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Archive for marzo 2010

Ci sono notti che sui monti non c’è Geko che non abbia paura.
Sono le notti degli attacchi improvvisi, dei rastrellamenti che non danno scampo. Le notti che si sa: muori o sei ucciso e ti ci hanno tirato per i capelli.
Ogni Geko sui monti un po’ prega – anche chi a Dio non crede – non per cercare salvezza.
Prega per tutti, per il nemico giovane che sale dall’altra parte dei monti per dargli la caccia, per la gente che a valle subirà la rappresaglia per i partigiani ospitati, per i parenti del nemico che sale ansimante, come fanno i cani quando stanano la volpe.
Ogni Geko prega – anche l’ateo se nessuno lo vede – perché sui monti che si preparano alla battaglia serpeggiano la paura e la pietà: sentimenti che ci fanno uomini da sempre molto più del coraggio. La pietà per il dolore dato o ricevuto, la pietà per la consapevolezza gelida che nella storia che ognuno sta scrivendo c’è un errore che lo storico non registrerà: non è vero che dopo la battaglia e la resa il mondo cambierà.
Un errore della storia che Geko legge bene sui monti, mentre l’ora si avvicina, mentre ingrassa la canna del mitra e liscia col pollice teso il caricatore bruno che distribuisce in suo nome la morte. Ma come faranno i partigiani ed i loro nemici a fermarsi, dopo la preghiera, se la guerra è nei fatti e non resta più tempo? Un errore irrimediabile perché non si corregge.
E però – pensa Geko mentre prega ormai distratto e persino della preghiera gli resta soprattutto la pena – c’è in questa follia, che lo storico domani faticherà a ricostruire, una legge morale assai più alta del dolore che darò e mi daranno.
C’è, esiste, anche nell’orrore che tra poco farà lampi sui monti e ferirà le orecchie con l’incupire del mortai e il taglio intermittente della mitraglia, anche in quest’orrore che non ho voluto.
Ci sono dei sogni diversi. E’ vero, tutto tra poco apparirà un incubo. Un incubo rosso di sangue e pieno di vergogna per gli uomini che si sgozzano. Ma quando sono salito cantando “Bella Ciao”, io sognavo di poter parlare e di lasciar parlare, di fare tutto quello che si può senza togliere nulla a nessuna volontà di fare; volontà di chiunque: di ogni razza, colore religione e sesso. Una cosa banale, ma salivo inseguito. E l’inseguitore sognava solo di non farmi sognare.
Questo pensa Geko.
E nella paura della notte si perdona l’errore, benché sappia di non poterlo cancellare. L’errore resta e Geko lo sa: dopo tanto dolore, sul campo, tra i morti, non ci saranno davvero vincitori. Domani certamente qualcuno ancora salirà per sognare e qualche altro lo inseguirà solo per impedirglielo.
Accade così. Geko lo sa che ce l’ha dentro il nemico e che non siamo buoni, ma feroci e spietati per la storia di anaimali che abbiamo e per le stragi che portiamo nel sangue. Stare dalla parte del sogno, combattendo contro se stessi, è stare davvero dalla parte dell’altissima legge etica che giustifica l’orrore della guerra.
Geko lo pensa per sé, in una notte lontana della resistenza. Ma vale per tutti. Per quelli che si fanno battaglia nella vita di ogni giorno per un minimo di coerenza e per amore della propria libertà e per i partigiani di tutte le epoche della storia che sono morti e moriranno per testimonianza di fede laica.
Così pensa Geko in una notte di tanti anni fa, così penso io stasera, mentre combatto con me stesso antiche battaglie senza quartiere per la mia dignità. Stasera barbari arroganti schiaffeggiano chi chiede di sognare e scrivono col fuoco delle loro armi: siamo noi che decidiamo cosa dovete sognare.
Tutti i Geko sui monti hanno paura stasera.
Sera di ultimatum.

Uscito su “Fuoriregistro” il 18 marzo 2003.

