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Archive for febbraio 2017

la-banalit-del-male-5-638Quando i villaggi sui sette colli divennero “città-stato”, inglobarono terre confinanti e fecero i conti con i popoli entrati nel nuovo territorio, nacquero immediate questioni di diritti. Il padrone romano volle negare la cittadinanza, impedire la mescolanza di genti, difendere privilegi e imporre un’iniqua divisione della ricchezza. L’egoismo di classe nascose così interessi ignobili dietro la bandiera nobile della “civiltà dei patres” e trovò i suoi Salvini, i suoi Trump e le scorciatoie ideologiche di chi s’illude di impedire il corso della storia.
L’Islam non esisteva, è vero, ma la predica sull’islamismo e la pratica dell’espulsione era già nata.
L’egoismo e la cecità sono antichi come l’uomo ma non meno antica è la risposta delle classi discriminate e “inferiori”. Migliaia di anni fa, cinque secoli prima di Cristo, la plebe di Menenio Agrippa, che sull’Aventino incrocia le braccia, impone alla ferocia di un’antica Le Pen un immortale principio di civiltà: non c’è organo del corpo sociale che non abbia una sua insopprimibile funzione e non contribuisca alla salute dell’intero organismo, sicché chiunque pensi di poter metterne impunemente al bando una parte, condanna a morte gli altri e se stesso. Come sempre, i Trump e i Salvini, campioni di un’eterna purezza latina, incitano alla reazione e mettono mano alle armi. Pugnalare i Gracchi, però, non basta a fermare il corso della storia, che procede indifferente sui suoi binari . Molti secoli dopo i liberi Comuni dimostrano che non c’è alcun bisogno di poteri universali e invano Barbarossa riveste di menzogne universalistiche la fame di potere e la difesa dei privilegi feudali. L’imperatore muore, condannato all’inevitabile sconfitta, ma la lezione non basta e quando, in uno dei ricorrenti deliri della sedicente “civiltà occidentale”, complici le immancabili “grandi democrazie”, Hitler, un Tramp in formato tedesco, porta le sue armi assassine verso l’est degli odiati “Soviet”, Barbarossa dà il nome alla spedizione. Sappiamo tutti come finì.
Si potrebbe spiegare il mondo d’oggi così, seguendo il corso delle cose passate, perché in ogni momento di crisi è nato un Salvini, mentre è mancata talvolta la risposta unitaria della plebe. Bisogna dirlo: furono i liberi Comuni di Lodi, Pavia e Como a chiedere l’aiuto dell’Imperatore contro Milano, così come oggi questioni di consenso hanno spinto le pallide ombre di una agonizzante sinistra a dar man forte ai Salvini.
Basta guardarsi attorno per capire. L’allarme per l’ennesimo pericolo islamico non è che la fotocopia della pazzia che agitò l’Europa ai tempi del complotto pluto-giudaico-massonico. E chi grida al lupo? I complici del massacro palestinese, gli alleati di Erdogan, un macellaio della razza dei Mussolini, i soci in affari dei dittatori del pianeta. Sono questi lestofanti i crociati della “civiltà superiore”. Di quale civiltà parliamo non è difficile capire e non occorre scomodare l’etnocidio dei popoli del nuovo mondo, non occorre ricordare i milioni di maghi e streghe bruciati vivi o l’indice dei libri proibiti. La civiltà che difende Salvini è quella di Abu Ghraib e Guantanamo, della pena di morte, del Ku Klux Klan, e delle prigioni piene zeppe di bianchi poveri e miserabili immigrati, la civiltà dell’Euro, della Grecia colonizzata e del Mediterraneo trasformato in cimitero.
La verità è sotto gli occhi di tutti: non s’è ancora ripulita l’aria dal fumo dei camini nazisti e già si sente il tanfo di nuovi genocidi, già si vedono ombre terrificanti di muri rinforzati dal filo spinato. Non c’è da farsi illusioni: tutto questo finirà, ma la banalità del male non si cancella e pagheremo prezzi altissimi. Tuttavia, prima saremo capaci di costruire vie alternative a questa nuova e terribile saga dei Nibelunghi e meglio sarà; una cosa occorre sia chiara, però: le mezze misure possono avere una funzione tattica, ma non hanno respiro. Non è più tempo di compromessi. E’ tempo di riprendere la via dell’Aventino.

