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Archive for settembre 2014

Tito Murolo a

Tito Murolo, anarchico, combattente delle Quattro Giornate

Il silenzio sulla militanza antifascista di tanti combattenti fa delle Quattro Giornate rabbia di gente disperata. “Scugnizzi”, secondo il cliché della “città di plebe”, da cui, più che barricate, t’aspetti le suppliche che il prefetto fascista ricorda beffardo: “Signurì! Fate che la guerra finisca, fate finire la guerra, Signurì!” In realtà, i nazisti ricordano la propaganda sovversiva, “che scatena gli elementi rivoluzionari, facendo temere la rivolta, e la polizia segnala manifesti che invitano alla lotta, fogli clandestini, scritte inneggianti alla Russia e una “preconcetta avversione per la Germania” che fa più paura del disastro militare.
A marzo, arresti di studenti rivelano che anche “giovani di buona famiglia” collaborano coi “rossi”: socialisti come Fermariello frequentano universitari repubblicani guidati da Adolfo Pansini, il quale lavora con i comunisti di Torre Annunziata. In fabbrica si temono operai decisi a scioperare e nelle vie devastate girano tram con la scritta “W Churchill”, libelli che attaccano il “Natale di Roma, Natale di vergogna”, salutano il primo maggio e ricordano Matteotti. La gente, affamata, odia i tedeschi che al mercato nero arraffano formaggi, uova, lardo, carne e mandano in Germania merce razionata. Ben prima dell’armistizio, la soldataglia è truppa d’occupazione: si diverte a picchiare passanti, saccheggia, usa la contraerea quando non c’è allarme e gode per la gente atterrita. In una città ferita dalla bombe, al Vomero, al Rione San Pasquale e al Quadrivio di Arzano i nazisti usano scantinati come polveriere. A luglio anche il confine della violenza sessuale è superato.
Caduto il regime, Napoli accusa i nazisti: “a ogni obiezione, un’arma spianata”, ma il capo della polizia, che non vuole “urtare la suscettibilità dei tedeschi” è duro con operai e antifascisti, come mostrano i morti in piazza e gli arresti di agosto a Cappella Cangiani, dove “i sovversivi” si domandano che fare con Badoglio e i nazisti. Per il Pci, Ernesto Lionetti e Paolo Ricci chiedono prudenza. Per l’azione immediata premono Cesare Zanetti per i libertari, Libero Villone per il “Gruppo Spartaco” e i socialisti rivoluzionari Rocco D’Ambra e Marco Pasanisi. La polizia, guidata da spie dell’Ovra, arresta 49 presenti, tra cui il socialista Luigi Blundo, perseguitato politico, Luigi Mazzella, che è stato a Mosca con i bolscevichi, Catello Esposito e Corrado Graziadei, confinati del Pci. In trappola Vincenzo Iorio, poi segretario della Camera del Lavoro, Giovanni Autiero, futuro dirigente della Federterra, Luigi Velotti, che guiderà l’Unione Lavoratori Agricoli e Salvatore Angelotti, poi combattente come molti arrestati e amico di Federico Zvab, reduce da Ventotene, che porterà nella rivolta l’esperienza di Spagna, dov’è stato comandante di batteria.
Gli arresti confermano la tesi tedesca sull’attività “sovversiva” e danno un volto politica alla rivolta: piccoli gruppi comunisti, socialisti, repubblicani e anarchici. Anche una figura simbolo dell’anima popolare della sommossa, Maddalena Cerasuolo, non lottò per caso: il padre, Carlo, era finito in manette col comunista Espedito Ansaldo, perseguitato e combattente delle Quattro Giornate.
La bufera si annuncia chiara il 7 settembre al Corso Garibaldi, dove gli Alleati scatenano l’inferno dal cielo e i nazisti sparano coi carri armati agli aerei tra case e gente inerme, suscitando l’ira popolare. Per un po’ soldati e folla si fronteggiano. I nazisti, armi in pugno, chiedono strada, la gente li blocca, mette mano ai sassi e va via solo quando i mitra puntano l’uomo. Ha ragione il Questore: “gli incidenti causati dai tedeschi, ogni giorno più gravi”, colmano “la misura che, una volta passata, potrebbe suscitare inattese reazioni”. Venti giorni e lì, in una zona che Napoli chiama “Siberia”, la parola passerà alle armi.
Con l’occupazione, il ruolo dei perseguitati politici è palese. Mentre tutto precipita, Zvab ha uomini armati, Pansini è pronto coi suoi repubblicani e c’è chi fa capo agli anarchici schedati Tito Murolo e Armido Abbate, seguito dai compagni di fede Pasquale Di Vilio, detto “Sbardellotto”, in ricordo del libertario fucilato, Alastor Imondi, figlio di Giuseppe, figura storica dell’anarchia, e i fratelli Malagoli, Telemaco, Spartaco e Bruno. A via Foria, nel bar di un antifascista, un gruppo segue Alfredo Miccio, licenziato dall’Ilva, e un nucleo formano i comunisti Vincenzo Prota, Michele Persico e il milanese Vincenzo Pianta, che morirà “anticipando “il sacrificio dei napoletani caduti nella stessa causa in altre città italiane”. Anche per il Pci, si muove un confinato, Ciro Picardi, che contatta Cacciapuoti e i capi di altri gruppi: “Salvatore Rollo, ortopedico repubblicano schedato, l’azionista Sersale, Ezio Murolo ed altri, con i quali si è provato a capire come cacciare i tedeschi dalla città”. Ezio Murolo, schedato come il fratello Tito e ufficiale nel 1915-18” è stato aiutante di campo di D’Annunzio a Fiume. Con lui e con Zvab, avvezzi al comando sono il comunista Aurelio Spoto, l’azionista Mario Orbitello e il socialista Pasanise, ufficiali in servizio. Forse non avrebbero osato ma, mentre contano armi e compagni, “guastatori tedeschi, rastrellamenti, deportazioni, fucilazioni e incendi completano il quadro e il 27 settembre inizia la rivolta”.
Cancellati i “perseguitati politici”, per far posto a “scugnizzi” e fascisti che cambiano campo con due colpi sparati ai camerati, i dati incompatibili con la “città di plebe” hanno viaggiato verso il silenzio su binari morti: lotta di classe, dissensi sul Paese da rifare, i prefetti che raccomandano gerarchi agli Alleati per evitare svolte radicali. Di quella Italia, in bilico tra speranza e tragedia, dignità e vergogna, l’inferno napoletano, in cui la pace convive con la guerra e il vecchio si incontra col nuovo, è ad un tempo “laboratorio” e chiave di lettura. Non andò come speravano i combattenti, ma da lì nacque la Costituzione e va difesa: è un baluardo contro la reazione.