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Fu il miraggio di una collaborazione con le forze della sinistra “liberale” a suggerire a Turati la formula ambigua che affidò la soluzione dei problemi del Mezzogiorno a una “egemonia della parte più avanzata del Paese sulla più arretrata, non per opprimerla, anzi, per sollevarla e per emanciparla“. La scelta – una delle più infelici del riformismo di Turati – consolidò il fronte borghese e spaccò il movimento operaio a tutto vantaggio degli imprenditori. E’ una lezione da cui la sinistra non ha mai ricavato le conseguenze. Lo dimostrano, qualora ce ne fosse bisogno, le idee che sulla scuola circolano in rete. C’è ancora chi riduce il dramma della scuola alle politiche d’un trio famigerato – Moratti/Fioroni/Gelmini – e s’illude che mentre il Sud sia spettatore passivo, il Nord “resistente“, stia salvando il millennio di storia cancellato dalla Moratti, il programma di Geografia che copre il globo terracqueo e l’esame di quinta, trasformato giuridicamente in progetto di fine anno. Può darsi che sia vero. Perché non crederci? Può darsi che non si tratti, com’è costume italico, di quelle che Mazzini chiamava “le passioncelle locali“, le diffidenze e gli interessi particolari. Crediamoci. Nel Lombardo-Veneto leghista, nel Regno di Sardegna e in qualche granducato tosco-emiliano avanguardie di docenti illuminati hanno recuperato i mille anni di storia che si son persi invece fatalmente nelle terre dei “lazzari, che, ci credereste?, della protesta con i rotoli di carta igienica non sanno nulla e, se sanno, non sono convinti. Terre barbare, in cui, negli anni eroici dell’unità, i “cafoni” massacravano Pisacane e il poeta scriveva: “Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti“. Terre sventurate, in cui il genovese biondo e generale, tra fischi di pallottole e camicie rosse, gridava al colonnello eroico: “Bixio, qui si fa l’Italia o si muore!“. L’Italia di Garibaldi che, per farsi conoscere a dovere da chi ancora stentava a capire, mandò Bixio a Bronte e passò per le armi i braccianti malandrini, sanfedisti ed “eversivi“, pronti a occupar le terre dei padroni, che, guarda caso, erano invece amici dei garibaldini.
Può darsi che il millennio sia stato recuperato, ma nella foga si sono certamente smarriti i centocinquant’anni della “Questione meridionale” e siamo tornati ai tempi del ravennate Carlo Luigi Farini, luogotenente del re nelle terre del Sud e, di lì a poco, Presidente del Consiglio, che, nel dicembre 1860, dimenticata la “passione unitaria“, scriveva a Minghetti:

non ci sono cento unitarii in sette milioni di abitanti. Ne pur di liberali c’è da far nerbo. E Napoli è tutto: la provincia non ha popoli, ha mandrie: qualche barone o di titolo o di gleba le mena [ . .]. Or con questa materia che cosa vuoi costruire? E per Dio ci soverchian di numero nei parlamenti, se non stiamo bene uniti a settentrione“.

