Il silenzio sulla militanza antifascista di tanti combattenti fa delle Quattro Giornate rabbia di gente disperata. “Scugnizzi”, secondo il cliché della “città di plebe”, da cui, più che barricate, t’aspetti le suppliche che il prefetto fascista ricorda beffardo: “Signurì! Fate che la guerra finisca, fate finire la guerra, Signurì!” In realtà, i nazisti ricordano la propaganda sovversiva, “che scatena gli elementi rivoluzionari, facendo temere la rivolta, e la polizia segnala manifesti che invitano alla lotta, fogli clandestini, scritte inneggianti alla Russia e una “preconcetta avversione per la Germania” che fa più paura del disastro militare.
A marzo, arresti di studenti rivelano che anche “giovani di buona famiglia” collaborano coi “rossi”: socialisti come Fermariello frequentano universitari repubblicani guidati da Adolfo Pansini, il quale lavora con i comunisti di Torre Annunziata. In fabbrica si temono operai decisi a scioperare e nelle vie devastate girano tram con la scritta “W Churchill”, libelli che attaccano il “Natale di Roma, Natale di vergogna”, salutano il primo maggio e ricordano Matteotti. La gente, affamata, odia i tedeschi che al mercato nero arraffano formaggi, uova, lardo, carne e mandano in Germania merce razionata. Ben prima dell’armistizio, la soldataglia è truppa d’occupazione: si diverte a picchiare passanti, saccheggia, usa la contraerea quando non c’è allarme e gode per la gente atterrita. In una città ferita dalla bombe, al Vomero, al Rione San Pasquale e al Quadrivio di Arzano i nazisti usano scantinati come polveriere. A luglio anche il confine della violenza sessuale è superato.
Caduto il regime, Napoli accusa i nazisti: “a ogni obiezione, un’arma spianata”, ma il capo della polizia, che non vuole “urtare la suscettibilità dei tedeschi” è duro con operai e antifascisti, come mostrano i morti in piazza e gli arresti di agosto a Cappella Cangiani, dove “i sovversivi” si domandano che fare con Badoglio e i nazisti. Per il Pci, Ernesto Lionetti e Paolo Ricci chiedono prudenza. Per l’azione immediata premono Cesare Zanetti per i libertari, Libero Villone per il “Gruppo Spartaco” e i socialisti rivoluzionari Rocco D’Ambra e Marco Pasanisi. La polizia, guidata da spie dell’Ovra, arresta 49 presenti, tra cui il socialista Luigi Blundo, perseguitato politico, Luigi Mazzella, che è stato a Mosca con i bolscevichi, Catello Esposito e Corrado Graziadei, confinati del Pci. In trappola Vincenzo Iorio, poi segretario della Camera del Lavoro, Giovanni Autiero, futuro dirigente della Federterra, Luigi Velotti, che guiderà l’Unione Lavoratori Agricoli e Salvatore Angelotti, poi combattente come molti arrestati e amico di Federico Zvab, reduce da Ventotene, che porterà nella rivolta l’esperienza di Spagna, dov’è stato comandante di batteria.
Gli arresti confermano la tesi tedesca sull’attività “sovversiva” e danno un volto politica alla rivolta: piccoli gruppi comunisti, socialisti, repubblicani e anarchici. Anche una figura simbolo dell’anima popolare della sommossa, Maddalena Cerasuolo, non lottò per caso: il padre, Carlo, era finito in manette col comunista Espedito Ansaldo, perseguitato e combattente delle Quattro Giornate.
La bufera si annuncia chiara il 7 settembre al Corso Garibaldi, dove gli Alleati scatenano l’inferno dal cielo e i nazisti sparano coi carri armati agli aerei tra case e gente inerme, suscitando l’ira popolare. Per un po’ soldati e folla si fronteggiano. I nazisti, armi in pugno, chiedono strada, la gente li blocca, mette mano ai sassi e va via solo quando i mitra puntano l’uomo. Ha ragione il Questore: “gli incidenti causati dai tedeschi, ogni giorno più gravi”, colmano “la misura che, una volta passata, potrebbe suscitare inattese reazioni”. Venti giorni e lì, in una zona che Napoli chiama “Siberia”, la parola passerà alle armi.
Con l’occupazione, il ruolo dei perseguitati politici è palese. Mentre tutto precipita, Zvab ha uomini armati, Pansini è pronto coi suoi repubblicani e c’è chi fa capo agli anarchici schedati Tito Murolo e Armido Abbate, seguito dai compagni di fede Pasquale Di Vilio, detto “Sbardellotto”, in ricordo del libertario fucilato, Alastor Imondi, figlio di Giuseppe, figura storica dell’anarchia, e i fratelli Malagoli, Telemaco, Spartaco e Bruno. A via Foria, nel bar di un antifascista, un gruppo segue Alfredo Miccio, licenziato dall’Ilva, e un nucleo formano i comunisti Vincenzo Prota, Michele Persico e il milanese Vincenzo Pianta, che morirà “anticipando “il sacrificio dei napoletani caduti nella stessa causa in altre città italiane”. Anche per il Pci, si muove un confinato, Ciro Picardi, che contatta Cacciapuoti e i capi di altri gruppi: “Salvatore Rollo, ortopedico repubblicano schedato, l’azionista Sersale, Ezio Murolo ed altri, con i quali si è provato a capire come cacciare i tedeschi dalla città”. Ezio Murolo, schedato come il fratello Tito e ufficiale nel 1915-18” è stato aiutante di campo di D’Annunzio a Fiume. Con lui e con Zvab, avvezzi al comando sono il comunista Aurelio Spoto, l’azionista Mario Orbitello e il socialista Pasanise, ufficiali in servizio. Forse non avrebbero osato ma, mentre contano armi e compagni, “guastatori tedeschi, rastrellamenti, deportazioni, fucilazioni e incendi completano il quadro e il 27 settembre inizia la rivolta”.
Cancellati i “perseguitati politici”, per far posto a “scugnizzi” e fascisti che cambiano campo con due colpi sparati ai camerati, i dati incompatibili con la “città di plebe” hanno viaggiato verso il silenzio su binari morti: lotta di classe, dissensi sul Paese da rifare, i prefetti che raccomandano gerarchi agli Alleati per evitare svolte radicali. Di quella Italia, in bilico tra speranza e tragedia, dignità e vergogna, l’inferno napoletano, in cui la pace convive con la guerra e il vecchio si incontra col nuovo, è ad un tempo “laboratorio” e chiave di lettura. Non andò come speravano i combattenti, ma da lì nacque la Costituzione e va difesa: è un baluardo contro la reazione.
Uscito su Repubblica Napoli il 30 settembre 2014 col titolo Quando esplose l’ira popolare.