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Archive for gennaio 2017

napoli-24-gennaio-2017-compleanno-di-aurelio-grossiOggi, 24 gennaio 2017, Aurelio Grossi ha compiuto 98 anni. Ida Mauro, la preziosa e carissima Ida, brava nella ricerca storica, come coraggiosa e appassionata nelle scelte di vita, ha voluto dedicare a lui un po’ delle sue rare giornate italiane e se n’è venuta a Napoli, stamattina, dalla penisola sorrentina. Ha portato con sé dalla sua Barcellona una bandiera  della seconda repubblica spagnola con tante firme di antifascisti italiani e spagnoli, raccolte dall’associazione “AltraItalia”. Non ci sarei andato da Aurelio, se lei non mi avesse chiamato. Con noi, Alfredo Giraldi, che ai Grossi ha prestato a teatro la sua voce, il suo volto e la sue immense qualità di attore.
Aurelio è stato felice di avere visite e l’ho trovato più sveglio e presente di qualcheimg-20170125-wa0001settimana fa, quando il sindaco De Magistris gli ha consegnato la medaglia della città. Non l’avrei creduto possibile, ma è andata proprio così: quando Ida ha tirato fuori la bandiera e gliel’ha data, il volto di Aurelio si è illuminato. Il vecchio combattente di Spagna ha preso tra le mani la bandiera, l’ha guardata con evidente emozione, poi se l’è portata alle labbra e l’ha baciata. Ogni parola sarebbe inutile, stonata e probabilmente retorica. L’ha baciata, poi ha preso a seguire una musica che vive nella sua mente. La mano e la testa hanno accompagnato le note che solo lui può ascoltare e mi è sembrato sereno e in pace con se stesso.
Auguri, Aurelio e grazie per l’indimenticabile lezione di vita e di umanità che ancora una volta hai saputo regalarci. Grazie a te e grazie a Ida, che oggi ha saputo portarmi da te con Alfredo.

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emergenza-freddo-opgIn un mondo che costruisce muri, recinti e campi di concentramento, c’è chi apre porte, abbatte cancelli e cancella recinti. Saviano dice che a Napoli non cambia nulla, ma lui vive lontano e non sa di che parla.
Da quando è cominciata l’emergenza freddo, i giovani dell’Ex OPG di Napoli, in collaborazione con la ormai benemerita associazione Napolinsieme, hanno provato a dare una risposta dal basso ai problemi pressanti di chi, purtroppo, è costretto a vivere per strada. E’ per questo che le porte del’ex manicomio criminale sono aperte ai senza tetto della città.
Se li ascolti, quelli dell’EX OPG ti dicono che hanno imparato tanto, che hanno «scoperto un mondo invisibile, lontano dai riflettori mediatici, che però ci restituisce chiaramente l’immagine della società in cui viviamo, fondata sull’individualismo e l’egoismo, una società che lascia indietro chi, spesso non per sua causa, non riesce a stare al passo con gli altri». Forse non lo sanno, ma questi giovani, che i loro problemi li hanno e non vivono certo una vita facile, stanno insegnando più cose di quante ne stiano imparando; stanno dimostrando soprattutto, con la concretezza dei fatti, che la solidarietà e l’attenzione verso l’Altro non sono parole scritte nei testi sacri della sinistra, ma fanno parte del suo Dna. Un tempo era chiaro a tutti noi: il mondo lo cambi ogni giorno, a poco a poco, vivendo in armonia con le cose che dici. Val la pena di segnalare, perciò, una videotestimonianza di questi giorni e di concludere questa brevissima nota con una considerazione che non è banale: in un mondo come quello di oggi aprire porte significa avere mente aperta e capacità di amare. Ecco perché le porte dell’Ex OPG sono aperte per tutti, tutte le sere dalle 18 in poi!

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a1927bIn archivio lo storico trova spesso nomi di spie e provocatori. A me non piace fermarmi su queste miserie, ma posso dirlo senza temere smentite: dal 1861 ai primi anni Sessanta del Novecento, la polizia ha sempre saputo vita e miracoli dei sovversivi perché tra loro c’erano spie e confidenti. E’ così anche oggi, non ci sono dubbi e l’identikit non cambia: insospettabili, sempre più rivoluzionari degli altri, sempre pronti a citare i testi sacri, sempre col dito puntato: piccolo borghese, riformista o troskista…

Così era Cesare Berti, venuto a Napoli da Santa Croce sull’Arno: a un tempo comunista pericoloso e spia dei fascisti, sparò due colpi durante le 4 Giornate e chi vuoi che si azzardasse a sospettare?  Così era Pietro Paolo Prisciandaro, che denunciava i compagni facendo cenno di sì con la testa, quando erano assieme e la polizia lo pedinava. Così erano tre spie dell’OVRA: Aldo Romano, che aveva rappresentato la cultura fascista – Togliatti ne fece un intellettuale di riferimento del PCI – Vincenzo Villani, detto Enzo, e Socrate, all’anagrafe Vincenzo Vito Lattarulo, che in un colpo solo, a Napoli, mandò in galera 47 compagni.

