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Posts Tagged ‘Marchionne’

3007506Nel quotidiano trionfo dell’ipocrisia, nessuno si meraviglia più se la morte riabilita emeriti cialtroni. Ogni giorno sui manifesti di lutto pessimi padri e disastrosi mariti diventano esempi da seguire. Poiché poi al peggio non c’è davvero mai fine, da un po’ si moltiplicano i casi di uomini d’affari a dir poco discutibili, che la morte conduce difilato alla santità. Siamo al punto che persino un uomo simbolo dello sfruttamento capitalista, uno che non ci ha pensato due volte a spostare la sede legale e fiscale della maggiore azienda italiana nei Paesi Bassi, resa l’anima a Dio, s’è immediatamente aggiunto alla lunga storia dei santi e ora è venerato come Sua Santità Marchionne.
D’altra parte, i confini dell’inferno non sono più un ostacolo nella santificazione dei cialtroni. Diamo tempo al tempo e alla gloria degli altari giungeranno di certo gli uomini simbolo di Amazon, ADP, Alibaba, Alphabet, Booking, Expedia, Facebook, Microsoft, Oracle, Otto, Qurate Retail, Salesforce, SAP, Uber Technologies, Vipshop e Apple. I loro titoli di merito sono miracoli già oggi; accampati dalle nostre parti, infatti, dopo aver fatturato due miliardi e mezzo di euro e ridotto in schiavitù 10 mila lavoratori italiani, hanno lasciato nelle casse del nostro Stato 64 milioni di euro. Una miseria peggiore d’una bestemmia, che in futuro però li aiuterà certamente a formare una serie di nuovi santi.
Poiché si dice ed è vero che qua “nisciuno è fesso”, sull’esempio di Marchionne e della FCA – Fiat Chrysler Automobiles – anche Cementir, Illy, Ferrero, Luxottica, Saipem, Telecom Italia e le grandi partecipate statali come Eni ed Enel – hanno spostato sede legale (e fiscale) in Olanda e in Irlanda, “paradisi fiscali” collocati nel cuore della rigorosissima Unione Europea, che come tutti sanno, “un po’ vede e un po’ ceca”. Una vita da beati, con possibilità di carriera in Paradiso, attende certamente tutta la brava gente che guida queste aziende avendo a cuore l’amor patrio e la sorte dei lavoratori.
Storicamente all’avanguardia nelle cialtronerie del mercato, l’ex Fiat, profittando della tragedia che attraversiamo, si è fatta bene i conti e ci ha provato. L’Italia che ci deve tanto – si è detto l’erede di Agnelli – può mollare quattrini a destra e a manca senza riempire le tasche pure a me?
Detto fatto, juventino già beato e santo di certo alla chiusura dei conti, Jhon Elkann ha chiesto il massimo consentito dal “Dl Liquidità”: il 25% del fatturato registrato dalla società lo scorso anno. Quanto? Sei miliardi e trecento milioni di euro! Allo Stato – quindi a noi – tocca garantire per l’80% del prestito. Vi chiedete che accadrebbe se – Dio non voglia – il beato Agnelli, futuro santo non potesse o non volesse far fede all’impegno? Nella storia dei santi c’è scritto che ci dovrebbero pensare le casse dello Stato. In altri termini, pagheremmo noi.
Il futuro, che abbiamo sperato migliore dopo la pandemia, comincia così e somiglia maledettamente all’imbroglio di sempre; diciamocelo chiaro, perché la verità il libro dei santi non ce la dirà mai: il futuro cambia solo quando i dannati all’inferno danno d’assalto al paradiso e riescono a trascinare nella Giudecca la mala genìa dei santi e dei beati.

Agoravox, 18 maggio 2020

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Pomigliano 2Ricordiamocelo bene, perché non si scherza: Lavinia Flavia Cassaro, l’insegnante che contestò le forze dell’ordine schierate a protezione dei fascisti del terzo millennio, è stata licenziata. Come capitò a tutti i docenti che si azzardarono a contestare la polizia fascista e com’è capitato in questi giorni maledetti a Mimmo Mignano e ai suoi quattro compagni, licenziati perché hanno osato contestare Marchionne, l’amministratore delegato della Fiat.
Ora lo sappiamo: come accadeva negli anni più bui della reazione padronale, un reato d’opinione ti condanna alla fame e niente è più efficace, quando si tratta di imbavagliare il dissenso. Prima di aprire bocca, perciò, teniamolo a mente: criticare i padroni o la polizia, costretta dalla politica a difendere i fascisti dei Casapound, vuol dire rovinare se stessi e la propria famiglia.
Prima di proseguire, però, spegniamo l’entusiasmo dei sostenitori dell’Alleanza per la difesa della “democrazia” minacciata dal Governo Conte. I fatti risalgono agli anni dei ministri del PD, il campione della vicenda Casapound è Minniti e Salvini non c’entra. Il PD, quindi, taccia e si tolga dai piedi.
Ciò che purtroppo colpisce di più in questa brutta faccenda non è l’intento apertamente repressivo. Sono anni che andiamo avanti così e non è vero che Salvini ha aggravato la situazione. Salvini, in realtà, ha molto da imparare da Minniti, che a sua volta potrebbe dare lezioni ad Arturo Bocchini e Guido Leto. Per quanto mi riguarda, ciò che veramente colpisce è la solitudine delle vittime, pari solo all’assordante silenzio della debolissima opposizione politica e sociale a questo governo né più, né meno reazionario degli ultimi governi della Repubblica. Un’opposizione che, tranne Potere al Popolo, è attenta a sfruttare tutte le occasioni possibili per parlare di migranti, ma osserva un religioso silenzio, quando di tratta di lavoro e diritti dei lavoratori. Ieri a Pomigliano i lavoratori che hanno manifestato per l’insegnante e gli operai licenziati- non a caso auto organizzati – inutilmente hanno aspettato gli intellettuali e i politici che ogni giorno parlano di pericolo fascista.
Quando capiremo che la democrazia non si difende con accordi elettorali e comunicati stampa contro i fascioleghisti, ma stando nelle piazze e a fianco delle vittime, nei luoghi materiali della sofferenza e dell’ingiustizia sociale, sarà troppo tardi. Chi aspetta, o finge di aspettare il manganello e l’olio di ricino, stia tranquillo comunque: la reazione governa da tempo e non ha certo bisogno di camicie nere.