E’ difficile capire se nei fatidici mille anni siano compresi quelli più recenti, ma come tacerlo? E’ quantomeno singolare ridurre le responsabilità del dramma della scuola al trio Moratti, Fioroni, Gelmini, quando la loro “filosofia“, con buona pace dei filosofi, è già nelle note esplicative che accompagnano il testo del bilancio di previsione del 1980, e che Spadolini trasmise al ministero del Tesoro nel 1979: razionalizzazione nell’utilizzazione del personale, produttività della spesa per l’istruzione, diminuzione del costo economico.
Non occorrono intelligenze nordiche per capire che l’Italia s’è fatta senza rivoluzione, con patti scellerati tra padroni delle terre e padroni di manifatture, sicché da Nord a Sud non c’è chi possa chiamarsi fuori e dar lezioni. Insieme, negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, studenti e lavoratori hanno dato battaglia. Bombe e attentati li hanno messi a tacere. La spinta al cambiamento s’è fermata e la caduta del muro di Berlino ha messo in discussione un equilibrio fragile e sempre più precario. Un equilibrio che s’è rotto quando a dettar le regole sono stati i mercati e l’Europa delle banche; quando i bilanci “europei“, senza migliorare il “prodotto scuola” e senza tirarci fuori da presunti disastri economici, sono bastati a indebolire le scarse potenzialità di un sistema formativo costretto a operare in condizioni di crescente isolamento. La scuola, oggi, è lo specchio di un Paese scosso dalle fondamenta, afflitto dal degrado del Mezzogiorno, dal fiorire dell’azienda-mafia che dilaga anche al Nord, dalla ripresa di antichi pregiudizi antimeridionalisti e dalla protesta leghista, che pone sul tappeto una pretesa differenza di cultura di razza fra gli abitanti delle diverse aree del Paese.
In queste condizioni, l’illusione delle “due scuole” è rovinosa e può solo consolidare il clima di contrapposizione che, per dirla con Santarelli, un grande storico troppo presto dimenticato, ha le sue radici nella “forza eversiva dei fatti: l’integrazione capitalistica euro-occidentale, il salto o i salti di qualità tecnologico-produttivi dell’economia settentrionale“. Non è un caso che il dibattito sulla scuola, si polarizzi sulla contrapposizione pubblico-privato, che diventa un’astrazione e rischia di farsi il riflesso d’uno specchio deformante. In realtà, ciò che in altri settori non è facile da cogliere, guardando alla scuola si fa molto più chiaro: l’attacco alla formazione ha ovunque la stessa pesantezza, ma l’effetto dei colpi non può essere uguale. Un dualismo ormai incancrenito rischia di produrre fratture micidiali. È la conseguenza estrema e, per molti versi prevedibile, d’un ritardo in cui gli aspetti “quantitativi” si risolvono ormai in un “gap qualitativo” che, nei fatti, segna una divaricazione non più rimediabile.
Non si può difendere la scuola dello Stato se non si coglie la molteplicità delle conseguenze “geografiche” che l’attacco produce, se si ignora il terreno sul quale ci si muove. Sarebbe un suicidio dimenticare che il sottosviluppo di alcune aree del Paese non è ormai più funzionale nemmeno allo sviluppo delle altre, ma alle logiche del profitto e alle esigenze del capitale. Ci sono oasi felici nel deserto meridionale e dune sabbiose nella verdeggiante piana padana. Non c’è una questione locale. C’è un sud del Nord e un nord del Mezzogiorno. Da decenni c’è una continuità nelle scelte politiche di fondo, soprattutto economiche, che non consente salvezza né alla società del Nord, che senza il Sud non può governare i ritmi velocissimi del cambiamento, né a quella del Sud, che senza il Nord non sa come fermare l’arretramento. Abbiamo di fronte un progetto scellerato che rischia di giungere a compimento. La diversità stessa della qualità della vita produce rinnovati squilibri. E questi, a loro volta, inevitabilmente approfondiscono quelli preesistenti. Per ora pagano le classi povere, pagano i lavoratori , pagano gli immigrati. Alla fine del percorso, come accadde col fascismo, pagherà il Paese nel suo insieme. In termini di civiltà.
Non due Italia e due scuole, quindi, ma una tragedia nazionale.

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Chiamare le cose col loro nome vero è il primo gesto rivoluzionario”, affermava Rosa Luxemburg. Non prenderemo il Palazzo d’inverno, ma non ci farà male. “Il Manifesto” del 12  annunciava una mobilitazione a base di raccolta firme e rotoli di carta igienica. Anche questo va bene se altro non c’è: rotoli e carta igienica. Tuttavia, dietro l’enfasi rituale – prosa brillante, lustrini e pailettes – c’è la sinistra all’angolo, appesa al carro di una nebulosa: la “società civile” dicono gli ottimisti. Lo slogan è efficace, c’è la piazza in armi, un po’ di folclore che peccato non è e la fede illuministica nelle virtù della “ragione”. Senza intenti polemici, però, l’elemento di fondo ha un nome vero: si chiama scollamento e ci separa dalla realtà di un paese che annaspa, mentre sul fronte opposto un governo reazionario sa fare il suo mestiere: alzo zero e fuoco a volontà.

Sarà difetto di memoria, o il difetto riguarda forse gli strumenti d’analisi, sta di fatto che anni fa volemmo l’Italia arcobaleno; manterremo la pace, ci dicemmo, ma navi e soldati andarono in guerra. Se il vento consente, accendiamo candele per la legalità ma la luce non basta e il paese è più marcio; in difesa della libertà ci mettiamo ogni tanto in viola, ma il gregge parlamentare fa come i fascisti: se ne frega e passano in serie leggi liberticide. Ecco allora le firme sui rotoli di carta igienica. Per carità, ognuno a suo modo e, d’altra parte, è segno che ci siamo. In quanto a me, sono vecchio lo so e, più il tempo passa, più questo mondo non mi sembra il mio. Prendetela perciò come un sintomo di senilità e lasciatemelo dire: avanti così, col folclore e le “pensate” illuminate, i conti non li quadriamo.

