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Archive for giugno 2015

11205493_473099272859211_3845585372630580146_nStamattina tutto mi pareva cominciasse bene e mi ero anche divertito a leggere i commenti demenziali di una sorta di serial killer, che mi spara spesso con una pistola ad acqua e si dispera perché poi lo cestino. Purtroppo non posso ringraziarlo per il divertimento che mi regala, né consolarlo per il cestino in cui finisce puntualmente. Si nasconde dietro falsi indirizzi mail e non c’è che fare. Avrei dovuto fermarmi allo scemo divertente, ma non avevo voglia di lavorare e ho voluto dare uno sguardo a facebook. La prima cosa che ci ho trovato risaliva a qualche giorno fa: era l’affermazione di un principio rivoluzionario che spiega la natura maligna dei referendum. Una truffa, un ricatto e un inganno. Il gioco delle tre carte.
Caspita, come ho fatto a non pensarci? Il ricattatore è Tsipras! Va beh, maledetto controrivoluzionario, ora basta. Tu ti credi che sono fesso ma ti sbagli, cacchio di greco imbroglione. Mò vengo ad Atene, ti prendo a calci in culo, ti metto agli arresti, ti affido a un tribunale del popolo, poi salgo velocemente sull’Acropoli e dalle sacre colonne dal Partenone dichiaro solennemente che stamattina, di buon ora, dopo aver fatto colazione, ho cominciato la rivoluzione. Farò delle pause per riposare e andare a mensa all’ora di pranzo, ma state tranquilli che dopo la siesta tornerò al lavoro. L’immancabile vittoria è prevista per stasera. A che ora? In tempo per la cena. Non posso andare a letto digiuno. Ho la gastrite.
Mentre preparavo alacremente la rivoluzione, ecco un amico sconsiderato che mi segnala un capolavoro molto meno divertente delle amenità dell’anonimo killer: un articolo del solito Giannuli, che vi consiglio di leggere perché di buono una cosa ce l’ha: dimostra che Renzi non ha il primato della stupidaggine. Al mondo c’è di peggio. Ecco Giannuli. Non ho mai letto un articolo più superficiale, fazioso e inconcludente. L’autore vede tutto, tranne la pazzia dei sacerdoti fondamentalisti dell’austerity, che hanno inchiodato la trattativa con Tsipras ad una verità di fede, puntualmente smentita dalla realtà. Tsipras ha fatto la sua parte, ma non ha né il potere di ammanettare delinquenti come Draghi, né la facoltà di mettere la camicia di forza a neonazisti, matti da legare come Merkell, Dijsselbloem Schäuble e compagnia cantante.
Possibile che questo sia tutto quanto passi il convento? No. Per fortuna ci sono anche segnali positivi e piccole soddisfazioni. Intanto una bella analisi su EuroNomade. Scrittura collettiva, mi dice Francesco Festa che ci ha messo mano, e questo la rende ancora più preziosa.
Oggi, poi, per dirne una, presidio in piazza a Napoli, davanti al Municipio, con la bandiera greca esposta al balcone del sindaco (eh, cari miei, ci sono anche i buoni consiglieri!) e mercoledì all’ex OPG occupato,  due compagni greci di Syriza verranno a parlarci di ciò che accade in queste ore e si prenderanno contatti per costruire la rete della solidarietà.
Non è molto, ma non è nemmeno poco e chi vuole vederla si accorge che una luce si è accesa nel buio.
Mi metto al lavoro.

