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Posts Tagged ‘Cgil’


Condivido il Comunicato di Potere al Popolo sullo sciopero generale indetto dai Confederali e immediatamente attaccato da tutti i partiti, tranne LEU. Lo condivido anzitutto perché è un notevole contributo alla costruzione di una piattaforma contro il governo Draghi che coinvolga i più ampi strati di lavoratori.
Sabotare lo sciopero significherebbe colpire i lavoratori, primi fra tutti quelli che guardano con interesse a Potere al Popolo. Un sindacato non è un partito e non si identifica con i dirigenti che lo rappresentano. Un sindacato è fatto di lavoratori, che non devono pagare le scelte sbagliate di un gruppo dirigente. Al PD puoi dire “con te non parlo”. Ai lavoratori che hai sostenuto nelle loro lotte, non puoi dire che li abbandoni al loro destino perché sono scritti alla CGIL.
A chi più o meno velatamente critica la posizione espressa nel Comunicato, ricordo che si tratta di un documento al quale si è giunti dopo discussioni e riflessioni in cui si sono confrontate posizioni diverse. In sede di elaborazione ogni critica è giusta. Quando però si giunge a un documento che viene reso pubblico, chi fa parte di Potere al Popolo non dovrebbe lo criticarlo pubblicamente. Le battaglie si fanno negli organismi di Pap poi, quando si giunge a un accordo reso pubblico, la posizione che ne viene fuori è ufficialmente quella di tutti gli iscritti.

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ZavoliSergio Zavoli l’ho conosciuto di persona in un’occasione amara e dolorosa.  In vista del centenario della Camera del Lavoro di Napoli, nata il 6 gennaio 1894, la CGIL Campania aveva chiesto a me e a un manipolo di valorosi studiosi di scrivere saggi da mettere assieme in un libro da pubblicare per l’occasione. Finì che il sindacato passò tutto a Ghirelli e il libro lo fece lui con la benedizione di un dirigente, che dai piani alti di via Torino divenne poi capo di Gabinetto del disastroso Bassolino.
Tutti sapevano, ma nessuno parlava, nemmeno gli storici turlupinati. Era in corso una battaglia elettorale di quelle che fanno epoca – la destra candidava a Palazzo San Giacomo Alessandra Mussolini – e decidemmo di protestare per vie interne ed evitare uno scandalo. Regali ai fascisti a danno della città non ne avremmo mai fatti, nemmeno con una pistola puntata alla tempia,  ma non intervenne nessuno.
Quando infine iniziò l’era Bassolino, in una lettera aperta, chiara e documentata, narrai  la squallida vicenda.
Con quella lettera e – confesso – senza alcuna speranza, mi presentai al “Mattino”, diretto all’epoca da Sergio Zavoli. Con mia grande sorpresa Zavoli mi ricevette, lesse, ascoltò, si convinse e capì. Dopo una lunga chiacchierata, mi congedò con una stretta di mano e una promessa, accompagnata da un giudizio:  è una vergogna. Domani la renderemo pubblica. Per il momento non servirà a nulla, professore, ma scripta manent.
Tenne fede alla promessa e qualcuno dovette vergognarsi.
Non l’ho più visto, ma lo ricorderò per sempre. Franco, onesto e soprattutto autonomo. Ha lasciato un segno  e un patrimonio di conoscenze fondamentale. Mi hanno insegnato a rispettare chi la pensa diversamente da me, ma possiede una forte onestà intellettuale. Di lui dirò perciò che non è morto. Vive e vivrà in tutto quello  che ha fatto.

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e2fcb5129071d74641c7c892ff7f5c262956de9075227413fb1e76c6In Campania la Cgil è sull’orlo del fallimento e non serve sperare nella Camusso. Cancellata ogni forma di partecipazione democratica, il corpo dell’organizzazione, ridotto a una sorta di succursale del partito di Renzi, mostra i segni di un coma profondo e irreversibile. Quello che fu un grande sindacato confederale assiste impotente all’emorragia di iscritti, affoga nei debiti e sconta a caro prezzo il rifiuto di dar voce a lavoratori indifesi che non rappresenta più.
Quando me ne andai, vent’anni fa, nell’ormai lontano 1995, lo dissi chiaro e pubblicamente a chi riteneva di aver vinto la partita: “State uccidendo il sindacato e massacrando i lavoratori. Condurrete la Cgil alla rovina”. Avrei preferito avere torto, ma era difficile sbagliare e lo sapevano bene tutti, soprattutto quelli che prima di ogni riunione ti dicevano che avevi ragione, ma quando si trattava di votare sparivano puntualmente o te li trovavi contro, decisi a difendere la poltrona. Fino a qualche anno fa erano tutti lì, dove li avevo lasciati.
Ne ho viste di tutti i colori e non m’è stato risparmiato nulla, né la calunnia, né l’attacco personale. Non ero in vendita e questo, i “compagni”, non lo perdonano a nessuno: chi fa una battaglia sui valori è una scheggia impazzita e va distrutto. Spiace per quei lavoratori che hanno difeso la loro organizzazione – ma non sono stati certamente tutti – e per qualche utile idiota che sogna ancora di “cambiare il sindacato dal di dentro”. Vent’anni dopo purtroppo è terribilmente facile concludere il ragionamento che non fu possibile terminare allora. Da anni ormai la Cgil non è più un sindacato e non c’è rimedio, perché non si tratta solo della Campania: è l’organizzazione nel suo insieme che si è condannata da sola a chiudere bottega. Ancora qualche anno, poi i sedicenti dirigenti faranno come D’Aragona e compagni nel ventennio fascista: si trasformeranno in “associazione culturale” e chiederanno ai padroni di poter sopravvivere e fiancheggiarli.
L’ultima volta che mi sono occupato della Cgil, ho suscitato l’ira della “Fondazione Di Vittorio” e Macaluso mi ha addirittura accusato di far ricorso a “chiacchiere da bar sport” e gridare “al lupo al lupo”, per farmi sentire e acquisire quel consenso negato dai lavoratori”. Che avrei potuto farmene del consenso lo sa solo lui, ma il tempo ha dimostrato che aveva torto e lo sapeva bene. Non è bello compiacersi di una disgrazia e non lo farò. Ripropongo, però, l’articolo che mandò in bestia Ghezzi e Macaluso. Uscì sul Manifesto anni fa, quando il giornale accettava ancora senza esitare i contributi di chi cantava fuori dal coro. E’ un articolo di cui sono orgoglioso.