I precari della scuola urlano dai tetti occupati: non ci stanno, non cedono, e sfidano un governo che schiera manganelli contro i lavoratori e altro non fa. Questo andazzo sa di Cile, hanno gridato, e induce alla sommossa. Il loro nemico, però, non è solo l’avvocato Gelmini. I precari sono un dito puntato anche contro docenti “di ruolo” e genitori più o meno “organizzati”. Gente che sui tetti non va perché è impegnata coi nodi ai  fazzoletti, con le candele accese e con la carta igienica.

C’è un mare di sofferenza, i diritti sono violati, milioni di lavoratori ridotti alla fame. Si fanno leggi che offendono le coscienze, ma per buona sorte c’è un vento che sa di tempesta. Mettiamolo in piazza questo vento. Agiamo dal basso e di concerto. La lotta dei precari della scuola sia quella di chi non ha e non avrà lavoro, dei cassintegrati e dei licenziati, dei commessi che lavorano 24 ore su 24, degli studenti ai quali tolgono scuola e università. Mettiamo tutto questo in piazza senza paura, facciamolo, poi tiriamo le somme. Quante volte si è detto? Ma non c’è stato verso. In piazza c’era l’Onda degli studenti, Gelmini tremava, ma insegnanti e genitori stavano a guardare. Sarebbe bastato affiancarli per aprire la breccia. E invece no. Ognuno per la sua strada e dio per tutti.

Lo dico chiaro, ché male non ci fa: non si può fare una lotta solo per la scuola. E se tutto si riduce a questo, la partita è persa. La battaglia è contro un disegno politico che, con gelida ferocia, colpisce la scuola statale in quanto fucina di pensiero critico, archivio vivente della memoria storica e presidio di democrazia, per colpire diritti e lavoratori. Ragionare per “compartimenti” – protestano i precari, protestano gli immigrati, oggi in piazza c’è la “No tav”, domani il “Comitato acqua”, poi Termini Imerese, poi “Libera”, ognuno col suo dramma – ci condanna. Stiamo assieme, cittadini, genitori e lavoratori. La nostra è la lotta degli operai licenziati, degli immigrati massacrati nel Mediterraneo o internati in campi di concentramento, la lotta della civiltà contro la barbarie. In questo andar da soli c’è qualcosa che sa di un nostro antico male, che ricorda Guicciardini e il “particulare”. Qualcosa che sa di calcolo di bottega. O gli insegnanti e i genitori diventano il collante tra le realtà in lotta per costruire modi e tempi d’una vertenza globale e permanente o la partita tra civiltà e barbarie è persa. E senza appello.

Ci sono momenti della storia in cui l’estremismo cammina alla rovescia, viene dall’alto, dalle istituzioni, nasce dal potere, da ceti dirigenti decisi a perpetuare se stessi. Sono i momenti in cui è necessario e legittimo reagire e chi davvero vuole aprire la gabbia non pensa a salvarsi da solo. Siamo pochi, è vero. Ma vero è anche che la scuola assediata non ha scelta: è chiamata a una lotta che va oltre il suo orizzonte. Sul Parlamento non c’è da sperare. Il Parlamento non c’è, non esiste; ci sono cricche di cooptati, camarille di vassalli che gestiscono il voto in nome e per conto di chi li ha messi a sedere nell’aula stavolta sorda e grigia. Veline, buffoni o scienziati conta poco. Sono “nominati”. Arfè, che la morte ha sottratto all’estremo oltraggio, l’aveva intuito prontamente: qui è la questione di fondo. Ineludibile e decisiva: il rapporto tra governanti e governati, coi governanti che si mettono fuori dalla legge. Il problema cruciale della legittimità di norme sancite da organismi illegalmente costituiti e, quindi, della difficile scelta tra dovere di rifiutarsi e diritto di ribellarsi. Sui modi concreti del rifiuto e sulla sua natura – obiezione pacifica che si appelli alla coscienza, o ricorso alla forza che raccolga la sfida d’un regime e lotti con ogni mezzo per abbatterlo – su questo si potrà poi riflettere e scegliere la via. Intanto occorre prendere atto: la legalità repubblicana è violata. Il governo è figlio di una legge elettorale che ha sottratto al popolo la sovranità e ha cancellato il Parlamento dalla vita politica del Paese.