Uscito su Repubblica Napoli il 30 settembre 2014 col titolo Quando esplose l’ira popolare.

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download«Perché se non lo capiamo noi, ce lo spiega Bruxelles!»…
Solo un cretino totalmente incapace e innamorato di se stesso  avrebbe avuto il coraggio di spiegare così il motivo per cui attacca ferocemente i diritti dei lavoratori. Se quello che ha detto è vero – e come si fa a dubitarne? – il demente ha pubblicamente riconosciuto di non contare nulla, ha ammesso che l’articolo 18 lui lo cancella per vendere i lavoratori ai padroni come gli hanno ordinato di fare. Stasera sappiamo che in giro c’è un deficiente con un enorme potere; un ebete che pubblicamente dichiara la sua impotenza politica e la sua totale subordinazione al capitale finanziario; un gradasso che, dopo aver minacciato sfracelli e rivoluzioni – «l’Europa la cambio io!» – non si rende nemmeno conto di aver fatto pubblicamente il notaio del suo fallimento politico. Chiunque sentirebbe il bisogno di andarsene a casa, il deficiente no. Lui pensa che l’arte della politica si riduca a un battibecco su twitter, un trucco da saltimbanco, un gioco di specchi deformanti.
Se non si trova il modo di fermarlo, il mentecatto svenderà le nostre vite e ci ridurrà a servi del mercato.

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catilin3Costituzione della Repubblica
Articolo 87:

Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale. Può inviare messaggi alle Camere. Indice le elezioni delle nuove Camere e ne fissa la prima riunione. Autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge d’iniziativa del Governo. Promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti. Indice il referendum popolare nei casi previsti dalla Costituzione. Nomina, nei casi indicati dalla legge, i funzionari dello Stato. Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra, l’autorizzazione delle Camere. Ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere. Presiede il Consiglio superiore della magistratura. Può concedere grazia e commutare le pene. Conferisce le onorificenze della Repubblica”.

Che significa? Anzitutto questo: il Presidente della Repubblica non c’entra con l’attività del governo, con la polemica politica tra maggioranza e opposizione parlamentare e meno che mai con le lotte interne ai partiti tra gruppi di minoranza e forze che sostengono un segretario, nemmeno se quest’ultimo è anche Presidente del Consiglio. Il Capo dello Stato, per usare le parole di Meuccio Ruini, Presidente della “Commissione dei 75”, incaricata di redigere il testo costituzionale, “rappresenta ed impersona l’unità e la continuità nazionale, la forza permanente dello Stato, al di sopra delle fuggevoli maggioranze”. Egli, quindi, non può assolutamente entrare nel merito della battaglia politica che si svolge in Parlamento e meno che mia intervenire a favore delle posizioni sostenute dal governo e contrastate dalla opposizioni. Egli è e deve restare “arbitro” imparziale e custode della Costituzione, al di sopra delle contese politiche. L’Assemblea Costituente chiarì senza ombra di dubbi che nei suoi “messaggi alle Camere” egli non può indicare gli argomenti più importanti che interessano il Paese, come accade negli Stati Uniti. Non può perché l’Italia è una repubblica parlamentare. Egli ha diritto di rivolgere alle Camere parole pacificatrici e rasserenatrici senza prendere però posizione per questa o quella parte. Quando, in questi giorni, ha osato chiedere senza alcuna prudenza istituzionale “politiche nuove e coraggiose per la crescita e l’occupazione”, quando si è brutalmente inserito nel dibattito politico sull’articolo 18, affermando che “dobbiamo rinnovare decisamente istituzioni, strutture sociali, comportamenti collettivi”, perché, secondo lui, “non possiamo più restare prigionieri di conservatorismi, corporativismi e ingiustizie”,  Giorgio Napolitano ha superato il segno. Egli ha smesso di essere arbitro imparziale e ha assunto un ruolo di sostegno sia alla maggioranza di governo contro l’opposizione, che a quella interna al PD in lotta con la minoranza sul tema della riforma del mercato del lavoro.
A questo punto è inutile che intervengano i soliti avvocati delle cause perse: quest’uomo non è più il garante della Costituzione repubblicana, ma un pericolo grave per la vita della repubblica e della democrazia. O si dimette immediatamente o dovrà rassegnarsi al motivato e giusto disprezzo di chi, a cominciare da me, scriverà che è un traditore senza temere l’accusa di vilipendio, perché vilipesa è la Costituzione che Napolitano avrebbe il dovere di tutelare e invece calpesta.

