradiso della democrazia e la nuova Germania un Paese che non ha più nulla da dividere con quel nazismo, che – non sarà una bestemmia ricordarlo – è parte importante della storia contemporanea tedesca, come da noi il fascismo.
Poiché dopo la guerra l’università s’è tenuto caro il corpo docente che aveva giurato in massa fedeltà al fascismo, provando addirittura a dare «fondamento scientifico» alle leggi sulla razza, il filo della cultura fascista qui da noi non s’è mai spezzato e le tesi di Ernst Nolte, uno dei massimi storici della Germania contemporanea, per il quale sarebbe un errore attribuire carattere di bontà e di giustizia a tutto ciò che si oppone al nazionalsocialismo, non  suscitarono particolare allarme. Eppure, per lo studioso tedesco – che mise in ombra lo sterminio dei comunisti e di tutti gli oppositori del nazismo – l’antisemitismo di Hitler si spiega con un presunto appoggio degli ebrei ai bolscevichi e giunge allo «sterminio etnico» come risposta allo «sterminio di classe» attuato dai sovietici. Senza la «barbarie asiatica», insomma, non ci sarebbe stato l’Olocausto e Hitler, in fondo, si sarebbe «limitato» a copiare i gulag, contrapponendo alla «ferocia» della «lotta di classe», la sua atroce «lotta di razza». Può sembrare un delirio, ma il messaggio è chiaro: il nazismo nacque per colpa dei comunisti. Non contento, lo storico tedesco riconobbe onestà intellettuale e rigore scientifico a Carlo Mattogno, maggior esponente della corrente storiografica che, senza negare la persecuzione, i lager e le sofferenze, sostiene che mancano prove dell’Olocausto. Per nulla scandalizzata, all’inizio del nostro secolo, la Germania ha poi assegnato al suo storico il «Premio Konrad Adenauer» per la scienza, la cui tesi della consequenzialità, qui da noi, aveva già trovato in De Felice il suo propagandista nelle università.
E’ difficile immaginare che sarebbe accaduto al mondo, se l’Armata Rossa non fosse giunta a Berlino e la Germania avesse conquistato la Russia, perché la storia non si fa coi se, ma non farà male a nessuno, alla vigilia di un voto sull’Europa a trazione tedesca, ricordare che con questi precedenti l’UE è giunta alla crisi Ucraina e si è prontamente impegnata a sostenere i neonazisti, come micidiale strumento di morte da usare a favore delle ambizioni della Nato e del capitalismo occidentale. E val la pena rammentare anche, agli smemorati elettori del «democratico» Renzi, che il processo di criminalizzazione del comunismo, vero pilastro della lotta al nazifascismo – di fatto, una tacita «rivalutazione» del ruolo di Hitler – è iniziato da tempo ed è perfettamente in linea con le scandalose tesi del premiato storico tedesco. Nel 2003 il vicepresidente del Partito dei Lavoratori ungherese, Attila Vajnai, fu processato per essersi presentato a una conferenza stampa con una stella rossa sul bavero della giacca. All’epoca, presidente della Commissione Europea era Romano Prodi, democratico della più bell’acqua, che col Partito di Renzi ha molto da dividere; interrogato da un europarlamentare comunista greco sul caso Vajnai, Prodi non ebbe esitazioni. Per lui, la messa al bando del Partito Comunista in un paese che entra nell’UE non può generare critiche o particolari dibattiti.
Tutto ciò, nel silenzio dei nostri ex comunisti che, passati intanto al seguito di Prodi e oggi agli ordini di Renzi, non solo non difesero la loro storia e i loro simboli, ma provarono a inventarsi un Gramsci ostile al PCI, perché non sarebbe poi facile mettere al bando un uomo della sua statura morale e la sua eredità politica e culturale. Non a caso, qui da noi, in quegli anni, presero ad impazzare, impuniti, vecchi e nuovi fascisti, si mise mano alla Costituzione e si prese a processare la Resistenza: si volevano creare condizioni adatte a una futura estensione del bando a tutti gli Stati membri dell’Unione. Erano gli anni in cui si parlava di «Costituzione Europea» e si fingeva di ignorare che l’Europa Unita aveva già avuto una sua buona legge fondamentale, approvata dal Parlamento Europeo, ma rifiutata dagli Stati Nazionali.