Talvolta il destino si mostra chiaro alla coscienza di un popolo e gli offre una chance. Potremo far finta di non vedere, ma occorre saperlo: avremo la storia che sapremo costruirci.

Pugnalata alle spalle, la democrazia è in stato comatoso e occorre reagire. Alle leggi ingiuste, ai provvedimenti “pensati” per colpire i deboli, si oppone il rifiuto, si fa appello alla coscienza e si disobbedisce, come ha fatto il Consiglio di Circolo della Direzione Didattica di via Bandiera a Parma. Dovremmo farlo tutti. L’obiezione potrebbe essere la via giusta, ma occorre aggregare le realtà in lotta, costruire la via dello scontro mettendo assieme avvocati e giuristi, far quadrato attorno alle regole come soldati sull’ultima spiaggia, saper dire di no, tenendosi nei binari della legalità e, allo stesso tempo, ammonire: “siamo pronti a lottare”. E’ possibile farlo, milita nella nostra parte una certezza che nasce da immutabili leggi della storia e, si può esser certi, è accaduto e accadrà: non vinceremo in un giorno, ma vinceremo.

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Canta ancora

Se con gli occhi tuoi accesi mi deridi
e di me non ti fidi,
hai ragione dolce artista di strada,
solo un vecchio tu vedi. E però bada.
La musica che incanta
chi ascolta e con te canta,
le libere parole che tu gridi,
se ribelle mi sfidi,
io te l’ho date e un po’ me l’hai rubate.
Tu cambierai le mie note stonate?
Sì lo farai, perché questo è la vita:
lotte e sogni. Un momento. Poi è finita.
Sarà un mondo migliore
di quello che ti lascio a malincuore.
Tu ci credi, ed è vero.
Canta ancora. Se canti, non dispero.

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‘O silenzio

‘O silenzio è ‘na voce assai luntana,
‘n’amico ca te piglia pe’ ‘na mano,
ca t’accumpagna attuorn’a te giranno
e ca te dice chiano chiano, chiano,
nun fa accussì, ca ‘e jorne se vanno.

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Da qualche parte, in città, la mia e, c’è da giurarci, quella di tanti come me che non hanno ancora alzato la bandiera bianca, ci si riunisce, si mettono insieme forza e debolezza, coraggio e disperazione, analisi e propositi e una volta ancora, fosse la millesima non sarà l’ultima, una volta ancora ci si prepara a dire “no, noi non ci stiamo!, Ora basta, la misura è colma!“.
Lo sentiremo dire, il 12 marzo, e lo ripeteremo con le parole che scrive un collega che della sua precarietà ha fatto la leva orgogliosa su cui poggiare la volontà d’un cambiamento vero:

più determinati che mai, mettiamo in campo la nostra forza, difendiamo la nostra categoria di lavoratori pubblici precari e non, attaccati, vessati e massacrati da questo governo e dai suoi ministri con riforme che ledono la nostra dignità professionale e le nostre famiglie!“.