Fuoriregistro, 24 giugno 2018; Agoravox 25 giugno 2108

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Riprendo, senza nulla aggiungere, un articolo che fa parte della newsletter dei Clash City Warkers. La domanda che viene spontanea è una, apparentemente banale, ma fondamentale: perché la grande stampa ignora tutto questo? Perché tanto spazio per il meteo e per l’indice mibtel e un silenzio così ostinato sulle persone in carne e ossa e sulla loro immensa dignità? A che servono oggi giornali e televisioni? A incensare i padroni? A farci pagare una tassa per telegiornali che non vogliamo vedere? 

Da una parte turni massacranti, straordinari obbligatori, trasferimenti forzati. Dall’altra cassa integrazione, esuberi annunciati, licenziamenti mascherati da mancati rinnovi. Questo avviene in questi ultimi mesi nei diversi stabilimenti Fiat, da quando è sdoganato il modello Marchionne.

O anche nello stesso stabilimento, come quello di Cassino, dove sono iniziati i primi licenziamenti (ops mancati rinnovi) per i centinaia di interinali presenti e al contempo continuano i trasferimenti forzati da Pomigliano verso lo stabilimento laziale! Per La Repubblica questi sono processi “fisiologici” nell’azienda Fiat. Per chi viene spremuto in linea di montaggio, per chi deve rinunciare a stare con la famiglia la Domenica, per chi si ritrova a fare le notti, per chi di punto in bianco si trova senza lavoro o a stipendio dimezzato, di “fisiologico” non c’è niente.

Le cose allora sono due: o noi ci adattiamo alle esigenze dispotiche di aziende assetate di profitti, oppure le costringiamo ad adattarsi alle esigenze della nostra vita, visto che si riempiono la bocca di parole come “flessibilità” – che evidentemente è a una sola direzione.

sciopero fcaPer questo la giornata di lotta di oggi davanti alla Fiat di Cassino organizzata da diverse sigle del sindacato di base – che segue gli scioperi molto riusciti dei trasferiti da Pomigliano -, era una giornata importante, anche nelle sue dimensioni ridotte. E che ha registrato momenti significativi di solidarietà da parte degli altri stabilimenti, non solo attraverso le varie rappresentanze presenti, ma anche per le discrete adesioni allo sciopero arrivate sin da Mirafiori. Questa giornata dimostra che c’è ancora chi resiste al modello Marchionne, ora che questo si esprime con tutta la sua violenza e dilaga nell’intero mercato del lavoro. Ancor più importante, indica una via da seguire per trasformare la rabbia che cova tra chi ne sta subendo gli effetti perché si trasformi in lotta e non in senso d’impotenza o, peggio, in gesti di violenza contro sé stessi – come nel caso dei diversi cassintegrati suicidi. Visto che a questa rabbia i sindacati confederali hanno rinunciato a dare ascolto, dicendo addirittura che va tutto bene.

Per questo La Repubblica termina il suo articolo parlando delle limitazioni del diritto di sciopero, delle varie beghe sulla rappresentanza sindacale… perché il timore che la corda stia per spezzarsi agita i sogni felici di padroni e portavoce.

Questa giornata insieme a quelle di sciopero di domani e dopodomani a Termoli contro gli straordinari obbligati nel weekend, possono allora essere un inizio. Al modello di sfruttamento e arroganza di Marchionne dobbiamo cominciare a opporre il nostro modello, l’unico razionale in un mondo sviluppato, ricco (per pochi) eppure pieno di disoccupati, mentre chi lavora si ammazza di fatica: lavorare meno, lavorare tutti!

Qui sotto vi riproponiamo il video che realizzammo l’anno scorso proprio in sostegno della lotta dei lavoratori FCA contro i “sabati comandati”. Che sia di buon auspicio per lo sciopero di domani e per il proseguimento della lotta contro il “Modello Marchionne.