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liberta-pensieroComunque vada, Tsipras ha dimostrato che la sedicente “classe dominante” è forte ormai solo di armi e barbarie e non ha un’idea degna di questo nome per evitare anzitutto a se stessa il baratro verso cui pensava di spingere le classi che ritiene “dominate”. I cosiddetti “poteri forti” si sentono ormai tremendamente deboli e percepiscono i primi, seri sintomi di uno stato confusionale. Più che sapere che intendono fare, d’un tratto sentono che le armi e i mercenari non sono sufficienti e intuiscono che la spinta giungerà, invisibile, dal basso, da un terremoto che si annuncia sotto i piedi sempre più incerti dei sedicenti “grandi”, violentissima e inattesa. Oggi, domani, nel futuro immediato, ma certo quando meno se l’aspettano e dove non sanno. Se la “classe dominante”, sempre più dominata dal panico, dovesse azzardarsi a forzare ulteriormente la mano, la Grecia potrebbe diventare la Spagna del tempo nostro. Gli immigrati più colti, preparati e ribelli ormai ce l’hanno chiaro e la saldatura delle lotte tra giovani sfruttati di tutte le razze, qui, nel cuore dell’Europa non è una possibilità remota o il sogno degli illusi: è l’alternativa concreta all’unione delle banche. I sedicenti grandi sono sostanzialmente degli ignoranti, sanno qualcosa d’economia, ma disprezzano la filosofia e ignorano la storia, altrimenti non sarebbero andati in giro a celebrarne l’impossibile “morte” e ne avrebbero temuto il monito: contro la dignità dei greci è già cozzato invano un immenso impero e s’è perso. La violenza impotente delle banche ci rende ormai tutti greci e presto la scena potrebbe cambiare. Vivrò quanto basta per vedere un centro sociale interrazziale accampato con armi e masserizie nei locali dell’ex BCE.

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Presentazione standard1
A Napoli, in piazza per la Grecia. L’appuntamento è a tra poco – 18,30 @Metro Toledo – e faccio volentieri da cassa di risonanza, perché l’inerzia è inaccettabile e nelle acque troppo ferme nasce la malaria.
Gli immancabili diplomatici in pantofole sputano ormai sentenze di ogni tipo. Intanto i greci se la vedono da soli col rinato nazismo finanziario e – unici finora – tentano di mettere in riga i sacerdoti dell’austerity. Cederanno su qualcosa? Per forza. Se non li lasceremo completamente soli, com’è accaduto finora, potrebbero anche riuscire a non fare passi indietro sui principi. Concederanno gli spiccioli, si accorderanno su aspetti marginali, e quando tutto sembrerà chiuso restituiranno la parola alla gente per un referendum. Se andrà bene, metteranno sul tavolo della trattativa i milioni di no agli strozzini travestiti da politici. Non so se stanno trattando anche con la Russia e non riesco a immaginare cosa ne verrà fuori, ma credo che sia ragionevole e fondata l’idea che più gente sosterrà nelle piazze la loro battaglia, più forza e coraggio troveranno per resistere e portare a casa risultati. Avanti, perciò, come compagni .solidali e come parti in causa. Non si tratta solo di Grecia, ma di tutti gli sfruttati del mondo…