Alla vigilia delle elezioni europee, non sarà male ricordare gli arrestati di Budapest, colpevoli di aver mostrato un distintivo con la stella rossa alla manifestazione che si tiene ogni anno al Piazzale degli Eroi, e rammentare a Renzi e ai suoi smemorati elettori che la nostra Repubblica e l’Unione Europea non sarebbero mai nate senza il sangue versato dai partigiani comunisti e dai milioni di sovietici caduti combattendo contro i tedeschi di Hitler. Quei tedeschi che oggi riconoscono i nazisti golpisti di Kiev.
E’ vero, sì, dai tempi di Marx ed Engels la stella rossa accompagna il movimento operaio e la lotta di classe, ma proprio per questo è diventata simbolo delle conquiste dei lavoratori e di una grande stagione di lotte per il riscatto delle classi subalterne. Un simbolo di civiltà. Quella civiltà che il capitalismo, ben rappresentato da Nolte, sta cancellando dalla storia dell’Europa a trazione tedesca, facendo appello una volta ancora a svastiche naziste, alla sistematica violazione del diritto internazionale e della sbandierata autodeterminazione dei popoli.
Chi finge di ignorare tutto questo, votando il pupo fiorentino, non s’illuda di punire Stalin: darà solo una mano ai padroni del vapore che sostennero i nazifascisti. Quei nazifascisti ai quali l’Unione Europea, Merkel in testa, copre oggi le spalle a est.
E’ vero, la storia non si ripete, ma le tragedie sì. Le tragedie si ripetono.

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La scuola superiore che ricordo da studente era un groviglio di contraddizioni. Classista e selettiva, privilegiava disciplina e nozione e poteva anche andar bene a chi aveva le carte in regola per frequentarla. Mi ci trovai per sbaglio – a quei tempi cominciava a capitare sempre più spesso a chi viveva di poco – per l’ostinazione appassionata di mia madre. Se n’era fatta una questione di vita o di morte che a scuola continuassi, lei, autodidatta, che per bisogno prima, per passione poi, aveva calcato con molto onore le tavole del palcoscenico e s’era ritirata, dopo aver rifiutato una “scrittura” del grandissimo Eduardo: mio padre riteneva che nella vita d’una donna stimabile il teatro non ci fosse posto per il teatro.
La preparazione per l’esame di ammissione – ce ne voleva uno perché ai proletari era riservato a spese dello Stato solo l’avviamento professionale – costò ai miei genitori una stretta di cinghia che arrotondò le entrate di un giovane procuratore legale. Cominciai che l’Armata Rossa entrava a Budapest e Che Guevara iniziava con Castro la rivoluzione cubana – mentre i computer a transistor si preparavano a mandare a casa le schede perforate – e me ne andai che il Sant’Uffizio – c’era ancora, ma chi se lo ricorda? – rinnovava la scomunica ai comunisti e la rivoluzione vittoriosa portava il guerrigliero Guevara alla testa della “Banca National“: un Draghi rivoluzionario che poi sarà ministro. Ogni tempo ha gli uomini che merita.
Avevo la testa piena di declinazioni, recitavo D’Annunzio coi pastori d’Abruzzo e Omero, tradotto da Monti, mi aveva incantato per sempre con l’umanità del suo Ettore alle porte Scee. Devo dire che Achille non riscuoteva che rari consensi: operai o borghesi, venivamo da una guerra devastante, ferite dentro e fuori e il consumismo che s’annunciava non aveva ancora spento ricordi e umanità. Tranne i fascisti convinti e clericali codini, ognuno coltivava nell’anima una scintilla di solidarietà che faceva luce nel buio più profondo. Dei grandi dolori collettivi, la scia che più tarda a morire è la speranza.
Credo che Napoli avesse allora un solo liceo scientifico – il “Cuoco” si diceva in città – ma pochi sapevano che era intitolato al grande storico della rivoluzione del ‘99 – e non era affollato. Quella piccola parte di classe lavoratrice che aveva i figli a scuola nella élite del “superiore” puntava a “un titolo di studio finito” perché sperava di trasformare al più presto lo studio in lavoro. Era ad un tempo subordinazione di classe, problema di vita concreta e questione di censo. Geometri, ragionieri e periti era quanto di meglio si potesse sperare ed era un’impresa quasi impossibile. Posto perciò ne trovai subito, ma era un mondo chiuso e dentro – lo appresi a mie spese – si combatteva sordamente una battaglia di democrazia.