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downloadLe parole grondano storia e perciò sangue, dolore e ingiustizia sociale. Quando dici filisteo, per esempio, non pensi più semplicemente al figlio di un antico popolo indoeuropeo che viveva lungo la linea del mare nella terra di Canaan, là dov’è oggi più o meno la sventurata striscia di Gaza. Quella gente, che ormai non c’è più, vive ancora in una parola che la condanna a un’infamia per ciò che è stata nell’immaginario collettivo. Filisteo fu Golia, il guerriero gigante che aveva dalla sua le ragioni della forza e le metteva in campo con ferocia per schiacciare la forza della ragione e la rive indicazione dei diritti. Filisteo fu Golia, il gigante senza pietà, che sfidava gli oppressi:

  • – La libertà che volete è sulla punta della mia spada, diceva, e la ragione non c’entra. Se davvero desiderate di essere liberi, venite a provare la mia lama.

Una sfida infernale che pareva perduta in partenza. Golia aveva armi, forza, potere, leggi scritte e non scritte e gli era complice un mondo. Due metri di muscoli addestrati alla guerra e tutto intero un sistema di potere schierato a suo favore. Quante volte vinse? Quante volte morsero la polvere le ragioni del diritto e l’umanità coraggiosa e dolente degli sfidanti? La storia non lo dice, ma oggi, quando dici Golia, dici filisteo e vuoi dire “gretto, reazionario e vigliacco. Borghese, nel senso peggiore della parola.
Marchionne è il filisteo del secolo nuovo. Vecchio come la storia, tragico come il mito, eterno nella vergogna. Quello d’un tempo fini nella polvere con una sassata ben assestata. Lo uccise Davide con una fionda e lo condannò alla sconfitta.
Se Mimmo Mignano e i suoi compagni sono destinati a perdere o a trovare la fionda e il colpo per mettere in ginocchio l’ultimo filisteo, non dipende solo dal loro coraggio e dalla pietra aguzza che tireranno.  Quando Davide giunse al campo per sfidare il gigante ottuso e arrogante, ci trovò un esercito di fratelli armati che gli fece coraggio. Mignano ha bisogno di compagni che smettano di sentirsi piccini perché sono in ginocchio. Compagni che si alzino in piedi e facciano quadrato, mettendo mano alla loro storia e alle loro risorse. Mignano è di Napoli e la città sarà davvero «ribelle» solo quando metterà in campo per loro tutto quanto la nostra storia ci ha insegnato: la solidarietà, il mutuo soccorso e la disobbedienza. Da troppo tempo diciamo che le regole imposte con la forza di un potere illegittimo vanno disattese. Bene. Un sasso alla fionda allora lo possiamo mettere ancora: portiamo in piazza ogni giorno la protesta per la difesa della Costituzione e ignoriamo le leggi filistee: basta con i patti di stabilità, basta con i pareggi di bilancio, basta con i divieti di assunzione. E se dovessimo perdere il referendum, basta con tutto, anche con le tasse pagate a Roma. Nessun soldo, nessun sì, nessuna regola che non sia la nostra. Abbiamo ancora un sasso: tiriamolo forte e tiriamo diritto.

 

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Le cose stanno più o meno così:

Copia di ImmagineRenzi è la manifestazione concreta di una gravissima malattia della democrazia e non lo vuole nessuno.
Renzi è il peggiore e più feroce nemico del popolo italiano; è il boia del suo stesso partito. Dei giovani soprattutto. Perde, perciò, nonostante lo sostenga una stampa peggiore di quella fascista.
Senza Renzi, a Roma ci sarebbe Marino e la Costituzione non sarebbe stata violata.
Senza Renzi, l’amico di Marchionne, a Torino Fassino avrebbe probabilmente vinto.
Senza Renzi, a Napoli il PD avrebbe perso con un minimo di dignità.
Il governo conserva per ora una maggioranza in Parlamento, ma essa di fatto vive esclusivamente nel Palazzo, dove sta in piedi , a condizione che pratichi rapporti contro natura con la feccia prestata da un pregiudicato affidato ai servizi sociali.
Il governo Renzi-Alfano – nei fatti governo Verdini – è maggioranza nel Parlamento – maggioranza di bancarottieri inquisiti, lobbisti di formazione fascista, analfabeti di valori, mezze calzette e venditori di fumo – ma è minoranza sparuta e squalificata nel Paese.
Il PD è irrecuperabile. Ha il popolo contro – anche il suo – ed è un pericoloso suscitatore di odio.

