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Archive for Maggio 2017

Tra i cittadini onorari di Napoli, non c’è più Enrico Cialdini, criminale di guerra. Scandalizzato, Francesco Barbagallo, ex dirigente del Pci, è salito in cattedra per ripristinare la memoria precisa di eventi lontani e farci la lezione sulla verità dei fatti, di cui è geloso custode e depositario unico. E poiché alla sua verità occorre inchinarsi, criminali di guerra compresi, ci ha esclusi dalla comunione dei fedeli: “neo-sudisti” e figli una “ideologia scadente”. Questa la sentenza del Sant’Uffizio.
Noi però insistiamo. Le ricostruzioni storiche non sono indiscutibili verità scientifiche; lo riconobbe anni fa lucidamente Le Goff, ricordando le continue “nuove letture del passato”, le “perdite, le resurrezioni, i vuoti di memoria e le revisioni”. Per noi, la “verità della storia” è un’invenzione degli storici legati a questa o quella congrega politica e concordiamo con Carr: i fatti, di per sé “muti”, rispondono alle domande degli storici, sicché, se cambi domande, anche la “verità” spesso cambia. Inutile perciò “scomunicare”. Lo storico ricostruisce eventi, ma è lui che li sceglie e li interpreta, così che, per quante riserve si possano esprimere, non ha torto Hoakeshott: “la storia è l’esperienza dello storico”. Persino i “termini con cui gli storici francesi hanno via via descritto le folle parigine che hanno avuto una parte così importante nella rivoluzione francese – les sens culottes, le peuple, la canaille, les bras-nus – sono, per chi conosce le regole del gioco, manifesti di una particolare posizione politica e di una particolare linea interpretativa”. Così scrive Carr e Croce, non un “neosudista scadente”, sostiene che la “storia dello storico” è spesso più interessante e rivelatrice della storia che egli racconta. E’ incauto perciò Barbagallo, quando distribuisce patenti e incolla etichette su chi non la pensa come lui.
A chi parla di neosudismo e scrive che “non furono i piemontesi a conquistare il Regno delle Due Sicilie, ma i democratici e repubblicani Garibaldi e Mazzini a consegnare il Mezzogiorno ai piemontesi”, come fossero buoni amici da cui Cavour attendeva regali, viene da chiedere com’è che i sacerdoti della memoria, non ricordino il ringraziamento toccato a Mazzini, mentre il Parlamento italiano apriva per la prima volta i suoi battenti. Fu Silvio Spaventa, che il 4 febbraio 1861 sollecitò istruzioni a Cavour sulla sorte di Mazzini di passaggio per Napoli:
“Da persona degna di qualche fede – egli scrisse – sono assicurato che il Mazzini è di nuovo qui; questa notte egli avrebbe dormito in casa del Direttore del Popolo d’Italia e nel momento che scrivo sarebbe in casa dell’Acerbi; andrebbe in Caserta la notte ventura. Se queste cose fossero vere, come avrei da regolarmi?Quando S.M. era qui, e vi si trovava pure il Mazzini, si stimò non conveniente di procedere ad alcun atto contro di lui. Come V.E. sa il Mazzini fu condannato nelle antiche province a morte in contumacia”. Che fare, quindi? Colpirlo? Si sarebbe potuto fare, ma occorreva prudenza, perché, scriveva Spaventa, “Mazzini veste ancora l’abito di tenente colonnello garibaldino, come vestiva l’altra volta che fu in questa città. Mi dicono ancora che degli emissari mazziniani sono spediti presso le nostre truppe regolari nelle diverse province, con qual fine non saprei dire determinatamente. Piaccia all’E.V. rimanere intesa, perché se il crede bene ne avverta anche il Generale Della Rocca.
Il Consigliere S. Spaventa”.
Non se ne fece nulla, ma Cavour non rimosse Spaventa, né decise la prescrizione per la condanna a morte, che giunse nel 1870. Poiché Mazzini però preparava sommosse – era anch’egli un brigante? – fu di nuovo arrestato e morì sotto falso nome, esule in patria e sempre minacciato. In quanto a Garibaldi, Barbagallo lo ignora: giunto a Napoli per nostalgia, semiparalizzato dall’artrosi, a pochi mesi dalla morte, fu tenuto sotto stretto controllo dalla polizia politica, come un volgare malfattore e non mosse un passo senza che un questurino spiasse e riferisse. Brigante anche lui.
In realtà, lo scontro tra repubblicani e monarchici è interno al capitale e la partita giocata in quegli anni nel Sud è lotta di classe. Ci sarebbe piaciuto, perciò, che facendoci la lezione, qualcuno avesse posto l’accento sulla vena di autentico razzismo antimeridionale che emerge dalle lettere di Farini, luogotenente generale delle provincie napoletane. “amico mio, che paesi son mai questi […]. Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica. I beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile!”. E non era il solo a pensarla come Bossi. Per Minghetti, il Napoletano “non ha popoli, ha mandrie […]. Ora con questa materia che cosa vuoi costruire? E per Dio ci soverchiano di numero nei parlamenti se non stiamo bene uniti a settentrione”. Invano Liborio Romano osservò che “le nuove leggi ed i nuovi regolamenti erano di gran lunga inferiori alle leggi e ai regolamenti che vandalicamente e col cipiglio della conquista abolivano”. Ci pensò l’ex cittadino onorario Ciadini, che usò il ferro e il fuoco.
Fu lotta di classe, come a Bronte avevano già dimostrato le fucilazioni di Bixio, e sarebbe stato utile che qualcuno degli storici che fanno la lezione a inesistenti neosudisti, avesse, se non altro, posto ai fatti domande che non si fanno, per evitare che venga poi fuori un’altra verità. La Questione Meridionale si presentò in tutta la sua gravità sin dai moti dei Fasci Siciliani. Quale posizione assunse nello scontro feroce il PSI? Ascoltò i compagni meridionali e affiancò i proletari del Sud o scelse un comportamento da Ponzio Pilato? Turati si scaricò la coscienza di ogni responsabilità, chiedendo lumi a Engels che, com’è noto, conosceva il Sud meglio dei meridionali. Chiarisse lui ai compagni equilibrati e maturi del neonato triangolo industriale qual era il compito del partito nel Sud, dove i lavoratori erano plebei per definizione e l’immancabile ribellismo meridionale era in perenne agguato. Poteva il grande partito dei lavoratori star lì a liquidare residui feudali, per accelerare la rivoluzione democratica? Engels dettò la regola: la guida e il controllo delle masse contadine toccavano a media e piccola borghesia. Sapeva Engels che da quelle terre di barbari giungevano a Roma contributi fiscali più cospicui di quelli provenienti dal Nord e dal Centro e con quelle risorse si pagavano i servizi per l’Italia “civile”, mentre ai cafoni, massacrati da Cialdini, mancava ormai tutto e per prima le scuole? Turati lo sapeva, però, forte del parere di Engels, mollò Garibaldi Bosco, Barbato, Verre, De Felice e i Fasci Siciliani.
Si giunse così all’idillio Turati-Giolitti e per il Sud fu la fine: in attesa che vi sorgessero una “sana borghesia” e un “vero proletariato” – da noi si nasce sanfedisti per vocazione – si deposero le armi. Invano Salvemini – anche lui neosudista? – puntò il dito sull’intesa perniciosa tra i socialisti e il “ministro della malavita”; il partito adottò la formula di Turati. lo sviluppo del Nord avrebbe trainato verso la civiltà la barbarie meridionale. Si consolidarono così le due Italie e il lavoro, in due fabbriche dello stesso padrone, al Sud costava la metà e il risparmio garantiva l’elite proletaria dell’altra fabbrica, quella che operava nelle terre di Salvini. La “grande guerra” e il fascismo fecero la loro parte e all’alba della repubblica la lotta di classe riprese il suo andamento anomalo.
Il PCI reclutò come intellettuale di riferimento Aldo Romano, storico fascista e spia dell’Ovra, che negli anni Trenta, con De Vecchi, direttore della “Rassegna storica del Risorgimento”, aveva letto le vicende dell’unificazione nazionale in chiave fascista. Non bastasse, invece di epurare gerarchi, mise alla porta i sindacalisti napoletani, rei di aver organizzato un sindacato di classe che non voleva essere cinghia di trasmissione dei partiti. In quanto a Nenni, il suo vento del Nord mortificò i partigiani del Sud e quei combattenti delle Quattro Giornate che avevano varcato le linee, per proseguire la lotta al nazifascismo. Giunti al referendum, si spinsero a destra quei protagonisti della resistenza napoletana che non chiedevano assistenza in cambio di voti, ma la «restituzione ai gloriosi Banco di Napoli e Banco di Sicilia delle rispettive loro riserve aure, depredate dal fascismo in pro della Banca d’Italia (nonché la restituzione dell’intero residuo ammontare del ricavato della vendita dei beni demaniali di manomorta dell’ex Regno delle Due Sicilie in £ 4.105.000), in esecuzione della legge Minghetti; lo stanziamento dell’ultimo prestito sottoscritto nel Meridione per la costituzione di un primo fondo destinato alla esclusiva ricostruzione del Mezzogiorno […] per sopperire alle esigenze del solo bilancio meridionale».
C’è voluto un romanzo di Rea per conoscere la sorte del “Gruppo Gramsci”, formato da Arfè, Marotta e Piegari, messo a tacere per aver criticato le scelte elettoralistiche di Amendola, che ci sarebbero costate care. Antonio Labriola avrebbe detto che si voleva “bestiame votante”, ma questa è un’altra storia. Napoli è stanca di mezze verità e ministri della malavita che usano questori e prefetti a fini politici. Chi batte sul tasto del neosudismo, farebbe bene a preoccuparsi del neofascismo al quale la sua parte politica fa da sponda, per creare difficoltà alla Giunta ribelle. Napoli è stanca dello stereotipo della città di plebe. Danni ne ha fatti già troppi. E’ ora di piantarla.