Tanto più forte sarà questa dichiarazione di guerra a chi ci fa la guerra, tanto più agguerrita sarà – senza retorica – la trincea nella quale ci attesteremo e dalla quale partiremo all’attacco, quanto più voci unite si leveranno, più gambe insieme marceranno, più braccia leveranno un’unica bandiera, più teste lavoreranno per unire alla base ciò che al vertice si continua a dividere.
C’è un pensiero in queste mie parole, una convinzione che ritengo forte e non velleitaria, che riguarda allo stesso tempo la natura politica dell’attacco che si è portato da ogni lato in Parlamento alla formazione, lo “specifico” della nostra professione e la crisi in cui il capitale ci ha cacciato e sulla quale intende inchiodarci come su una croce inevitabile e fatale. Per assoggettarci. Smantellare il sistema formativo vuol dire indebolire, se non forse annientare, la coscienza critica e, quindi, la resistenza delle classi popolari. Quelle classi popolari alle quali noi insegnanti, tessuto connettivo del pianeta cultura, possiamo agevolmente volgerci per denunciare, seminare dubbi, costruire opposizione, produrre dissenso e avviare una “resistenza” diffusa che coinvolga gli ampi strati dell’utenza. Uniti possiamo e dobbiamo. E’ nelle nostre forze ed è compito “specifico” della nostra professione. Noi non passiamo carte e nozioni a seconda dei capricci del potere. Noi insegniamo percorsi critici e produciamo il seme fertile del dubbio. E’ un mestiere che sappiamo fare tutti e meglio faremo se troveremo la via della solidarietà. Ogni precario colpito è uno di noi che va difeso. E poi la crisi. Non è stato aggredito solo il sistema-scuola e non rischiano di cadere solo i precari. C’è un mondo colpito. Ci sono gli operai gettati sul lastrico, gli immigrati schiavizzati, i giovani pugnalati nella schiena da un progetto autoritario, molto moderno nella forma, antico e feroce nella sostanza come accade con ogni dispotismo. Noi possiamo essere, noi anzi siamo in un solo momento operai, giovani, cassintegrati, immigrati, disoccupati. Noi siamo tutto questo e non ci sono insegnanti precari, giovani ridotti alla disperazione, stranieri discriminati. C’è la scuola aggredita per aggredire i precari, gli immigrati, i giovani, gli operai. La reazione che s’è scatenata non vincerà senza espugnare la scuola, ma nessuno di noi salverà se stesso se non sapremo difendere la scuola assalita. Occorre farlo. Le armi si troveranno, si farà quadrato e le parole d’ordine sono quelle di sempre: solidarietà e lotta. E gli esempi non mancano: Lina Merlin, maestra elementare negli anni del delirio littorio non volle giurare fedeltà al regime e fu licenziata. Teresa Mattei nella vergogna del 1938, rifiutò di assistere alle lezioni sulla “salute della razza” e fu espulsa da tutte le scuole d’Italia. Non si piegarono al regime che cadde sotto il peso delle sue colpe. Entrambe portarono nella Costituente il loro contributo e oggi ci indicano la via: le mezze misure non bastano più. Occorre dire no, costi quel che costi, perché – lo dico con Don Milani – “se a fare lo stesso lavoro nella stessa bottega, il padrone arrichisce e l’operaio resta povero, vuol di che qualcosa è marcio“, vuol dire che “c’è tanto di quel disordine che non c’è molto rischio di peggiorare il mondo […] sicché non mi pare che un po’ di ribellione, se venisse, sarebbe la fine del mondo“.

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Ada Grossi è napoletana e testimone della guerra di Spagna. C´è un fascicolo personale conservato a suo nome tra carte di polizia, ma il silenzio della storia non è riuscito a chiuderla nella polvere del passato. Ada parla al cuore, prendendoti per mano, e racconta un´infanzia sconvolta da eventi più grandi di lei: Mussolini, la dittatura, l´omicidio Matteotti, le minacce al padre, Carmine Cesare Grossi. «Era socialista, ricorda, amico di Croce e noto avvocato nello studio di De Nicola». A nove anni, nel 1926, il salto nel buio: «scuola, parenti, amici, tutto alle spalle, rammenta con rinnovata emozione, e tutto perso per sempre». Umana, ma estranea, Buenos Aires, l´accoglie col padre, i fratelli, e la madre, Maria Olandese, soprano che ha cantato alla corte dello zar, ma la ragazza diventa donna tra gli stenti e la solidarietà dei fuorusciti, la propaganda antifascista e il calore d´una famiglia diventata un riferimento per i “sovversivi“. Ada è un personaggio straordinario. Se racconta la sua vita a studenti che in genere non amano la storia, i ragazzi si incantano, rapiti da una loro lontana coetanea che, nel ‘36, quando s´apre lo scontro mortale col nazifascismo, a soli 19 anni, attraversa l´Oceano e accorre con la famiglia in Spagna al fianco dei repubblicani. L´ascoltano ammirati come se ancora leggesse i comunicati di “Radio Spagna Libera”, la famosa emittente di Barcellona creata dal padre per il governo Negrin: Ada è la voce della Spagna aggredita che giunge nelle case degli italiani e scatena l´ira impotente di Mussolini. «Non vinceremo subito, ha ammonito Rosselli, ma vinceremo», e lei ripete la sfida, sorprende il regime e, sotto le bombe sganciate dai Fiat Br20 su città inermi, denuncia la furia omicida degli aggressori e affida alla storia le ragioni della democrazia. Un racconto che ha per gli studenti il fascino dell´epopea e il valore inestimabile d´una testimonianza sulla dimensione etica dell´agire politico, smarrita nell´opulenza malata del consumismo.