Questo quadro osceno si inserisce nella cornice di un Parlamento di «nominati» privi di legittimità morale e politica. Tutti i parlamentari, infatti, compresi quelli a 5 Stelle, sono accampati nelle Camere come abusivi e portoghesi e le conseguenze logiche sono evidenti: il solo politico che non abbia nulla da spartire con questa vergogna è Luigi De Magistris; il suo movimento è figlio dell’unico laboratorio politico sperimentale che abbia le carte in regola con la Costituzione di Calamadrei e compagni. «Controllo popolare», la formula politica che ne sintetizza l’ispirazione, non è uno slogan populista, ma il primo prodotto di un laboratorio, un modello riproducibile su scala nazionale e in ambito mediterraneo.
Napoli non è la capitale della protesta apolitica, impolitica o antipolitica, come scribacchiano i pennivendoli del Minculpop, ma si propone come punta avanzata di un esperimento politico serio e consapevole; un baluardo contro il «sistema Napolitano» e, di conseguenza, la capitale del fronte del no alla riforma della Costituzione. I neosquadristi renziani di Montecitorio se ne facciano una ragione: De Magistris è il leader politico di un movimento che non è protesta qualunquista, plebea o sanfedista, ma la sola, possibile alternativa politica ai proconsoli dell’antieuropa. Quella Europa che, nel senso «spinelliano» della parola, non ha per riferimento il neofascismo di Bruxelles, rinasce a Napoli e si contrappone all’Europa golpista delle banche e del capitale finanziario, che massacra i popoli e ha torturato e tortura la Grecia. A Napoli vive e cresce una concezione della politica che è l’esatto contrario dell’Unione autoritaria e neoliberista , nel cui nome ogni giorno si massacrano gli immigrati e le classi subalterne. Un’Europa che purtroppo non può essere riformata. Napoli derenzizzata è la capitale di una per ora piccola, ma vitale Europa detedeschizzata; il modello dell’Europa da costruire.

Il primo appuntamento è a ottobre, ma occorre una premessa: al referendum non si voterà sulla qualità della nuova sedicente Costituzione, un aborto semifascista che nessun “sì” potrà mai legittimare. Si va a dire a Renzi che un avventuriero, un proconsole dell’Europa delle banche, che disprezza la Costituzione e la democrazia, se ne deve andare subito, assieme al suo illegittimo Parlamento. Sia l’uno che l’altro viaggiano a occhi chiusi e fuori controllo contro le ragioni della storia. Non a caso nelle piazze francesi in lotta si è diffuso uno slogan: non faremo la fine degli italiani. Questa vergogna non può durare.

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DSC2838«Notte in piedi». Così si chiama il movimento cittadino nato in Francia a fine marzo, in seguito alla prima manifestazione di protesta contro la sedicente «nuova» legge sul lavoro francese.

Come tutti ormai ben sanno, le «nuove» leggi sono antichi intrugli liberisti che fanno molto bene ai padroni e molto, molto male ai lavoratori. Prima a Parigi, poi in numerose città della Francia, sono scoppiati violenti scontri, ma la feccia borghese ha dato il meglio di sé, affermando che la lotta di classe è finita. Parola di Marchionne. Il cane più addestrato dei padroni vive ormai su un altro pianeta. Cecità, direbbe Saramago.

Io, che a Parigi qualche amico ce l’ho, so di violentissimi scontri, di una forte risposta di popolo all’ennesimo tentativo di cancellare diritti e di una violentissima reazione preventiva governativa. Lo so, ma non entro nel merito. Per una volta i fatti parlano da soli e ripetono in modo lucido e ordinato cose che tutti sappiamo:

1) I «terroristi» uccidono al Bataclan :
2) Si scatena la caccia ai diritti.
3) Il «socialista» Hollande non chiede ai francesi se hanno più paura di stupidi killer che lo lasciano vivo anche quando va in motorino a trovare l’amante, o del suo governo assassino e dei suoi massacri libici e siriani. No. Decide di «proteggere i francesi» e per farlo… sospende le libertà democratiche!
4) Gli Hyxos, con eccezionale tempismo, tornano nel nulla da cui erano venuti e si scopre che il governo della legalité e liberté, fucilate al Bataclan, aveva già pronta una legge che spara a palle incatenate sulla egalité.

Senza il Bataclan, non sarebbe stato facile fare i conti con lavoratori e studenti, ma protestare ora non si può, perché Hollande difende la Repubblique dai complici venuti dal nulla. Altro che Bataclan: è un liberticidio, un genocidio dei diritti, una macchina del tempo che riporta a un tempo di orrori dimenticati. Siamo tornati all’Europa com’era prima della Bastiglia. Notte in piedi nella buia notte fonda.

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marchionne-suicidioMimmo Mignano, operaio Fiat, licenziato per un manichino appeso che, dopo tanti suicidi di operai, metteva in scena un finto suicidio di Marchionne, è esempio di coraggio, dignità e umanità. Mi “tagga” su facebook e di fronte alle sue parole mi vengono in mente le mie mille storie di antifascisti perseguitati. Domani, scrive,  alle

ore 13,00 ingresso 2 Fiat pomigliano ASSEMBLEA PUBBLICA
Il 5 aprile al tribunale di Nola i 5 licenziati politici della Fiat saranno nuovamente processati per aver denunciato i suicidi avvenuti in un reparto confine come quello di Nola . Un processo che vede imputati 5 operai per aver esercitato il diritto di critica, di satira, e di espressione, un diritto che la Fiat in vuole far passare tramite una sentenza, come legge. Assemblea con megafono aperto, un megafono che deve denunciare i soprusi, le ingiustizie, che oggi sta subendo la classe operaia, denunciare senza se e senza ma le espulsioni che i compagni Destadis e gli altri hanno subito dalla più infame giustizia interna sindacale, ma tutto questo non basta. La solidarietà da sola non basta
.

