L’ho incontrato per caso, in archivio, Benedetto Croce «sindacalista» e ho capito perché l’autunno napoletano del ‘43 non sarà mai lezione di storia: ci direbbe quanto passato vive nel presente e com’è vecchio talora il nuovo che si vende all’incanto. Molto più comodo per il potere una Napoli che, nonostante le Quattro Giornate e decenni di lotte, rimanga per sempre «milionaria» come la vide Eduardo nel ‘45: palcoscenico di periferia sul quale si agita, sotto la cipria delle prostitute, il verminaio di Malaparte. In scena, cialtroni caduti e tornati in sella, uomini senza dignità e «segnorine» in offerta per i «liberatori». La pelle da salvare, insomma, costi quel costi, in una realtà che si colloca fuori dal tempo storico – ieri «Peppe ‘o cricco», oggi «Gennaro ‘a carogna» – in un dopoguerra senza guerra, in cui – spiegano i pennivendoli di regime – la crisi incalza e il meglio è rassegnarsi, barattare salute e dignità con un pezzo di pane e vendere l’anima ai Berlusconi e ai Renzi, che la provvidenza non nega a nessuno. Eppure, dopo una grande rivolta di popolo, l’inferno napoletano è in miniatura l’Italia che verrà: mercato per scampoli di potere e paradisi promessi da «unti del Signore». A ricordarlo, quell’inferno, parli di ieri e però pare oggi.
E’ l’alba della Resistenza. Nell’aria infetta, un vento nuovo porta con sé la voglia di tornare a vivere. Così forte, annoterà Calvino, da vincere la paura della morte e far pensare «alla vita come a qualcosa che può ricominciare da capo». Gli «uomini della provvidenza» non nascono dove un popolo, in bilico su un filo teso tra speranza e tragedia, prova a chiudere i conti col passato e le armi scrivono la storia col sangue. Li trovi, piuttosto, dove si disegna il futuro, dove reti di contropotere e partecipazione popolare sono il motore del Paese e minacciano di rompere col centralismo romano e con Parlamenti che rappresentano gli eletti invece degli elettori. Un disegno temibile per chi difende antichi privilegi, rifiuta una democrazia di base e non riconosce un «ethos politico» ai ceti subalterni. Temibile per chi sente che la svolta è invitabile e gioca abilmente le carte vincenti nella nostra storia: paternalismo, trasformismo e «continuità dello Stato».
Mentre a Nord si lotta, Napoli diventa così laboratorio politico e incubatrice delle Repubblica e non a caso l’inedito «exploit sindacalista» di Croce, vate di un antifascismo così moderato, che fino al 1925, con Matteotti ancora caldo, vota la fiducia a Mussolini, si consuma a Napoli, dove un popolo armato ha sconfitto i nazifascisti. Croce «scende in campo» nel novembre del ‘43, quando Armido Abbate, reduce delle Quattro Giornate e perseguitato politico, senza chiedere visti a una Questura che l’ha sempre sorvegliato per conto dei fascisti, riunisce i ferrovieri in un’assemblea che intende organizzare «tutti i lavoratori del traffico (tramvieri, filotranvieri, portuali e servizio taxi) in Sindacato» e fissare un principio: «licenziamento per chi durante il regime ha compiuto soprusi o ricoperto cariche politiche» e assunzione «dei ferrovieri licenziati perché antifascisti».