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images (1)I fatti anzitutto: Terni, 5 aprile 2014; la quinta C dell’Istituto per Geometri «Sangallo» lavora serenamente, quando la porta dell’aula si apre bruscamente e sulla soglia si materializzano un cane poliziotto e un pugno di uomini in divisa. Si tratta di un errore? La polizia ha scambiato la scuola per un covo di delinquenti, una piazza di spaccio, un laboratorio in cui si raffina eroina? No. Le forze dell’ordine non sono lì per errore: nel mirino hanno proprio la scuola e vogliono perquisire gli studenti. A Terni in quel momento delinquenti in giro ce ne saranno, ma per la polizia il blitz va fatto lì, in una scuola dello Stato, dove evidentemente, secondo i geniali responsabili dell’ordine, c’è il quartier generale della malavita di Terni e dintorni. Nel “covo” all’opera c’è un docente, Franco Coppoli, insegnante di lettere, che non è disposto a lasciare la cattedra in mano a un cane e ai suoi sconcertanti accompagnatori.
I poliziotti hanno un ordine scritto, un mandato di perquisizione firmato da un magistrato? Quant’è pignolo questo professore e com’è sospetta la sua richiesta! Cosa nasconde Franco Coppoli, chi vuol proteggere? E come si permette di mettere i bastoni tra le ruote di una banda di uomini in divisa che sguarnisce il territorio e organizza fantascientifici blitz in una scuola? In realtà, la posizione di Coppoli è coraggiosa, ma non azzardata e non è facile metterla in crisi: «Se non avete un mandato, non potete entrare». Studenti e professore scoprono così, con sconcerto, che i tutori dell’ordine non sono degli imboscati perditempo, decisi a sottrarsi ai rischi della strada. Le cose stanno così, spiegano a Coppoli, coi nervi a fior di pelle, i poliziotti: «L’ingresso in Istituto è stato richiesto dalla preside».
I conti, però, non tornano. Un capo d’Istituto, infatti, osserva con calma il professore, ha diritto di autorizzare l’ingresso nella scuola, ovunque, tranne che nelle aule. Sono certi i poliziotti che la preside li ha autorizzati? E’ strano, perché «dentro le classi – spiega Coppoli – siamo noi docenti a decidere, dal momento che noi siamo responsabili». 
Per esser chiaro, aggiunge che il compito istituzionale della polizia è quello di far rispettare le leggi, non di violarle. Insomma, se vogliono entrare, facciano pure, ma sappiano che si beccheranno una denuncia per interruzione di pubblico servizio.
La situazione sarebbe paradossale, se la tragica eloquenza dei fatti non raccontasse agli studenti ciò che da tempo si prova a nascondere in tutti i modi: ormai siamo in uno Stato di polizia. Coppoli la spunta, perché i poliziotti, colti in contropiede dall’inattesa resistenza, abbandonano il covo e si portano via il cane adibito al controllo antidroga. Quello che è accaduto a Coppoli si è ripetuto quel giorno in altre 4 scuole superiori di Terni. Tutto è nato da una decisione della Questura, presa in accordo coi dirigenti scolastici. 
Il collega Coppoli non solo è stato l’unico a pretendere il rispetto dei principi fondanti degli ordinamenti scolastici e dell’autonomia della scuola, ma ha fatto anche circolare la notizia. Com’era prevedibile, il Dirigente scolastico ha pensato bene di avviare un procedimento disciplinare. Se qualcuno nutrisse dubbi sulla condizione comatosa della nostra vita democratica, farà bene a farseli passare: alla riapertura del nuovo anno scolastico, il docente che ha osato difendere la legalità repubblicana si è trovato sulle spalle 12 giorni di sospensione dalle lezioni e dallo stipendio. Perché? Perché in Italia nessuno di noi ha più il diritto di rivendicare la libertà e l’autonomia e di sostenere una concezione della scuola in cui docenti e studenti siano titolari a pieno titolo di diritti. Primo tra tutti, quello di essere rispettati in quanto persone. Di fronte a un potere politico sempre più incontrollato e ai suoi bracci armati, noi siamo ormai dei sudditi da trattare come possibili delinquenti. Le nostra aule possono così diventare le celle d’una galera in cui i secondini fanno quello che vogliono. Fino a qualche anno fa, il dirigente dell’Ufficio Scolastico Regionale che si fosse azzardato a prendere un provvedimento disciplinare di questo genere non se la sarebbe cavata e buon mercato: avrebbe pagato pesantemente la sua decisione. Oggi no. E fa davvero impressione vedere le scuole aperte senza un’ora di sciopero o una protesta, i docenti rassegnati e i sindacati inerti. Solo i Cobas hanno reagito.
C’è da sperare che docenti e studenti si stringano attorno al professore colpito e reagiscano con fermezza, a cominciare da quelli dell’Istituto in cui insegna. In quanto a giornali e reti televisive, è tempo di boicottarli: al loro confronto, i media del regime fascista furono solo dei dilettanti della disinformazione.