Qualcuno sapeva? Certo. Togliatti aveva pubblicato l’elenco delle spie dell’Ovra e Amendola credette – o volle credere? – ad Aldo Romano che ammetteva: cose da niente e nessuno mandato in galera. I compagni talvolta sapevano, ma avevano altro da fare. Bisognava distruggere i troskisti, i piccolo borghesi e i riformisti; Reale addirittura indicò quattro compagni dissidenti come pericolosi fascisti. I servizi segreti inglesi, però non gli credettero. Sottovalutiamo troppo le forze dell’ordine. Romano e compagni vissero tra i “nostri” rispettati e ascoltati. I “nemici”, infangati e disonorati, furono cancellati dalla storia. E’ in questo modo che abbiamo perso alcuni dei migliori. Antonio Cecchi, per esempio, pericoloso bordighista – e che altro? – ed Enrico Russo, troskista naturalmente. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

L’elenco potrebbe continuare, ma ora che ci penso l’hanno prossimo, finito il libro che sto per chiudere, sfiderò la sorte e, nonostante gli anni, ci proverò. Le leggi che regolano gli archivi dovrebbero consentirlo: ora si può arrivare anche ai boia della nostra giovinezza e qualcuno ci sarà che ci fa ancora la lezione… Farò l’elenco dei nomi e racconterò le nobili storie. E’ vero, i giovani sono vaccinati, ma ci sono tante cose che non conoscono e tanti falsi miti che occorre sfatare.

 

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Due parole, da cittadino del mondo, che oltre le Alpi è talora “italiano mafioso”, o meridionale in senso leghista e nelle capitali d’Europa si sente dire: “da quelle parti, professore, meglio evitare”. Ho letto l’intervista a Saviano sulla criminalità a Napoli: è sconcertante. Voglio poter credere che Roma senza turisti, o Venezia priva di ospiti stranieri, per lui e per me, vorrebbero dire che a Roma e Venezia è cambiato qualcosa. Che ci chiederemmo perché e magari ci divideremmo, ma non negheremmo il dato di fatto: se non hai più turisti un cambiamento c’è. Di conseguenza c’è anche se i turisti aumentano in modo significativo e sistematico. Per Saviano non è così e mi pare strano.
Si può discutere sul rapporto turismo-legalità ed è vero: illudersi di battere il crimine organizzato con la crescita del turismo è da ingenui. Tirare in ballo la connivenza, però, è gratuita violenza verbale, anche perché, a Napoli, nessuno ha mai detto o pensato che l’incremento del turismo combatte la camorra. E’ il contrario. Chi vive la città con passione civile sa che, per tutelare il segnale di cambiamento che Saviano misteriosamente nega, occorre intensificare la lotta alla camorra. A partire dallo sfruttamento del lavoro che il turismo produce e Saviano ignora. Una lotta che, col rispetto dovuto ai vigili, è ridicolo chiedere alla polizia municipale.
Saviano converrà: la sinistra in città non è formata da un branco di idioti che sogna di liberarsi della malavita a colpi di feste di piazza e pullman di turisti. I napoletani e il loro sindaco sanno bene che ci vuole altro e che, se Alfano e soci, come afferma lui stesso, inviano da queste parti l’esercito “per ragioni di facciata politica” e lasciano tutto com’è, la camorra fa festa. Lo sanno – e lo sa pure Saviano ma non lo dice – che la repressione, ammesso che la fai per davvero, non porta lontano e occorre prevenire, piantarla di far parti uguali fra disuguali, creare opportunità, difendere le scuole dello Stato e via così, con le mille ricette che il meridionalismo invano prescrive dai tempi di Cavuor. Saviano conosce le leggi dello sviluppo duale, perciò sarò chiaro: non ha diritto di violentare la storia.
E’ vero, la pistola che torna a sparare non è un incidente di percorso. “Arrestato un affiliato ce n’è sempre un altro pronto a prendere il suo posto. L’affiliazione è un meccanismo […] economico […] parte del disagio che va oltre Napoli, attraversa tutto il Mezzogiorno e l’Europa del Sud, di cui si tende a parlare poco e male”.
E parliamone allora, invece di sparare nel mucchio. Occorrono lavoro e reddito, forse? Ci vuole politica e formazione? Serve giustizia sociale? E’ questo che dice Saviano? Non so. Non è chiaro. Sono questioni gravi e non capisco se lo scrittore creda davvero che un’amministrazione comunale debba affrontare con i vigili pistolettate, pistoleri, protettori politici e produttori di disperazione, annidati nei laboratori di un aborto della storia che chiamiamo Unione Europea e colpevolmente associamo al nome di Spinelli.
Saviano ricorderà, l’avrà letto: molti decenni fa, con ben altra autorevolezza, Eduardo mutò il finale di un suo celebre lavoro: “’a nuttata nun passa chiù”, scrisse. In tanti come me, giovani di quel tempo, non lo seguimmo. Rispettammo le sue ragioni, ma non lo seguimmo. Stemmo dove Saviano ci ha trovati. Lottammo e lottiamo. Abbiamo perciò diritto di fargli una domanda: davvero crede che sia un caso se le pistole sparino tutte nei vari Sud che elenca nella sua intervista, e siano prodotte nei molti Nord di un tragico “spazio comune”? Quei nord che, nella sua visione del mondo, sembrano il regno dell’innocenza. Se è così, il disaccordo è totale: per me sono parte integrante dei mali dei Sud. Io non dico, però, che Saviano delira. Dico che Napoli non delira e a Saviano chiedo di chiederle scusa.