La scuola – ogni scuola – è figlia del suo tempo. Il mio fu tempo di conquiste della classi lavoratrici. E la battaglia passò anche per la scuola. Una volta si diceva: non è “portato” per la matematica. Mia madre, che aveva l’acutezza d’intuizione che hanno gli artisti, contestò subito la formuletta becera che mi bollava. Ma l’arte e la cultura non hanno ascolto nei palazzi del potere se non sono servili – “Cultura! Cultura! Ne avete paura! scandivano ieri i nostri teatranti fuori Montecitorio” – e il potere, nella scuola superiore che mi vide studente, era dalla parte degli insegnanti che contrabbandavano per scienza la storia delle intelligenze che sono “portate“.
– Non è portato per la matematica!
Quante volte gliel’avrà detto, pace all’anima sua, l’ex gerarca ch’era in cattedra al Cuoco, e quante volte mia madre rintuzzò come poteva quella menzogna, ma Goebbels aveva ragione: una menzogna ripetuta mille volte diventa una verità. Fu vero, quindi, che io non ero “portato” per la matematica e falso che pagavo il prezzo di una battaglia politica. Troppi grilli per la testa con la tessera di giovane comunista in un liceo che riconosceva cittadinanza solo ai giovani missini del Fronte della Gioventù, che poi sono andati al governo della repubblica antifascista. Così, tra un’assemblea illegale per il “rappresentante di classe” e un rapporto con sospensione per ragioni di disciplina, mi trovai in un gruppo di teste dure che camminava in salita.
La scuola – ogni scuola – è figlia del suo tempo. Il mio fu tempo di conquiste della classi lavoratrici. E la battaglia passò per la scuola.
Attorno alla cattedra di italiano e di storia e filosofia ci raccogliemmo in un gruppo sparuto e, senza far retorica, demmo filo da torcere al campo avverso. Entrò nel liceo a vele spiegate il testo del comunista Salinari e tutta la letteratura che è stata, che è e che sarà io l’ho imparata in quegli anni; trovai le chiavi di lettura e l’animo di un giovane, per aprirsi, non chiede che questo: una chiave che lo aiuti a leggere il mondo come gli pare. A vele spiegate la lezione di Dante si levò veramente nell’empireo. Tecce era il mio professore – a Napoli la scuola ha conosciuto il sindacato andandogli appresso – ed aveva cultura gramsciana. I missini si sfaldarono e giungemmo persino a sentire sospiri ammirati. Benigni col suo Dante non stupisce chi fu in quella trincea.
La storia contemporanea non feci a tempo a studiarla. Il quinto anno di liceo non l’ho mai frequentato, ma tra il terzo e il quarto anno la storia ce la insegnò Mario Benvenuto, reduce dalla tragedia dell’Armir, socialista e studioso di Marx, che non aveva pari nell’aprire la mente d’un giovane.
– Se incontrate il generale Messe – ci disse a inizio dei suoi corsi – dategli un calcio in culo e ditegli che ve l’ha chiesto il vostro professore. Dite Benvenuto e il calcio se lo tiene.
Di più ideologico c’era solo l’insegnamento della matematica, impartito dal fascista, di cui ricordo bene il cognome e non lo faccio. Dico solo che era preparato e apertamente feroce. Provocava perché dalla sua parte stava il potere. Avrei potuto starmene zitto, ma non lo feci e sapevo che l’avrei pagata. Ferii così profondamente mia madre e feci molto male a me stesso, ma fu anche una grande lezione di vita.
A partire da Messe e dalla tragedia dell’esercito italiano in Russia, feci storia contemporanea per due anni, se parlammo di Serse o provammo e ragionare del Re Sole: storia contemporanea sempre e comunque. Ed io, che di storia del nostro tempo oggi un poco mi intendo, ho imparato da quel professore l’essenziale. Sono venuti poi maestri celebrati d’accademia, ma in quei due anni ho incontrato la storia.
Lasciai il liceo, perché non c’era voto alto nelle materie letterarie che potesse ribaltare la sentenza inappellabile della matematica: tra scritto e orale, la media del tre.