Susanna Camusso e il nuovo patto di palazzo Vidoni

Il 2 ottobre 1925, quando a Palazzo Vidoni si giunse alla firma, Edmondo Rossoni, capo del sindacalismo «rosso» ormai in camicia nera, cantò vittoria. Illusione o menzogna, dichiarò che il comune interesse nazionale avrebbe costretto Confindustria a una linea di «superiore disciplina». Il patto, da cui nasceva ufficialmente il sedicente «sindacalismo» fascista, non negava l’idea di classe. L’assumeva, anzi, e la faceva sua, per definire un contesto che oggi diremmo «concertativo» e disegnare una gerarchia. Agile e comprensibile, s’ispirava a un prototipo di «politica del fare», tornata ai suoi nefasti nel clima velenoso del dilagante «autoritarismo democratico». Cinque articoli: una parte sociale, sopravvissuta a se stessa solo perché accettava la cancellazione di tutte le altre, era riconosciuta come rappresentanza unica dei lavoratori da imprenditori che, in compenso, si appropriavano dei rapporti sindacali, ottenevano lo svuotamento della contrattazione e la conseguente sparizione delle Commissioni interne. Non si trattava di un complesso accordo sindacale, ma di un decisivo passo politico. Un sindacalismo di funzionari trovava la sua legittimità nel riconoscimento della controparte e non in quello dei lavoratori, cancellava ogni altra sigla e – bere o affogare – non lasciava scelte ai lavoratori: aderire, per non subire la ritorsione.
Dopo l’accordo sindacale di ieri, Vico trova una clamorosa conferma e la civiltà fa luogo nuovamente alla barbarie. Sacconi non vale Bottai, ma la lezione l’ha appresa bene: l’interesse nazionale coincide con quello dell’impresa e nel mondo del lavoro c’è una scala di valori. Meglio di lui, lo disse Mussolini: in azienda c’è solo la gerarchia tecnica. Oggi come ieri, in vista delle manovre «lacrime e sangue» di Tremonti, i colpevoli del disastro annunciato prodotto da un mercato che specula su stesso e mette la vita e i diritti della povera gente al servizio del Pil, si trova modo di vietare lo sciopero, si affida agli imprenditori il compito di certificare le deleghe e si riduce il contratto nazionale a una pantomima messa in scena per oscurare il peso decisivo di una contrattazione aziendale che potrà legittimamente stravolgerne il contenuto a seconda degli interessi delle aziende. Si apre così l’era nuova del «sindacato nero». Peggio del peggiore corporativismo. Certo, manchiamo ancora di una «Carta del Lavoro» e beffardamente sopravvive a se stesso lo Statuto dei lavoratori, ma Susanna Camusso recita già magistralmente il ruolo di Edmondo Rossoni e di un sindacalismo di classe mummificato: contenta di una rinnovata collocazione «privilegiata», non capisce, o finge di ignorare, che si è voltata pagina alla storia.
A partire dall’accordo del 28 giugno, se mai vorrà provare a rifiutare il ruolo di cinghia di trasmissione delle scelte del capitale, se, per improvviso impazzimento, uscirà dall’acquiescenza, la Triplice sindacale sarà frantumata. In quanto rappresentanza unica dei lavoratori, non si è semplicemente piegata alla dottrina Marchionne. Ha accettato senza riserve l’intimo significato del pensiero di Alfredo Rocco che, qui da noi, fu alla base dello Stato totalitario: la proprietà privata e il capitale hanno una funzione insostituibile nella vita sociale e il sindacato esiste solo per disarmare e addormentare i lavoratori.
Giuseppe Aragno, Il Manifesto, 3 luglio 2011