Agoravox, 1 giugno 2017

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KONICA MINOLTA DIGITAL CAMERA

Pagine bianche

Fino a quando non giunge la fine, si sopravvive a tutto, anche alle esperienze più amare. Si portano dentro, però, le antiche cicatrici, che si fanno sentire quando il tempo cambia e le ferite recenti che sanguinano e fanno male. Ai vecchi non si legge sul viso il senso di straniamento, la sensazione di essere scesi da un treno alla stazione sbagliata e di essere soli tra la folla in un mondo che non è il loro. Finché l’inesorabile corsa del tempo non li conduce all’ultimo approdo, gli resta solo un punto di contatto con una realtà sempre più estranea: i giovani, verso i quali sono talvolta critici fino all’intolleranza, ma per i quali provano rispetto. Essi sono, infatti, allo stesso tempo la prova vivente dei loro mille errori e tutto quanto riconoscono di un mondo che ormai non c’è più. Il loro mondo. Sì, perché in fondo i vecchi sono stati più o meno come loro e lo sanno, i giovani sono i vecchi di un tempo che verrà, ma non lo sanno.
Vecchi e giovani hanno bisogno di parlarsi. Il dialogo tra le generazioni è memoria storica. Non si trova sui libri e diventa e il più forte presidio della giustizia sociale.

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Ecco i fatti: https://www.facebook.com/exopgjesopazzo/videos/1115499688556693/

Ci diranno che è necessario, che ci stanno difendendo… E’ una menzogna!
Ci diranno che la Costituzione consente… Non è vero, è una colossale bugia!
Ci diranno che non dobbiamo preoccuparci, che tanto ci sono loro… Così dicono sempre dittatori, fascisti e banditi della politica!

Un governo privo di ogni legittimità, un Parlamento di nominati e abusivi, inchiodati alle loro responsabilità da una Sentenza della Corte Costituzionale e dai risultati del Referendum del 4 dicembre, smantellano la Repubblica e cancellano diritti conquistati col sangue.

Ogni giorno, centimetro dopo centimetro, misuriamo la distanza che ci separa da un abisso senza ritorno. La nuova Repubblica di Salò si vede ormai sempre più chiara all’orizzonte.

Mentre mio figlio si prepara a cercare ancora una volta il pane fuori dai nostri confini, perché qui ai padroni si consente tutto, mentre sotto i miei occhi va in scena lo spettacolo indecente di Questure tornate alla tradizionale e autentica vocazione fascista, mi domando qual è il dovere di un uomo della mia generazione. Raccontare ai giovani frottole sulla “legalità”, tenere a freno la loro rabbia, vergognarsi, perché un vecchio adagio popolare giustamente condanna chi dice “armiamoci e andate”? Qual è oggi il compito che ci tocca, mentre il tempo della vita è finito e ci resta forse solo la coscienza tormentata?

Forse è venuto il tempo di parlar chiaro e prendersi la responsabilità di dirlo: abbiamo di fronte un nuovo autoritarismo. Non sarà, Crispi, non sarà Mussolini, ma qui è nato il fascismo e ce l’avevamo prima ancora delle camicie nere. E’ un autoritarismo più pericoloso e più vile di quello che abbiamo battuto con la guerra di liberazione. Un regime che lascia vivere, svuotati di ogni contenuto e valore, i simulacri della democrazia.
Forse è venuto il tempo di dire che noi non ci stiamo. Che dovranno fermarci con la violenza aperta e gettare la maschera.
Come faremo a uscirne? Non è facile dirlo, ma esiste una bandiera a cui nessuno può rinunciare – si chiama dignità – e c’è un primo passo da muovere. E’ urgente, necessario, come l’aria che respiriamo: stare uniti e lottare. Con le buone se possibile, con le cattive, se non ci si lascia scelta. Non partiamo da zero. Abbiamo dalla nostra molti dubbi, ma due preziose certezze: è vero, i diritti non si conquistano per sempre, ma nessun regime autoritario è durato in eterno. Nemmeno quando pareva impossibile scardinarlo.

Ci parlano ogni giorno di terrorismo, ma è il terrorismo ce l’abbiamo in casa; ha fatto e fa molti più morti dell’Isis. Basta contare i morti affogati nel Mediterraneo, i lavoratori uccisi sul lavoro e quelli che si tolgono la vita perché il lavoro non ce l’hanno.
Di questo alla fine si tratta, non di altro: di delinquenza parlamentare.