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30 ottobre 2010 Napoli manifestazione nazionale precari scuola 62Sono fatto a mio modo. Penso con la mia testa, dico ciò che penso, remo controcorrente e non cerco la popolarità a tutti i costi. Lo so, il mondo della scuola mostra i segni del lutto, ma ingannerei me stesso se mi accodassi al coro di “Bella ciao”, puntando ipocritamente il dito solo sul governo e su Confindustria. In questi mesi di tardivo risveglio della protesta, ho vissuto la micidiale sconfitta della scuola con un dolore lontano, anestetizzato da una duplice consapevolezza. Nel cuore e nella mente sopravvive anzitutto una certezza: ci sono momenti della storia in cui bisogna toccare il fondo, per pensare a una risalita; noi il fondo l’abbiamo toccato da tempo e l’abbiamo colpevolmente ignorato, aspettando che il Senato firmasse il certificato di morte della scuola statale. Ieri, solo ieri, ci siamo accorti della tragedia, ma il lutto giunge tardi e la rabbia esplode fuori tempo. I funerali della scuola pubblica si sono celebrati in forma strettamente privata, senza “bella ciao”, senza moti dell’animo e crisi d’isteria, più di quattro anni fa, nel dicembre del 2010, dopo la sconfitta degli studenti, in una Roma blindata, tra ambulanze e pantere lanciate a sirene spiegate, cariche violente, fumo d’incendi e lacrimogeni e il Senato difeso a mano armata come una trincea sul Piave dopo Caporetto.
Me lo ricordo come fosse oggi: da Napoli era partita una folta rappresentanza di studenti, decisi a forzare blocchi e a penetrare nell’aula del Senato abusivamente occupata da “nominati”, che si scambiavano voti e milioni per manipolare la fiducia e tenere in vita l’ennesimo governo Berlusconi. Lo striscione che aprirono nella prima linea di quella battaglia, assieme a migliaia e migliaia di loro compagni giunti da tutta Italia, recava una scritta forte e significativa: “La gioventù vi assedia”. Era mia quella dichiarazione di guerra. Mia, che giovane non ero, però c’ero. M’era venuta in mente all’ultima assemblea, prima della partenza, nell’aula di mille discussioni e iniziative. Non c’era un docente, non c’era un genitore e non c’erano sindacati. Per mesi, ragazze e ragazzi avevano riempito le piazze dello loro rabbia e per mesi, soli, in mille occupazioni, cortei e manifestazioni, avevano preso botte e denunce senza mollare. Non era Genova, non era il Sessantotto, ma da decenni non si vedevano in campo tante intelligenze che agivano assieme, tanta passione, consapevolezza e voglia di lottare. Non dimenticherò più gli incontri col mondo dello spettacolo in agitazione, i tentativi di saldare le lotte, la proposta di portare nelle fabbriche aggredite da Marchionne i temi delle lezioni che si facevano in piazza, la rabbia per il futuro rubato, gli slogan e i San Precario. Non dimenticherò la speranza e la dignità che si leggevano negli occhi di quella generazione in lotta per la vita e la risposta arrogante di un sindacalista: con gli operai i rapporti li teniamo noi.