Uscito su Agoravox il 29 settebre 2014

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imagesIl 23 di febbraio è la ministra Giannini che apre i cuori alla speranza: “53 miliardi per la scuola sono pochi”. Segue a ruota l’autorevole conferma del Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che il giorno seguente precisa: “Il primo punto del programma è il rilancio dell’educazione. Da giugno a settembre realizzeremo un piano straordinario per le infrastrutture scolastiche”. Un impegno chiaro e ufficiale, che gli guadagna fiducia e consensi. Il 26 febbraio, però, a stretto giro di posta, la postilla di Renzi affidata a “Repubblica” apre la lunga stagione delle docce scozzesi: “Abbiamo due miliardi per ristrutturare le aule”. Dai 53 miliardi che parevano pochi si passa a un saliscendi di numeri buoni per il banco lotto. L’8 marzo la ministra Giannini dimezza i fondi promessi da Renzi e dichiara impassibile che “per la sicurezza sono pronti interventi per 1 miliardo”. Il 10 marzo, due giorni dopo, Renzi, stremato dalla quotidiana dose di twitter, ignora i tagli dichiarati dalla Giannini e, come Cristo coi pani e coi pesci, moltiplica i fondi e confida alla “Stampa” che si son “trovati 2 miliardi e mezzo per interventi sull’edilizia”. I tempi però si sono allungati: devono bastare per tutto il 2016.
Mentre sorge, inquietante, il dubbio che nel governo la destra non sappia ciò che fa la sinistra, il sottosegretario all’Istruzione, Roberto Reggi, rilascia sconcertanti dichiarazioni: “Tutti i numeri che leggete sull’intervento del governo sull’edilizia scolastica – afferma – sono falsi. Tutti falsi” Proprio così: falsi!. “Nessuno sa davvero quante e quali sono le scuole su cui dobbiamo intervenire, né conosce i fondi disponibili. Qui nessuno sa niente” sbotta il viceministro, “Renzi spara razzi nel cielo, quello è il suo talento, ma poi noi arranchiamo dietro. Mancano tutti i dettagli”. Sui razzi si apre così un’incredibile gara. Per Renzi la scuola ha già avuto 3 miliardi e 700 milioni, per la Giannini sono 200 milioni in meno e il 15 giugno, dopo mesi di fuochi d’artificio e razzi a moltissimi stadi, sulla “Stampa” i numeri ridimensionati gelano quanto sopravvive dell’iniziale entusiasmo: “Piano scuola al via. Pronto un miliardo”, dichiara il governo, senza rinunciare a promesse nate per tirar su il morale e destinate puntualmente a buttarlo giù: “Tra il 2015 e il 2020 arriveranno altri 4 miliardi”. Quello ch’era dato per certo è rimandato così alle calende greche, ma ci consola la luce di un tracciante: “La mia scuola parlerà inglese”, dice a fine marzo la Giannini, che ad aprile, però, narra “Repubblica”, ruba l’elmetto alla collega della difesa Pinotti, prende il fucile e va in trincea: “Mi batterò contro i tagli agli atenei”. afferma, e svela così che il governo lotta contro governo.
In attesa che uno dei razzi lanciati vada a segno, a luglio si parla di “un premio ai professori”, che, però, “dovranno lavorare di più”. Non c’è tempo per capire che razza di premio sia quello che ti aumenta il lavoro senza contrattare miglioramenti dello stipendio: il primo razzo di Renzi, lanciato a febbraio, è ridotto a un misero bengala, ma c’è infine la buona novella. Il razzo stavolta lo lancia la “Stampa”: “partono le ‘scuolebelle’ di Renzi. Da domani arrivano gli imbianchini. Stanziati 150 milioni da usare entro dicembre”. E’ un anemico bengala: i fondi già utilizzati per i lavoratori socialmente utili, messi alla porta, sono stati usati per reclutarli di nuovo con le vecchie mansioni più il ruolo di imbianchini. Nel silenzio biecamente complice dei media, si scopre che i 53 miliardi di febbraio erano una bufala e non resta che lanciare la campagna per l’elemosina: “Via libera all’8 per mille per rilanciare l’edilizia scolastica” titola la “Repubblica”, il 24 luglio, pochi giorni prima che Renzi faccia un triste dietrofront e imponga lo “stop alla pensione per 4 mila insegnanti”. La stagione dei razzi è finita? Nemmeno per sogno! Renzi, narrano giocosi giornali e televisioni al servizio del re, presi per il bavero il tecnici del Tesoro, ha promesso: “Troverò io le risorse'”.
Agosto batte il record delle docce scozzesi. Si parte con la doccia gelata di “Repubblica”, che regista l’allarme delle Province: “Scuole senza soldi, riapertura a rischio, […] colpite dai tagli per 9 miliardi: non possiamo garantire sicurezza e riscaldamento delle aule”, ma ci si fa coraggio alla luce d’un razzo del “Corsera” che alla vigilia di ferragosto alimenta i sogni: “informatica dalla primaria e alla maturità si parlerà inglese”. Caldo, freddo, freddo caldo, si rischia la bronchite: un giorno il missile di Renzi che ci mette la faccia – scuola? “tratto io, sarò giudicato su questo”, che è come dire, finora abbiamo scherzato – un altro l’annuncio: “Scuola, nuovi concorsi e aumenti”. Nuovi concorsi? Ma no, che avete capito? C’è una grande “svolta sui precari: subito l’assunzione per 100 mila professori”. Assunzione? Sì, forse, ma intanto “servirà un miliardo e mezzo”. E come si fa? Niente paura avvisa Renzi, “il 29 agosto presenteremo una riforma complessiva che, a differenza di altre occasioni, intende andare nella direzione dei ragazzi, delle famiglie e del personale docente che è la negletta spina dorsale del nostro sistema educativo”. Razzi stupefacenti che non fanno male, sicché la moderata Giannini, si spinge fino alla “rivoluzione scuola”, ed espone il suo piano: ‘Meritocrazia e apertura ai privati Mai più precari e supplenti, aumenti di stipendio ai professori migliori” Gongolano i giornali tra il 26 e il 27 agosto, quando due razzi di rara potenza annunziano un “piano per riassorbire i precari” che è l’annuncio degli annunci: “precari: subito l’assunzione per 100 mila professori”. In un agosto freddino come non mai, si gioca al rialzo e il “Corsera”, per non farsi scarseggiare missili, razzi e un buon bengala, titola entusiasmato: “sono 120 mila i professori a termine”. Crescono i numeri, ma cambiano le modalità del reclutamento, si assumeranno precari “ma senza cattedra fissa”. La doccia bollente si fa d’un tratto tiepida e “Repubblica”, preoccupata, lancia l’allarme: doccia veloce, sennò rimarrete insaponati! Mancano i soldi e le cose stanno così: “chi lavora di più prenderà più soldi”. Toccherà ai presidi, ma non si sa come si valuterà il lavoro: si tratta di quantità? Conta la qualità? Nessuno sa dirlo e, mentre l’acqua si gela, si torna a parlare di rivoluzione. “Rivoluzione del merito” spiega Repubblica, e il “Corriere” mette in orbita il razzo dei razzi, scrivendo convinto: “Scuola. Liceali, stage al museo. E alle elementari più maestri per classe. Piano istruzione da 3 miliardi l’anno”. Mentre si cercano disperatamente soldi – la BCE ci avverte: non potrete stamparli – si apprende che per “medie e maturità, gli esami cambiano. Le linee guida della riforma puntano alla semplificazione delle prove alla fine dei cicli”. E’ una tale esplosione di razzi che persino il presidente del Consiglio, che pure di razzi e bengala è maestro cinese, sente il bisogno di puntualizzare: calma, signori pennivendoli, “troppa carne al fuoco, la scuola slitta”. Così racconta il “Corriere” il 29 agosto.
La scuola slitta, scarroccia, rischia il testacoda, ma si continua con acqua gelata come fossimo in un manicomio: “Per studenti e prof. ora si cercano i fondi” avvisa il “Corsera” il 29. Gli fa eco la stampa con la classica cura scozzese: “Scuola, assunzioni congelate. Problemi con le coperture, rinviata la riforma. Oggi in Cdm nemmeno le linee guida”. Si va verso l’autunno. “Settembre andiamo è tempo di migrare”, ricorda il vecchio poeta, ma ci si può consolare, perché come saggi pastori, Renzi e Giannini, “rinnovato hanno verga d’Avellano” e se un razzo cadente avvisa che è tempo di verità – “niente assunzioni. Non basta 1 miliardo per stabilizzare i precari” – un razzo di speranza fa luce nel cielo e fa appello all’ottimismo: “c’è un anno di tempo per rivoluzionare la scuola italiana, nei prossimi 12 mesi occorre ripensare come l’Italia investe nella buona scuola. Nel bilancio dello Stato metteremo più soldi sulla scuola e assumeremo 150 mila precari. A partire da gennaio i provvedimenti normativi, perché il 2015 sia l’anno in cui si inizia a fare sul serio”.
Faranno sul serio? Chissà. Finora ci hanno preso per i fondelli.