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Bomba d'acqua su Pisa (Stefano Degl'Innocenti)Il paese è migliore di quanto mostri il surreale duello quotidiano tra  «rottamatori» di Renzi e «rottamati» di Bersani. La scuola, per far riferimento a un pilastro fondante della società che Renzi crede di poter distruggere impunemente, è molto meno rassegnata di quanto si pensi. Basta conoscerla per sentire il fremito che muove l’aria nelle aule cadenti. E non è questione di precari, di sacrosanta amarezza per il lavoro promesso e negato, di salari, ferie o problemi per cui è facile tirare in ballo l’egoismo corporativo e i gufi conservatori. E’ ben altro: uno stato febbrile di coscienze allarmate, un’inquietudine profonda che coinvolge docenti «garantiti», personale amministrativo, studenti e famiglie più consapevoli. Chi ha memoria ricorda l’indignazione sorda, crescente e inascoltata che annunciò l’esplosione inattesa per il «concorsaccio da sei milioni» e segnò la fine di Luigi Berlinguer.
E’ vero, a quei tempi il governo non poteva contare sulla macchina da guerra che spiana la via a Renzi, ma non è meno vero che Berlinguer non si era spinto al punto da bocciare sprezzantemente una legge d’iniziativa popolare nata dall’impegno di intelligenze acute e dalla passione competente della scuola militante. Non c’è anestetico in grado di cancellare il dolore per la violenta coltellata inferta alla scuola e alla democrazia da un governo geneticamente debole, come quello di Renzi, sfiduciato alla nascita da una sentenza della Corte Costituzionale che delegittima politicamente e moralmente questo Parlamento di figuranti.
Le manifestazioni si annunciano a catena Gli argini reggeranno? Se il fiume carsico che diventa sempre più impetuoso troverà sbocco nello sciopero del 12 maggio, che minaccia di far saltare le prove Invalsi e mettere insieme i docenti, gli studenti, i genitori più consapevoli, la Cgil e il sindacalismo di base, gli argini salteranno e faranno strada a una bomba d’acqua simile a quella che travolse Berlinguer.
Benché blindata, la malaccorta consultazione sulla «Buona Scuola», voluta dal governo per dare una mano di vernice democratica a un’operazione profondamente reazionaria, non solo è naufragata pietosamente, ma si è trasformata in un boomerang micidiale, animando un’opposizione motivata e competente, che non lascia spazi ai twitter. E’ accaduto di tutto: più di duecento mozioni contrarie cestinate con infinita arroganza, l’inevitabile protesta repressa a colpi di polizia e soprattutto, inattesa, la resurrezione di Comitati agguerriti a sostegno di una Legge di iniziativa popolare che, sottoscritta da centomila cittadini è diventata un’alternativa concreta alle proposte inaccettabili del governo. Un’alternativa sprezzantemente respinta pochi giorni fa, in sede referente, da Commissioni Parlamentari formate da illustri sconosciuti che nessuno ha mai eletto. La sfida ha i connotati dell’oltraggio ed è resa più grave dai contenuti del disegno governativo che, tra annunci da venditori di tappeti e imbarazzanti rinvii, è più insolente e liberticida di quella «Legge Aprea», bloccata nel 2011 da una mobilitazione forte e corale.
In spregio della Costituzione, il governo stavolta va ben oltre la fallita sortita berlusconiana. Se la legge Aprea assegnava al dirigente scolastico potestà di chiamata diretta dei docenti, Renzi va oltre, attribuendo ai capi d’Istituito il potere di licenziare i docenti a proprio  esclusivo giudizio, anche per il mancato superamento dell’anno di prova. Se Aprea spalancava le porte della scuola ai privati e alle imprese, introducendoli nei consigli d’Istituto, Renzi, con scelta scellerata, assegna ai Dirigenti Scolastici il potere di gestire da soli e direttamente i rapporti con le forze economiche territoriali, pronte a condizionare la formazione e l’istruzione, a fare della Scuola un mercato che sdogani il lavoro minorile e al nero e offra alle imprese manodopera abbondante, gratuita e senza tutela. In una sorta di delirio di onnipotenza, Renzi, chiede per sé qualcosa come 13 deleghe, compresa quella di ispirazione fascista che dice di riformare – ma di fatto sopprime – gli Organi Collegiali.
Questa la portata dell’attacco, che non è rivolto ai docenti, come lascia strumentalmente credere il complice circo mediatico, dopo l’oscena campagna sui «fannulloni». E’ una sfida violenta, che mira a colpire le Istituzioni democratiche del paese, di cui, piaccia o no, la scuola è trave portante. D’altra parte, Renzi non ha scelta: nega la funzione costituzionale della Scuola perché la Costituzione è il principale ostacolo alla realizzazione del suo progetto reazionario e non basta stravolgerla nelle aule del Parlamento: va sradicata dalle aule scolastiche in cui si formano i cittadini, potenziali nemici di Renzi finché non saranno ridotti a bestiame votante. Di qui l’attacco alle pari opportunità, di qui le scuole di diverso livello e le risorse iniquamente distribuite.
In quanto ai docenti, non c’è dubbio: per piegare il Paese, occorre piegarne la resistenza, per debole che possa apparire. Si spiega così la scelta di creare albi regionali, abolire la titolarità di cattedra per gli insegnanti di ruolo, qualora siano costretti a ricorrere alla mobilità territoriale o professionale, e costringerli all’inferno del precariato; si spiegano così il lavoro decontrattualizzato, le valutazioni arbitrarie, affidate alla via scivolosa dei test Invalsi, frutto velenoso dell’intrusione di Confindustria nella didattica, e infine la soppressione della libertà d’insegnamento, che l’articolo 33 della Costituzione tutela, in quanto primo confine tra democrazia e regimi autoritari. Il ricatto ai precari, che l’Europa ci impone di immettere in ruolo e Renzi recluta solo a condizione che accettino la mobilità selvaggia e il demansionamento, insegnando materie per cui non sono abilitati, la distruzione della collegialità, con le diverse componenti della Scuola escluse dalla costruzione del progetto formativo, sono il prezzo che Renzi paga ai suoi sponsor: i padroni, che pretendono una scuola classista, che sia fabbrica di sfruttati e di rassegnati soldatini del capitale.
Se non trova un freno immediato, questa è la cifra reale della scuola di Renzi: non più la preziosa fucina socratica della coscienza critica, ma l’anticamera di un ufficio di collocamento.

Fuoriregistro, 17 aprile 2015 e Agoravox, 18 aprile 2015

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Questo comunicato della Fondazione Città della Scienza paragona manifestanti e camorristi, dice e non dice, accusa, ma non fa nomi, parla di “violenti ben noti”, ma non rivela chi sono. Perché non lo fa? La Fondazione spara forse nel mucchio? Eppure dovrebbe saperlo: questo metodo non appartiene alla “Napoli democratica” alla quale molto malaccortamente si rivolge.
I nomi si sanno? E allora si fanno. Se invece si tace o si allude, il dubbio è legittimo: si sta solo mentendo, si sta diffamando e si chiama a difesa proprio l’idea di democrazia che si sta infangando.
C’è un tratto caratteristico dei malavitosi: il linguaggio pesantemente allusivo.

Dopo l’attentato incendiario del 4 marzo 2013 che ha distrutto il Science Centre di Città della Scienza; dopo l’assalto alla manifestazione della CGIL del 1° maggio 2013; ancora una volta i violenti e le forze criminali della città hanno lanciato – utilizzando la manifestazione di oggi contro il decreto SbloccaItalia e la legittima protesta pacifica – il messaggio che Città della Scienza deve chiudere.
Violenti ben noti; che godono di una incomprensibile impunità e agibilità; spesso coperti da settori delle istituzioni, alcuni esponenti delle quali – e persino alcuni parlamentari – erano oggi al corteo.
Centinaia di bambini e ragazzi, semplici visitatori, partecipanti ai congressi in corso a Città della Scienza, centinaia di lavoratrici e lavoratori che erano all’interno della struttura, insomma migliaia di persone, sono stati presi in ostaggio e terrorizzati da settori violenti organizzati e pronti – da giorni evidentemente – all’assalto a Città della Scienza.
Ma la Napoli democratica non si farà intimidire da camorristi, violenti e sfascisti.
Il mondo della scienza e della cultura non arretrerà di un passo, proseguirà le proprie attività, ricostruirà il Science Centre, contribuendo alla rinascita di Bagnoli, riportandovi lavoro vero contro precarietà, mattone selvaggio e deserto produttivo.
Per questo chiediamo alle istituzioni; a tutte le forze politiche, sindacali e sociali; al mondo della scienza e della cultura; alle associazioni e ai cittadini tutti, ancora una volta di far sentire la propria presenza nella sfida comune per la rinascita della nostra martoriata città.
Chiediamo alle centinaia di migliaia di persone che in questi ultimi anni ci sono stati vicini – e soprattutto dopo l’attentato incendiario – di mobilitarsi nuovamente a sostegno di Città della Scienza.
Chiediamo infine alla Magistratura di conoscere finalmente nomi e cognomi di chi ha incendiato il Museo e di garantire l’agibilità democratica sul territorio.
LA FONDAZIONE IDIS-CITTÀ DELLA SCIENZA