dentro_e_fuori_111Era inevitabile. Dopo la lotta dura e il traguardo sfiorato, la sconfitta portò un riflusso micidiale. Quante ragazze e quanti ragazzi abbiamo perso per sempre in quel dicembre di speranze tradite? Quanti “adulti”, tra i tardivi manifestanti di oggi, se ne stavano a casa in quei giorni decisivi e si apprestavano a votare la pseudo sinistra “liberatrice” contro la sedicente destra berlusconiana?
Non se ne accorse praticamente nessuno, ma in quel dicembre senza fortuna morì la scuola della repubblica, nonostante la strenua battaglia di una generazione lasciata sola e abbandonata al suo destino. Tra noi, tanti non videro o non vollero vedere e molti misero a tacere la coscienza sprecando parole sulla violenza da rifiutare, sui “cattivi maestri” e sulle buone pratiche della politica.
Da allora per anni si è fatta una guerra già persa usando per armi fiori e lumini. Per anni chi ha accennato alla necessità di costruire percorsi di lotta adeguati alla sfida, si è trovato di fronte alla risposta “legalitaria”: il referendum.  Con una sfida alla logica che non lascia speranze, da mesi, mentre si canta con rabbia appassionata la canzone dei partigiani, si aprono al vento le bandiere del referendum come un’arma risolutiva. Non sai più se piangere o ridere e non puoi fare a meno di pensare che è come riunire sui monti le Brigate Garibaldi per raccogliere firme e consegnarle ai fascisti. Quando capiremo che contro un governo illegittimo, che ha fatto e farà carta straccia delle regole e dei diritti, più che cantare i canti dei partigiani, è necessario lottare come fecero loro?
Non facciamoci illusioni e smettiamola di sognare miracoli referendari. O settembre ci troverà asserragliati nelle scuole occupate assieme agli studenti, pronti ad affrontare i giudici del nuovo regime, o lacrime, lumini e inermi cortei variopinti diventeranno solo la triste prova dell’antica saggezza: ogni popolo ha il governo che si è meritato.

Agoravox, 26 giugno 2015

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Amore-e-paura-dentro-vortici-di-violenzaQuesto governo illegittimo, nato dalla crisi di un governo mai sfiduciato in Parlamento,

questo governo figlio di un amplesso contro natura tra una legge truffa e un Presidente della Repubblica eletto abusivamente due volte,

questo governo che ha giurato fedeltà alla Costituzione e l’ammazza a tradimento,

questo governo che ruba i soldi ai pensionati e la vita a lavoratori che l’Europa gli impone di assumere,

questo governo sta per piantare un coltello nella schiena della scuola, come ha già fatto col lavoro!

Come che lo si guardi, questo governo è una violenta minaccia alla legalità repubblicana.

Agoravox 23 giugno 2015; La sinistra quotidiana, 26 giugno 2015.