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Sui recenti fatti di Napoli vale la pena tornare un attimo a riflettere. Quando ti permetti di osservare che le forze dell’ordine hanno esagerato, scatta immediata una gara di solidarietà e il ritornello è sempre uguale: rischiano la vita per difenderci… E’ una delle note ricorrenti nei comportamenti di un popolo che non ha mai fatto i conti con la propria storia.
I carabinieri fanno il loro lavoro e come tutti hanno un obbligo: farlo bene. Nella faccenda di via Mezzocannone a Napoli l’hanno fatto malissimo e questo purtroppo capita spesso. Troppo spesso. Quali che fossero le ragioni per cui sono intervenuti, avevano a che fare con quattro gatti, ragazzi disarmati e inermi, ma hanno sguarnito i quartieri pericolosi scatenando l’inferno. Poco lontano, nel nel rione della Sanità, i camorristi sparavano all’impazzata e ad altezza d’uomo. E’ come se in un parco le guardie giurate si fossero concentrate tutte su un ubriaco che cantava a squarciagola, lasciando svaligiare gli appartamenti. Sarebbero state licenziate all’istante e a qualcuno sarebbe sorto un legittimo dubbio: vuoi vedere che l’hanno fatto apposta? C’è poco da discutere: le tante pattuglie intervenute per “dare una lezione” ai ragazzi di un centro sociale sarebbero state più utili dove si sparava. La Questura o chi per essa ha deciso diversamente. E il criterio di scelta è evidentemente politico.
La vita sono in molti a rischiarla. Ogni anno muoiono tantissimi lavoratori uccisi da imprenditori che non rispettano le norme di sicurezza. Nessuno se ne ricorda o sostiene che per questo non debbano fare bene il loro lavoro o essere sempre giustificati se sbagliano. Il fatto è che quando sbagliamo noi, ci licenziano, quando sbagliano Questori o ufficiali dei carabinieri, viene subito fuori l’avvocato d’ufficio e tutto finisce lì. Non so se c’è ancora, ma fino a poco tempo nelle piazze della città operava un funzionario che pareva un forsennato. Chi era? Uno che ha alle spalle gli “eroici” fatti fatti di Genova. Tu ti chiedi, ma come, fa ancora servizio di ordine pubblico? Sì, lo fa e nessuno eccepisce.
Sono decenni che attendiamo piccoli provvedimenti a tutela di tutti. Il numero identificativo sulle divise, per esempio, in modo che siano riconoscibili, identificabili e punibili, quando abusano del loro potere. C’è in tanti Paesi europei. Qui no. Guido Dorso, meridionalista di grande valore, che non frequentava di certo i centri sociali, ma conosceva la storia, quando si trattò di costruire la Repubblica sulle ceneri del fascismo, fu chiarissimo: se vogliamo una democrazia, scrisse, dobbiamo sciogliere l’Arma dei carabinieri. Bene. I carabinieri sono ancora al loro posto, Dorso fu proposto per la sorveglianza come fosse un pericoloso sovversivo e Minniti scrive decreti copiati pari pari da quelli fascisti. Su questo sventurato Paese pesano come macigni domande senza risposte e segreti inconfessabili: i partigiani sepolti nei manicomi, i neofascisti protetti, le bombe, Piazza Fontana, le stragi di Stato, il caso Moro, Genova 2001. Si potrebbe continuare a lungo e giungere fino ai nostri giorni. In ognuna di queste vergogne spuntano divise, ma non c’è mai un colpevole. Agli storici si oppone il segreto di Stato e a scuola non si studia la storia, si racconta la favola di Biancaneve e dei sette nani.

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imagesA Napoli la notte i camorristi fanno quello che gli pare. Indisturbati.
Perché non dovrebbero?
I carabinieri, se non sono a letto, organizzano rastrellamenti per colpire i ragazzi dei centri sociali e creare il caos nel centro storico della città. A Mezzocannone, epicentro della barbarie tedesca durante l’occupazione del settembre 1943, l’altra notte i napoletani hanno avuto modo di vedere un rastrellamento, con tanto di porte sfondate. Purtroppo non si trattava delle scene di un film sulle Quattro Giornate. All’opera c’erano solo carabinieri.
Il Questore, vale la pensa di ricordarlo, è sempre lui, quello che esprime valutazioni politiche sull’Amministrazione cittadina e dà la caccia a barboni e ambulanti. A questi nobiluomini, naturalmente, paghiamo lo stipendio. Per carabinieri, questori e simili, la crisi economica non è mai venuta. Sono un modello di inefficienza, ma non li licenzia nessuno.
Ecco l’ultima notte brava dei nostri “tutori dell’ordine“.

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punire-310x232Sono passati due anni da quel 5 Maggio di speranza e di giusta ribellione in cui 650.000 docenti, presidi e lavoratori della Scuola pubblica scesero in piazza, paralizzando il paese, per difendere la propria dignità e il proprio ruolo educativo. Due anni di scelte arroganti che, ignorando la totale contrarietà del mondo della scuola, hanno imposto una riforma che stronca la mobilità sociale, trasforma in merce un diritto inalienabile e stravolge la facies e la funzione della Scuola, modellata sulle prescrizioni di quella Costituzione che pure da poco è scampata, grazie a un sussulto di coscienza popolare, al pericolo di essere cancellata.
Dopo quel moto suscitato da chi ha sempre respinto dalle fondamenta l’impianto economicistico e classista della riforma sfociata nel varo della L. 107, la sacrosanta protesta è rientrata, complici le confederazioni sindacali, e i docenti subiscono, oggi, gli effetti mortificanti di una riconversione disciplinare, didattica ed etica che, ancorché “legalizzata”, non può essere accettata, perché manomette la coscienza, calpesta principi deontologici inderogabili, e, soprattutto, preordina i destini degli studenti e delle studentesse.

Le prove INVALSI costituiscono l’alfa e l’omega del processo di mercificazione dell’istruzione e
di asservimento della Scuola a interessi esterni ed estranei ai processi educativi: i test, infatti, da un lato fanno tabula rasa, a monte, delle opzioni didattiche e della programmazione dei docenti, sopprimendo la libertà di insegnamento garantita dall’art. 33 della Costituzione; dall’altro, creano “a valle” – sulla base di indici tutt’altro che imparziali o “oggettivi” – una classifica degli studenti, degli insegnanti e delle scuole, senza alcun riguardo per le specificità territoriali e contestuali o per le peculiarità individuali.
Nonostante siano risultate fin dall’inizio invise sia agli studenti, che vedono assai spesso pregiudicata la loro intera carriera scolastica da un rilevamento istantaneo e arbitrario, che ai docenti, costretti ad “addestrare” gli alunni alla risoluzione dei test, trascurando l’articolazione dei contenuti delle singole discipline, queste asfittiche prove, che certificano discrepanze già a tutti ben note e sperperano ingentissime risorse, allo scopo di commissariare e, infine, liquidare le istituzioni scolastiche ritenute “improduttive”, vengono ogni anno imposte con la minaccia di ritorsioni e la precettazione da parte dei dirigenti, dotati di nuovi poteri dalla L. 107; salvo rare eccezioni, questi ultimi, senza esprimere un giudizio di valore, vantano inesistenti benefici dei test (ripudiati e proscritti, com’è noto, perfino dai loro teorici americani) e minimizzano la portata del danno, sostenendo che si tratta di una prassi “ormai” divenuta consuetudinaria.
E’ bene allora ricordarlo: la consuetudine non può sostituire né surrogare il giudizio assiologico che la classe docente ha il dovere di esprimere sulle scelte pedagogiche che orientano la società; risulta intuitivo, inoltre, che la reiterazione di un comportamento o di una pratica non ne configura la liceità né la bontà.

Noi ci rifiutiamo di pensare che la Scuola si lasci imporre uno strumento discutibile, discriminatorio, che non ha contribuito ad elaborare.
Ci rifiutiamo di accettare la logica ricattatoria di Istituzioni che pretendono di condizionare l’erogazione dei fondi per l’istruzione pubblica alla totale rinuncia alla libertà di insegnamento e di apprendimento. I fondi dovrebbero essere attinti alla fiscalità generale.
Ci intristisce non poco, ogni anno, la lettura di avvisi dirigenziali e delibere collegiali in cui si comunica a studenti e studentesse che intendessero sottrarsi all’avvilente valutazione econometria, legata ai quiz INVALSI, che saranno loro comminate sanzioni più o meno pesanti, alcune delle quali controproducenti
per la Scuola e la percezione del suo ruolo da parte dei giovani, come, ad esempio, l’interdizione dalla partecipazione ai viaggi di istruzione, declassati, così, da attività didattica integrativa e formativa a momento puramente ludico ed avasivo.

Come insegnanti (i presidi sono ex insegnanti!), sappiamo che ci sono margini ineliminabili di soggettività in ogni valutazione e sappiamo che la valutazione è un processo relazionale e ricorsivo, non meccanico e puramente sincronico. Come insegnanti, dovremmo pretendere il rispetto delle nostre competenze e prerogative di professionisti dell’educazione e formazione; come insegnanti, dovremmo credere che la nostra missione è quella di rendere indipendenti nel giudizio e critici nel pensiero i nostri studenti.