Per me purtroppo sta diventando molto difficile andare oltre la solidarietà e partecipare fisicamente, come vorrei e come ancora farò quando e finché poterò. Questione di età e soprattutto di malanni, che però passeranno. Tuttavia, non lo dico per dire: ci sarò veramente con la testa e con il cuore, perché questo processo, questa storia di prepotenze, questo gioco vigliacco che devasta la vita dei lavoratori e disprezza la loro immensa dignità, mi fa veramente schifo. E schifo mi fanno Marchionne e i padroni della Fiat. Fascisti, più fascisti del fascista Valletta.

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rivoluzIl 26 maggio del 1927, nel discorso dell’Annunziata, Mussolini, che di reazione s’intendeva più degli intellettuali della nuova destra, presenta l’Italia come «una democrazia accentrata, […] nella quale il popolo circola a suo agio, perché, afferma, o immettete il popolo nella cittadella dello Stato, ed egli la difenderà, o sarà al di fuori e l’assalterà». Come l’Italia d’oggi, il fascismo non era una democrazia, ma i profeti della «governance» nel trionfo della post democrazia ignorano persino la lezione del duce: conservatore o progressista, chi sente nemico lo Stato entra in conflitto con le Istituzioni che non lo rappresentano. In un punto, però, la polemica sulla «sinistra conservatrice», animata da intellettuali attenti alla nuova scala delle gerarchie sociali, coincide con i temi del dibattito politico di quegli anni di crisi: anche allora, di fronte al dilemma inquietante – «o trasformarsi o perire», per dirla con Alfredo Rocco, la borghesia imboccò la via della violenza, addossandone la colpa alle utopie egualitarie dei ceti subalterni.
Per ingabbiare i processi dialettici di un corpo sociale in ebollizione, però, al duce servì quel Codice Rocco che noi oggi abbiamo, sicché, mentre i proconsoli dell’Impero smantellano la Costituzione antifascista, il sistema di regole che strangola il conflitto – l’«indisciplina collettiva» direbbero Rocco, Macrì e Saviano – è entrato subito in gioco, come ben sanno gli operai di Terni. Sul versante sociale, quindi, l’«autoritarismo democratico» di Marchionne, Monti, Fornero, Sacconi e – buon ultimo – Renzi, non ha avuto problemi e senza colpo ferire Squinzi ha salutato la Caporetto dei sindacati. Lo Stato, uscito dall’agnosticismo in tema di lotta di classe, è in campo coi padroni e il Corporativismo è nei fatti.
Si può anche ignorarlo, ma è un dato di fatto: chi definisce il conflitto «conservazione» riprende la polemica sul sindacato «passatista», tant’è che ascoltare Renzi è come leggere Bottai, che ai suoi tempi diceva: «Doveva essere entusiasmante mettersi alla testa del proprio Sindacato e affermare la battaglia sulla piazza» ma «oggi questi argomenti non servono più a nulla, perché la forza è nello Stato e solo nello Stato». Anche oggi, si afferma che il conflitto tende alla «conservazione» e gli si oppone il vento della «Rivoluzione, […] lo stabilirsi di una nuova morale e di una nuova politica». Cosa sia stata negli anni Venti, in tempo di crisi, la «rivoluzione» cui tornano oggi Renzi e gli intellettuali della nuova destra, fu presto chiaro: il trionfo dei «rivoluzionari» in camicia nera sugli operai rossi e conservatori non «modernizzò», né creò l’impossibile riequilibrio tra «uguaglianza» e «mercato», che oggi si riesuma dal peggiore armamentario liberista. Consentì, questo sì, grazie al manganello e al Codice Rocco, la riorganizzazione dell’economia, sbilanciata in senso finanziario, e una ristrutturazione industriale sulla pelle dei lavoratori, ma dimostrò l’incompatibilità della democrazia col capitale finanziario e consentì a Grifone di denunciare «la mitologia delle necessità oggettive, del primato della tecnica e delle soluzioni obbligate», strumenti ideologici di politiche creditizie e monetarie tese a far sì che «le scelte del potere si ammantino, assai più che le scelte produttive, di un falso velo di necessità oggettiva».
E’ facile oggi, in una grave crisi della democrazia, spacciare per «riforme istituzionali» le tappe di una svolta autoritaria, utilizzando concetti astratti come progressismo e conservazione. La verità è che il conflitto sociale è sotto processo, perché sotto processo è la democrazia. Poiché non si può negare che il movimento operaio, pagando con la galera e col sangue, conquistando potere in fabbrica e nelle compagne, costringendo i padroni ai contratti, ha legittimato e consolidato la democrazia, si alimenta nell’immaginario collettivo la falsa convinzione che la forza della sinistra italiana del Novecento, pur rispettando le regole, abbia alterato il rapporto sviluppo-eguaglianza e spezzato il nesso Stato-mercato. Più che storia, però, questa è mitologia.
Mito è la borghesia liberale «tollerante», perché, senza tornare a Crispi o ai connubi col fascismo, fermandosi ai primi vent’anni di repubblica, la «tolleranza» lasciò in piazza un centinaio di morti e dal 1946 al 1966 produsse 15.000 perseguitati politici, riconosciuti da una legge dello Stato. Una classe dirigente così arrogante da processare i giovani cui lascia un Paese di gran lunga peggiore di quello ricevuto in eredità, definendoli conservatori, è ingenerosa e irresponsabile. Un giovane oggi è per forza di cose conservatore: lotta per conservare almeno parte dei diritti di cui ha goduto chi oggi si erge a giudice mentre glieli nega. Né, del resto, progredire è sinonimo di migliorare: si può anche avanzare verso il peggio e a contare non è la direzione di marcia, ma i valori di riferimento. Se la civiltà arretra di fronte alla barbarie, si progredisce arretrando.
Su un punto occorre esser chiari: chi processa la sinistra, in nome di valori liberali e liberisti, rischia di muoversi verso la melma crispina, gli spettri del ’98, i modernizzatori alla Mussolini e i cialtroni che tollerarono Hitler per scagliarlo contro i bolscevichi. Per Mussolini e i fascisti, Gramsci fu conservatore, lo scrissero mille volte e videro il progresso nelle Corporazioni e la conservazione nel sindacato di classe. Proprio come oggi. Di questo passo, i giovani finiranno sovversivi, ma non sarà conservazione: sovversivi furono Gramsci e Pertini. Se un Paese ripudia i valori della Costituzione e cancella dal suo orizzonte persino Montesquieu, è fatale: i progressisti veri diventano banditi come i partigiani. Si può giocare con le parole quanto si vuole, ma il progressismo di Marchionne esiste solo se manipoliamo la storia per fare la morale ai giovani che non si rassegnano. La storia ci dice che quando Cesare è il progressista, Bruto mette mano al pugnale; quando il pane del popolo sono i dolci della regina, la ghigliottina cala inesorabile; quando il progressismo colpisce la povera gente e si arrocca al sicuro nel Palazzo d’Inverno, i giovani diventano così conservatori, da schierarsi con giacobini e bolscevichi, bruciare la Bastiglia e portare il ferro e il fuoco negli stucchi e negli ori di Pietroburgo. Si dirà che sono violenti, ma è una menzogna. I giovani odiano la violenza, ma non intendono subirla inerti. Perciò oggi sono conservatori: conservano il diritto alla legittima difesa.