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IM003465_S_20130131_100444«Abbiamo fortemente voluto la prima Conferenza Cittadina di Servizi sulla Salute Mentale che si è svolta ieri in un luogo simbolo: l’istituto Leonardo Bianchi». Con queste parole il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, ha annunciato una scelta di enorme significato politico e di forte valenza civile. Una vittoria nella difesa dei diritti.
«E’ stata un’occasione importante di confronto con esperti, associazioni e rappresentanti delle istituzioni ma anche per definire una nuova programmazione dei servizi e degli interventi più partecipata e integrata. Durante la conferenza abbiamo anche annunciato l’avvenuta istituzione dell’Osservatorio cittadino sulla Salute Mentale col quale collaboreranno gratuitamente esperti, soggetti del terzo settore ed operatori dei servizi psichiatrici. Oltre 300 partecipanti. Un bellissimo ed assai proficuo momento di apertura verso un tema particolarmente complesso quale quello della sofferenza psichica per dare anche il via ad una programmazione degli interventi e dei servizi, per dare voce alle numerose istanze della Città, per essere promotore di percorsi ed occasioni di confronto sugli indirizzi delle politiche integrate, che sono alla base della programmazione sociale e socio-sanitaria».
Ha ragione Raffaele di Francia, del Comitato di lotta per la Salute Mentale: «Oggi a Napoli è stata scritta una pagina importante per la lotta a difesa dei diritti e della dignità dei sofferenti psichici. Va dato atto al Sindaco e all’Assessore alle politiche sociali per aver condiviso il duro lavoro che il Comitato di lotta per la salute mentale e l’associazione Sergio Piro hanno portato avanti per tre anni con l’obiettivo quasi impossibile di coinvolgere il sindaco e il comune di Napoli nella realizzazione di un Osservatorio per la salute mentale. Napoli ancora una volta sceglie di portare avanti iniziative che partono dal basso e realmente partecipate, l’osservatorio è uno strumento di lotta contro l’omologazione di una cura della sofferenza che si limita alla somministrazione di psicofarmaci, è uno strumento di garanzia dei diritti e della dignità delle persone, è uno strumento per la sperimentazione di nuove prassi e per la trasformazione della sofferenza, per il diritto non solo alla cura ma anche per il diritto alla guarigione e alla gioia. È un punto di partenza, la battaglia è ardua perché percorre quei luoghi estremi dove la politica con difficoltà si cimenta, noi ci crediamo e per questo andiamo avanti».
Parole sacrosante e speranze più che legittime.
E’ proprio vero: i giorni non sono tutti eguali tra loro. Quello che se n’è appena andato segna un punto importantissimo a favore del sindaco e – se posso dirlo – anche di chi in questa scelta ha creduto fino in fondo e ne ha spesso parlato con lui. E’ importante che sia accaduto ed è ancora più importante che sia accaduto in un momento come quello che viviamo. Per quanto mi riguarda, gli assessori che parlano di aperture al PD e una condizione altalenante di riconoscimenti istituzionali a De Luca, da cui però De Magistris prende di fatto le distanze – «col Pd siamo opposizione» – non fanno bene. Non accadrà, ne sono certo, ma non posso fare a meno di dire a me stesso che un’intesa assumerebbe il valore di un confine che si chiude: metterebbe inevitabilmente in un angolo un’esperienza nella quale ho creduto molto. Questo non impedisce però che nel lavoro per la salute mentale io riconosca l’uomo incontrato durante l’autunno, quando sulla figura istituzionale prevaleva nettamente il «sindaco di strada”. Senza quella esperienza probabilmente non sarebbe venuta questa giornata. Non tutto, quindi, è stato inutile.
Non credo che la collaborazione con De Luca e i suoi uomini produrrebbe risultati come questi e un’ombra rattrista la mia giornata. Per quanto mi riguarda non potrei essere dove trova posto il PD. Al sindaco, perciò, augurerei le migliori fortune e spererei di dover ammettere domani che oggi sbaglio a pensarla così. Lo spererei davvero, ma in questo momento non riesco a crederci.
Bravo De Magistris, quindi, soprattutto bravo l’uomo di rottura che è stato tra la gente e si è mosso in sintonia con la parte più vera, umana e semplice della sua città. Era ed è la via più difficile, ma promette di essere anche la più ricca di risultati. Se dovessero prevalere ragion di Stato e «saggezza» istituzionale, si aprirebbe un’altra via, profondamente diversa. Legittima, per carità, che altri potrebbero a buon diritto imboccare. Io no. «Buona fortuna, sindaco», direi. «Gli amici di un autunno ormai lontano non possono esserti utili in questo percorso. Sarebbero solo d’intralcio e se ne tornano perciò alla loro vita di sempre, con qualche ricordo indimenticabile, il dubbio di non aver saputo difendere fino in fondo un progetto che pareva condiviso e l’inevitabile amarezza di una sconfitta umana, prima ancora che politica». Qualcosa di quei giorni però resterebbe. L’esito della lotta per la Salute Mentale, per esempio, sarebbe la prova tangibile che non si trattava solo di utopie senili. Era ed è un’idea diversa, nuova e per molti aspetti rivoluzionaria del «fare politica»; la chiave vera del cambiamento. Un lavoro da sindaco «sovversivo», insomma, come malignamente ha scritto la stampa di un regime eversivo.
Quel regime di cui De Luca è un indiscutibile campione.