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fedeli-alla-classeSe, come vuole Croce, un saggio storico ha senso quando coglie un nodo storiografico, non c’è dubbio: mentre la Cgil firma accordi che Giorgio Cremaschi, vecchio leader della Fiom, definisce “patto corporativo”, la vicenda della rinascita del sindacato tra fascismo e repubblica offre preziose chiavi di lettura del presente. Del sindacato in Italia dopo l’armistizio, si occupa Francesco Giliani nel suo «Fedeli alla classe. La Cgl rossa tra occupazione alleata del Sud e ’svolta di Salerno’ 1943-45», A. C. Editoriale 2013, € 13,00. Studioso alla prova d’esordio, Giliani s’è formato in una università che prima l’ha mandato in giro per il mondo in cerca di fondi inesplorati poi, temendolo eretico, lo ha lasciato al suo destino; lui, in attesa del fioretto che avrà in dote dall’esperienza, mette mano all’accetta per ipotizzare difficili esiti rivoluzionari della guerra persa, ma firma un lavoro di grande interesse, che risponde a problemi storici reali.
Sono anni ormai che circola il profilo di un’Italia delle aziende e dei suoi capitani coraggiosi che nobilitano le leggi del profitto col coraggio di chi rischia del suo, investe sul merito al di là delle ideologie, ma «Ribelli alla classe», che parla di rivoluzionari e non fa l’elogio dei capitalisti, di fatto è auto pubblicato; «ciclostilato alla macchia», direbbe Gaetano Arfè con amara ironia. Per l’Anvur, quindi, che – piaccia o no – riduce la valutazione della ricerca a strumento di controllo del pensiero, il saggio non vale una cicca: non vanta citazioni anglo-sassoni e non ha editori noti, come capita di norma a chi canta fuori dal coro in tempi di «larghe intese» e pensiero unico, quando le collane di storia sono più che mai in mano a baroni e sponsor ne trova soprattutto chi flette la schiena. Eppure basta leggerlo, il saggio, per capire che la sua parte l’autore l’ha fatta. S’è messo al lavoro, ha scovato carte preziose e ricostruito con dovizia di documenti e perizia di analisi la storia della CGL «rossa» tra sbarchi alleati, svolta di Salerno e il Pci che va al governo col la Dc. La storia, in gran parte cancellata, di un pugno di azionisti e comunisti – Antonio Armino, Dino Gentili, i fratelli Villone, Antonio Cecchi – che, caduto il fascismo, riorganizzano il sindacato. Il leader del gruppo, Enrico Russo, cresciuto alla scuola di Buozzi, ha guidato la Fiom campana ai tempi di Bordiga s’è scontrato con gli stalinisti in Spagna, ha provato le delizie della democrazia in campi d’internamento in cui la Francia chiuse – e spesso lasciò morire – i combattenti sfuggiti a Franco. Tra galera e confino, ha maturato l’idea di un sindacato che non si apra ai «nemici della classe lavoratrice che rimangono sempre gli stessi, anche quando si siano decisi a buttare a mare il fascismo», perché non ha vinto la «guerra dalla quale si ripromettevano nuovi mercati, […] materie prime e, soprattutto, nuovo lavoro umano da sfruttare». Un sindacato conflittuale di classe, che dica la sua sulle politiche per il lavoro, rifiuti di far causa comune con la DC, che schiera giuristi a difesa dei fascisti da reclutare, e incarni un’idea moderna di organizzazione, fondata su un irrinunciabile principio: l’organizzazione non è cinghia di trasmissione dei partiti.
Lo scontro col Psi e soprattutto col Pci di Togliatti è nelle cose; Giliani riprende la polemica di Cortesi con una storiografia ferma al disegno di un Sud in perenne ritardo sulle dinamiche storiche, ricordando la forza del movimento operaio che si organizza attorno al nuovo sindacato, l’aspra lotta con chi vuole resuscitare la vecchia CGdL e le leghe bianche, la critica alla collaborazione di classe con Badoglio. Le carte reperite all’estero gli consentono di dubitare dello «spauracchio di una prospettiva greca» e di un maccartismo retrodatato al ’43. E’, di fatto, la messa in discussione della «vulgata» che fa della minacciosa resistenza degli Alleati all’estirpazione del fascismo l’origine della mancata epurazione e presenta gli occupanti come un maglio pronto a colpire. In questo senso, rivoluzione o no, fa impressione scoprire i Comandi alleati preoccupati per le jeep «americane e francesi che il Primo maggio del ’44 andavano in giro a Napoli con bandiere rosse sul radiatore». L’idea stessa di un’armata reazionaria, pronta a spegnere nel sangue gli aneliti di reale democrazia, vacilla di fronte ai soldati britannici che, ancora in servizio, nelle elezioni del ’45 votano laburista per il 60 %, mentre i Comandi annotano che degli americani impegnati in Europa, molti sono italo americani, figli di anarchici e socialisti e un milione e 250 mila, iscritti ai sindacati, sono reduci da scioperi e fabbriche occupate nel 1934-37. Soldati che, riferiscono le carte, hanno contatti con gli operai, conoscono la solidarietà e donano i proventi del contrabbando di sigarette ai lavoratori che organizzano il sindacato. Sconcerta scoprire che, con l’accordo di Roma, quando nasce la CGIL e i partiti rovesciano il tavolo e sconfessano Russo, a Luigi Antonini, Serafino Romualdi e Vanni Montana, i sindacalisti italo-americani giunti in Italia per indirizzare i lavoratori verso il modello anglosassone, non resta che prendere atto: «i comunisti evidenziano che sono anzitutto italiani e solo in seconda battuta comunisti». Fingono? Per gli Alleati conta poco: i democristiani, notava Romualdi sono «un cane da guardia e finché saranno nella Cgil non permetteranno ai comunisti di perpetrare inganni».
Per Spriano, ricorda Giliani, un sindacato con i «bianchi» era il corollario necessario della politica di unità nazionale e di democrazia progressiva di Togliatti. Non era così per la Dc e Russo l’aveva capito. Egli, tuttavia, uscì sconfitto per limiti organizzativi della sua CGL e per il grande prestigio di Stalin che si riverberava su Togliatti. Eliminati i «rivoluzionari» e foraggiata adeguatamente la Cgil, tutto andò bene finché, forte all’interno e in una mutata situazione internazionale, De Gasperi mise alla porta le sinistre e di lì a poco anche l’unità sindacale andò in frantumi. Da quel momento i comunisti passarono all’opposizione e vi rimasero. La democrazia, più che progressiva, risultò così incompiuta: né figlia d’una rivoluzione, né d’una rottura pacifica col lo Stato fascista.
Il libro di Giliani merita di essere letto se non altro, perché contribuisce a sollevare la pietra tombale posta su Enrico Russo e la sua CGL, E’ incredibile, ma vero, questo comunista, eretico quanto si vuole, ma di indiscutibile spessore, morì solo e dimenticato in un ospizio per i poveri, nel 1973. Per lui non s’era trovato posto nemmeno nel dizionario biografico del movimento operaio.