Fuoriregistro e Agoravox, 25 febbraio 2017

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napoli-ripudiaLa prima volta ci venne come Cristoforo Colombo a San Salvador: convinto di metter piede nelle nuove Indie, dove il mondo civile termina bruscamente per far luogo al territorio delle tribù dei senza storia, accampate oltre l’immaginaria linea di “finis terrae”, nel sud del Mediterraneo. Come vuole la mitologia leghista, pensava di trovarci indigeni variopinti, abbagliati dalla modernizzazione lombarda ed era pronto a piantare bandiere della Padania davanti a barbari accampamenti. In mente aveva benedizioni urbi et orbi con le ampolle d’acqua miracolosa, raccolta apposta dal Po, per esorcizzare i maligni spiriti meridionali. Sognò conversioni di massa ma tornò con le pive nel sacco e la spedizione fu un disastro: i cani non scappavano, la gente non puzzava, l’aria profumava di spezie e fiori e un’atmosfera levantina sfidava la sensibilità celtica del leader della Padania. Finì che Salvini rimediò la figura dell’asino in mezzo ai classici suoni e quel giorno, delusa, la “Padania” titolò: «Salvini torna a Milano. Il Vesuvio ha tradito le attese».
Volendo rimediare, Salvini ha radunato lo stato maggiore ed è stato chiaro: «senza questo maledetto Sud», ha detto ai suoi nel segreto delle riunioni, «nessuno ci toglie di dosso la dimensione locale e non ci servirà a nulla giocare con la pelle degli immigrati. Razzismo, sessismo, guerra tra i poveri e tutti i possibili rigurgiti fascisti, non hanno superato finora il confine di “finis terrae” e non ci sono dubbi: senza il Sud, noi saremo per sempre “Lega Nord” e in mano il Paese non lo avremo mai». Di qui il parto geniale e un oltraggio più oltraggioso delle invocazioni al Vesuvio: Salvini ha scoperto d’un tratto che «a Napoli, come in tutto il Sud, c’è tanta gente perbene». Testuale.
Diavolo! Non se n’era accorto nessuno!
Il leghista non lo sa, ma il fascismo, nato più o meno nella sua Padania ai tempi di un’altra crisi, approdato al Sud per diventare realtà nazionale, dovette mutare un po’ pelle, presentarsi con il cappello in mano e accettare le condizioni di Aurelio Padovani, il napoletano fascista intransigente, che dei camerati del nord non si fidava molto. Conoscesse la storia che intende spiegare a Napoli e scrivere a Milano, saprebbe che Mussolini piegò la testa, frenò la corruttela dei ras settentrionali, pagati profumatamente da agrari e capitalisti settentrionali, per fare più o meno il mestiere che va facendo lui, si impegnò a non imbarcare il vecchio e corrotto notabilato. In poche parole, dovette indossare un abito più civile e inventarsi ragioni morali completamente estranee all’avventura fascista. Poi, certo, il “duce” fece fuori Padovani, misteriosamente ucciso dal crollo del suo balcone in via Generale Orsini, ma venne avanti così l’ala più corrotta e degenerata del movimento.
Oggi l’operazione è molto più difficile. A Napoli il capo dei leghisti viene proprio a cercare notabili, non troverà un Padovani nemmeno a pagarlo e occorre dirlo: persino Mussolini era più colto e più politico di Salvini. Mai come oggi, Napoli e il Sud sono agli antipodi del mondo rappresentato dall’ultimo erede di Bossi. Salvini e i suoi sono di gran lunga peggiori della cavalleria di Caradonna nel 1922; la Lega incarna tutto quanto di negativo la crisi ha prodotto nel corpo del Paese. Napoli, dove provocatoriamente intende sbarcare l’11 di marzo è l’esatto contrario: qui vivono e crescono le sole scelte politiche alternative e di base, le sole vie di uscita dalla crisi che parlino il linguaggio della civiltà e difendano principi di umanità.
Lasci stare le “zecche rosse”, Salvini. Qui, a Napoli, valgono mille volte più di Questori fermi ai tempi di Rocco, che mandano la polizia là dove nemmeno i repubblichini di Salò osarono entrare. Sono il sale della “città ribelle”, insegnano democrazia e smentiscono Gobetti, perché dimostrano che il fascismo non è l’autobiografia degli italiani. Se proprio vuole venirci a Napoli, Salvini, non perda l’occasione: chieda di visitare la tomba di Antonio Pianta, operaio milanese trapiantato a Napoli e suo concittadino, al quale il 28 settembre 1943 una pallottola spezzò il cuore durante le Quattro Giornate, facendone uno dei primi gloriosi settentrionali caduti in terra di Napoli e anticipando il sacrificio di quegli eroici napoletani caduti per la stessa causa nelle altre città italiane.
Lì, davanti a quella tomba, potrà ascoltare nel suo dialetto lo sdegno di un conterraneo, che si fece uccidere pur di impedire che il mondo andasse nella direzione che oggi indicano all’Italia lui e il suo sciagurato partito. Stia tranquillo. Pianta non metterà mano alle armi. Risponderà alla sua provocatoria presenza in città, facendogli prima i nomi dei Napoletani che partirono per il nord e caddero difendendo le sue terre, durante la Resistenza, poi spiegandogli quali sono le responsabilità storiche e politiche che si sta assumendo approfittando della crisi.
Vada lì Salvini, al Cimitero di Poggioreale, se provocatoriamente vuole davvero venire a Napoli. Vada a scusarsi con un milanese antifascista, che si vergogna di averlo come rappresentante della sua Milano e se potesse, l’11 marzo sarebbe certamente in piazza per contestarlo civilmente e invitarlo a riflettere su un movimento totalmente estraneo non solo a Napoli e al Mezzogiorno, ma alla storia, alle radici e alle tradizioni dell’Italia democratica e antifascista.