Ho odiato ed amato quella scuola, nella quale ho imparato persino la matematica dal professore fascista – sapeva insegnarla, anche se mi costrinse a lasciare – e ci ho riconosciuto un principio: una società esprime un modello di scuola. Quel modello e non altro. Entro il modello poi agiscono, con una fedeltà speculare a ciò che accade all’esterno, forze, istanze e bisogni.
Certo, gli attori sono quelli di sempre – ragazzi, insegnanti, il personale non docente, le famiglie – e si muovono come possono e sanno, con quanto può esserci di buono e di cattivo, le punte alte e quelle basse, ma il copione lo scrive il mondo nel quale essi vivono.
Oggi il mondo è quello che è: trionfa il neoliberismo e quando gli estremi si toccano, le differenze sono somiglianze. Come in ogni momento della storia, tuttavia, entro le istituzioni nate per la conservazione – e la scuola è tra queste – cresce fatalmente un’alternativa. Una generazione si forma, per le vie e con i mezzi che ha, entro la realtà che trova e se crede la cambia. Prima o poi i nostri ragazzi cambieranno la scuola, perché cambieranno il mondo. Lo faranno e ci chiederanno conto di quello che stiamo combinando. Quando accadrà sarà molto difficile parlar loro di governance, governement e autonomia. La “scuola del silenzio” troverà voce per urlare.
Vorrei avere un respiro ancora per poter sorridere.

Uscito su “Fuoriregistro” il 15 ottobre 2005.

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L’ho incontrato per caso, in archivio, Benedetto Croce «sindacalista» e ho capito perché l’autunno napoletano del ‘43 non sarà mai lezione di storia: ci direbbe quanto passato vive nel presente e com’è vecchio talora il nuovo che si vende all’incanto. Molto più comodo per il potere una Napoli che, nonostante le Quattro Giornate e decenni di lotte, rimanga per sempre «milionaria» come la vide Eduardo nel ‘45: palcoscenico di periferia sul quale si agita, sotto la cipria delle prostitute, il verminaio di Malaparte. In scena, cialtroni caduti e tornati in sella, uomini senza dignità e «segnorine» in offerta per i «liberatori». La pelle da salvare, insomma, costi quel costi, in una realtà che si colloca fuori dal tempo storico – ieri «Peppe ‘o cricco», oggi «Gennaro ‘a carogna» – in un dopoguerra senza guerra, in cui – spiegano i pennivendoli di regime – la crisi incalza e il meglio è rassegnarsi, barattare salute e dignità con un pezzo di pane e vendere l’anima ai Berlusconi e ai Renzi, che la provvidenza non nega a nessuno. Eppure, dopo una grande rivolta di popolo, l’inferno napoletano è in miniatura l’Italia che verrà: mercato per scampoli di potere e paradisi promessi da «unti del Signore». A ricordarlo, quell’inferno, parli di ieri e però pare oggi.

E’ l’alba della Resistenza. Nell’aria infetta, un vento nuovo porta con sé la voglia di tornare a vivere. Così forte, annoterà Calvino, da vincere la paura della morte e far pensare «alla vita come a qualcosa che può ricominciare da capo». Gli «uomini della provvidenza» non nascono dove un popolo, in bilico su un filo teso tra speranza e tragedia, prova a chiudere i conti col passato e le armi scrivono la storia col sangue. Li trovi, piuttosto, dove si disegna il futuro, dove reti di contropotere e partecipazione popolare sono il motore del Paese e minacciano di rompere col centralismo romano e con Parlamenti che rappresentano gli eletti invece degli elettori. Un disegno temibile per chi difende antichi privilegi, rifiuta una democrazia di base e non riconosce un «ethos politico» ai ceti subalterni. Temibile per chi sente che la svolta è invitabile e gioca abilmente le carte vincenti nella nostra storia: paternalismo, trasformismo e «continuità dello Stato».
Mentre a Nord si lotta, Napoli diventa così laboratorio politico e incubatrice delle Repubblica e non a caso l’inedito «exploit sindacalista» di Croce, vate di un antifascismo così moderato, che fino al 1925, con Matteotti ancora caldo, vota la fiducia a Mussolini, si consuma a Napoli, dove un popolo armato ha sconfitto i nazifascisti. Croce «scende in campo» nel novembre del ‘43, quando Armido Abbate, reduce delle Quattro Giornate e perseguitato politico, senza chiedere visti a una Questura che l’ha sempre sorvegliato per conto dei fascisti, riunisce i ferrovieri in un’assemblea che intende organizzare «tutti i lavoratori del traffico (tramvieri, filotranvieri, portuali e servizio taxi) in Sindacato» e fissare un principio: «licenziamento per chi durante il regime ha compiuto soprusi o ricoperto cariche politiche» e assunzione «dei ferrovieri licenziati perché antifascisti».