Uscito su Agoravox e Fuoriregistro il 21 novembre 2014 e su MenteCritica il 24 novembre 2014

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L’ho incontrato per caso, in archivio, Benedetto Croce «sindacalista» e ho capito perché l’autunno napoletano del ‘43 non sarà mai lezione di storia: ci direbbe quanto passato vive nel presente e com’è vecchio talora il nuovo che si vende all’incanto. Molto più comodo per il potere una Napoli che, nonostante le Quattro Giornate e decenni di lotte, rimanga per sempre «milionaria» come la vide Eduardo nel ‘45: palcoscenico di periferia sul quale si agita, sotto la cipria delle prostitute, il verminaio di Malaparte. In scena, cialtroni caduti e tornati in sella, uomini senza dignità e «segnorine» in offerta per i «liberatori». La pelle da salvare, insomma, costi quel costi, in una realtà che si colloca fuori dal tempo storico – ieri «Peppe ‘o cricco», oggi «Gennaro ‘a carogna» – in un dopoguerra senza guerra, in cui – spiegano i pennivendoli di regime – la crisi incalza e il meglio è rassegnarsi, barattare salute e dignità con un pezzo di pane e vendere l’anima ai Berlusconi e ai Renzi, che la provvidenza non nega a nessuno. Eppure, dopo una grande rivolta di popolo, l’inferno napoletano è in miniatura l’Italia che verrà: mercato per scampoli di potere e paradisi promessi da «unti del Signore». A ricordarlo, quell’inferno, parli di ieri e però pare oggi.

E’ l’alba della Resistenza. Nell’aria infetta, un vento nuovo porta con sé la voglia di tornare a vivere. Così forte, annoterà Calvino, da vincere la paura della morte e far pensare «alla vita come a qualcosa che può ricominciare da capo». Gli «uomini della provvidenza» non nascono dove un popolo, in bilico su un filo teso tra speranza e tragedia, prova a chiudere i conti col passato e le armi scrivono la storia col sangue. Li trovi, piuttosto, dove si disegna il futuro, dove reti di contropotere e partecipazione popolare sono il motore del Paese e minacciano di rompere col centralismo romano e con Parlamenti che rappresentano gli eletti invece degli elettori. Un disegno temibile per chi difende antichi privilegi, rifiuta una democrazia di base e non riconosce un «ethos politico» ai ceti subalterni. Temibile per chi sente che la svolta è invitabile e gioca abilmente le carte vincenti nella nostra storia: paternalismo, trasformismo e «continuità dello Stato».
Mentre a Nord si lotta, Napoli diventa così laboratorio politico e incubatrice delle Repubblica e non a caso l’inedito «exploit sindacalista» di Croce, vate di un antifascismo così moderato, che fino al 1925, con Matteotti ancora caldo, vota la fiducia a Mussolini, si consuma a Napoli, dove un popolo armato ha sconfitto i nazifascisti. Croce «scende in campo» nel novembre del ‘43, quando Armido Abbate, reduce delle Quattro Giornate e perseguitato politico, senza chiedere visti a una Questura che l’ha sempre sorvegliato per conto dei fascisti, riunisce i ferrovieri in un’assemblea che intende organizzare «tutti i lavoratori del traffico (tramvieri, filotranvieri, portuali e servizio taxi) in Sindacato» e fissare un principio: «licenziamento per chi durante il regime ha compiuto soprusi o ricoperto cariche politiche» e assunzione «dei ferrovieri licenziati perché antifascisti».

