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Archive for febbraio 2022


Nel linguaggio vile e servile della nostra stampa, i territori che da qualche anno si sono staccati dall’Ucraina sono definiti “autoproclamate repubbliche” del Donetsk e Luahnsk e il recente loro riconoscimento da parte della Russia è descritto come un gesto criminale e senza precedenti.
In realtà, solo trent’anni fa, nel 1991, mentre la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia si dissolveva, proprio l’Ucraina si affrettò a riconoscere la Croazia, seguita a ruota della Germania che, nonostante la CEE avesse chiesto di non procedere a riconoscimenti separati, riconobbe unilateralmente la Croazia e la Slovenia. Naturalmente la foglia di fico di questa infamia divenne il rispetto del principio dell’autodeterminazione dei popoli.  Un principio che la pericolosa Germania e la filonazista Ucraina hanno improvvisamente dimenticato.

Se si volesse discutere seriamente di ciò che accade oggi al confine russo, bisognerebbe avere l’onestà intellettuale di cercare la radice dei fatti nella Storia e non nella propaganda. Discutere però, a quanto pare, non si può e non si vuole; c’è la guerra e il massimo che puoi aspettarti da una sinistra fragile e ininfluente è la scelta dell’equidistanza. Gridiamo come al solito “no alla guerra” e là, volenti o nolenti, finiamo col fermarci. Purtroppo però la guerra è una costante nella storia dell’umanità e se vogliamo davvero ripudiarla, occorre definire le responsabilità politiche di chi ci ha condotti dove siamo. E’ l’unico modo di essere davvero solidali con gli sventurati che, impacchettati in una divisa, uccidono e sono uccisi, con tutte le vittime, militari e civili, russe o ucraine. Con loro abbiamo un nemico comune: chi la guerra l’ha voluta.

Senza voler fare azzardati paragoni, occorre anche avere il coraggio di riconoscere che non sempre i responsabili principali sono quelli che la guerra la scatenano e talora è necessario schierarsi.
Ai capi della morente Unione Sovietica Francia, Inghilterra e Germania assicurarono che la NATO non avrebbe acquistato complici nell’Europa dell’Est. Dopo il losco affare delle Torri Gemelle, gli Usa però hanno spinto la NATO verso Est. L’Unione Europea avrebbe potuto impedirlo, avrebbe potuto riconoscere nella Russia un Paese con cui intendersi e cooperare, ma non lo ha fatto. Sarebbe stata una maniera concreta e realistica di lavorare per la pace, ma si volle invece fare della Russia un nemico e cominciò l’accerchiamento. In questo senso, l’Ucraina è l’anello mancante della catena di ferro e di fuoco in cui è stata stretta la Russia.
Putin è un nazionalista, sogna la “madre Russia”, ma dovremmo sapere che questo non vuol dire ripristinare territorialmente l’URSS. La Russia ha la sua storia e la sua dignità e Putin è tutto, tranne che un folle a caccia di fantasmi. Da anni ripete in tutte le lingue che la Russia si sentirebbe minacciata dai missili e dalle atomiche della NATO a quattro passi da casa. Fin quando ha potuto, ha trattato, poi ha messo mano alle armi. L’avrebbero fatto anche gli USA, come accadde per Cuba, ancora stretta d’assedio.

Può apparire una bestemmia, ma è probabile che la risposta militare russa alla cecità degli USA, sempre più declinanti e perciò sempre più pericolosi, sia un contributo doloroso alla creazione di un equilibrio pacifico per il futuro. Una nuova “guerra fredda”? Questo dipende soprattutto dall’Europa. In ogni caso è un equilibrio che la sinistra dovrebbe avere a cuore.
Contro la guerra ciò che resta della sinistra avrebbe agito più efficacemente, se mesi fa avesse cominciato a scendere in piazza contro il vetero atlantismo di Draghi, per il ritiro della NATO dall’Ucraina e per il suo scioglimento. Non l’ha fatto, ma oggi può ancora chiedere a Putin di far tacere le armi e all’Occidente di impegnarsi a non consentire all’Ucraina di entrare nella NATO. Si riaprirebbe così il discorso sulla necessità di sciogliere la Nato. Se si partisse da qui, si potrebbe parlare in maniera franca e leale con la Russia, per creare assieme uno spazio comune che, dall’Atlantico agli Urali, fosse garanzia di pace. Questo vorrebbe dire davvero schierarsi concretamente contro la guerra.

Agoravox, 28 febbraio 2022

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Mi piacerebbe incontrarvi, passare dal mondo virtuale a quello reale. Vi interessa, ma preferite partecipare da casa utilizzando il computer? Fatemelo sapere e vi manderò il link.


