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Archive for novembre 2022

Poiché alla base della civiltà occidentale c’è la democrazia, se provate ad accedere a questo articolo su Facebook, vi trovate di fronte a questo avviso:
“Il link a cui hai provato ad accedere non rispetta i nostri Standard della community: https://giuseppearagno.wordpress.com/2022/11/24/civilta-occidentale-o-manicomio-criminale/?fbclid=IwAR3IWbx0hgAo0yE5bIv_lb1Id_2VILS_BNn2L5JTOGMzBtWaqWIVo_Ng41s
Confermi di voler seguire questo link?”.
Se siete dei barbari come me e osate pensare che questa domanda è una foglia fico utilizzata per coprire una infamia, rispondete che volete leggere!


Il Parlamento europeo ha deciso che se ti chiami Erdogan e sei nella NATO, puoi macellare i Curdi e fai bene.
Meglio ancora se fai a pezzi la Libia e poi trasformi il Mediterraneo in un immenso cimitero.
Se invece non accetti che la NATO mantenga in piedi uno Stato fascista ai tuoi confini e lo imbottisca di armi, sei uno sponsor di terroristi.

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Com’era prevedibile, la discussione sull’inganno ucraino, dopo il caso del missile caduto in Polonia, è diventata subito spinosa. I piccoli dittatori mentecatti che contiamo tra i nostri alleati – quelli che alzano muri e sparano ai migranti – hanno subito gridato al caso di guerra (guerra mondiale). Polonia e Ungheria, guidate dal tragicomico Capitan Fracassa ucraino volevano la Nato subito e direttamente in guerra. Vauro ha ragioni da vendere, quando afferma che all’urlo dei guerrafondai, ha fatto subito eco lo starnazzare di Letta e Calenda, mitiche oche di guardia al Campidoglio. Nessuno, nemmeno i commentatori meno pavidi, si sono azzardati a osservare che le cose stavano in maniera lievemente diversa: i morti in Polonia – Paese della Nato – li avevano fatti gli ucraini, che non sono nell’Alleanza Atlantica, quindi, legge alla mano, la Nato avrebbe dovuto far guerra alla sventurata Ucraina, guidata da un bugiardo incosciente.
Il caso ha poi voluto che nello studio di Bianca Berlinguer a Cartabianca, su Rai tre, il 15 novembre, si trovassero il prof. Alessandro Orsini e il l’ex ministro degli Interni Marco Minniti. Naturalmente nessuno s’illude che Minniti si giochi il futuro dicendo quel che pensa, ma i suoi toni smodati, decisi a scatenare la rissa, sono stati sinceramente fuori luogo e perdenti. Orsini era calmo e pacato, Minniti aspro, irridente e pronto a tirare in ballo le scienza storiche di cui non conosce praticamente nulla, nemmeno che mille “verità della storia” si sono rivelate volgari patacche. Sia lode al dubbio Minniti, perché dopo ventidue secoli non è facile spiegare un tirannicidio e decidere se Bruto e Cassio furono sciocchi sognatori o martiri della libertà! Per non dire dei popoli “aggrediti” per i quali nessuna difesa esterna si è mai storicamente spinta fino al rischio dell’estinzione del genere umano.
Ai fatti esposti da Orsini – la guerra è stata e sarà a lungo un bagno di sangue, l’Ucraina non vuole la pace ma una resa incondizionata e prova in tutti i modi a provocare un disastro mondiale – Minniti rispondeva con una infervorata retorica sulla libertà degli ucraini, – che non riguarda però le genti del Donbass – e un provocatorio saltare di palo in frasca. A suo dire, Orsini operava un “capovolgimento storico pazzesco”, si esibiva in continui salti tripli senza rete e non conosce la storia. Secondo Minniti, infatti, la vicenda del secondo conflitto mondiale ci ha lasciato una lezione da non dimenticare: i totalitarismi che la vollero, furono battuti dal paradiso occidentale.
Nei panni di storico, Minniti ha fatto così la figura di un patetico saccente. I totalitarismi non furono battuti. La Russia sovietica uscì vittoriosa ed è legittimo supporre che, senza il suo contributo, l’esito dell’immane conflitto non sarebbe stato quello che fu.
Assunta la posizione dello studioso che discute, ignorando le provocazioni, Orsini ha difeso dignitosamente le sue idee. D’altra parte, parla ancora in Tv perché è tra i pochi che sa ciò che dice. Se lo fanno tacere faremo peggio di uomini come Interlandi! Avesse utilizzato i metodi da giocatore d’azzardo del suo interlocutore, che si stracciava le vesti per i bambini ammazzati, Orsini gli avrebbe ricordato che le sue politiche per i migranti furono definite disumane dall’ONU. Lei – gli avrebbe detto – ha ucciso più bambini che ucraini e russi messi insieme.