Uscito su Fuoriregistro il 17 settembre 2014, su Agoravox e sul Manifesto il 19 settembre 2014, col titolo Sulla scuola piovono miliardi di promesse.,

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logopiccoloFuoriregistro deve a Domenico Starnone e al suo fortunatissimo romanzo l’idea del titolo e ha l’ambizione di raccontare la scuola attraverso la cronaca dei fatti, comici o drammatici, minuti o terribili che ne scandiscono l’agire quotidiano, e la libera espressione dei pensieri o delle emozioni che li accompagnano. Passione, sdegno, rabbia, delusione o entusiasmo, vengono condivisi dentro uno spazio che vuole prima di tutto essere d’ascolto e di comprensione delle reciproche ragioni e delle differenti prospettive, alla ricerca di un autentico dialogo. Non ci sono requisiti particolari per la collaborazione, se non il desiderio di costruire una scuola, pubblica, in grado di accogliere tutti e ciascuno e a tutti e a ciascuno offrire una significativa opportunità di crescita e di sviluppo.

Nel suo duplice aspetto di pagina web e newsletter settimanale, la rivista ha ospitato e ospiterà testimonianze personali, informazioni, notizie, comunicati, appelli, proposte didattico-educative, riflessioni sui modelli pedagogici o sociali, giudizi sui percorsi di riforma o sulle scelte politiche da cui traggono origine, tutto quanto, insomma, dentro la scuola costituisce occasione di dibattito e confronto tra le sue componenti, che cercano consapevolezza critica e perseguibili ipotesi di cambiamento.

Nel tempo, la rivista ha cambiato veste e struttura, curando sempre con particolare attenzione l’aspetto partecipativo.

Nelle sezioni dello Spazio aperto chiunque sia interessato può proporre interventi di vario genere: se si tratta di opinioni sulla scuola verranno inserite nella Galassia dedicata, se si tratta di altro in Grandangolo.

Nelle rubriche, la rassegna Notizie dal fronte offre spunti di riflessione sugli avvenimenti scolastici; la nuova sezione In classe è aperta invece ad esperienze più strettamente didattiche, in un’ottica di scambio professionale tra docenti e/o studenti.

In Bacheca potrete segnalare eventi, iniziative, proposte o siti di particolare interesse, recensioni di libri, film, mostre o spettacoli.