Evasa dal “secolo breve“, Ada Grossi vive qui tra noi la sua ultima stagione, in una città senza memoria, in un paese in cui il degrado della vita pubblica apre spazi a una equiparazione tra fascismo e antifascismo che può realizzarsi solo colpendo al cuore l´ethos politico di cui vive la repubblica: libertà, pace, giustizia, i valori che il fascismo negò. Se la incontri, non è più la ragazza “castagna di capelli o quasi bionda, occhi celesti chiari, carnagione colorita e una ben timbrata voce di soprano lirico” che il padre descrive in una lettera bloccata dalla polizia. A novant´anni, è una vecchia signora dagli occhi celesti e profondi che si emoziona se si trova davanti le carte conservate nel suo fascicolo dalla polizia fascista, di cui non conosceva nemmeno l´esistenza. «E´ incredibile, ci sorvegliavano proprio attentamente, passo dopo passo!», esclama meravigliata, mentre si trova tra le mani momenti di vita che il regime le rubò: lettere mai lette e un giornale argentino in lingua italiana che narra “l´odissea di Carmine Cesare Grossi e della sua famiglia finiti nei campi di concentramento”. «Gours, Argelés-sur-Mer – ricorda Ada – . Non è facile descrivere la tragedia dei combattenti internati in Francia dopo la fuga disperata verso i Pirenei. Camminammo a piedi per giorni, braccati dai caccia che ci mitragliavano». Un velo di tristezza, poi la donna sorride per l´involontario elogio di un questore che, nell´aprile del ‘37, scrivendo da Napoli a Mussolini, ammette che «a causa della velenosa propaganda comunista di Barcellona, s´è avuto un certo risveglio di elementi locali noti per i loro precedenti politici e subito arrestati». Per metterla a tacere, si impiantò persino “una stazione disturbatrice presso la Prefettura“. «Filo da torcere gliene abbiamo dato», sottolinea Ada compiaciuta, mentre “corregge” il questore: «La radio, però, non era comunista. Eravamo socialisti. Mio padre scriveva i testi, io leggevo e la gente ci seguiva. Quando giunsero a Barcellona, gli stalinisti italiani ci estromisero proprio perché eravamo socialisti». Il verbale di un interrogatorio subìto dalla madre in Questura, a Napoli, nel ‘41 la commuove e si abbandona ai ricordi: la famiglia dispersa in veri e propri lager, la fame, la sete, le baracche di lamiera gelide d´inverno e roventi d´estate, il matrimonio con un repubblicano spagnolo celebrato «nel campo di Argelés con un permesso speciale», la guerra, l´armistizio con la Francia e un nuovo calvario: «io tornai in Spagna con mio marito, racconta Ada, e coi falangisti fu dura. Papà fu confinato a Ventotene, mamma e mio fratello Aurelio a Melfi. Renato, l´altro mio fratello, depresso per la sconfitta e gli stenti, finì in manicomio, distrutto dagli elettrochoc».

E´ un mondo che emerge. I fratelli al fronte con le truppe repubblicane, lei che cura con la madre i malati nell´infermeria del campo – «mancavano le medicine, ricorda, e si moriva per nulla» – , la madre, «compagna inseparabile, che condivise gli ideali del marito e affrontò ogni avversità con animo sereno», il padre che «privato dei clienti, malmenati dai fascisti, e sorvegliato a vista, tenne nello studio fino all´ultimo, in bella mostra, un ritratto di Matteotti e sfuggì agli squadristi solo perché un cocchiere lo prese al volo sulla sua carrozzella». Se parla della Spagna, il primo pensiero di Ada è per Garcia Lorca, «barbaramente torturato e ucciso perché omosessuale». E torna in mente Machado: «Cadde morto Federico/sangue alla fronte e piombo alle viscere / Sappiate che fu a Granada il delitto / Povera Granada!». La “sua” Spagna però non è solo ferocia. Rivivono, nelle sue parole, lampi della libertà che ha respirato e difeso, l´entusiasmo dei volontari, la fuga da Barcellona mentre i falangisti entrano in città dal Montjuic. «Perdemmo tutto, anche i libri ai quali mio padre teneva moltissimo». Il bilancio è pesante: Aurelio ferito a un occhio, Renato morto in manicomio e case, terre, tutto perso per sempre. Caduto il fascismo e tornati liberi a Napoli, dove non c´è chi non accampi meriti, i Grossi si fanno da parte. «Il regime aveva radiato mio padre dall´albo e lui, ricorda la figlia, per tornare avvocato, dovette ricorrere in tribunale. Mancavamo di tutto, ma non c´era nulla da chiedere: avevamo fatto solo quello che era giusto». E ripete orgogliosa: «Noi eravamo socialisti. Al governo però ci andarono i democristiani, i fascisti rimasero ai loro posti e oggi – conclude amara – ci sono Fini e Berlusconi. Noi, però, abbiamo vissuto secondo i nostri ideali». Ada vive a Napoli con Aurelio in una casa popolare e paga l´affitto grazie a una modesta pensione spagnola. L´Italia non sa che esiste, lei non chiede che sappia e mi perdonerà se lo scrivo: ha fatto più di quel che doveva. Marx non ha torto, non si può giudicare un´epoca in base alla coscienza che essa ha di se stessa e non sbaglia Vilar: il racconto è la forma naturale con cui l´uomo prende coscienza del tempo. Bene. Ada ha raccontato il suo “passato contemporaneo”. La repubblica che ha contribuito a far nascere, e che medita di cambiare se stessa, non sbagli due volte, non la consegni all´archivio senza averla ascoltata. La storia prima o poi presenta il conto.