Come è possibile, dunque, che abdichiamo in modo così clamoroso al nostro precipuo dovere? Come possiamo cadere nel paradosso di punire gli studenti perché si rifiutano di essere conformisti, di essere schedati (è ormai palese e risaputo che i quiz INVALSI non sono affatto anonimi!) e selezionati su base economica? Come possiamo trovare giusto e normativo che vengano coartati nella libera interpretazione dei fatti e degli atti culturalmente connotati? Come possiamo biasimarli per aver compreso che i saperi non si trasmettono e non si misurano mettendo crocette a risposte preconfezionate?
E’ coerente che si abusi, in ogni verbale, dichiarazione o documento, dell’espressione “pensiero critico” e si ricorra poi alle minacce quando gli studenti non obbediscono perinde ac cadaver a un diktat che offende la Scuola e perverte l’insegnamento?

Ci chiediamo, con viva preoccupazione, che stima possano avere di noi questi ragazzi, della cui indisciplina ci lamentiamo spesso, vedendo che non sappiamo reagire neppure alla violenza di chi ci trasforma in addestratori, mandandoci in classe, de facto, un valutatore esterno e concorrenziale, abilitato ad applicare parametri slegati dalla didattica praticata e vissuta in aula.
Ci chiediamo che rispetto possano avere di noi questi ragazzi, una volta che abbiano constatato e capito che la loro carriera scolastica e universitaria sarà determinata dai risultati INVALSI e non dalle prove di verifica da noi pensate per loro.
Ci chiediamo con che grado di verosimiglianza, coerenza e maturità professionale si possa escluderli da attività che non sono accessorie, ma che costituiscono altrettante tappe del percorso educativo.
Ci chiediamo, infine, che idea i nostri ragazzi e le nostre ragazze si possano fare di noi come cittadini e come intellettuali, vedendoci rinunciare con tanta facilità e pavidità alla libertà, alla dignità, all’essenza del nostro lavoro, alla nostra passione per l’insegnamento inteso come atto creativo e alla collegialità democratica, che ne è, al contempo, il presupposto e il riflesso.

Vi sollecitiamo a considerare gli effetti sperequatori e sclerotizzanti delle prove INVALSI, ormai noti, e le conseguenze di un atteggiamento di complice resa a questo vero e proprio sistema di controllo sociale e ideologico, conseguenze che, ben vagliate da istituti di grandissimo prestigio, come, ad esempio,
il Liceo Mamiani di Roma, hanno portato a deliberare il rifiuto permanente del teaching to the test e
della “somministrazione” dei quiz.

I legislatori e i passivi esecutori delle loro riforme, violentemente imposte a colpi di fiducia, ripetono ossessivamente che la Scuola deve “prendere atto” di cambiamenti che vengono presentati come
epocali, inevitabili, quasi legati a una volontà metafisica, e che invece sono solo il frutto temporaneo e congiunturale di scelte economico-politiche regressive ed esiziali.
Noi sosteniamo che la Scuola non debba prendere atto, ma debba prendere posizione su quanto la coinvolge e rischia di travolgerla, anche, anzi, soprattutto se il cambiamento assume le vesti e la cogenza
di un provvedimento legislativo.
A tal proposito, ci è grato riproporre questo calzante e illuminato pensiero di Don Milani: “Bisognerà dunque accordarci su ciò che è scuola buona. […] La scuola […] siede tra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. E’ l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità […], dall’altro la volontà di leggi migliori, cioè il senso politico […]. Non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo di amare la legge è di obbedirla. Posso solo dire loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza
del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte)
essi dovranno battersi perché vengano cambiate”.

Ci rivolgiamo alla Scuola e all’Università, perché reagiscano con la necessaria fermezza e intransigenza;
ci rivolgiamo ai docenti precari, umiliati e traditi da una riforma che li ha demansionati e trasferiti coattamente; ci rivolgiamo ai genitori, agli studenti, ai cittadini e alle cittadine di ogni convinzione e condizione che hanno difeso la Costituzione dal recente tentativo di smantellamento: vi chiediamo di sottoscrivere questo documento, per innescare un processo di critica radicale e puntuale non
solo alla pratica dei test Invalsi ma a tutta la legge di riforma della Scuola, la cui revisione o abrogazione parziale, per colmo di scherno, viene oggi offerta dai suoi promotori e imbonitori come merce di squallido scambio elettorale.

Abbiamo un’enorme responsabilità, in questo desolante momento di crisi democratica e politica, che usa la crisi economica come alibi per azzerare diritti faticosamente conquistati: quella di resistere a chi vuole ridicolizzarci ed esautorarci di fronte alla generazione che sta crescendo, per dealfabetizzarla, sfruttarla (con l’alternanza Scuola-lavoro) e corromperla.
Eludere una simile responsabilità significherebbe deludere e tradire un’intera generazione.
Nessuna paura, specie per chi insegna, dovrebbe essere più angosciosamente e fortemente avvertita.

Coordinamento Precari Scuola Napoli
Docenti in lotta contro la L. 107
Cobas Scuola Napoli

Firmatari
Giuseppe Aragno, Storico, Napoli.

Promotori
Coordinamento Precari Scuola Napoli
Docenti in lotta contro la L. 107
Cobas Scuola Napoli
(Per l’adesione scrivere a questo indirizzo: giuseppearagno@libero.it)

Primi firmatari:

Giuseppe Aragno, Storico, Napoli; Piero Bevilacqua, prof, emerito di Storia, Università “la Sapienza”, Roma; Amalia Collisani, prof. Ordinario Musicologia, Università di Palermo;
Lidia Decandia, prof. Associata Urbanistica, Università di Sassari; Paolo Favilli, Storia Contemporanea: Università di Genova; Laura Marchetti, Università di Foggia; Ugo Maria Olivieri, prof. Associato, Letteratura italiana, Università Federico II, Napoli; Enzo Scandurra, Sviluppo Urbanistico sostenibile, Università “la Sapienza”, Roma; Lucinia Speciale prof. Associato, Storia dell’Arte Medievale, Università del salento; Luigi Vavalà, liceo classico “De Sanctis” di Trani;