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3secondigliano_censi2_primaTerranei limacciosi, roventi d’estate e gelati d’inverno, ammassati tra Via Cassano, il cimitero e gli stucchi umbertini di Corso Italia: questo erano i “Censi” a Secondigliano negli anni Settanta del secolo scorso. Miseria, ignoranza, rassegnazione, povera gente messa a marcire in lerci tuguri, grumi di umanità diffidente e straniera che ti seguiva con la coda degli occhi finché poteva. Così, con la sensazione d’esser seguito, ci passai per sei anni e fu sempre come la prima volta, quando da via Tagliamonte sbucai su una spianata di terra battuta e ciuffi d’erba olivastra: al centro, due prefabbricati con le finestre a vetri rinforzati, circondati da un muro di tufo, tra bidoni anneriti dai falò notturni, carcasse d’auto, cumuli d’immondizia, copertoni, zingari accampati, tende, roulotte, celerini e una folla inferocita. Una scuola in una terra di camorra.
– Via una tribù – sibilò quel giorno il Direttore Didattico – ce n’è un’altra che arriva.
Cominciai così, tra zingari rifiutati, mamme inviperite, manganelli e bambini di prima elementare entrati in classe a fatica in mezzo a compagni distesi a terra, aggrappati ai piedi delle madri. Era scritto in quegli occhi piangenti che parlavano più chiaro delle bocche: la scuola che da studente avevo odiato mi avrebbe ferito di nuovo. Però l’avrei amata.
Erano tempi di svolte così radicali che non bastavano bombe. La scuola si apriva alla società e ai “Censi” la “democrazia partecipata” fu vita vera; per un po’ i collettivi tennero il campo e si lottò. La destra fece carte false per tener fuori la scuola pidocchi, pidocchiosi e pensiero critico e trovò muti consensi a centro, la sinistra frenava ogni forma di autonomia, ma facemmo causa comune coi pidocchiosi che chiedevano diritti, tenemmo duro e la sorte dei pidocchi non pesò su quella dei pidocchiosi ai quali, però, quando si votava – Consiglio di Circolo o Parlamento poco importava – in cambio di voti, i clerico-fascisti donavano pettini stretti, aceto, miracolose polveri antiparassitarie e per sopramisura un impegno allettante: mai più zingari ai “Censi”. I docenti spaesati dalla scuola di massa cercarono riferimenti: la sinistra attirò i liberali, la destra i nostalgici dei tempi andati, che nello schifo per i pidocchi della scuola di massa misero l’odio di classe. In quanto alla “società civile”, piantò baracca e burattini e si buttò sul privato.
Il Direttore Didattico mise in campo il coraggio di ex combattente, ma alla scuola di massa mancò sempre qualcosa, dai bidelli agli arredi, dalle aule alla palestra, dai laboratori ai sussidi. E non bastò nemmeno che molti dei docenti ostili, capito il gioco, scendessero in trincea; la “democrazia partecipata” morì nell’impotenza degli Organi Collegiali e la stagione di lotte si chiuse in labirinti di zingari, copertoni, carcasse d’auto rubate e battaglie sindacali sugli stipendi.
Coi ragazzi di prima giunsi alla quinta, ma a Natale erano analfabeti. Grandi cerchi fuori dai righi, ominidi stilizzati come fossimo al paleolitico, macchiaioli, impressionisti, ma analfabeti: qui mi aveva condotto una “Guida per il maestro” che ignorava l’esistenza dei “Censi” e dei suoi ragazzi. A parte i pidocchi, le classi “migliori” stavano anche peggio, ma aver compagni al duol non scema la pena. I ragazzi mi volevano un bene dell’anima, erano un miracolo di democratica indisciplina, ma il profitto valeva zero e mi prese un’ansia senza nome. La notte sognavo l’alfabetiere, balzavo su col cuore in gola e mi calmavo preparando esami per l’università.
Fu a fine febbraio. Un lampo negli occhi e Bocchetti, trionfante, esibì fogli zeppi di parole corrette. Tartagliava come sempre, in preda a indomabili tremori nervosi, ma la spuntò. In un quadratino in alto a sinistra, come si doveva, aveva messo un topo accettabile; la coda era forse lunga, ma la pagina era piena di parole che cominciavano con “zeta”: corsivo, stampatello, maiuscole e minuscole. Preciso e pulito.
– Bravissimo! – gli feci, sobbalzando – ma dimmi che hai scritto.
– La ”z” di zoccola, pruvessò! E la luce dei suoi occhi entrò nella mia testa. Per i ragazzi dei “Censi” il topo aveva due nomi: “sorice” o “suricillo”, se intendevano topolino, “zoccola” o “zucculona” se si trattava di notevoli dimensioni o donne di facili costumi, E’ terra straniera, mi dissi, e a casa lavorai come un pazzo. Ventiquattr’ore dopo ero uno straccio, ma giunsi ai “Censi” ch’era quasi l’alba. La celere come sempre circondava zingari e scuola. Tappezzai l’aula di nuovi cartelloni. La “z” di “zoccola” al posto d’onore, rinforzata da un frate francescano – “ze’ monaco” ai “Censi” era una finezza da Basilio Puoti – e col frate, a scanso equivoci, incollai un “suricillo” vivace con le sue letterine: “s” maiuscola, minuscola, in stampatello e corsivo. Più in basso, un trionfo di gatti stampati con cura; uno bianconero e un altro fulvo, con le chiarissime iniziali: la “i” di “iatta” e la “m” di “mucillo”. Questo era il gatto ai “Censi”: “iatta” o “mucillo”. Una botte marrone a cerchi neri suggeriva decisa la “v” di “votta”, un’oca grande e grossa stava lì per la “p” di “paparella”, cui facevano compagnia una balena, che confermava con la “p” di pesce la “p” di “paparella”, e via così, doppi e tripli cartelloni per un terremoto che inserì la scuola, la lettura e la scrittura tra le conquiste della vita dei miei tripudianti ragazzi.
In quegli anni divenni maestro. Non chiedete di errori o di danni. Andò come poteva andare. Mi vollero bene, li amai. Ignoranti senza futuro, però sul viso denutrito e negli occhi vivi c’era ancora posto per il rosso dell’imbarazzo, della vergogna e della timidezza, per l’innocenza dell’infanzia, appannata dal velo di chi conosce la vita, per la luce dei sogni, che una parola poteva spegnere, per una domanda di affetto contrastata da ombre nascenti nei momenti di già apprese violenze. Niente era già perso. Regine e re, galantuomini e sognatori, scrittori e pittori geniali, arte, scienza, umanità incorrotta, tutto portavano dentro. Tutto il bene del mondo. Dei genitori, i padri erano invisibili e le mamme a trent’anni già vecchie.
Subito fuori, però, il veleno della “società civile” ci soffocava più degli zingari e della celere. Sullo slargo dopo Via Tagliamonte i cortei di protesta che attraversavano la città non giunsero mai. La politica ai “Censi” si preparava a sostituire nuovi ghetti a vecchi formicai; politica era la licenza concessa a una scuola privata per borghesi benpensanti, che spedì a centro voti progressisti; era il favore in cambio del favore, il voto che valeva lavoro, il commissario governativo per gli esami di Stato scelto ad arte tra chi non vedeva o sentiva e lasciava fuori dal gioco chi rifiutava la “busta”, minacciando denunce; è “un giovane impulsivo e immaturo che crea inutili imbarazzi”, si diceva, e “il Commissario non lo farà più”. Promisi a me stesso che non avrei imparato e sono un vecchio immaturo. Un alunno si perse. Uno piccolino che mi aveva avvisato: “Ce sta nu Mecedes che mi piace. Dimane vedimme’ comme va.
I carabinieri lo inseguirono a sirene spiegate: al volante non si vedeva nessuno, ma guidava come un pilota di formula uno. Quando strinsero l’auto al muro dopo il marciapiede, era sdraiato al posto di guida. Toccava i pedali con la punta dei piedi, teneva il volante tra le mani dio solo sa come e davanti vedeva e non vedeva, però gli bastava. Il giorno dopo finì sulle pagine dei giornali e a scuola mi sfidò: – Io ve l’avevo ditto.
Sulle prime pagine tornò anni dopo: ergastolo per omicidio durante una rapina. Uccise il custode di una fabbrica con una fucilata. Degli altri non so. Passai alle medie e ai “Censi” non tornai più. Me li sono portati dentro per sempre e lì sono ancora, ma ormai non esistono più; li spazzò via la ruspa alla fine degli anni Settanta: recupero delle aree periferiche, si disse, ma tutto finì sulla soglia di un limbo, là dove i sogni si fanno incubi. Sulle macerie ora trovi impenetrabili ghetti e una camorra da società dei consumi. Intanto, più feroce di ogni ferocia, la politica continua a “riformare la scuola”; Renzi ora vuole “salvarla” con la sua incredibile “mobilità nazionale”. Un omicidio, questo, che nessuno pagherà.

.Uscito sul Manifesto il 13 settembre 2014 col titolo La scuola pidocchiosa ai Censi di Secondigliano e su Libertà e Giustizia il 15 settembre 2014 col titolo Ricordi di una “scuola di vita”.