Agoravox, 20 giugno 2105

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Cara amica,
dopo il colpo di grazia alla scuola, non riesco a immaginare la sorte dell’università, che ho lasciato tempo imagesfa, come sai, per un moto di invincibile disgusto. Non è bastata la sparuta minoranza che rappresenti a tenermici dentro. Non so che accadrà, ma un dato di fatto basta e avanza a tingere di nero le previsioni: quando dovrete accogliere studenti privi di autonomia di pensiero, nemmeno la migliore delle accademie potrà far fronte all’analfabetismo di valori che salirà in trono. Aggiungici il fatto che nessuno porrà mano ai problemi veri della ricerca – si fa anzi di tutto per renderla serva – e il quadro diventa più chiaro.
Ho sputato l’anima per trovare consensi attorno a una iniziativa “illegale” contro la falsa legalità di Renzi, ma di occupare le scuole, per esempio, provocare uno scontro vero e giungere ai docenti in manette, non se n’è mai fatto nulla. Sarebbe stata l’occasione per trasformare i tribunali in una cassa di risonanza delle nostre ragioni, per diventare, da imputati, giudici di una indicibile vergogna. Ci sono precedenti nobili, ma non disponiamo nemmeno di un’ombra reincarnata di Matteotti, Amendola o Pertini e ci stiamo meritando questa grande gabbia. Ci finiremo dentro senza opporre resistenza. Non occorreranno manganello e olio di ricino e lo faranno con o senza Renzi, un pupo, uno qualunque, in mano a un potere che non “scende in campo”. Un potere che si può contentare di ebeti fantocci come il sindaco fiorentino e il contorno di compiacenti signorine di bell’aspetto, senza sale d’ingegno, buone a solleticare i desideri inconfessati dei maschi, le frustrazioni di casalinghe alcoliste e il pattume della sinistra radical chic, tradizionalmente arrendevole con il “nuovo che avanza”.
“Il Manifesto”, incredibile a dirsi, si segnala per un articolo sulla sconfitta elettorale di Renzi e – senza volerlo, suppongo – aumenta così la dose di sedativi che frena quel tanto di rabbia sopravvissuta all’ebetismo scientificamente prodotto dal baraccone mediatico. La rabbia finirà così in mano ai neofascisti, nel caso improbabile che occorra usare le maniere forti.
Che vuoi che ti dica? Finché sogneremo un riscatto che passi esclusivamente per urne, partiti e vaghissime “coalizioni sociali”, continueremo a scivolare nel fango. Sarebbe tempo che un manipolo di forti ingegni mettesse mano di nuovo al “Non Mollare” e piuttosto che chiudersi nella mormorazione su facebook e nella rivoluzione virtuale, chi può, prendesse la via di un volontario esilio. Tu guardati attorno, però. Se di lontano vedi un Salvemini o anche solo un acerbo Rosselli, fa festa e mandami un telegramma cifrato. In Campania abbiamo ora al potere un pessimo arnese alleato ai neofascisti; tu ti immagini un fermento rivoluzionario? Invece no. La sedicente “società civile” discetta sulla “politica del fare”, sul “carisma del capo” e si tiene equidistante da “destra” e “sinistra”, come non ci fossero dietro due sistemi di valori incompatibili e ne avesse disponibile un terzo che nessuno conosce. Al di là della sospetta equidistanza, negli occhi di tanti vedi però un possibilismo per ora taciuto, ma pronto a rompere in consenso.
Due giorni fa, in una sorta di set in cui si provava la “politica nuova”, ho ascoltato con angoscia una, cui non mancano titoli e ambizioni, che suggeriva con inconsapevole protervia di “mettere in soffitta Gramsci”, del quale probabilmente conosce poco più del nome e del cognome. Per questo campione della “nouvelle vague“, Vincenzo De Luca va bene. Prima che politica, la sconfitta è culturale, amica mia. Come sempre accade in questi casi, la tradizionale attitudine al trasformismo di galantuomini e benpensanti si esalta e chi non si vende si svende. Difendere la scuola sarebbe un imperativo etico. Ma dove la cerchi l’etica, nell’animo di chi se non insegue direttamente il modello e il pensiero dei banchieri, non ne ha uno suo dal quale ripartire?
Questo è. Negli anni Venti del secolo scorso ci fu chi badò al valore dell’esempio, sicché, nonostante il conformismo trionfante, le oltraggiose conversioni e la malafede eletta a norma di vita, la scintilla della dignità e la passione civile sopravvissero alla reazione e si poté poi appiccare l’incendio. A eterna vergogna della mia generazione, ce ne andremo tutti via o complici o impotenti e non basteranno due volte vent’anni. Questo non è fascismo, è molto peggio. Non c’è un capo, non è il regime d’un leader, non ci sono le teste fini come Rocco e Gentile. E’ un sistema collettivo di potere che può sostituire i capi e dar l’idea che esistano regole e partecipazione. Si sono inventati un’egemonia culturale priva di pensiero, hanno lavorato per sostituire le leggi della convivenza civile con un’unica legge: quella della  giungla, sulla quale si regge un’economia da prima rivoluzione industriale. Sullo sfondo, terribilmente reale, la guerra. Il gioco è fatto e le generazioni di disperati non hanno valori di riferimento per immaginare un’uscita dalla gabbia non dico rivoluzionaria, ma solo “resistente”.
Se sto sbagliando e sono eccessivamente pessimista, mi farà immensamente piacere doverlo riconoscere domani. Ammesso che domani io ci sia. Grazie per la citazione. In genere mi ignorano. Tu come stai e come te la passi? Stammi bene e riprendi a tirare di pistola. Non si può mai dire. La violenza giustifica talvolta la legittima difesa e la penna potrebbe non bastare. Un abbraccio, Giuseppe