È possibile richiedere il volume scrivendo a: fedeliallaclasse@libero.it

Uscito su Fuoriregistro, Liberazione e Report on line il 7 novembre 2013

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Il fascismo, regime del capitale finanziario”: così intitolò Pietro Grifone il capitolo di un suo lontano, ma ancor valido saggio, che dalla Marcia su Roma giungeva alle iniziali prove di governo fascista, tra il 1922 e il 1926. Sarà un caso ma l’esordio di Roberta Lombardi, neo deputata e capogruppo parlamentare del Movimento a Cinque Stelle, ci riconduce proprio al “senso dello Stato” del primo fascismo, dando così al rappresentante  di una massa fin qui indistinta l’occasione di aprire il discorso su un tema che pensavi avrebbe aperto la sinistra: il nodo, storico sì ma anzitutto politico, del ruolo che nei momenti decisivi assumono non gli individui o i singoli gruppi politici, ma le forze economiche, le classi sociali e gli interessi organizzati.
Più che accendere una polemica retrospettiva, è evidente che l’esponente del Movimento di Grillo ha inteso mettere al centro della riflessione sulla squilibrata situazione politica italiana una prospettiva di stabilizzazione orientata a destra, che non va intesa come un’eresia che riguarda il passato, ma una inquietante prospettiva per il futuro. Del primo fascismo si possono avere, infatti, le più diverse opinioni, indiscutibile, decisiva e preziosa addirittura per il nostro capitalismo fu la funzione stabilizzatrice in un contesto di tremenda crisi economica e di grave incertezza sociale.
A voler guardare freddamente gli eventi, senza fermarsi a recriminare sui rischi per la repubblica nati dalle scelte di Napolitano dopo le dimissioni di Berlusconi, l’intreccio tra politica e storia che si delinea nel Movimento di Grillo per i suoi rapporti con Casa Pound, per la messa al bando del sindacato e le considerazioni sul primo fascismo, conferma alcuni dati di fatto e pone domande cui occorre dar risposte: è possibile gestire la globalizzazione con un progetto socialdemocratico, come ha tentato di fare Bersani, nell’illusione di rafforzare a un tempo la democrazia nella società e nelle imprese, senza modificare radicalmente regole del gioco e “modi” di produzione? E’ possibile farlo, se per globalizzazione s’intendono Marchionne e il dominio del capitalismo finanziario? Il PD ha scommesso sul sì. Di qui probabilmente i conti che non quadrano, l’indebolimento e la perdita di credibilità di fronte agli effetti di una espansione del capitale che non cancella le differenze, radicalizza lo scontro col lavoro e, per dirla con Foa “spacca il mondo in due”. Un capitale che, è bene ricordarlo, rifiuta la linea della collaborazione, ma chiede al sindacato e al suo partito di riferimento di isolare le “ali sinistre”, indebolendo così la loro stessa base di consenso e producendo masse “tradite”, che non si sentono più rappresentate.
Il primo fascismo di cui parla l’esponente di Grillo non esiste. I fasci ebbero identità e vita reale solo quando divennero  squadrismo e furono capaci, questo sì, di attrarre miti e frustrazioni di alcuni sindacalisti rivoluzionari, come Rossoni, Michele Bianchi e Agostino Lanzillo, che, tentando di risolvere la pratica sindacale nel rapporto diretto dei lavoratori coi padroni, si aprirono facilmente all’idea corporativa, dando credito alla concezione autoritaria dello Stato fascista in nome della rivoluzione. Quale modello ne nacque e di che parla, quindi, nella sostanza, il movimento di Grillo? Evidentemente di un pensiero politico che riconosce l’autorità aziendale e finisce in braccio al capitale, inseguendo due miti: quello dell’efficienza e della produttività e quello della “bontà” del modello corporativo rispetto al “caos” e alla “corruzione” della mediazione sindacale e della democrazia parlamentare.
Grillo e i suoi rispondono così a Bersani e in fondo si capisce. Qui da noi, le gravi crisi del capitale sono storicamente incompatibili con i modelli della socialdemocrazia. Purtroppo, però, né Bersani, né Grillo pongono in discussione la struttura del credito e la proterva libertà del mercato, il ruolo della banca mista, la socializzazione delle perdite a fronte della totale privatizzazione degli utili e l’iniqua divisione della ricchezza tra le classi sociali. Problemi che mettono a rischio la“sovranità popolare” e la democrazia come valori reali. Il modello “giolittiano“ di Bersani, adatto al più ad un’economia in cui l’industria decolla e domanda tregua sociale, mette in ombra i temi della“sovranità popolare” e della democrazia reale, che sono valori e non formule vuote di contenuti, e naufraga di fronte a una crisi che non consente mediazioni e non chiede pace sociale. In questo contesto, col capitale che non accetta procedure sindacali, il “modello Grillo” diventa punto riferimento per forti interessi materiali, ma intercetta anche attese, delusioni, bisogni concreti che, nel deserto di valori lasciato in eredità dal berlusconismo, si saldano in una base di consenso trasversale alle classi sociali, tenute assieme da un individualismo che diventa elemento decisivo di una sorta di egemonia culturale. Grillo, che modifica persino il linguaggio della politica, attirando la rabbia all’amo della “democrazia diretta“, diventa vincente perché si nutre di problemi reali e, mentre tiene viva nella base la sensazione di una ritrovata rappresentanza e l’illusione di una rivoluzione, si offre al potere economico come elemento di stabilizzazione su base autoritaria. Ecco il significato reale del cenno al deformato “fascismo della prima ora”. Un significato che spiega ad un tempo la logica che in basso blocca la proposta di Bersani e assicura buon gioco a quella di Grillo, in alto rende quest’ultimo molto più credibile di quanto si creda. Così stando le cose, il discorso del deputato del Movimento 5 Stelle non è pericoloso per i suoi riferimenti alla storia passata, ma per la minaccia che potrebbe costituire per la storia che verrà.
Non è passato molto dai recenti accordi tra Cgil e Confindustria. Dalle colonne del Manifesto ci fu modo di far cenno ai rischi di un rinato autoritarismo. “Chiacchiere da bar sport”, si rispose dai soliti “grilli parlanti”. Ora che Grillo getta il Paese nel caos, sarebbe il caso di riflettere seriamente sulla nostra storia. La convergenza tra fascismo e grande capitale non fu, come si racconta assai spesso, figlia legittima della cecità del massimalismo. Se una paternità venuta al regime da sinistra si può riconoscere, bene, essa tocca molto probabilmente ai riformisti, che, finiti in orbita liberale, dimenticarono che le riforme vere sono quelle “di struttura” e nascono come strumento di lotta di classe. Come Grillo, anche Mussolini, era solo e tale dichiarava di volere restare: “Siamo soli  dinanzi alle nostre terribili responsabilità, soli e da soli dobbiamo giungere un porto”. Furono i liberali a dargli una mano, assicurandogli un’alleanza che egli accettò senza esitare, tradendo così i “rivoluzionari” che gli avevano creduto. Oggi la lezione dovrebbe esser chiara: una sinistra di classe veramente unita avrebbe forse salvato il Paese da una tragedia.