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imagesIl manifesto del governo Renzi sulla “buona scuola”, che a conti fatti conta per ora su una sola certezza – la sensibile riduzione di stipendio per il personale che vi lavora – si apre con uno slogan scritto in corsivo, a lettere color bianco gessetto su campo rosso, con la calligrafia della maestrina dalla penna rossa. Un personaggio deamicisiano che, a esser pignoli, non fu eternamente giovane e sorridente tra frotte di bambini, come la volle Walter Molino e come ama pensarla una classe politica che ha incatenato alla cattedra i docenti ben oltre la terza età.
Renzi “rottama” così, con un pugno negli occhi, il tradizionale nero ardesia e il più moderno tenue verde della scuola degli anni più recenti. “All’Italia serve una buona scuola” – c’è scritto – e i casi sono solo due: o Renzi pensa che Francia, Germania e compagnia cantante abbiano bisogno di una pessima scuola, o nelle sei parole, complete di apostrofe e virgola, c’è l’idea maligna di una scuola – quella che Renzi ha frequentato – che non è buona a nulla. E subito, come in un western dei tempi d’oro, dietro lo slogan, senti squillar la tromba – perè, perè, perepereppepè – e nel polverone di cavalli al galoppo vedi giungere tutto il governo con la giacca blu del glorioso 77° cavalleggeri. In testa, sciabola in pugno e occhio intrepido, Renzi Jhon Wayne, che sbaraglia il campo, mette in fuga gli sporchi pellerossa, pianta la bandiera sul territorio liberato dagli Apaches e giù il cappello: ecco la civiltà dov’era la barbarie.
Per chi non l’avesse capito, balzato giù da cavallo a gambe larghe, con l’incedere tipico di chi sta in sella anche quando ha i piedi per terra, Renzi, sudato e impolverato, svela subito al corpo docente il segreto della sua scuola. Lui la vuole così, come non è mai stata negli ultimi decenni: capace di sviluppare nei ragazzi la curiosità per il mondo e il pensiero critico.
Occorre riconoscere che al governo Renzi non manca il coraggio. Se si eccettuano infatti rare e grigie figure come Padoan, la più gran parte dei suoi componenti, Renzi, Boschi, Madia e compagni, riconosce così ciò che tutti già sanno: per questioni anagrafiche, nella formazione di Renzi e di molti dei suoi ministri manca il pensiero critico. Non è colpa loro: la scuola che hanno frequentato non se n’è mai curata. Ben venga, quindi, la buona scuola strappata a docenti Sioux e Piedi Neri, ma una postilla alla premessa del documento, per onestà intellettuale, il governo dovrebbe aggiungerla: quando la ferrovia sarà giunta nei selvaggi territori del West e avremo risolto “con l’istruzione il problema strutturale della disoccupazione”, come promette Renzi, i componenti del 77° eroico cavalleggeri giurano di ripetere il percorso di studi e acquisire quel pensare critico di cui li ha derubati la scuola degli Apaches.
In quanto al progetto di “buona scuola”, una cosa va detta: si fonda soprattutto su un principio base: pensa di “migliorare la scuola di tutt’Italia dal momento che favorirà una mobilità orizzontale positiva” e prevede “che la mobilità avvenga ovviamente nel rispetto della continuità didattica, e anche che le scuole potranno contare sui loro docenti per almeno 3 anni consecutivi. Ma è chiaro che, incoraggiando la mobilità, il meccanismo nel suo complesso consentirà di ridurre le disparità tra scuole, e aumentare la coesione sociale. È un sistema basato sul merito dei docenti che riduce le disparità tra le scuole e le incoraggia e aiuta tutte a migliorare”.
Solo chi non conosce la scuola può credere davvero che incoraggiando la mobilità si possano ridurre le disparità e aumentare la coesione sociale. E’ vero il contrario. Per trattenere nelle scuole, soprattutto quelle a rischio – ce ne sono di vario tipo e sono molto più numerose di quanto credano Renzi e i suoi sedicenti esperti – occorrerebbe incoraggiare la stabilità. Ogni buon docente perso è una risorsa decisiva, sia per quello che fa, che per quanto può dare ai colleghi, e non è mai facile sostituirlo.
Chi sa di scuola è consapevole che occorrerebbe pagare il docente bravo per trattenerlo, ma non c’è bisogno di farlo. Un buon docente non lascia il mondo nel quale ha imparato a lavorare e a sentirsi utile solo per guadagnare qualche euro in più. Nelle scuole “difficili”, del resto, i docenti più scadenti scappano per primi, timorosi di ciò che li attende. Quelli bravi restano in trincea e si ammazzano di fatica non per lo stipendio, che è sempre da fame, ma per passione civile e amore del proprio lavoro.
Renzi non lo sa – siamo all’analfabetismo di ritorno – ma le disparità tra scuole nascono dalla platea scolastica, dalla realtà territoriale, dal contesto sociale ed economico nel quale esse operano, dalla maggiore o minore presenza di quelle Istituzione pubbliche che sono ormai sempre più latitanti.

Uscito su Fuoriregistro l’11 settembre 2014.

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Con Pierangelo Indolfi ho avuto il privilegio di collaborare, quando era redattore di “Fuoriregistro”. Non c’è bisogno, quindi, che lo presenti e se non conoscete “Fuoriregistro”, trovate un rimedio perché vi siete persi veramente molto. A gente come Pierangelo puoi solo dire grazie. Quello che ospito qui sul mio blog è un dono prezioso e una maniera modernissima di occuparsi della realtà della scuola che ha voluto fare a tutti noi, alla sua Bari, ai suoi ragazzi  e alla sua vecchia rivista. Guardate il filmato, ve lo consiglio vivamente; poco più di mezz’ora, ma non sarà tempo perso. Capirete meglio quali sono le criminali responsabilità di ministri come Berlinguer, Moratti, Gelmini, Profumo, Carrozza e Giannini. Per non parlare del pupo fiorentino.
Save Nicola!