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Il neo ministro dell’«Istruzione e Merito» continua indisturbato la sua delirante crociata. In questo momento, mentre lavoro per restituire la parola a uomini e donne cui la tolsero i suoi amici e camerati liberali e fascisti, ospite di Lucia Annunziata, l’ineffabile Valditara continua a invitare studenti e studentesse a festeggiare quella che definisce fine del Comunismo.
I casi sono due: o Valditara non ricorda di aver giurato fedeltà alla Costituzione firmata dal comunista e perseguitato politico Umberto Terracini – una precoce demenza senile? – o c’è qualcosa che non va nell’idea che ha della Repubblica di cui è ministro.
In entrambi i casi mi pare giunto il momento che la sinistra alternativa ne chieda le immediate dimissioni.

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Compagne e compagni,
non intendo qui rispondere a un ministro spergiuro, che dopo aver giurato sulla Costituzione firmata dal Comunista Umberto Terracini, si presenta agli studenti, alle studentesse e ai loro docenti nei panni di un gerarca posto alla testa del Minculpop.
Chiedo invece, questo sì, una risposta forte e collettiva.
Stanotte Antonio Gramsci, morto di carcere fascista, è venuto a rimproverarmi del silenzio complice con quale ho accolto il foglio di propaganda del Partito Nazionale Fascista, firmato dallo spergiuro Valditara. Il grande maestro di Comunismo, morto di galera fascista, indossava l’abito del detenuto; a nome suo e delle innumerevoli vittime Comuniste, massacrate dal capitalismo di Valditara, cadute nelle lotte per il lavoro e per la giustizia sociale, torturate e uccise in quella Guerra di Liberazione che ci ha regalato la Costituzione tradita da Valditara, chiedeva con parole pressanti una nostra risposta.
Non era un caso se con lui c’erano, inorriditi, i liberali democratici Amendola e Gobetti e il Partigiano Gaetano Arfè. Che combatterono per i valori così indegnamente rappresentati dallo scribacchino sedicente liberaldemocratico.
A nome suo e di quanti hanno reso nobile e immortale la parola Comunismo, a nome di Amendola, Gobetti e Arfè, chiedo alle forze politiche che conservano un minimo di fedeltà alla nostra Costituzione calpestata, ai sindacati, ai docenti e alle docenti, agli studenti e alle studentesse, ad artisti e intellettuali liberi e libere, a lavoratori e precari sfruttati e ai disoccupati mortificati e ignorati, di scendere nelle piazze, di occuparle  e di chiedere le immediate dimissioni del nemico della scuola, della cultura e della civiltà.

FreeSkipperItalia, 11 novembre 2022

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Mentre siamo parte attiva in una guerra e in piazza si chiede la pace, è a dir poco singolare: dopo un secolo, la nostra repubblica parlamentare, che ha tra i suoi principi fondamentali il ripudio della guerra, celebra ancora un conflitto nel quale ci trascinò a tradimento un re criminale con un patto segreto ignorato dal Parlamento. Un conflitto feroce e insensato, un’infamia, universalmente nota come «inutile strage». Se è vero che le parole non sono mai neutre e pesano come sassi, forse non c’è segnale più raccapricciante dello stato di coma profondo in cui versano le Istituzioni, che la parola utilizzata in netto contrasto col dettato costituzionale: celebrare vuol dire esaltare, glorificare, ricordare festosamente; una parola, quindi, che fa riferimento a un vanto, a un moto di orgoglio, a una lezione positiva da impartire ai giovani del nostro tempo.
Ma che c’è da celebrare un secolo dopo la «Grande Guerra»? L’indecente voltafaccia nei confronti di antichi alleati, aggrediti oltre i loro confini, benché ci avessero offerto Trieste e Trento per le quali dicevamo di voler fare la guerra? La lezione di tradimento e di violenza? Il Parlamento posto di fronte al fatto compiuto e subito messo in mora? Che degno ricordo celebriamo? La democrazia sospesa e le decimazioni? I giovani mandati al macello coi berretti di feltro in attesa degli elmetti, o la stoltezza feroce di Cadorna e dei suoi generali? Come facciamo a dimenticare i socialisti e gli anarchici mandati nelle missioni dove più certa era la morte? E i soldati uccisi dai carabinieri pronti a sparare a chi fuggiva terrorizzato? Perché si tace dei centomila nostri prigionieri considerati disertori e abbandonati a se stessi, in mano a un nemico che stentava ad alimentare i suoi uomini al fronte e uccisi dalla fame e dal freddo nei campi di prigionia? Perché non raccontiamo ai giovani l’inaudita ferocia delle nostre classi dirigenti?
Sarebbe giusto farlo, ma è un ricordo incompatibile con la parola «celebrare». Se a uno studente fai oggi i nomi di Mauthaushen e Theresienstandt, nel migliore dei casi ti parlerà degli eccidi nazisti. Nessuno ti dirà che trent’anni fa, in un libro ignorato, che meriterebbe di essere indispensabile sussidio nello studio dell’Italia nel primo conflitto mondiale, Giovanna Procacci ci rivelò, senza temere smentite, che in quei luoghi finirono ammassati 600.000 nostri soldati che si erano arresi al nemico e furono tutti considerati traditori. Una inconfutabile documentazione d’archivio e le lettere dei militari sequestrate dalla censura narrano – evidentemente invano – l’eccidio voluto dal nostro Paese in nome dell’amor patrio: centomila uomini morti di fame e di freddo perché i Governi sapevano ma non vollero aiutarli *.