Se gli «scugnizzi» sono folclore e va bene decorarli, i combattenti che presentano il conto e mettono in discussione le gerarchie sociali fanno paura; non fa meraviglia, perciò, che il 17 dicembre, alcuni «ferrovieri aderenti al Partito Liberale, presieduti dall’Eminente Maestro Senatore Benedetto Croce, riunitisi in Assemblea Generale», si rivolgano al Prefetto per porgere a «Sua Eccellenza personali ossequi» e comunicargli ch’è nata «l’Unione Liberale Ferrovieri Italiani per riunire tutte le forze fattive e disciplinate della classe ferroviaria, ispirandosi al sentimento di libertà e del dovere». «Divide et impera». L’idea crociana di sindacato è così attuale, che, a ben vedere, ci scorgi l’ombra di Marchionne e il suo intento è chiaro: riesumare il Paese sepolto dalle lotte dei lavoratori. In programma c’è l’Italia dei «padri degli operai» – non a caso l’avremo davvero un «presidente operaio» – una democrazia solo delega e niente partecipazione, il conflitto sciolto nell’acido della collaborazione, come chiede l’immancabile «ora storica», sacrifici imposti a chi paga coi diritti una libertà «condizionata» dalle gerarchie sociali. Svaniti nel nulla gli «scugnizzi», presunti protagonisti della recente insurrezione, per i «ferrovieri liberali» parla Alberto Bouché, altro reduce di quelle Quattro Giornate dal volto sempre più politico: c’è da decidere il destino dei fascisti. Mentre Giovanni Leone prepara la difesa in Tribunale, Arangio Ruiz chiude la discussione: per i ferrovieri liberali esistono limiti precisi «a un’opera che deve tendere a colpire solo i veri responsabili della tirannia fascista».
Delega di poteri, legittimazione politica che passa per gli uffici di Prefetti ancora fascisti e, quindi, continuità dello Stato, nonostante la micidiale contraddizione di un legame con l’Italia fascista, sono le fondamenta su cui Croce e la DC alzano il muro contro cui si infrangono i programmi della Resistenza e l’azione dei CLN. Nei gangli dello Stato il personale fascista lavora indisturbato: Azzariti, ex Presidente del Tribunale della razza e incredibile consulente di Togliatti per l’epurazione, sarà Presidente della Corte Costituzionale, sicché un fascista giudicherà le leggi della Repubblica antifascista, che lascia vivere il Codice fascista di Rocco. Sarebbe solo storia, se d’un tratto, nel cuore d’una crisi di regime che propone condizioni da dopoguerra, dopo elezioni illegali che hanno negato la sovranità popolare, il principio letale della «continuità» non riemergesse dal nulla e, a dispetto delle pessime prove, non ci fosse da fare un’altra volta i conti con la necessità tecnica e giuridica della sopravvivenza dello Stato, col suo volto repressivo e antidemocratico e l’anima classista storicamente definita: servizi segreti, polizia politica, segreto di Stato, ragion di Stato, leggi eccezionali che sospendono di continuo la Costituzione, legalità in conflitto con la giustizia sociale e chi più ne ha più ne metta. Un inganno che si autoassolve e assolve i crimini che compirà.

Non è un caso che oggi, mentre il filo che lega presente e passato si snoda chiaro davanti ai nostri occhi impotenti, mentre la cronaca nera incrocia ogni giorno quella politica, un’onda di fango, calata ad arte su Napoli, rubi la prima pagina all’inquietante raid di neofascisti armati, che hanno potuto sparare impunemente e seminare il panico nelle vie della capitale. Dov’era a Roma la «Stato di diritto»? Com’è che sul banco degli imputati finiscono Napoli e la sua nobile storia e nessuno chiede conto di una vicenda così oscura al questore e al prefetto di Roma? Dov’erano i tanti poliziotti scatenati il 12 aprile, a Piazza Barberini, contro ventimila manifestanti autorizzati e improvvisamente spariti con ottantamila persone in strada? Perché si militarizza la democratica Val di Susa e si lascia mano libera ai neonazisti?