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df921002b0359ed337122e81e9bc81cd-kzKE--640x360@LaStampa.itRetrocessione o «Coppa dei Campioni», nessun tecnico parla di sistema di gioco, campagna acquisti, vivaio e obiettivi finali, se la sua squadra gioca su un campo di patate. Prima di tutto chiede un buon manto erboso, maglie tute, palloni, palestre, spogliatoi, attrezzi e quanto comanda il dio del calcio per mettere in campo anche dilettanti. Solo se avrà tutto questo, si vedranno ragazzi in mutande correre dietro a un pallone: i più adatti a un’idea di calcio e al modulo che l’allenatore pensa di applicare.
Persino chi organizza un gioco ha un irrinunciabile punto di partenza: le strutture. Più in alto punta, migliori dovranno essere e lo sanno tutti: non s’è mai visto un centravanti che affina la mira senza avere un bersaglio o un portiere che rinuncia al riferimento dei pali. Risolto il problema strutturale, una società che vuol vincere mette mano alla tasca, si affida a un «mister» sperimentato che restituisca in qualità quanto gli dai per stima, sceglie il modo di giocare e gli uomini adatti a eseguirlo. E’ lui, il «mister», un maestro di calcio a decidere se occupare la metà campo avversaria o attendere l’offesa, indurre l’avversario all’errore e lanciare il contropiede. Nessuno parla di scudetto senza schierare «top player» e nessuno trova campioni al costo di una mezza tacca. Quando tutto questo c’è, vali o no, decidono i risultati, ma non è scienza esatta.
Se come si vuole la scuola dev’essere un’azienda come una squadra di calcio, bene, l’Italia è l’unico Paese al mondo che sogna di fare questo impossibile miracolo: avere una scuola che faccia da traino per lo sviluppo, che sia azienda leader, ma si arrangi con i decrepiti capannoni dell’età liberale e fascista, stia sul mercato senza piani industriali e senza una politica retributiva che tenga il passo della concorrenza. Sono quindici anni ormai che i nostri governi pretendono centravanti da «Champions League» retribuiti a cottimo e portieri che valgano Zoff col minimo salariale e la canea che gli sputa addosso perché si gioca male e si perde. E se dici piano industriale, pensi all’attività che intendi fare. Da quando Abravanel e soci pontificano su un’azienda che non c’è, l’Italia non ha più una scuola, ma una riserva di caccia per bande criminali e chiama «riforma» ciò che un tempo si definiva correttamente rapina a mano armata.
Da anni nessuno parla più di metodo e di rapporto tra scuola e «specifico locale»; nessuno s’interroga su una scuola che non condiziona la realtà in cui opera ma ne è condizionata, sicché i teorici del neoliberismo insistono impunemente su test buoni per valutare allo stesso tempo un istituto che opera in terra di camorra e uno che lavora in un quartiere della buona borghesia. Da anni si «tagliano» risorse con effetti ovunque disastrosi, ma diversamente distribuiti sul territorio e da anni i servi sciocchi del mercato presentano i test Invalsi e pletore di «ispettori seri» come la medicina per il male che hanno causato, leggendo in chiave economica ciò che andrebbe analizzato in termini di pedagogia e didattica. Da anni si nega che esista un problema di fondi e si finge di ignorare che, senza contare gli investimenti negati, la «continuità didattica» pugnalata alla schiena, ha privato la scuola di una delle sue migliori risorse. Da anni si sostiene un assurdo, affermando che la qualità non costa e non occorrono soldi, perché, anche dopo i «tagli», nella nostra scuola il rapporto insegnanti-studenti è buono. Buono, si dice, benché sia cresciuto ai livelli di un’Europa che ha ben altre strutture; così buono, che non c’è più tempo per interventi individualizzati, i docenti sono stremati e in ampie zone del Paese l’analfabetismo di valori e la sottocultura veicolata dalla criminalità organizzata e dalla corruzione politica rendono praticamente impossibile «fare scuola». Questo dicono i dati Ocse a chi li legge con onestà intellettuale e li incrocia con gli altri dati che riguardano la scuola. Da anni nessuno si chiede cosa voglia dire insegnare, nonostante i «tagli», le «riforme» e la precarizzazione. Da anni non si riflette sul concetto d’insegnamento e sui processi di apprendimento e tuttavia, ignorando la micidiale «pressione di conformità» che famiglia e società esercitano sulla scuola, si tirano in ballo criteri di valutazione che aprono le porte ai pregiudizi tipici delle diverse collocazioni sociali e alle interferenze del mondo delle imprese. Un mondo legato a filo doppio a interessi di classe che, per sua natura, tende a condizionare idee e strategie di formazione con logiche del profitto che tutto possono volere, tranne un sistema formativo che miri alla crescita della coscienza critica.
La scuola di Renzi, che promette ai precari il paradiso terrestre, non assumerà. Lo vietano i patti scellerati con l’Europa. Capovolgerà, questo sì, i termini reali in cui si pone la questione della selezione d’ingresso del personale docente, diminuendo ancora le risorse economiche con la cancellazione degli scatti di anzianità. Non bastasse, si affiderà ai capi d’Istituto per neutralizzare le migliori energie presenti nella scuola con la guerra di sterminio condotta contro chiunque dissenta dalle decisioni imposte dall’alto. Se Renzi volesse fare davvero qualcosa per la precarietà, non scriverebbe inutili manifesti virtuali. Per assumere docenti, basta spendere meno in cacciabombardieri. Si potrebbero così stabilizzare insegnanti già esperti e assumere giovani laureati che ne hanno diritto, affiancandoli a colleghi che lavorano da tempo con profitto e avviando una formazione «fatta in classe», fondata sullo scambio tra passato e presente, esperienza e motivazioni, valori acquisiti e rinnovamento.
Chi parla di merito e valutazione annuale dei docenti, finge d’ignorare che questo tipo di «merito» l’abbiamo già sperimentato negli anni del fascismo, quando il miglior docente era quello che dimostrava all’Ispettore a quale livello di fanatismo aveva condotto i suoi alunni. Checché ne pensino Renzi, Abravanel e soci, la scuola vera si valuta secondo tempi che decide la storia, perché, ben diversamente da un’azienda, essa gioca su un campo di calcio che non ha porte e palloni e non si prepara alla partita breve che si gioca sul mercato. Quella dei suoi giocatori è una partita che gli ispettori non potranno vedere. La scuola produce ipotesi che solo il lungo trascorrere degli anni può davvero verificare. Non cerca e non può cercare successi immediati, perché prepara alla partita della vita, quella che si vince o si perde col variare dei tempi, nel lungo corso degli anni, di fronte ai capricci della sorte, alle scelte decisive e alle difficoltà dei comportamenti sociali. La scuola non spera di creare disciplinati soldatini del capitalismo, pronti a credere, obbedire e combattere nei luoghi del moderno sfruttamento di classe, o a porgere la guancia dopo un ceffone per sprofondare nella rassegnazione. La scuola spera di produrre cittadini, persone capaci di ragionare con la propria testa e – per per dirla con Don Milani – mira a tirar «su figli più grandi di lei, così grandi che la possano deridere, […] felice soltanto che il suo figliolo sia vivo e ribelle».
Quel «figliolo» che i test dell’Invalsi bocciano senza pietà.

Uscito su Fuoriregistro il 4 settembre 2014 e su Agoravox il 5 settembre 2014.

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