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Bottega Scriptamanent
Mensile di dibattito culturale e recensioni

Direttore responsabile: Fulvio Mazza
Direttore editoriale: Graziana Pecora
Anno VII, n. 65, gennaio 2013

Repressione fascista e resistenza al Duce. I danni della scienza usata a scopi politici . “Pazzia indotta” vs “ragion di stato”: da Bastogi editore, otto storie di vite annientate dalla psichiatria di regime
Federica Lento

Quando la Storia assume quasi i caratteri del romanzo, pur non essendo purtroppo invenzione; quando il sacrificio di vite umane diviene racconto, messo nero su bianco e reso disponibile ai lettori, non si può fare a meno di riflettere su una pagina triste del nostro passato.
Durante la Repressione fascista molti uomini, donne, ragazzini decisero di non abbassare la testa, di continuare a lottare per la propria libertà e per le proprie convinzioni, nonostante l’incombente minaccia di privazioni e addirittura di morte. Non si trattava solo di privazioni materiali e di mancanza di libertà ma di perdita della vita, brutale o graduale, giorno dopo giorno, quando spesso accadeva di essere rinchiusi nei manicomi perché le proprie idee non erano affini a quelle del regime.
Giuseppe Aragno, storico napoletano scrittore di numerosi testi sulla lotta antifascista rivoluzionaria e sul movimento operaio, ha recentemente pubblicato il saggio Antifascismo e potere. Storia di storie (Bastogi editore, pp. 154, € 15,00), in cui la cornice della Storia durante il periodo fascista non può escludere gli otto racconti privati dei singoli che della Repressione sono stati vittime lucidamente e coraggiosamente consapevoli.

La psichiatria: strumento di repressione politica
Le vicende raccontate sono storie di reclusione presso manicomi di persone non malate ma considerate pericolose agli occhi del regime, per le proprie idee antifasciste; dei “folli” che non possono camminare liberi per strada ma devono essere segregati, censurati, stretti da una camicia di forza che non blocca solo i movimenti ma anche i pensieri. Un utilizzo dunque politico della psichiatria. Tra le varie storie c’è quella di una donna, Clotilde Peani figlia della “Italia liberale” di Depretis e Crispi. Torinese e ben lontana dal cliché di sartina pallida e buona madre e moglie, frequenta già da adolescente i circoli socialisti, tacciata subito dalle autorità di essere una donna “audace e pericolosa”. La sua vita di militante e attivista è condannata dal sistema repressivo fascista. Clotilde sarà epurata come “schizofrenica”, così come tanti altri suoi compagni, improvvisamente ritenuti “mentalmente instabili”, quindi rinchiusa a vita in manicomio; morirà nel 1942 nell’Ospedale psichiatrico di Napoli.
C’è poi la storia di Nicola Patriarca, beffato da ben due “ragioni di stato”, quella russa prima, quella italiana poi. Nato infatti a Voronež, non distante dal confine ucraino, Kolia (così come sua moglie Varia ama soprannominarlo) è fedele al Partito comunista sovietico, ma viene “eliminato” dal governo staliniano nel 1937 semplicemente per la sua “nazionalità inaffidabile”. Rifugiatosi a Napoli, ben presto i suoi ideali gli causano l’internamento da parte delle camicie nere al confino di San Costantino Calabro. Straziante la sua corrispondenza epistolare con la moglie e con il figlio, che trasmette tutta l’umanità e la sofferenza di un uomo incompreso e punito due volte per il proprio credo. Arrestato nel 1939, si perdono le sue notizie nel 1941, proprio a pochi mesi dalla fine della sua pena, arrivata grazie all’insperata amnistia sovietica.
Ancora, c’è la vicenda di un giovane, Umberto Vanguardia, che da adolescente forse inconsapevole, forte dei propri ideali contro il regime da urlare giustizia già tra i banchi di scuola del ginnasio, viene internato ancora una volta per la sua “utopia”. E poi le storie di Luigi Maresca, Emilia Buonacasa, Pasquale Ilaria, Giovanni Bergamasco e l’intera famiglia Grossi, tutte accomunate dallo stesso triste finale, quello dell’internamento.
Nel raccontarle, Aragno non si accontenta di mettere sotto accusa l’apparato repressivo totalitario della dittatura mussoliniana, ma insiste sui meccanismi di un’Italia liberale prefascista, che aveva concepito e costruito i rudimenti del sistema di controllo e repressione, usati prontamente poi in epoca fascista. Protagonisti delle biografie presentate sono attivisti delle forze minori, ma che appaiono al contrario rappresentativi di una vicenda di dimensione nazionale e internazionale, delle classi subalterne, che rompono gli schemi consolidati.