Persino Benedetto Croce, che nella sua breve esperienza di sindacalista fu per una democrazia moderata, punterebbe il dito sul mostro che, senza rabbrividire, i suoi eredi liberali chiamano «democrazia autoritaria» e si stupirebbe del pericoloso estremismo di moderati che mettono mano alla Costituzione, ma si tengono caro il Codice Rocco.

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Ordine pubblico il problema è il governoA bocce ferme, quando la disinformazione programmata scientificamente produce frutti velenosi e l’interesse cala, è difficile tornare su una notizia «consumata». In una logica di mercato, tutto è ormai un prodotto «usa e getta»; se non «stai sul pezzo», non ti legge nessuno e il tempo per la riflessione muore d’asfissia. Inutile girarci attorno: le pistole romane che hanno cercato il morto, non spareranno più notizie e sarà forse la cronaca giudiziaria a tornarci su, coi tempi della giustizia e da un angolo visuale chiuso dall’ingombrante «verità» dei tribunali.  Sul ruolo del circo mediatico nella «creazione» di eventi fittizi  e nell’immediata «distorsione» di quelli reali, per mettere in ombra problemi scottanti o porre al centro dell’attenzione il malessere sociale, invece  delle cause che lo determinano, per imporre strette repressive, fior di studiosi ci hanno fornito efficaci strumenti di analisi che, tuttavia, non sono diventati «patrimonio collettivo».
Quando, in tema di formazione, un’impressionante schiera di sedicenti esperti, nati dal nulla, come per partenogenesi, e un improvviso fiorire di campagne di stampa ha fatto passare l’idea che il «problema dei problemi» fosse un inesistente baraccone di «fannulloni» e privilegiati, ostili alla valutazione, ci siamo trovati a fare i conti con lo smantellamento della scuola statale, le università trasformate in aziende e la ricerca asservita agli interessi delle multinazionali. L’attacco martellante alla corruzione vera e presunta del settore pubblico ha aperto un’autostrada alla svendita dei gioielli di famiglia e s’è capito tardi che il problema vero era la scialo delle «privatizzazioni». In nome dello «spreco» – era quello, no?, il problema della Sanità – si son battuti in breccia i presidi di civiltà conquistati col sangue negli anni Sessanta e Settanta; cosa non siamo stati, noi, giovani di quel tempo? Borghesucci, ragazzini viziati e soprattutto delinquenti. Poi ci si è accorti che di criminale c’era solo il ticket per il pronto soccorso e il diritto alla salute cancellato. Per l’Ucraina – ci hanno detto – il nodo reale è la tutela di una strana autodeterminazione dei popoli che, guarda caso, merita rispetto solo quando volge le vele a Occidente; lentamente si scoprono, però, milizie fasciste armate dalle «grandi democrazie» contro governi eletti e nell’indifferenza generale il nazismo fa ritorno nei Parlamenti.
Di fronte a una «crisi» che il capitale manovra come fosse una clava contro le classi subalterne, dovrebbe esserci chiaro ormai che il vero «problema di ordine pubblico» che affligge il Paese non è la protesta di chi rivendica un diritto calpestato, ma la violenza di chi lo nega, impone tagli, feroci «sacrifici» e uno spietato smantellamento dello stato sociale. Il 12 aprile scorso, a Roma, di fronte a ventimila manifestanti che ponevano domande di natura politica e chiedevano risposte alla politica, il prefetto, il questore e il ministro dell’Interno hanno militarizzato la città e un corteo, volutamente imbottigliato a Piazza Barberini, è stato violentemente caricato. Si sono viste scene cilene, ma si sono registrati anche – piaccia o meno conta poco – un lavoro di «intelligence», fermi preventivi, perquisizioni e  un addestramento «militare» brutale, ma di tutto rispetto, sia sul piano difensivo che offensivo. S’è visto chiaro, insomma, che, se si muovono i «rossi», le forze dell’ordine ci sono, sanno cosa fare e lo fanno senza esitare. Pochi giorni dopo, però, nella stessa Roma, con un movimento di ottantamila persone e un rischio di incidenti incomparabilmente più alto, come hanno poi dimostrato i fatti, lo Stato ha «disertato». E’ mancata anzitutto la prevenzione e un fanatico neonazista con la sua banda di criminali ha potuto muoversi impunemente e sparare indisturbato, mentre televisioni e  stampa ci raccontavano biancaneve e i sette nani.