Se gli «scugnizzi» sono folclore e va bene decorarli, i combattenti che presentano il conto e mettono in discussione le gerarchie sociali fanno paura; non fa meraviglia, perciò, che il 17 dicembre, alcuni «ferrovieri aderenti al Partito Liberale, presieduti dall’Eminente Maestro Senatore Benedetto Croce, riunitisi in Assemblea Generale», si rivolgano al Prefetto per porgere a «Sua Eccellenza personali ossequi» e comunicargli ch’è nata «l’Unione Liberale Ferrovieri Italiani per riunire tutte le forze fattive e disciplinate della classe ferroviaria, ispirandosi al sentimento di libertà e del dovere». «Divide et impera». L’idea crociana di sindacato è così attuale, che, a ben vedere, ci scorgi l’ombra di Marchionne e il suo intento è chiaro: riesumare il Paese sepolto dalle lotte dei lavoratori. In programma c’è l’Italia dei «padri degli operai» – non a caso l’avremo davvero un «presidente operaio» – una democrazia solo delega e niente partecipazione, il conflitto sciolto nell’acido della collaborazione, come chiede l’immancabile «ora storica», sacrifici imposti a chi paga coi diritti una libertà «condizionata» dalle gerarchie sociali. Svaniti nel nulla gli «scugnizzi», presunti protagonisti della recente insurrezione, per i «ferrovieri liberali» parla Alberto Bouché, altro reduce di quelle Quattro Giornate dal volto sempre più politico: c’è da decidere il destino dei fascisti. Mentre Giovanni Leone prepara la difesa in Tribunale, Arangio Ruiz chiude la discussione: per i ferrovieri liberali esistono limiti precisi «a un’opera che deve tendere a colpire solo i veri responsabili della tirannia fascista».
Delega di poteri, legittimazione politica che passa per gli uffici di Prefetti ancora fascisti e, quindi, continuità dello Stato, nonostante la micidiale contraddizione di un legame con l’Italia fascista, sono le fondamenta su cui Croce e la DC alzano il muro contro cui si infrangono i programmi della Resistenza e l’azione dei CLN. Nei gangli dello Stato il personale fascista lavora indisturbato: Azzariti, ex Presidente del Tribunale della razza e incredibile consulente di Togliatti per l’epurazione, sarà Presidente della Corte Costituzionale, sicché un fascista giudicherà le leggi della Repubblica antifascista, che lascia vivere il Codice fascista di Rocco. Sarebbe solo storia, se d’un tratto, nel cuore d’una crisi di regime che propone condizioni da dopoguerra, dopo elezioni illegali che hanno negato la sovranità popolare, il principio letale della «continuità» non riemergesse dal nulla e, a dispetto delle pessime prove, non ci fosse da fare un’altra volta i conti con la necessità tecnica e giuridica della sopravvivenza dello Stato, col suo volto repressivo e antidemocratico e l’anima classista storicamente definita: servizi segreti, polizia politica, segreto di Stato, ragion di Stato, leggi eccezionali che sospendono di continuo la Costituzione, legalità in conflitto con la giustizia sociale e chi più ne ha più ne metta. Un inganno che si autoassolve e assolve i crimini che compirà.
Non è un caso che oggi, mentre il filo che lega presente e passato si snoda chiaro davanti ai nostri occhi impotenti, mentre la cronaca nera incrocia ogni giorno quella politica, un’onda di fango, calata ad arte su Napoli, rubi la prima pagina all’inquietante raid di neofascisti armati, che hanno potuto sparare impunemente e seminare il panico nelle vie della capitale. Dov’era a Roma la «Stato di diritto»? Com’è che sul banco degli imputati finiscono Napoli e la sua nobile storia e nessuno chiede conto di una vicenda così oscura al questore e al prefetto di Roma? Dov’erano i tanti poliziotti scatenati il 12 aprile, a Piazza Barberini, contro ventimila manifestanti autorizzati e improvvisamente spariti con ottantamila persone in strada? Perché si militarizza la democratica Val di Susa e si lascia mano libera ai neonazisti?
Persino Benedetto Croce, che nella sua breve esperienza di sindacalista fu per una democrazia moderata, punterebbe il dito sul mostro che, senza rabbrividire, i suoi eredi liberali chiamano «democrazia autoritaria» e si stupirebbe del pericoloso estremismo di moderati che mettono mano alla Costituzione, ma si tengono caro il Codice Rocco.
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