Lo scontro tra “ragion di stato” e utopia antiregime
Quello che emerge dalle vicende raccontate da Aragno è una riflessione sulla dicotomia tra la “ragion di stato” – quella che Benedetto Croce descriveva come la «legge motrice» di un paese e che assume nella realtà l’ideologia di un regime come rinuncia al singolo in nome degli interessi dei gruppi dominanti – e l’utopia antifascista, uno scontro tra «l’eccesso di realismo», come lo definisce l’autore, e l’eccesso di speranza. Non a caso l’utopia rasenta il limite sottilissimo della pazzia che, in questo saggio, è pazzia indotta, pazzia inventata, giustificazione o alibi a dei moti e ideali da reprimere e controllare. L’isolamento, la paura, la scelta di opporsi comunque e resistere in un libro che tiene assieme il rigore della ricerca scientifica e i ritmi e le parole della narrazione, un “romanzo storico” che, partendo dalla varietà di situazioni, aspirazioni, relazioni e intenti, si focalizza sui volti, le voci, le vicende umane e politiche di una militanza sofferta.

(www.bottegascriptamanent.it, anno VII, n. 65, gennaio 2013)

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Il Manifesto, 16 gennaio 2013

Memoria- «Antifascismo e potere. Storia di storie» di Giuseppe Aragno
Frammenti ribelli all’ordine costituito
Piero Bevilacqua

Gli studi di storia del movimento operaio, che in Italia hanno conosciuto una fase di effervescenza nei primi decenni dopo la seconda guerra mondiale, sono da gran tempo trascurati dagli studiosi dell’età contemporanea. Il lavoro e la lotta di classe non sono alla moda, appaiono estranei e stridenti con lo spirito del tempo, e gli studiosi italiani, per lunga tradizione, si guardano bene dall’urtare il perbenismo dominante nella nostra accademia. Solo da alcuni anni sono ripresi gli studi di storia del sindacato, che segnalano una rinnovata attenzione a quello che è senza dubbio un carattere saliente della storia politica italiana nel XX secolo.
La presenza di un grande sindacato di classe come la Cgil, e talora un ruolo incisivo delle formazioni minori, accompagna originalmente la vita e l’evoluzione dei ceti popolari nel corso del secolo. Ma la storia del sindacato non è la storia del lavoro e dei lavoratori, anche se la riguarda molto da vicino e la coinvolge. La classe operaia, come corpo sociale e i movimenti popolari non hanno conosciuto l’ampiezza degli studi riservati dagli storici italiani ai contadini e alle loro lotte. E oggi men che mai tornano ad attrarre l’attenzione degli storici. Perciò appare come uscito da un età remota il recente saggio di Giuseppe Aragno, Antifascismo e potere. Storia di storie, Bastogi Editrice Italiana, pp. 145, euro 15). Per la verità Aragno aveva già pubblicato per Manifesto-Libri Antifascismo popolare. I volti e le storie (2009). Ora continua in quel filone di studi che riprende la tradizionale storia del movimento operaio, esaminata non quale fenomeno collettivo – sempre presente come sfondo storico – ma sotto forma di vicende biografiche, storie individuali, avventure politiche ed esistenziali dei singoli. E, per quest’ultimo aspetto, va anche rilevato che i personaggi ricostruiti nel loro percorso non sono i grandi leader, non portano nomi illustri, ma sono protagonisti oscuri o semiuscuri che hanno dedicato la loro vita alla lotta politica, pagando un caro prezzo personale. Sfilano in questo testo, preceduti da una nota di inquadramento storico, le vicende di uomini e donne irregolari, trasgressivi, che lo Stato liberale e quello fascista spesso bollano come pazzi, reietti, violenti eversori dell’ordine costituito. Referti che Aragno registra con particolare soddisfazione, perché il suo impegno di storico è tutto mirato a portare alla luce personaggi che sin nella loro esperienza esistenziale appaiono come antisistema, fuori e contro ogni ordine costituito.
Esemplare sotto questo profilo è la storia di Emilia Buonacosa d’ignoti, trovatella di Pagani, nel salernitano, che diventa organizzatrice sindacale a Nocera Inferiore nei primi decenni del Novecento e poi entra nel giro europeo degli esuli antifascisti. Ma nel testo troviamo anche le vicende di personaggi meno oscuri, come quella di Luigi Maresca, partigiano durante le Quattro giornate di Napoli, che ha un profilo intellettuale e politico più evidente e maturo. Le storie iniziano con la vicenda di una donna, Clotilde Peani, anarchica, nata a Torino, che finisce i suoi giorni a Napoli dopo anni di persecuzione fascista, e proseguono con la vicenda di altri sette personaggi.
Di queste storie non si può dar conto se non in maniera frammentaria, per suggerire un’idea del materiale che il lettore trova nel libro. Certamente val la pena ricordare la vicenda di Kolia (Nicola) Patriarca, un italo-russo che, come ricorda l’autore «vede la sua vita, i suoi affetti e la sua famiglia colpiti dalla furia ideologica di due dittature». Patriarca, infatti, comunista, è costretto ad espatriare dall’Urss, dove infuria la repressione staliniana, e a rifugiarsi in Italia. Qui è accolto di buon grado dalle autorità del regime, che possono utilizzare la sua posizione in funzione antisovietica. Ma Patriarca ha alle spalle una storia di condivisione della rivoluzione sovietica e non lo nasconde. Viene perciò denunciato dalla polizia, nel 1938, «come persona pericolosa per gli ordinamenti sociali e politici» dell ‘Italia. Finisce al confino a San Costantino Calabro.
Le storie ricostruite da Aragno hanno il sapore di una giustizia postuma resa a personaggi travolti dalla storia e poi e dall’oblio, talora politicamente intenzionale, di chi è venuto dopo. Vi si osserva evidente una determinata volontà di risarcimento della memoria. È una operazione moralmente e storiograficamente degna, che merita plauso. Credo, tuttavia, che la qualità storiografica dell’operazione sia alterata dal linguaggio che l’autore ha scelto per narrare queste storie. Appare evidente un eccesso di partecipazione ideologica di Aragno alla vicenda dei suoi eroi. Sicché le parole dei protagonisti, i loro punti di vista, le loro recriminazioni, il loro intero mondo vissuto di persecuzione e di lotta, diventano il materiale diretto della narrazione storica, con poco filtro emotivo e la misura che sarebbe stata necessaria.