Adesioni:
Velio Abati, Liceo Rosmini, Grosseto; Giovanna Aquaro,  Docente lettere, latino e greco, Liceo classico “Socrate” – Bari; Ilaria Agostini, ricercatrice urbanistica, Università di Bologna; Miriam Andrisani, docente, Napoli; Elena Astore; Paolo Baldanzi Massarosa (Lucca);  Angelo Baracca, Professore associato di Fisica, Università di Firenze; Daniele Barbieri, genitore, ex giornalista, ora blogger – IMOLA; Giuliana Barone, docente scuola primaria, Monreale (Palermo); Marco Barone, avvocato, blogger, attivista; Alessandro Bianchi, Dipartimento di Informatica, Università di Bari; Marco Biuzzi architetto,  roma; Vittorio Boarini, docente universitario di cinema; Marco Bonaccorso, docente; Ireo Bono, medico, Savona; Pier Paolo Bontempelli, Letteratura tedesca, università “D’Annunzio”, Chieti; Roberto Bongini, Liceo Rosmini, Grosseto; Federica Bordoni, insegnante scuola secondaria primo grado, Perugia; Roberto Budini Gattai, (già Università di Firenze, Facoltà di Architettura);  Giuseppe Caccavale, docente di Storia e Filosofia, Liceo classico “Carducci”, Napoli; Elisa Caruso, docente; Alessandro Casiccia, Sociologo, Università di Torino; Licia Cataldi, docente di scienze presso il Liceo Scientifico “Galilei”, Pescara; Alessandro Sandro Centrola; Augusto Cerri, docente a riposo, Giurisprudenza, Università “la Sapienza”, Roma;  Ludovico Chianese, docente Storia e Filosofia, Napoli; Annamaria Chiariello, docente; Antonella Chiellini, Docente Scuola secondaria di 2° grado,  Salerno; Anna Ciotola, docente; Elena Ciotola, docente di Lettere Scuola Media I grado, Napoli; Gaetano Colantuono, coordinamento scuola Risorgimento socialista; Antonio Giuseppe Condorelli, docente Catania; Tullio Coppola, docente;  Danilo Corradi, Liceo classico e linguistico Frascati;  Luigi Cozza docente ITAS “Bruno Chimirri”, Catanzaro; Maria Antonietta Danieli, docente Inglese presso Liceo artistico di Treviso;  Maria Rosaria De Lucia; Riccardo de Sanctis, giornalista e storico;  Lorenzo Desidery, docente di pianoforte, Scuola secondaria di I grado, Napoli; Giuseppe Antonio Di Marco Università di Napoli “Federico II”; Tiziana Drago, ricercatore confermato, Università di Bari; Aristide Donadio, sociologo e docente scuola II grado; Ferdinando Dubla, docente scienze umane e filosofia, liceo “Vittorino da Feltre”, Taranto; Mauro Farina, docente Scuola sup., Napoli;  Ilaria Ferrara, docente; Adele Fiordoliva, di Montecarotto (An), genitore; Vincenzo Franciosi, archeologo, Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa”; Ugo Gbaldi, Docente Liceo Scientifico Leonardo da Vinvci, Genova; Alfonso Gambardella, Dirigente Scolastico in pensione; Gemma Gentile, docente di Lettere in pensione; Agata Anna Giannelli, docente; Rosanna Giovinazzo, docente; Maria Giuliano, docente; Ferdinando Goglia, docente di Lettere, Scuola Media I grado, Napoli; Dario Giugliano Ph.D. Docente di prima fascia, Cattedra di estetica, Accademia di Belle Arti di Napoli; Donatella Guarino, docente Storia dell’Arte, Napoli; Piera Guazzoni, docente, Piano di Sorrento; Alba Gnazi, docente; Mari Pia Guermandi, Università di Pavia; Roberto Iraci; Salvatore La Marca, docente di ed. fisica nella scuola sec. di 2 grado; Anna Immordino , nata a Valledolmo (pa) il 24/06/1968 residente a Palermo, , madre e professionista ( psicologa ); Marcella Leva, docente in pensione; Maria Lubrano, docente; Giuseppina Maggi, docente di inglese, liceo “L. da Vinci”, Casalecchio di Reno (BO); Francesco Paolo Magno, Ispettore tecnico MIUR in quiescenza; Angelo Mancone, docente in pensione; Luisa Marchini, Università di Foggia; Mariarosaria Marino, docente di Filosofia e Storia, Napoli; Antonio Masin, docente di chimica e tecnologie chimiche; Ignazio Masulli, storico, Università di Bologna; Enrico Milani, docente di diritto/ economia I.S. “MATTEI” – Caserta – avvocato lavorista; Daniela Minardi, docente scuola primaria, Napoli;  Maria Morone, docente scuola primaria; Maria Mucci, docente di lingua e lett. inglese, scuola secondaria di 2 grado; Dr Franco Nanni, Psicologo scolastico, San Lazzaro di Savena, BO; Vito Nanni, insegnante; Salvatore Napolitano, docente e Cobas; Antonello Nave, docente di Storia dell’Arte, Firenze; Italo Nobile; Gianluca Paciucci, liceo “Galilei”, Fulvio Padulano, docente di Storia e Fil., Napoli ; Rossano Pazzagli, Università del Molise; Gianfranca Pisani, docente; Paolo Piscina, I.S. Zappa-Fermi, Borgo Val di Taro (PR); Livia Ragosta, docente di italiano e storia presso il “Mario Pagano” di Napoli; Laura Raiola, docente Materie Letterarie, Napoli; Marcella Raiola, docente di Lettere Classiche precaria, Napoli; Angelo Recupero, docente presso Ist. “L. Fantini” di Vergato (Bologna); Andrea Ricci, genitore; Ida Rotunno, docente di filosofia e storia, liceo scientifico Fermi di Aversa. Giuseppe Sapio, docente; Francesco Santopalo. Agronomo; Angelo Semeraro, ordinario fuori ruolo di Pedagogia generale, Università del Salento; Nicola Siciliani De Cumis, Pedagogia; Franca Sirignano, docente di sostegno; Anna Solimini; Francesco Trane, architetto; Stefano Ulliana, insegnante; Mauro Van Aken, Antropologo, univ. Milano- Bicocca; Sono Cinzia Valentini, docente di Lettere Ist. Comprensivo “G. Leopardi”, Pesaro; Vincenzo Vecchia, maestro elementare; Nicola Vetrano, avvocato, Napoli; Claudia Villani, Storia Contemporanea, Università di Bari; Giuseppe Vollono, docente, Castellammare di Stabia (Na); Pasquale Voza, professore emerito, Università di Bari; Alberto Zigari, Urbanista, Firenze.

Fuoriregistro, 15 maggio 2017; L’officina dei Saperi, 15 maggio 2107, il Manifesto, 20 MAGGIO 2017.

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giulio_cesareOgnuno ha la sua storia. Quella di un personaggio come Bruto, apparentemente lontano da noi, parla alle nostre coscienze di uomini del terzo millennio, soprattutto attraverso il momento chiave della sua vicenda personale. Una vicenda, che, tuttavia, riguarda l’intera umanità: il colpo delle Idi di marzo del 44 A.C., vibrato in Senato a Cesare, l’amato padre adottivo e l’odiato dittatore. Un evento così emblematico e per molti versi così attuale, che oggi, rivolgendosi a chi ha tradito la fiducia accordata, c’è chi con amaro stupore ricorda quel colpo e punta il dito – «Tu quoque Brute, fili mi» – e chi lo cita invece come testimonianza estrema di fede repubblicana. Basta poco a capirlo: sono i fatti compiuti a dire di noi chi siamo e in che tempo viviamo.
In questo senso, eloquente, per molti versi angosciante ma rivelatore è quanto racconta il caso recente di Pasquale Ciccolo, Procuratore Generale della Cassazione, che Renzi ha incluso in un suo decreto per supertoghe, tenendolo in servizio nonostante i raggiunti limiti di età. Un caso in cui per una volta ancora fedeltà e libertà si ritrovano assieme in un contrasto sordo ma rivelatore. Per capire com’è che a Ciccolo è toccato un privilegio ad altri negato, occorre esaminare la sua storia. E’ lì che si può trovare la chiave di lettura di ciò che è accaduto. I fatti, però, sono per loro natura muti e occorrono domande. Proviamo a interrogarli allora e vediamo che risposte ci danno.
Se nel 2007 Ciccolo non avesse scelto di colpire l’allora Pubblico Ministero Luigi De Magistris, impegnato in alcune inchieste che erano diventate fumo negli occhi per l’allora ministro Mastella e coinvolgevano il Presidente del Consiglio, Romano Prodi, Renzi, si sarebbe mai occupato di lui? Non l’avrebbe mai fatto e non si dica che Renzi non c’entrava nulla. Ci è entrato Napolitano, che di Renzi è stato a lungo il padre padrino e padrone. Quale peso hanno avuto, poi, sulla scelta di inserire Ciccolo nella pattuglia privilegiata dei “prorogati” i crediti acquisiti con il tentativo di interferire nella vicenda Mancino nel 2012? Non fu allora che Napolitano divenne il protagonista negativo della scottante indagine sui rapporti tra Stato e Mafia e Ciccolo provò a far cambiare indirizzo al titolare dell’inchiesta? La buona sorte del Procuratore Generale, infine, dimostra che la politica può scegliersi ormai impunemente i suoi giudici?
Fino a poco tempo fa, queste angoscianti domande non avrebbero avuto risposte certe, poi il sospetto è diventato purtroppo un amaro dato di fatto. C’è voluto il caso Woodcock e per capirlo bene, basta seguire nell’ordine la successione degli eventi. Come un fulmine a ciel sereno, tempo fa Woodcock scoperchia un pentolone puzzolente dal quale salta fuori il padre di Renzi. E’ il primo atto di una rappresentazione sempre più comune nella vita del Paese. Solo due giorni fa, per l’ennesima questione di banche, è toccato alla Boschi balzare in cima alla classifica degli scandali politici. E’ stato il sempre misurato e prudente Ferruccio De Bortoli a chiamarla in causa per un ripugnante intreccio tra ruolo pubblico e interesse privato. In quanto a Woodcock la sua inchiesta ha visto naturalmente Matteo Renzi nella bufera, alle prese con l’ennesimo scandalo e con il rischio concreto di esserne travolto. A questo punto della vicenda, guarda caso, è entrato nuovamente in scena il Procuratore Ciccolo, che, recitando la parte di un copione ormai imparata a memoria, non ci ha pensato due volte e ha messo sotto accusa il Pubblico Ministero Woodcock, per un’intervista mai concessa che – incredibile a dirsi – avrebbe turbato l’andamento delle indagini sulla fosca vicenda dei due Renzi.