Uscito su “La Repubblica” ediz. Napoli, 04 febbraio 2008 e su “Fuoriregistro” il 5 febbraio 2008.

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Premiare il merito: è la ricetta per la scuola nuova. Dev’essere vero: ci giurano in tanti che pare la sappiano lunga. Premiamo il merito e faremo cultura. Il diavoletto critico e sessantottino che mi porto dentro è pronto ad obiettare: “in che consiste il merito? Se rispondo col filosofo del Rinascimento – “conoscere tutto di una cosa sola e qualche cosa di tutto” – dico una verità pericolosa. Il massimo del merito, rispetto al massimo della specializzazione, potrebbe dare, al più, quei moderni specialisti che sanno tutto di qualcosa e nulla di tutto il resto. Se premio il merito, in questo caso, faccio spazio a una dottrina che, più cresce e si perfeziona, più si allontana dalla cultura. Un merito arido, che si chiude nell’ambito ristretto di una professionalità che non ha necessariamente contatti con gli uomini e la loro umanità.
In questo caso – dirò con Salvemini – lo specialista uccide l’uomo. Eppure ha meritato. Né, d’altro canto – insiste il diavoletto pernicioso della vecchia contestazione – maggiori garanzie potrebbe darci la teoria di un merito che premi chi alla suprema specializzazione, al “tutto di una scienza“, aggiunga la conoscenza di un “qualcosa di tutto“: trovatemi un uomo che, nella concretezza della vita, possa davvero vantare questo merito. “Qualcosa di tutto” non sta nelle forza di un uomo, così come “tutto di qualcosa” è un evidente inganno. Premiamo il merito, quindi, ma in relazione a quali obiettivi e secondo quali parametri?
Per carità, nessuna affermazione nichilista. Il professore sessantottino che mi porto dentro non ha mai sostenuto che la cultura sia una irrealizzabile utopia o che la stragrande maggioranza degli uomini che si dicono colti siano un’accozzaglia di vendifumo e imbonitori. Più modestamente, più realisticamente, crede con Salvemini che “gli analfabeti almeno non pretendono di saperla lunga” e s’immagina un mondo che riconosca la propria ignoranza – “io questo solo so, di non sapere nulla” – e percorra socraticamente la via della maieutica, ripetendo con Brecht: “sia lode al dubbio“.
Io non conosco tutta la storia e so di non saperla: E’ gia qualcosa, direbbe Salvemini, mancato sessantottino, perché dalla consapevolezza dei miei limiti nasce il bisogno di conoscere e capire. Questo merito promuoverà una scuola che voglia produrre cittadini e cultura. Merito che sente e riconosce il bisogno di sapere, merito che, secondo le capacità, affronta la fatica tormentosa di conoscere per capire e di capire per criticare. Merito che non dimentica – è un antico paradosso – che la cultura vera è ciò che resta nella nostra testa quando non ricordiamo più quello che abbiamo imparato.

Uscito su “Fuoriregistro” il 20 ottobre 2007 col titolo “Il diavoletto sessantottino“.

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