Buongiorno a tutte e tutti,
da Venerdì 18 Febbraio alle ore 17:30 riprendono gli incontri #inSede che si terranno in modalità mista, da remoto e in presenza. 
Il  primo appuntamento, di un ciclo di incontri con cadenza quindicinale, sarà tenuto dal Professor Geppino Aragno e verterà su “Napoli sovversiva tra fine dell’Ottocento e prima metà del Novecento”.
Per la partecipazione on line, che si terrà su piattaforma zoom, seguirà il link, per la partecipazione in presenza ci vediamo presso la nostra sede in Via A. Diaz n°8. 
Movimento demA.

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Se un Paese che confina con gli Stati Uniti d’America (Cuba per  esempio) installa armi ricevute da un alleato, compie un gesto ostile nei confronti degli USA. Il diritto all’autodeterminazione dei popoli diventa cartastraccia  e gli Stati Uniti possono minacciare una guerra atomica e imporre un embargo praticamente eterno.
Se gli Usa e la Nato riempiono di armi e di armati un paese che confina con la Russia, l’autodeterminazione dei popoli diventa sacra e la Russia deve subire senza reagire.

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Ci vorranno pazienza e curiosità, ma l’articolo non è banale e ci ho trovato alla fine mio nonno. Chi era? Io lo so, voi no…


L a Provincia Pavese

Giovanni Peroni l’industriale della birra da Vigevano a Roma

I cultori della tv in bianco e nero, ricorderanno il fortunato slogan pubblicitario, “Chiamami Peroni e sarò la tua birra”, affidato al fascino della berlinese Solvi Stubing. Ma la storia della famosa azienda italiana iniziò molto prima, a metà Ottocento, tra Galliate, nel Novarese, e Vigevano, città d’adozione di Francesco Peroni che vi trasferì la famiglia nel 1846. Nella città ducale, due anni più tardi, nacque il figlio Giovanni, continuatore, con il fratello Cesare, dell’opera del padre e di cui ricorre in questi giorni il centenario della morte, avvenuta a Roma. Fu proprio nella Città Eterna, non ancora capitale d’Italia, che Peroni impiantò una seconda fabbrica di birra, oltre a quella già esistente a Vigevano (il primo documento che attesta la presenza dei Peroni in Lomellina è una “Tabella generale degli abitanti del Comune di Vigevano”, del 1846, che definisce Francesco “fabbricante di birra”, con residenza in contrada Rocca Nuova).
Gente di umili origini, i Peroni: il padre di Francesco, Giovanni Battista, era un pastaio (o anche “pastaro” e “pasticiaro”, annota Daniela Brignone nel suo libro sui 150 anni della Birra Peroni: vedi articolo a fianco), che ebbe otto figli dalla prima moglie e sette dalla seconda, Giuseppa Bignoli, sposata dopo la morte della prima: di questi, Francesco era il quinto. Umili, ma il trasferimento a Vigevano – e una minore propensione a mettere al mondo figli – garantì alla famiglia una certa agiatezza e larghezza di mezzi, se a Francesco fu possibile aprire una fabbrica e far studiare gli eredi: con la laurea in ingegneria conseguita da Giovanni. Forse fu proprio il successo negli studi – o anche quello – a far emergere Giovanni come la figura più adatta per ampliare l’attività a Roma: salto non di poco conto, anzi una vera e propria sfida nella quale il giovane Peroni riuscì benissimo. Il primo stabilimento fu avviato nel 1864; quindi, dopo la fusione con la Società romana per la fabbricazione del ghiaccio e della neve artificiale, la sede venne trasferita nei pressi di Porta Pia (teatro della famosa breccia aperta dai bersaglieri di La Marmora nel settembre 1870), dove ancora oggi ne sono visibili i resti. Fino al 1907 la produzione era concentrata nel sito compreso tra piazza Alessandria, via Mantova e via Bergamo, con annesso chalet-birreria di legno in stile liberty, per il consumo in loco della bionda bevanda (poi demolito nel 1912).
Intanto, il successo negli affari garantiva a Giovanni Peroni anche il gradimento della borghesia capitolina, consacrato dalle nozze con Giulia Aragno, figlia di uno dei proprietari del famoso e lussuoso Caffè Aragno di via del Corso, frequentato da deputati e ministri, ma anche da letterati e pittori, a lungo punto di riferimento della mondanità e della vita culturale romana (vivacizzata, ovviamente, dalla proclamazione a capitale nel 1870; il locale ha chiuso definitivamente nel 2014); Giulia era figlia di Giacomo Aragno; Giuseppe Aragno, socialista, già amico di Mussolini, dopo il delitto Matteotti manifestò apertamente la sua opposizione al fascismo, espatriando negli Stati Uniti. Nel gennaio 1922, la morte di Giovanni Peroni, che alle attività imprenditoriali condotte con indubbie capacità, aggiunse dall’ultimo decennio dell’Ottocento, alcune cariche pubbliche (divenne consigliere della Camera di commercio romana) e la presidenza di enti e istituzioni benefiche.

ROBERTO LODIGIANI1 Febbraio 2022

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