Piaccia o no, il pugnale di Bruto ebbe a sua nobile discolpa un senso di lealtà verso i valori della Repubblica e un così forte bisogno di libertà, che alle coscienze libere, in ogni epoca della storia, quel colpo propone il tema angosciante e irrisolto del tirannicidio. In questa sorta di autunno della storia che ci tocca vivere, però, non solo è diventato impossibile tenere assieme Popolo e Senato, Governo e Governati, Legalità e Giustizia, ma Bruto si è fatto tiranno e liberticida è diventato il suo colpo di pugnale. Un colpo che va nella direzione uguale e contraria a quello degli antichi congiurati. E’ paradossale ma vero: si tratta ancora e sempre di libertà, ma mentre Bruto e Cassio intesero difenderla, oggi la si vuole ammazzare. Nella notte della repubblica in cui da tempo viviamo, la fedeltà al potere che ti ripaga conta ormai molto più della lealtà verso le Istituzioni. Dove non passarono il principe Borghese, il generale De Lorenzo, le bombe e le stragi, passano senza colpo ferire l’opportunismo e una inarrestabile crisi di valori. Accade così quando un Paese non forma coscienze critiche, ma riduce la scuola a una fabbrica du bestiame votante.
In fondo, il Procuratore Ciccolo è il miglior Bruto possibile in un tempo come il nostro.

Coordinamento DemAFuoriregistro, 13 maggio 2017; Ultima Voce, 14 maggio 2017

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Prende forma, sceglie posizioni su una linea di cambiamento, ma si tiene ancorato alla Costituzione della Repubblica, come logica conseguenza del no al Referemndum istituzionale per il quale si è battuto,  il movimento che abbiamo chiamato DemA. Un movimento che si sta dando una linea politica e oggi dice la sua su una penosa scelta della maggioranza di governo e sulla distruttiva riforma della scuola. Una riforma, non è male ricordarlo, voluta a tutti i costi da quel Matteo Renzi che si è dimostrato il più rozzo e ignorante dei politici italiani. Un’autentica minaccia per la democrazia.

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La tensione indotta nelle scuole dalla legge 107 del 2015 genera ormai un conflitto permanente che sta svuotando dall’interno la relazione educativa basata sulla centralità dello studente e su un’organizzazione democratica e partecipata delle nostre Istituzioni.

L’episodio accaduto al liceo Vico di Napoli è solo la punta di un iceberg: sulla base di una delibera del Collegio Docenti – di cui sfugge qualsiasi motivazione educativa, ma di cui ben si comprendono i motivi politici – la Dirigente Scolastica ha intimato agli studenti di partecipare diligentemente alle rilevazioni condotte dall’INVALSI a pena dell’esclusione da tutte le attività extracurricolari, viaggi di istruzione compresi.

La grave  lesione del diritto allo studio indotta da una tale delibera è palese: le attività cosiddette extracurricolari (progetti, laboratori, stages…) dal 1999 sono divenute parte integrante del lavoro scolastico già con l’attuazione del DPR 275: la stessa legge 107 (la cosiddetta “buona scuola”) ha ribadito con forza l’indispensabilità ed insostituibilità del potenziamento dell’offerta formativa per il “curricolo personale dello studente”. Minacciare uno studente di togliergli quello che la Repubblica gli deve, è un atto violento di intimidazione che non solo lo danneggia come cittadino, ma la lo umilia anche come persona.

Il Movimento “demA”, nel manifestare tutta la sua attiva solidarietà agli studenti del “G.B. Vico” di Napoli, denuncia con forza la necessità di riformare uno strumento che , seppur necessario, è divenuto – con gli ultimi provvedimenti di legge – qualcosa di completamente diverso e pericoloso.  Sappiamo tutti che l’autonomia scolastica, sancita dalla L. 59 del 1997 ed introdotta nel 2001 nell’art. 117 della Costituzione con la modifica del Titolo V, porta con sé necessariamente l’obbligo di valutazione del sistema, che deve essere effettuato da parte di un organismo formalmente e funzionalmente autonomo, quale è appunto è l’INVALSI (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione).

Ma, ben lungi dal fornire informazioni attendibili sul reale stato del sistema scolastico, l’INVALSI è divenuto un odioso strumento di controllo di massa e di negazione della stessa autonomia scolastica e della libertà di insegnamento e di dirigenza della scuola.

In primo luogo, se davvero si volesse un risultato scientifico, basterebbe pesare dovutamente il sistema e svolgere le prove su di un campione attendibile e significativo, senza mettere in moto un immondo e costosissimo carrozzone che paralizza le scuole ed obbliga tutta la popolazione scolastica a prove che nulla hanno a che fare né con le competenze né tanto meno con le conoscenze che il nostro sistema trasmette, introducendo schemi e prospettive indotte dall’esterno. Spacciate come anonime ed ininfluenti sulla valutazione degli studenti e degli istituti, sono invece assolutamente “in chiaro” tanto che, con la recente riforma, gli studenti dovranno  sostenere una prova “INVALSI”  parallela all’esame di Stato delle superiori, così come già avvenuto per quelli della scuola media.

Ma l’azione politicamente scorretta, inaccettabile, truffaldina, sta nell’aver trasformato l’INVALSI in strumento di controllo politico delle scuole. I Dirigenti Scolastici sono dirigenti di seconda fascia, sono assunti per concorso e non sono assoggettabili allo spoil system (che, non a caso significa “ sistema del bottino” per il quale gli alti dirigenti della Pubblica Amministrazione cambiano con il cambiare del governo): per assicurarsi la loro obbedienza e sudditanza, gli esiti delle rilevazioni INVALSI della scuola in cui prestano servizio, sono stabiliti come uno dei pochissimi elementi che ne determinano la valutazione e, quindi, la retribuzione di risultato.

Mercato, azienda, obbedienza, controllo, punizione, servitù intellettuale: è per una Scuola diversa, scientificamente fondata sulla Pedagogia e le Scienze dell’Educazione, moralmente radicata nei valori della Costituzione Italiana, volta ad includere ed a decondizionare dalle ignoranze, che la battaglia per la riforma del carrozzone-INVALSI va portata avanti con determinazione e per cui il “Movimento demA” esprime fattivi solidarietà e sostegno non solo agli studenti del “G.B. Vico” e di tutta Italia, ma a tutti i docenti ed ai dirigenti che si sono schierati ed operano con coerenza ed impegno per contrastare l’evoluzione autoritaria e mercantile della Scuola.