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copAnni fa, in un romanzo che non sarebbe male leggere – «Tempi di malafede» – Sandro Gerbi ci raccontò un’Italia che pareva sepolta ed è tornata invece di sconcertante attualità: quella in cui, di fronte al consolidarsi del regime fascista, anche la gente civile e colta si convertì al culto della malafede.
Perché accadde? E’ una costante della storia: di fronte al potere, molti si piegano. Servilismo, viltà, conformismo istintivo, calcolo senza passione, opportunismo. Quale che sia la ragione, il risultato è una comoda auto assoluzione che ha la meglio sul senso morale, perché «tutti ripugnano dal conoscersi a fondo e ognuno capisce se stesso solo quanto gli occorre». Come annotò in una splendida recensione Gaetano Arfè, ha ragione Gerbi: chi si adatta ai tempi «leva la malafede all’altezza di un ineluttabile fato che ispira e regola la condotta degli umani». Insomma, una sorta di oscura, intima dialettica diplomatica tra bene e male, che produce un comportamento tipico della malafede, «un’arte di non conoscersi, o meglio di regolare la conoscenza di noi stessi sul metro della convenienza».
Tempi di malafede sono oggi quelli della politica e dei suoi protagonisti. La malafede, infatti, scrive Gerbi, «non è uno stato dell’animo, è una sua qualità» che consente a chi punta al successo, costi quel che costi, di dare il peggio di sé e venderlo come bene prezioso. Perché tutto questo funzioni, occorrono naturalmente un contesto – un sistema di potere autoritario – e gli acquirenti che in ogni tempo fornisce il mercato. Tempi di malafede sono quelli in cui c’è una crisi così profonda della politica, che chi vuole può ignorare ogni confine di natura etica e persino l’impossibilità di mettere assieme termini inconciliabili tra loro, come accade oggi con «sinistra» e «destra», che esprimono sistemi di valori antitetici e riguardano le coscienze. Può ignorarlo, però, solo chi, per dirla con Gerbi, decide di scegliere in base al tornaconto. Scegliere, insomma, come si fa in tempi di malafede, nei quali un De Luca qualunque può disprezzare le regole di cui dovrebbe essere garante. A lui la legge Severino fa un baffo, lui se ne frega e lancia la sua sfida: «Me ne andrò quando lo decideranno i cittadini elettori».
Che strano Paese è l’Italia! Le leggi non contano nulla e gli elettori meritano rispetto solo quando le ignorano o se le mettono sotto i piedi. Dopo il Parlamento dei «nominati», eletti contro la Costituzione e diventati subito «padri costituenti», ora c’è il presidente di Regione ineleggibile per legge, che si appella al voto di chi non doveva votarlo e invece l’ha eletto.
«Quante chiacchiere!», esclama la malafede. «Non lo sai che ha stravinto?».
Facciamo i conti. Metà degli elettori gliel’ha detto papale papale che non lo vuole, ma gli amici di De Luca – così si chiama l’ultimo campione – sostengono che chi non vota è qualunquista. Come dire: io ti rifilo un pacco e tu hai l’obbligo di comprarlo. E invece no: tenetevelo caro il capolavoro, perché la stragrande maggioranza di coloro che non votano lo fanno perché non si sentono rappresentati e non si capisce perché dovrebbero avere, per i diritti degli elettori di Luca, quel rispetto che il loro candidato non ha per le regole del gioco. Ognuno si prende la responsabilità delle sue scelte e – fatta salva la sempre più rara buonafede – quando si tratta di codici morali non siamo tutti uguali.
Tra le stranezze più strane che si sentono in giro, una riguarda Luigi De Magistris, al quale qualche «amico» molto al passo coi tempi vorrebbe cucire addosso un vestito che è un’autentica camicia di forza. A dar retta, infatti, a taluni cervelli fini vicini al PD, la peggior destra del Paese, lui, che la malafede l’ha sempre combattuta pagando di persona, che è e si dichiara onestamente uomo di sinistra, se vorrà ripresentarsi, farà bene a stare alla larga dalla sinistra e a lasciare perdere chi non vota perché non si sente rappresentato. Tutto ciò che potrà fare, quindi, è sgomitare a centro per farsi spazio nell’affollatissima area dei sedicenti «moderati» e – perché no? – per «fare l’occhiolino» al nobiluomini alla De Luca.
Insomma, il modo migliore per costruire un suicidio politico.