Giuseppe Aragno
Coordinamento demA

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merola-675Gaetano Rizzo, napoletano del 1899, la generazione mandata a morire sul Piave per gli interessi del capitale, era un pacifico sarto socialista, impegnato nel sindacato. Quando il fascismo prese il potere a suon di bastonate, cercò un contratto e mediò abilmente fino a strappare un accordo, trasferendo nella Corporazione la sua scienza di capolega. Fu tutto inutile. Il regime disegnò il sindacato sul modello del potere e lui si disgustò. Immediata, giunse così la reazione, ma il sarto subì i colpi senza arretrare, attese la sua ora e dal 27 settembre all’1 ottobre del 1943 oppose alle ragioni della forza, la forza delle ragioni umane del lavoro e dei diritti. Armi contro armi, vita contro vita, rivendicò il diritto di uccidere il potere e i suoi mercenari e non fu semplicemente un partigiano contro i nazifascisti. Fu un rivoluzionario e la sua lezione perciò non piace al potere, che continua impunemente ad ammazzare l’arte della vita libera.

Il concerto che, molto in sordina, in verità, Bruxelles dedica oggi al tema dell’Arte e del Potere è, nel linguaggio universale delle note, la messa in scena di un quotidiano e storico dualismo che qui da noi ogni giorno prende la veste multiforme di una battaglia dai mille volti. Una perfetta metafora dello scontro è, sul terreno dello sport,  il grande baraccone del calcio. L’arte, sul manto erboso, è la destrezza, la forza, l’eleganza del Napoli. Il potere è la Juve senza gioco degli scudetti rubati. In questa linea di principio si colloca la recente vicenda bolognese. Gli studenti che occupano una biblioteca universitaria, manifestando così il più profondo dissenso per la mercificazione del sapere, in un mondo che privatizza le biblioteche municipali, sono un’espressione nobile dell’arte della politica. Contro di loro, contro la forza delle loro ragioni, s’è levata, espressione desolante di una sconcertante povertà culturale, la forza bruta del potere.

Qui l’arte sono libri e biblioteche violate e in campo ci sono i mille volti del potere. Quello di un Prefetto fermo ai tempi di Rocco, di un Questore imbarbarito dai suoi ministri di riferimento, di questurini traditori dei propri figli e di un sindaco che arma i suoi scherani di armi proibite.