Agoravox, 7 gennaio 2017; Fuoriregistro, 14 gennaio 2017

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italy_everest_mountain-640x250Conta solo per me, ma per me conta molto.
Non so più quando ho iniziato la scalata, ma tempo n’è passato ed è stata una lunga, estenuante fatica. Sono in cima alla vetta e il libro è finito. Ci metterò ancora tempo perché sono pignolo, ma potrebbe anche uscire così com’è, con o senza di me. Tutto finito, anche il dubbio di non farcela e il timore del lavoro incompiuto, dopo anni di ricerche. Per far festa, scelgo un brano noioso. C’è molto di meglio nel libro, ma stasera, mentre comincia la discesa, voglio ricordare a me stesso i momenti più difficili della scalata. Vai di corsa, ora, vecchio testardo, va giù, con prudenza s’intende, ma va di corsa fino al tepore del campo base. E fermati a stasera. Domani è così incerto e lontano, che non vale nemmeno la pena pensarci. Sei in cima alla vetta. 

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Non è vero che «i fatti parlano» e ci raccontano la «verità della storia». I fatti li creiamo noi e solo noi abbiamo coscienza della loro esistenza. La storia perciò è l’uomo o, se volete, è l’insieme delle risposte che gli eventi danno alle sue domande. Tutto cambia col mutare dei tempi e delle domande, anche le eterne verità, sicché antiche certezze sca­dono al rango di grossolani errori e lontane eresie diventano nobili ve­rità. Non esiste una verità della storia che possa prescindere dai fatti, ma non c’è fatto che non si possa leggere in modi diversi tra loro. Il passato è irrimediabile, non può cambiare, ma ciò che ne sappiamo, la nozione e la comprensione che ne abbiamo, non sono definitive; sono un patrimonio che si arricchisce, si trasforma e si completa ininterrottamente. Ce ne rendiamo conto noi stessi nel breve corso della nostra vita. Chi può dire di conoscere tutto della gente che gli vive attorno? E quante volte un gesto, un evento che ci era ignoto, un fatto venuto alla luce per caso, cambia l’idea che avevamo di persone e cose?
Il passato che proverò a raccontare, leggendo i fatti accaduti a Napoli tra la fine del 1942 e l’autunno del 1943, è stato il presente di uomini che ci hanno preceduti. Questo vuol dire che metterò inevitabilmente in relazione tra loro due «presenti», uno dei quali è «storico», sicché non ne ho esperienza diretta, e un altro, che è quello che sto vivendo. Anche contro la mia volontà, il mio mondo e le mie convinzioni profonde saranno parte in causa nella narrazione; sarò oggettivo, ma non imparziale e lascerò il monopolio della verità ai sacerdoti della storia che ricostruisce ma non interpreta. Non offrirò al lettore immutabili verità. Non è compito dello storico. Lo riconobbe lucidamente Le Goff, ricordando le continue «nuove letture del passato», le «perdite, le resurre­zioni, i vuoti di memoria e le revisioni». I pittori possono avere sulla tavolozza anche solo le gradazioni del grigio e produrre capolavori. La storia della verità, che ha un colore solo, è «figlia di uomini che non pensano» e non produce capolavori: manipola coscienze.

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