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downloadFine giugno del 1901. Al ponte di Albersan, sul Canal Bianco, tre chilometri da Berra Ferrarese, c’è la bonifica delle terre alla destra del Po: 22.000 ettari e pane assicurato, se la terra non fosse in mano alla «Banca di Torino». E quando mai dove trovi una banca c’è pane assicurato per la povera gente? Nelle paludi muoiono di fatica contadini che vengono dalle province di Rovigo e Ferrara, romagnoli del Polesine, divisi dal fiume ma uniti dalla fede socialista e da sentimenti di solidarietà. Gente che sciopera solo se non trova alternativa alla fame. Un contadino mangia solo se lavora e a Berra si sciopera perché, allora come oggi, il lavoro si paga con salari da fame.
Alla richiesta di qualche centesimo in più, la Società delle Bonifiche ferraresi, sostenuta da capitali bancari, non solo ha risposto picche, ma ha messo a frutto persino la fame, creata apposta dai padroni, e ha reclutato crumiri in Piemonte. Fame contro fame, diritti contro disperazione. E’ il solito gioco e il 1901 somiglia maledettamente al 2015, coi padroni del vapore che prima producono la crisi e poi la usano come un’arma contro i diritti e la povera gente. Un gioco da ragazzi: «prendere o lasciare». E se il ricatto non basta, c’è lo Stato, pronto a coprire le spalle agli sfruttatori, e c’è la “legalità”, la scienza che i padroni usano con sapiente ferocia per strangolare nei tribunali la giustizia sociale.
Appena i contadini scendono in sciopero, la proprietà invoca l’intervento delle Autorità. Poche ore, poi attorno al ponte brulicano soldati in tenuta da campagna. Anche per questo i lavoratori pagano: per garantire un lavoro sicuro e il futuro alla gente in divisa. La salute degli sfruttatori si chiama repressione. La truppa è in trincea. In testa ai fanti, all’imbocco del ponte, c’è Lionello Di Benedetto, un tenente napoletano, e di fronte, sulla destra del canale, luccicano altri fucili.
Giunti in corteo dalla strada di Berra, gli scioperanti provano ad attraversare il ponte. La tromba, tre squilli e un brivido serpeggia tra i lavoratori: quando non porta pallottole, la tromba annuncia sciabolate e botte. I contadini mostrano fazzoletti bianchi in segno di pace e Calisto Desvò, presidente della Lega di Villanova Marchesana, si toglie il cappello e si avvia verso l’ufficiale. I figli hanno fame. L’ultimo sguardo ai compagni: fazzoletti bianchi, bandiere rosse, volti segnati da stenti e fatica, ma tanta dignità. E’ il secolo dei lavoratori, pensa, mentre cammina dopo gli squilli minacciosi e al tenente: «Domando la parola!». Risponde la pistola: sei colpi consecutivi in petto e in testa. Così finiscono sciopero e vita del socialista Desvò. Così, col sangue versato, i lavoratori conquistano i diritti che Renzi oggi cancella.
La stampa, persino quella padronale (a quei tempi c’erano anche giornali operai) narra i particolari. Dietro la truppa, il proprietario era una furia, chiedeva di far fuoco e indicava gli scioperanti. Dopo le revolverate erano giunte le fucilate. «Fuoco!» s’era sentito urlare. « Per questa gente non c’è altro che il piombo! Fuoco!».
Mentre i contadini inermi si davano alla fuga terrorizzati, centrata alla schiena e alla nuca – una palla a bruciapelo le portò via metà della testa – se ne andò per sempre Cesira Nicchio, lasciando due figli. Attorno a lei quattro compagni rantolanti – Ferruccio Fusetti, Albino Gardellini, Sante Livieri e Augusto Nanetti – e decine di feriti in fuga disperata. S’era udita però, rabbiosa, in punto di morte, una voce urlare per l’ultima volta la sua fede: «Coraggio compagni! Viva il socialismo!».
Non sapremo mai se il cronista ci mise del suo, ma del proprietario si narra l’estrema provocazione:
«I morti sono pochi; ci vogliono ancora pallottole per i capi!».
Chi crede che l’Italia di Bava-Beccaris, col cannone in batteria che spara sui manifestanti inermi, sia un «incidente di percorso», non conosce la storia e non capisce che la scuola e l’università sono state assalite dai governi del secolo nuovo, perché non educassero una gioventù consapevole dei propri diritti e del sangue che sono costati. Qui da noi l’«incidente di percorso» non sono stati Crispi, Pelloux, Mussolini e l’omicidio di Pino Pinelli. Questa è la regola. Per capirlo, basta contare i giovani assassinati in guerre volute solo dai padroni, mettere assieme la gente ammazzata nelle piazze, contare i morti volontariamente uccisi sul lavoro, i suicidi per disperazione, il massacro sociale di Monti, Fornero e Renzi: l’unico, autentico «incidente di percorso» qui da noi è stato quel tanto di democrazia consentito talora dal saggio di profitto e dal bisogno di pace sociale. Quella democrazia di cui Renzi si riempie ogni giorno la bocca e intanto la cancella.
Non c’è stato nessun diritto ottenuto per grazia ricevuta. I lavoratori li hanno conquistati sempre e solo pagandoli col sangue e l’unica primavera della legalità nella nostra storia è stata quella imposta ai padroni tra il 1943 e il 1945, ai tempi della Resistenza. E’ questa la lezione terribile ma istruttiva che insegna la storia ai ceti subalterni: la dignità e i diritti si conquistano col sangue e col sangue si difendono. Ecco perché la scuola non farà più il suo mestiere.
Il resto sono chiacchiere.

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