Salvatore Pace, Coordinamento Dema

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Al Sindaco di Napoli Luigi De Magistris,
che difende apertamente e coraggiosamente la Scuola della Costituzione

I test INVALSI non sono uno strumento didattico o un argomento puramente “tecnico”. Si tratta di un potente dispositivo di controllo e selezione sociale su base economica e di classe che viola l’art. 33 della Costituzione, perché nega la libertà di insegnamento, che è libertà di programmare e di valutare in ragione delle differenze contestuali, individuali e territoriali, e calpesta l’art. 3, perché prescrive l’abbandono, da parte dello Stato, proprio di quelle scuole che maggiormente avrebbero bisogno di investimenti e di attenzione istituzionale per colmare il gap socio-economico.

Quest’anno, per cavillosi e interessati ostacoli frapposti speciosamente dalla Commissione di garanzia, non è stato possibile indire lo sciopero che consente ogni anno ai docenti di sottrarsi alla somministrazione e alla tabulazione dei test. La lettera che abbiamo redatto chiama in causa la deontologia e la coscienza della nostra categoria e dei dirigenti, ma, soprattutto, considera i devastanti effetti dell’obbedienza a una legge che è in contrasto col dettame costituzionale e con i valori e le funzioni della Scuola pubblica. E’ in gioco il futuro di intere generazioni, di cui stiamo offendendo l’intelligenza e sopprimendo la libertà di pensiero e parola.

Tu stai alacremente ed egregiamente lavorando per offrire ai giovani meno fortunati opportunità concrete di promozione sociale e di cambiamento. Ti vediamo ogni giorno per le strade, nelle piazze affollate di cittadini napoletani di ogni etnia, colore e dolore, ad ascoltare, a imparare con umiltà, a confrontarti, a esporti senza calcoli prudenziali, a perseverare in un esperimento di governo e autogoverno straordinario, audace e scomodo, che ti è già costato amarezze e attacchi proditori e indegni.

Non potevamo, perciò, non coinvolgerti in questa nostra iniziativa, certi che appoggerai, anche solo con una parola di solidarietà, la disobbedienza civile nostra e degli studenti in lotta contro un sistema di potere arrogante e autoreferenziale che, per evellere la Costituzione, ha capito di doverne anzitutto schiacciare l’organo più importante: la Scuola pubblica laica, inclusiva, di massa, libera e plurale.

Nel ringraziarti per il tuo indefettibile impegno, ti porgiamo il nostro più grato e affettuoso saluto.

Coordinamento Precari Scuola Napoli, Docenti in lotta contro la 107 e Cobas Scuola Napoli

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Alla Dirigente del Liceo Classico “G.B. Vico” di Napoli, Prof. Maria Clotilde Paisio, al Collegio Docenti,

e, per conoscenza, ai Dirigenti e Collegi di tutti gli Istituti di Napoli e Provincia

Sono passati due anni da quel 5 Maggio di speranza e di giusta ribellione in cui 650.000 docenti, presidi e lavoratori della Scuola pubblica scesero in piazza, paralizzando il paese, per difendere la propria dignità e il proprio ruolo educativo, dicendo “NO” ad una riforma che, per stroncare la mobilità sociale e trasformare un diritto inalienabile in una merce, ha stravolto la facies e la funzione della Scuola modellata sulle prescrizioni di quella Costituzione che pure da poco è scampata, grazie a un sussulto di coscienza popolare, al pericolo di essere cancellata.

Dopo quel moto non spontaneo, ma suscitato da chi ha continuato a postulare l’esigenza di respingere dalle fondamenta l’impianto classista e puramente economicistico della riforma sfociata nel varo della L. 107, senza edulcorarne i principi inaccettabili, la sacrosanta protesta, con la complicità dei sindacati concertativi, acquiescenti e compiacenti, è rientrata, e i docenti subiscono, oggi, gli effetti mortificanti di una riconversione disciplinare, didattica ed etica che non può essere accettata, ancorché “legalizzata”, perché manomette la coscienza, calpesta principi deontologici inderogabili, e, soprattutto, preordina i destini degli studenti e delle studentesse.

Le prove INVALSI costituiscono l’alfa e l’omega del processo di mercificazione del diritto all’istruzione e di asservimento della Scuola a interessi esterni ed estranei ai processi educativi: i test, infatti, da un lato stravolgono a monte le pratiche didattiche e la programmazione dei docenti, sopprimendo la libertà di insegnamento garantita dall’art. 33 della Costituzione; dall’altro, creano “a valle” un’antimetodica classifica – sulla base di indici tutt’altro che imparziali o “oggettivi” – degli studenti, dei docenti e delle Scuole, senza alcun riguardo per le specificità territoriali, contestuali, individuali.

Abbiamo letto, sul sito della Vs. Scuola, la comunicazione indirizzata alle famiglie a agli studenti delle classi interessate dai quiz (Prot. n. 3334/B1 del 29-09-2017), in cui si rende noto che queste asfittiche prove vengono considerate dalla Dirigenza come una prassi che ormai è diventata consuetudinaria: ci permettiamo di far presente che la consuetudine non può sostituire né surrogare il giudizio assiologico che la classe docente ha il dovere di esprimere sulle scelte pedagogiche che orientano la società; aggiungiamo, poi, che la reiterazione di un comportamento o di una pratica non ne configura la liceità né la bontà.

Ci rifiutiamo di pensare che la Scuola si lasci imporre uno strumento discutibile e che non ha contribuito a statuire; ci rifiutiamo di accettare la logica ricattatoria di istituzioni che pretendono di condizionare l’erogazione dei fondi per l’istruzione pubblica, che dovrebbero essere attinti alla fiscalità generale, alla totale rinuncia alla libertà di insegnamento e di apprendimento.

Abbiamo letto, anche, che il collegio docenti del Liceo “Vico”, il giorno 11 aprile, ha deliberato di comminare sanzioni agli studenti e alle studentesse che intendessero sottrarsi all’avvilente valutazione econometrica legata ai quiz INVALSI. La cosa ci intristisce non poco.

Come insegnanti (i presidi sono ex insegnanti), sappiamo che ci sono margini ineliminabili di soggettività in ogni valutazione, e sappiamo che la valutazione è un processo relazionale e ricorsivo, non sincronico e puramente meccanico. Come insegnanti, dovremmo pretendere il rispetto delle nostre competenze e prerogative di professionisti dell’educazione e formazione; come insegnanti, dovremmo credere che la nostra missione è quella di rendere indipendenti nel giudizio e critici nel pensiero i nostri studenti.

Come è possibile, dunque, che abdichiamo in modo così clamoroso al nostro precipuo dovere? Come possiamo cadere nel paradosso di punire gli studenti perché si rifiutano di essere conformisti, di essere schedati (è ormai palese e risaputo che i quiz INVALSI non sono affatto anonimi!) e selezionati su base economica? Come possiamo trovare giusto e normativo che vengano coartati nella libera interpretazione dei fatti e degli atti culturalmente connotati? Come possiamo biasimarli per aver compreso che i saperi non si trasmettono e non si misurano mettendo crocette a risposte preconfezionate?

E’ coerente che si abusi, in ogni verbale, dichiarazione o documento, dell’espressione “pensiero critico” e si ricorra poi alle minacce quando gli studenti non obbediscono perinde ac cadaver a un diktat che offende la Scuola e perverte l’insegnamento?

Ci chiediamo e vi chiediamo che stima possano avere di noi questi ragazzi, della cui indisciplina ci lamentiamo spesso, vedendo che non sappiamo reagire neppure alla violenza di chi ci trasforma in addestratori, mandandoci in classe un valutatore esterno e concorrenziale, abilitato ad applicare parametri slegati dalla didattica praticata e vissuta in aula.