Se gli «scugnizzi» sono folclore e va bene decorarli, i combattenti che presentano il conto e mettono in discussione le gerarchie sociali fanno paura; non fa meraviglia, perciò, che il 17 dicembre, alcuni «ferrovieri aderenti al Partito Liberale, presieduti dall’Eminente Maestro Senatore Benedetto Croce, riunitisi in Assemblea Generale», si rivolgano al Prefetto per porgere a «Sua Eccellenza personali ossequi» e comunicargli ch’è nata «l’Unione Liberale Ferrovieri Italiani per riunire tutte le forze fattive e disciplinate della classe ferroviaria, ispirandosi al sentimento di libertà e del dovere». «Divide et impera». L’idea crociana di sindacato è così attuale, che, a ben vedere, ci scorgi l’ombra di Marchionne e il suo intento è chiaro: riesumare il Paese sepolto dalle lotte dei lavoratori. In programma c’è l’Italia dei «padri degli operai» – non a caso l’avremo davvero un «presidente operaio» – una democrazia solo delega e niente partecipazione, il conflitto sciolto nell’acido della collaborazione, come chiede l’immancabile «ora storica», sacrifici imposti a chi paga coi diritti una libertà «condizionata» dalle gerarchie sociali. Svaniti nel nulla gli «scugnizzi», presunti protagonisti della recente insurrezione, per i «ferrovieri liberali» parla Alberto Bouché, altro reduce di quelle Quattro Giornate dal volto sempre più politico: c’è da decidere il destino dei fascisti. Mentre Giovanni Leone prepara la difesa in Tribunale, Arangio Ruiz chiude la discussione: per i ferrovieri liberali esistono limiti precisi «a un’opera che deve tendere a colpire solo i veri responsabili della tirannia fascista».
Delega di poteri, legittimazione politica che passa per gli uffici di Prefetti ancora fascisti e, quindi, continuità dello Stato, nonostante la micidiale contraddizione di un legame con l’Italia fascista, sono le fondamenta su cui Croce e la DC alzano il muro contro cui si infrangono i programmi della Resistenza e l’azione dei CLN. Nei gangli dello Stato il personale fascista lavora indisturbato: Azzariti, ex Presidente del Tribunale della razza e incredibile consulente di Togliatti per l’epurazione, sarà Presidente della Corte Costituzionale, sicché un fascista giudicherà le leggi della Repubblica antifascista, che lascia vivere il Codice fascista di Rocco. Sarebbe solo storia, se d’un tratto, nel cuore d’una crisi di regime che propone condizioni da dopoguerra, dopo elezioni illegali che hanno negato la sovranità popolare, il principio letale della «continuità» non riemergesse dal nulla e, a dispetto delle pessime prove, non ci fosse da fare un’altra volta i conti con la necessità tecnica e giuridica della sopravvivenza dello Stato, col suo volto repressivo e antidemocratico e l’anima classista storicamente definita: servizi segreti, polizia politica, segreto di Stato, ragion di Stato, leggi eccezionali che sospendono di continuo la Costituzione, legalità in conflitto con la giustizia sociale e chi più ne ha più ne metta. Un inganno che si autoassolve e assolve i crimini che compirà.

Non è un caso che oggi, mentre il filo che lega presente e passato si snoda chiaro davanti ai nostri occhi impotenti, mentre la cronaca nera incrocia ogni giorno quella politica, un’onda di fango, calata ad arte su Napoli, rubi la prima pagina all’inquietante raid di neofascisti armati, che hanno potuto sparare impunemente e seminare il panico nelle vie della capitale. Dov’era a Roma la «Stato di diritto»? Com’è che sul banco degli imputati finiscono Napoli e la sua nobile storia e nessuno chiede conto di una vicenda così oscura al questore e al prefetto di Roma? Dov’erano i tanti poliziotti scatenati il 12 aprile, a Piazza Barberini, contro ventimila manifestanti autorizzati e improvvisamente spariti con ottantamila persone in strada? Perché si militarizza la democratica Val di Susa e si lascia mano libera ai neonazisti?
Persino Benedetto Croce, che nella sua breve esperienza di sindacalista fu per una democrazia moderata, punterebbe il dito sul mostro che, senza rabbrividire, i suoi eredi liberali chiamano «democrazia autoritaria» e si stupirebbe del pericoloso estremismo di moderati che mettono mano alla Costituzione, ma si tengono caro il Codice Rocco.