«È un affare molto serio», scriveva un ufficiale da Berna; «bisogna, anzitutto premettere che i tedeschi, non avendo ormai più niente da mangiare, non possono dare maggiormente ai prigionieri. Questi disgraziati, se non sono ufficiali, sono costretti ad un lavoro di 12-14 ore al giorno, sono condannati ad una morte molto più certa che quando erano sul fronte. Creda che questa non è esagerazione. Ne ho visto e ne ho interrogato. So di un sergente il quale ha dato le sue scarpe nuovissime per qualche biscotto. Quello lì aveva potuto conservarsi le scarpe. Quasi tutti gli italiani sono stati spogliati ed hanno dovuto passare l’inverno senza scarpe e talvolta senza cappotto. Il numero dei disgraziati, i quali non vedranno mai più il sole di Italia sarà enorme. Bisogna dunque che la Patria assista i suoi prigionieri, […] che l’Italia faccia in ogni campo dove saranno internati sudditi italiani degli invii collettivi di biscotti e altri viveri, che vengono poi distribuiti dal Comitato scelto nei prigionieri, il quale deve essere costituito in ogni campo. Questo è l’unico rimedio perché: 1°) non si otterrà mai che la Germania dia da mangiare ai prigionieri poiché i tedeschi stessi crepano di fame. 2°) le autorità quando non favoriscono il furto, chiuderanno sempre gli occhi sulla disparizione dei pacchi postali individuali».

Generali e politici non ascoltarono e si sa bene il perché: più affamati e disperati erano i prigionieri, più se ne condannavano a morte, più si scoraggiava la diserzione dei combattenti. Un nome di questa scelta disumana, fu fermata la Croce Rossa e tutto fu coperto da una propaganda nazionalista così ben orchestrata, da rendere ciechi persino i genitori dei nostri infelici soldati.
Prigioniero a Theresienstadt in Boemia, così il 5 agosto 1916 un soldato scriveva al padre:

«Non mi degno più chiamarvi caro padre avendo ricevuto la vostra lettera oggi dove lessi che era meglio fossi morto in guerra, e che ho disonorato voi e tutta la famiglia. Tutti parlano male di me. Perché capisco che non sentite più l’amor filiale, non sentite altro che l’amor patrio e pel vostro Re. Perciò d’ora in poi sarò il vostro più grande nemico, e non più il vostro Domenico. Vi ringrazio di tutto cuore, ma non mandatemi più nulla. Addio. Sapete che a scrivere non so tanto; ma sono mie parole lo stesso».
Pochi mesi dopo, da Mauthausen, un altro prigioniero scriveva alla mamma:

«Mia cara madre, ho ricevuto la vostra […]. Il contenuto di essa, riguardante la mia disgrazia mi ha recato dolore ed anche pianto. Mamma, io sono innocente, ve lo confesso con ampia sicurezza, perché la mia coscienza me lo dice e me lo rafferma. Sono libero da ogni rimorso […], ho gran fede in Iddio perché lui riconoscerà la mia innocenza e mi aiuterà nella lotta che sosterrò al mio ritorno. Si, al mio ritorno, dico, perché io verrò, verrò a giustificare la mia ingiusta accusa.
Anziché rinunciare la mia patria desidero anche ingiustamente soffrire la condanna. […] State tranquilla mamma perché vostro figlio non vi ha disonorato».

Per gli infelici proletari prigionieri, non si trattava solo di difendere la dignità e la vita, ma di fare i conti con terribili sensi di colpa: essi sapevano infatti, che la resa al nemico, benché inevitabile, era ricaduta sulle famiglie, già private delle loro braccia. «ti hanno levato il sussidio», scriveva al padre un contadino pugliese il 16 febbraio del 1918, ma

«sono grandi vigliacchi perché io quando fui fatto prigioniero fu colpa del mio tenente e non è colpa mia, e poi noi fummo fatti prigionieri in 32 soldati e caporali e 2 sottotenenti come fanno a dire che io sono disertore?».

Lettere mai giunte ai familiari e per fortuna conservate in archivio. Lo sanno in molti: celebrare la guerra non è una scelta nobile. Celebrare questa guerra, con 100.000 omicidi di Stato su 600.000 caduti, è un’autentica vergogna.

* Giovanna Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella grande guerra, Editori Riuniti, Roma, 1993.

Officina dei Saperi, 7 novembre 2022; FreeSkipperItalia e Zazoom, 8 novenbre 2022

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