Dagli scontri di Piazza Navona, con un neofascista impegnato a raccomandare i camerati a poliziotti che li trattavano coi guanti gialli, acqua n’è passata sotto i ponti, ma non s’è fatto nulla per capire e  non è cambiato niente. L’odioso principio che consente a celerini e compagni il monopolio della violenza si è esercitato e si esercita quotidianamente su studenti in lotta per il diritto allo studio, sui lavoratori che si battono per la dignità, sui precari, sui «diversi», sul disagio: i pastori sardi aggrediti a Civitavecchia, i fatti di  Basiano, i morti per polizia che non si contano più, le condanne feroci per inesistenti reati di «devastazione e saccheggio», Erri De Luca inquisito, Giorgio Cremaschi indagato, i No Tav incarcerati per lo spettro d’un inesistente terrorismo, tutto ci parla di una repressione che va sopra le righe, ma il neofascismo, coccolato dalle «destre di governo», si muove impunito.
Da Michele Santoro, il sindaco di Firenze che governa il paese per un tragicomico mistero, si è presentato come il pupo che ha gli incubi e non dorme bene, assediato com’è dai rimorsi, pallido e privo d’appetito. Chissà, s’è chiesto stupito lo spettatore: vuoi vedere che s’è pentito del colpo alla schiena vibrato al suo amico Letta? No, Letta non c’entra nulla e le cause della sofferenza le ha confessate così, senza ritegno: «Mi sento in colpa per non essermi accorto che l’ultrà del Napoli indossava quella maglietta, Speziale libero è un insulto a due ragazzi rimasti orfani».
Che avrebbe fatto, signor Presidente, qualora se ne fosse accorto? E chi le impedisce di metter fuori gioco il neofascismo che a Roma spara e a Milano sfila in piazza in ordine militare, come un incubo che torna? La domanda non è retorica e la risposta è semplice: glielo impediscono gli alleati di governo, che se li tengono buoni. A ben vedere, quindi, il vero problema d’ordine pubblico che abbiamo di fronte  non è il comprensibile malessere delle piazze, ma chi lo crea e lo sfrutta; sono le trame oscure e i fili inconfessabili che legano tra loro chi qui produce rabbia e lì la cavalca in nome del consenso. Il problema d’ordine pubblico, insomma, è il governo.

Uscito su Fuoriregistro il 10 maggio 2014

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10322802_851646904850284_9156562056864201631_nIl pupo ha gli incubi e non dorme più bene. Assediato dai rimorsi, è’ pallido, di pessimo umore e ha perso l’appetito. Finalmente s’è pentito per la pugnalata alla schiena vibrata al suo amico Letta? No, Letta non c’entra nulla. L’ha confessata a Michele Santoro la sua sofferenza: “Mi sento in colpa per non essermi accorto che l’ultrà del Napoli indossava quella maglietta, Speziale libero è un insulto a due ragazzi rimasti orfani”.
Perché, se te ne accorgevi, che facevi, ciarlatano?

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Per “Panorama” uno degli “strumenti di maggior successo nel mondo” ma non in Italia, purtroppo, commenta il giornale, “è la pistola elettrica Taser, in grado di paralizzare temporaneamente un soggetto con scariche ad altissimo voltaggio e bassissima corrente”. Confesso che di queste cose non mi intendo e può darsi che sia vero. “Negli Stati Uniti”, aggiunge Nadia Francalacci per rafforzare la tesi, “si contano ormai quasi due milioni di episodi d’impiego sicuro ed efficace, a fronte di alcuni episodi (circa 10-50 a seconda delle fonti) in cui si è verificata la morte del soggetto”.
Che dire? Può darsi che io sbagli, ma il giorno in cui dovessi incontrare qualcuno che definisce “soggetto” una persona che è stata uccisa e ritiene che una cinquantina di morti siano una cosa da nulla, per la prima volta nella vita mi chiederò se Basaglia avesse veramente ragione, quando pensò di chiudere i manicomi. Forse esistono casi in cui ci può essere un urgente bisogno di pronto soccorso psichiatrico.

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