Anche a Bologna c’è un concerto sull’arte e sul potere. Solo che qui i temi dominanti sono due: da un lato il De Profundis per la democrazia, messo in scena dal sindaco Merola, e dall’altro una sorta di Dies Irae liberatorio, in cui un’arte senza scelta è di per sé rivoluzione. In questo senso, il concerto nostrano ha un protagonista assoluto: Merola, il “democratico”, al quale tocca a buon diritto il titolo guadagnato sul campo, dirigendo l’orchestra; il titolo incontrastato, di “sindaco boia”. Il Partito Democratico, di cui è degno figlio, tripudia. Per il PD, com’è noto, Gaetano Rizzo ha da mettersi l’animo in pace: i repubblichini sono da tempo i bravi ragazzi di Salò.

Si dice che la storia non si ripete. Non è vero, ma Merola e il PD, che ne sono convinti, scopriranno l’errore a proprie spese. Stanno allevando da tempo la nuova generazione di quei Gaetano Rizzo che prima o poi presenteranno il conto, perché, scrive il poeta, mettendo in versi una legge della storia, una salus victsis: nullam sperare salutem. Una sola salvezza per i vinti: non sperare alcuna salvezza. In questo condizioni erano i partigiani sui monti, di fronte all’invincibile armata degli Unni dalla croce uncinata e ai bravi ragazzi di Salò.

Agoravox e Contropiano, 13 febbraio 2017

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1458511252_143La Juve rubacchia.
La Juve rubacchia? Ma che dici? Questo è complottismo, è cultura del sospetto… è una vergogna!
Non sono una vergogna naturalmente, ma cultura del sospetto, anche i due scudetti scuciti dalle maglie per frode sportiva…
Ieri un arbitro ha commesso tre errori, tre rigori non dati. Tutti e tre rigori contro la Juve. Tre errori che salvano la partita di una squadretta tutta muscoli e niente gioco, fregano l’Inter e tengono lontane il Napoli e la Roma.
La Juve rubacchia. La Juve rubacchia? Ma questo è complottismo…

Per i tifosi juventini: non perdete tempo con i commenti.

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dscn4545Un occhio solo, ma non mi lamento: la cataratta è uno dei tanti regali della vecchiaia, però tutto cambia. A mia madre andò male e perse un occhio, a me un chirurgo, veloce come il lampo, ha risolto il problema in venti minuti. Luci di ogni colore, un traffico fastidioso nell’occhio violato, qualche comando secco – “guardi la lucetta!!” – poi, mentre pensi ai bambini dei reparti oncologici e ti chiedi che senso ha la vita, sei già in piedi. Bendato. Dopo una lista di attesa lunga quanto vuole la Regione del “governatore” De Luca, è il momento delle precauzioni noiose, dei colliri non “mutuabili” – chi non può comprarli che fa, perde l’occhio? – e di un farmaco in commercio da tre giorni, che non è facile trovare e puzza maledettamente di accordo tra medici e case farmaceutiche.
A casa, la televisione parla come sempre di Napolitano, uno che vivrà in eterno perché la morte non vuole averci a che fare, e mi domando chi sia davvero questo vecchio senza pudore, questo cumulo di privilegi incartapecoriti, questa montagna di quattrini e titoli ottenuti senza il sudore della fronte, la forza dell’intelletto e opere che abbiano dato lustro a una Repubblica che, in quasi settant’anni di Parlamento, ha premurosamente accompagnato al suicidio, prestando sia l’arma, che i colpi.
Così, con un occhio bendato, con la consapevolezza che Napolitano non lo troverai mai con te in una lista di attesa, la tenerezza per i nove anziani che hanno fatto come me i conti con le piccole e le grandi ingiustizie in cui affondiamo, mi sono sentito in pace con me stesso. Finché potrò, lotterò perché qualcosa cambi, farò le mie scelte, anche quelle inusuali e difficili, com’è accaduto e accade, negli ultimi tempi e riconoscerò, come ho sempre fatto, un solo, inappellabile giudice: la mia coscienza.

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