Ci chiediamo e vi chiediamo che rispetto possano avere di noi questi ragazzi, una volta che abbiano constatato e capito che la loro carriera scolastica e universitaria sarà determinata dai risultati INVALSI e non dalle prove di verifica da noi pensate per loro.

Ci chiediamo con che grado di verosimiglianza, coerenza e maturità professionale si possa interdirli da attività che costituiscono non momenti ludici e accessori, ma parte integrante dell’azione didattica.

Ci chiediamo quali possano essere le forme alternative di protesta suggerite agli studenti che rifiutano i quiz, se non forme addomesticate e perfettamente integrate nella logica di un sistema che giustamente essi vogliono evellere, avendone compreso e sperimentato l’iniquità.

Ci chiediamo e vi chiediamo, infine, che idea i nostri ragazzi e le nostre ragazze si possano fare di noi come cittadini e come intellettuali, vedendoci rinunciare con tanta facilità e pavidità alla libertà, alla dignità, all’essenza del nostro lavoro, alla nostra passione per l’insegnamento libero e creativo e alla collegialità democratica, che ne è il presupposto e il riflesso.

Vi sollecitiamo a ritirare i provvedimenti deliberati contro i ragazzi renitenti ai test; vi chiediamo di considerare gli effetti sperequatori e discriminanti delle prove INVALSI, ormai noti, e le conseguenze di un atteggiamento di pronità a questo vero e proprio sistema di controllo sociale e ideologico, conseguenze che, ben vagliate da istituti di grandissimo prestigio come il Liceo Mamiani di Roma, hanno portato a deliberare il rifiuto permanente del “teaching to the test” e della “somministrazione” dei quiz.

Chi vuole distruggere la Scuola sostiene che essa debba “prendere atto” di cambiamenti che vengono presentati come inevitabili, quasi metafisici, e che invece sono il frutto di esiziali e regressive scelte economico-politiche.

Noi sosteniamo che la Scuola non debba prendere atto, ma debba prendere posizione su quanto la coinvolge e rischia di travolgerla, anche e, anzi, soprattutto se il cambiamento assume le vesti e la cogenza di un provvedimento legislativo.

A tal proposito, ci è grato condividere con Voi questo calzante e illuminato pensiero di Don Milani: “Bisognerà dunque accordarci su ciò che è scuola buona. […] La scuola […] siede tra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. E’ l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità […], dall’altro la volontà di leggi migliori, cioè il senso politico […]. Non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo di amare la legge è di obbedirla. Posso solo dire loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché vengano cambiate”.

Ill.ma Preside, cari Colleghi: abbiamo un’enorme responsabilità, in questa triste congiuntura politica, che usa la crisi come un alibi per azzerare diritti faticosamente conquistati: quella di resistere a chi vuole renderci ridicoli ed esautorarci di fronte alla generazione che sta crescendo. Eludere la responsabilità significherebbe deludere un’intera generazione. Nessuna paura, per chi insegna, dovrebbe essere più forte.

Coordinamento Precari della Scuola di Napoli
Docenti in lotta contro la 107
Cobas Scuola Napoli
Firmatario aderente: Prof. Giuseppe Aragno, storico dell’antifascismo

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edpCostituzione_della_Repubblica_ItalianaLo dicono in tanti e non senza ragione: delle primarie del PD “non mi curo”. Chi invece ci bada si ferma a quel dato di fondo che sa di disastro, ma non esaurisce la questione: un elettore su tre si è tenuto lontano dai “seggi”. E non chiedete perché ricorro alle virgolette.
Trovo superficiale e per molti versi pericolosa questa frettolosa liquidazione di una pantomima che sarebbe comica se non ci portasse in regalo un risultato a dir poco preoccupante: Renzi torna in sella, nonostante il 4 dicembre, il risultato plebiscitario per il No e la catastrofe al Sud che sembrò decretare la fine del PD e del renzismo nel Meridione. Proverei perciò a guardare con un po’ di maggiore attenzione ciò che si cela dietro il dato complessivo, ricordando che si dice ed è vero: quello che luccica non è sempre oro.

E’ vero, quando sgombri il campo dalla propaganda i due milioni di elettori votanti diventano 1.849.000 e  segnano una flessione sensibilissima: nel 2013 furono più di 2.800.000. Voto più, voto meno, il PD ha perso per strada 957 mila elettori. In pratica il 34 per cento. Vogliamo contentarci di questi dati? Bene, facciamo festa e non ne parliamo più. Lo so che vi chiedete perché dovremmo preoccuparci. Il PD cala nel “Nord rosso”, è quasi dimezzato in Emilia Romagna, Toscana e Marche e, non bastasse, perde il 43 per cento in Umbria. Nell’ex provincia di  Firenze, culla del renzismo, la perdita è secca: 47,4 per cento. A Bologna cala del 45 per cento e a Reggio Emilia, feudo del vassallo Graziano Delrio, se ne sono stati a casa il 45 per cento dei votanti del 2013. Su livelli che superano sempre il 40 per cento sono Piemonte, Liguria, Friuli e Veneto. Che si fa? Si brinda a champagne?

D’accordo, champagne, però, poi, non chiudiamo gli occhi su due dati di fatto che chiamano direttamente in causa chi il 4 dicembre il referendum l’ha vinto. Anzitutto un minaccioso e sconsolante ritorno: alle prossime elezioni politiche Renzi avrà buonissime carte da giocare. Non è merito suo, ma demerito nostro; dopo la vittoria del Referendum, purtroppo siamo spariti dalla scena o, peggio ancora, abbiamo vissuto di rendita e di autocompiacimento, sicché la disperata domanda di una svolta radicale, che emergeva chiarissima dal no, non ha trovato risposta. Gli elettori, i giovani soprattutto e le loro vite precarie, chiedevano un riferimento, qualcuno e qualcosa che volesse rappresentarne rabbia, speranze, sogni e soprattutto bisogni. Si può dirlo, senza guastare i sogni del mondo “ribelle”?: non l’hanno trovato. Non l’ha trovato soprattutto la gente del Sud. E qui emerge il secondo e per molti versi allarmante dato negativo che ci consegna l’esito di queste primarie e sul quale i più abili tra gli uomini del ducetto toscano mettono l’accento con fondate ragioni: il risultato finale ha trovato nel Sud la sua piccola locomotiva e non parlano a vanvera. L’unico punto positivo, infatti, il PD di Renzi lo segna in due regioni del Sud: Puglia e Basilicata. Lì la partecipazione infatti è aumentata.

Un’amica valorosa e molto onesta intellettualmente poneva stamattina una domanda decisiva, sulla quale dovremmo riflettere molto seriamente. E’ merito di Renzi, chiedeva, o tutto va com’era logico che andasse, perché “ogni ribellismo ,che si autocelebra in quanto tale e non diventa emancipatorio ha sempre la sua Vandea pronto ad accoglierlo?”.
Mi pare evidente. Il campanello d’allarme si rivolge a noi. Prendo ad esempio Napoli e non posso fare a meno di registrare un dato che trovo preoccupante: non riusciamo a toglierci di dosso la camicia di forza che Roma ci tiene stretta per conto del fascismo finanziario imperante nell’Unione Europea. E’ venuto il momento di definire una linea politica che riempia di contenuti l’ostilità per il neoliberalismo e detti il programma. La Costituzione deve essere allo stesso tempo arma, terreno di scontro e filo conduttore di scelte teoriche e decisioni politiche operative. La linea di governo del PD è chiarissima: prima il bilancio, poi la gente, come comanda Draghi. Per noi non funziona così: per noi le persone vengono prima del bilancio. Occorre però ricavarne le conseguenze. Non c’è un altro modo per ostruire un’alternativa.

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