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Ci contano? Certo che ci contano, non sono mica scemi.
Non so altrove, ma qui a Napoli oggi non c’è voluto molto; sono bastate le dita di due mani e l’uomo della Digos era tutto contento.  
Senza girarci attorno. Al corteo, stamattina, c’erano poche centinaia di studenti e quattro, letteralmente quattro, docenti. E non venitemi a dire che è stato solo perché un nubifragio s’è abbattuto sulla città. Non è così, non vi credo. E’ che i rivoluzionarissimi non vanno con la Cgil, la Cgil non mette assieme più nemmeno il gruppo dirigente e i sindacati di base fanno ognuno la sua guerra e conta che hai mostrato la bandiera. Il nubifragio non c’entra. E’ che gli studenti autoconvocati non vanno con quelli organizzati, gli insegnanti di ruolo non si interessano dei precari, il comitato antirazzista non sa che esiste la scuola e la scuola non ha l’indirizzzo delle fabbriche in lotta…
Senza peli sulla lingua: ci meritiamo ampiamente quello che ci hanno fatto e ancora ci faranno.

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Lo riporto per dovere di cronaca. Mi capita di leggerlo per caso, come – devo dire – per caso ho letto il mio articolo su il Manifesto. Non sapevo ch’era uscito. A Ghezzi non ho replicato. Non merita risposte chi, a corto di argomenti, attacca la persona. Poche parole le dico qui, sull’omicidio Matteotti, che il Ghezzi evoca strumentalmente senza accorgersi che la sua è un’implicita ammissione di responabilità. Il nostro non è tempo da Matteotti e, qualora ci fosse, non morirebbe di pugnale. Come i moderni regimi – tutti più o meno “democrazie autoritarie” – anche la Ceka s’è evoluta, conta su pennivendoli e velinari e ha un’arma ben più efficace del pugnale: t’ammazza moralmente senza rischiare niente. Matteotti oggi sarebbe stato travolto da uno scandalo montato ad arte, l’avrebbero attaccato sul piano personale e, perché no?, i suoi argomenti sarebbero diventati barzellette da Bar Sport, come prova a fare Ghezzi con me, che, a suo dire, sono intellettualmente disonesto. La menzogna, il fango, le chiacchiere che non entrano nel merito sono il pugnale dei moderni Dumini. Un’arma che, a giudicare dalla replica, Ghezzi conosce bene. Lascio, perciò, che si commenti da solo.

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Non scherzate con la storia e il  fascismo

Leggo su manifesto un articolo di Giuseppe Aragno che, con sconcertante superficialità, paragona l’intesa raggiunta tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria lo scorso 28 giugno con il Patto di Palazzo Vidoni sottoscritto tra Confindustria e Corporazioni fasciste il 2 ottobre 1925. Il recente accordo che cancella l’illusione che si possano fare accordi contro la Cgil, che ristabilisce la centralità dei contratti nazionali, che opera per ricostruire un terreno di regole comuni che portino alla certificazione della rappresentanza sindacale e a pratiche democratiche definite e che viene siglato dopo anni nei quali, sotto la perversa regia del ministro del lavoro in carica, il governo e settori decisivi della imprenditoria italiana hanno messo in campo quanto era in loro potere per escludere la Cgil da ogni confronto e tentare di cancellarne la funzione, viene assurdamente paragonato al Patto che permise a Mussolini di fascistizzare il sindacalismo italiano e la stessa Confindustria.
Con quale onestà intellettuale si può paragonare anche lontanamente l’attuale pur difficile contesto politico-sociale a quello di un’Italia nella quale, al termine di ciclo di violenze inaudite perpetrate contro il sindacato, i partiti di sinistra e il movimento cooperativo, Mussolini, dopo essersi assunto la responsabilità del delitto Matteotti aveva proclamato l’avvento della dittatura il 3 gennaio 1925, messo fuori legge i partiti politici, abolita la libertà di stampa, assunti i pieni poteri e avviata la fascistizzazione dello Stato? Nel 1925 il partito-stato impose alle parti sociali un accordo col quale, riconoscendosi reciprocamente come rappresentanze esclusive degli industriali e delle relative maestranze, si cancellavano i sindacali presenti nel paese ad esclusione di quello fascista, si deliberava l’abolizione del diritto di sciopero, la cancellazione delle Commissioni Interne sostituite con il fiduciario delle Corporazioni e si toglieva ogni autonomia a Confindustria che veniva costretta anch’essa a fascistizzarsi modificando persino il proprio nome.
La soluzione individuata nei giorni scorsi, che ovviamente può non essere condivisa, è stata sottoscritta dalle parti sociali senza intervento alcuno da parte del governo in carica. Oggi al più le opinioni assolutamente legittime che si confrontano vivacemente nella Cgil dividono coloro che vedono nel referendum l’unico strumento di espressione della democrazia sindacale da coloro che lo ritengono invece uno strumento importante ma non il solo strumento democratico da mettere in campo. Opinione quest’ultima che, va ricordato, ha prevalso di gran lunga nel voto espresso dagli iscritti nell’ultimo congresso della Cgil.
Anche in Confindustria si manifesta per fortuna, a differenza del 1925, un pluralismo sufficientemente visibile, basterebbe in merito leggersi le ultime esternazioni di Marchionne. Per le organizzazioni imprenditoriali dell’agricoltura, del credito o dei servizi vale il medesimo discorso. Dalla storia e dalle sue tragedie vanno sempre tratti insegnamenti importanti. Non barzellette da raccontare al Bar Sport.
Carlo Ghezzi
* presidente della Fondazione Giuseppe Di Vittorio.

http://www.dirittiglobali.it/home/categorie/42-sindacato/17078-non-scherzate-con-la-storia-e-il-fascismo-.html

http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20110705/manip2pg/06/manip2pz/306114/

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