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UpkPfA5XLji9ItupHhox8NDchMwP6qDUXvSbyMdXUGo=--Nelle scuole s’è saputo? Per l’11 aprile, su mandato dell’assemblea nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori «precari» di scuola statale, tenuta a Roma il 19 gennaio, l’Unione Sindacale Italiana ha proclamato lo sciopero generale del settore. E’ difficile dire in quante scuole la «notizia» stia passando, ma saranno mosche bianche e, per favore, niente storie alla Marchionne sulla pervicace vocazione al conflitto e la reale o presunta «rappresentatività» d’un sindacato. Nemmeno se simili oscenità avessero cittadinanza in democrazia, sarebbe legittimo invocarle a giustifica di un silenzio massmediatico che sa di censura. In tema di «rappresentatività», poi, «pesi e misure» sono ormai volgarmente truccati. Non fosse così, come sarebbe potuto accadere che scuola e università disastrate finissero in mano a una ministra disastrosa come la Giannini? Ce l’ha imposta «Scelta Civica», un partito sparito dalle statistiche sul voto, perché non rappresenta neanche se stesso, ma alle Camere, grazie a una legge elettorale illegale, ha quanto basta di «nominati» per tenete in pugno un filo che regge il pupo fiorentino. E il telesvenditore della Repubblica lo sa: se il pugno s’apre, lui va giù a valanga e toglie il disturbo recitando i versi del suo grande conterraneo: «io venni men così com’ io morisse. / E caddi come corpo morto cade».
Silenzio, quindi, che il nemico ascolta e guai a chi parla! Nessuno sappia che la scuola lotta perché si applichi il dettato Costituzionale che pupi, pupari e compagnia cantante stanno cancellando; lotta per chiedere il potenziamento delle scuole d’infanzia e primarie pubbliche e afferma ciò che tutti sanno: i soldi ci sono e non occorre sceneggiare romanzi d’appendice sull’asta del «parco auto blu»; basta evitare scialacqui per il rafforzamento del «parco cacciabombardieri». La scuola lotta per miglioramenti salariali, dopo l’eterna manfrina dell’«Europa che lo vuole», come Dio volle le Crociate – «alta voce Franci omnes simul exclamaverunt: Deus hoc vult, Deus hoc vult» – e chiede di piantarla col trucco dell’Europa che ci chiede sempre tutta l’unità possibile, poi, in preda a non sai quale precoce arteriosclerosi, dimentica l’europeismo dei diritti, a partire da un contratto europeo sulle retribuzioni. Per questo lotta la scuola, molto più europeista di Monti, Napolitano, Renzi e la Giannini. Lotta – e non sarà uno scandalo, si spera – perché si torni a meccanismi di automatico aggiornamento salariale rispetto alla dinamica dei prezzi e al «costo della vita», che non è un’invenzione bolscevica; lotta per la civiltà del lavoro, che è anche diritto alle ferie o alla loro retribuzione per il personale a tempo determinato; si batte, la scuola, soprattutto per l’applicazione di leggi e disposizioni sui contratti a tempo determinato e la stabilizzazione del precariato utilizzato. Anche qui più europea dei sedicenti europeisti alla Napolitano, che puntualmente ignora nelle sue torrenziali esternazioni che la Commissione Europea si è più volte pronunciata contro l’abuso dei contratti a termine che da anni Berlusconi, Berluschini e comunisti pentiti utilizzano senza limiti, barbaramente, in totale disprezzo delle indicazioni e della normativa UE che qui da noi si applica con rigore se colpisce il lavoro e si ignora bellamente se lo tutela.
Sarebbe da prima pagina la notizia che la Commissione ha più volte chiesto ai tre ultimi governi – Napolitano Monti, Napolitano Letta, Napolitano Renzi – se «per garantire una certa flessibilità negli organici della scuola e far fronte, senza oneri eccessivi per lo Stato, a variazioni imprevedibili della popolazione scolastica sia veramente necessario […] ricorrere ad una successione di contratti a termine senza alcun limite quanto al numero dei rinnovi contrattuali e alla durata complessiva del rapporto». Si potrebbero riempire colonne sotto titoli a caratteri cubitali con le parole di un’Europa che il circo mediatico ignora, forse perché farebbero più danno di cento manifestazioni No Tav e non gli puoi mandare l’esercito di occupazione. Un’Europa che non chiede sacrifici e con inusitata chiarezza dichiara impossibile «ritenere che la legislazione italiana sul reclutamento del personale docente e ATA a termine contenga criteri obiettivi e trasparenti […] risponda effettivamente ad un’esigenza reale e sia atta a raggiungere lo scopo perseguito». E ne ricava la logica conclusione: «il ricorso a contratti a termine successivi per la copertura di vacanze in organico che tale legislazione consente non può pertanto considerarsi giustificato da ragioni obiettive». E allora perché si fa? E’ chiaro come la luce del sole che non si tratta di soldi. E’ che la scuola statale, per quanto ridotta allo stremo dalla sedicente «riforma Gelmini», costituisce ancora un intoppo per un disegno reazionario che utilizza la crisi come corpo contundente. In quanto fucina di pensiero critico, va perciò demolita. E’ questa la condizione «sine qua non» per la realizzazione della svolta autoritaria che l’asse Renzi- Berlusconi spaccia per «riforma istituzionale».
Un tempo si mettevano in piazza i blindati. Ora si massacra il sistema formativo.

Uscito su Fuoriregistro il 2 aprile 2014

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