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Archive for the ‘Storia’ Category

La mia giovane amica Adriana Pollice, valorosa giornalista, ha ricordato Antonio Amoretti sul “Manifesto”. E’ il miglior articolo che ho letto e sono certo che se potesse, il vecchio partigiano la ringrazierebbe.

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L’ho saputo presto, quasi in tempo reale e il respiro già corto per la polmonite, si è subito appesantito: Antonio Amoretti, l’ultimo partigiano combattente delle Quattro Giornate di Napoli ha raggiunto i compagni perduti negli anni. Non ho pensato di ricordarlo perché sono affaticato e soprattutto perché ho avuto la sensazione che la sua morte si inserisse quasi naturalmente nella traversata del deserto iniziata col Governo Meloni. Ho pensato che in fondo, portandolo con sé, la morte gli avesse fatto un dono. mi sono venuti in mente Valditara, le sue deliranti circolari e mi sono detto che il rischio c’era: partigiano e comunista, avrebbe potuto ancora raccontare ai giovani nelle scuole cosa fu il fascismo? Valditara sa quale debito ha la Repubblica con i comunisti come Amoretti?
Mi sono lasciato andare alla tristezza, ho provato una pena immensa per i tanti ragazzi che non potranno incontrarlo e per le grandi e semplici verità che non ascolteranno. Nel pomeriggio m’è venuto tra le mani un articolo di un quotidiano napoletano e qualcosa è scattata dentro di me. Non si possono scrivere tante sciocchezze di fronte alla scomparsa di un uomo di valore, che ha saputo farsi testimone dei grandi valori da cui – checché ne pensi Valditara – sono nate la Repubblica e la sua Costituzione. Quella sulla quale Valditara non s’è accorto che c’è la firma di Terracini.
Antonio Amoretti non ha mai avuto un “nome di battaglia”, ma era l’ultimo testimone vivente d’un verità sottaciuta, che ha sminuito il valore e il significato dell’insurrezione. Un silenzio ingiusto per una città medaglia d’oro della Resistenza, che ancora una volta si pensa di rapinare con l’Autonomia differenziata di Calderoli e dei suoi camerati: le Quattro Giornate di Napoli non furono né la rivolta degli scugnizzi, ne l’esplosione della rabbia “vesuviana”, di un popolo che si accende e si spegne come fuoco d’artificio. Amoretti fu figlio di antifascisti; il padre Francesco frequentava infatti le riunioni clandestine che si tenevano in casa di Francesco Lanza – dentista, ex confinato politico, anarchico, passato poi ai comunisti – e non scappò di casa per andare a fare l’eroe incosciente sulle barricate dell’insurrezione. Seppe dal padre che la città era pronta a sollevarsi e questo non è un dato marginale: significa che l’insurrezione non fu affatto spontanea ed era stata anzi “pensata” e organizzata.
Il padre non solo l’avvisò, ma gli consegnò la sua pistola di combattente della prima guerra mondiale. Il giovanissimo Antonio, un sedicenne di formazione antifascista, non ebbe dubbi e la mattina seguente prese posto tra i combattenti. Fece la sua parte, ma la partecipazione alla vita e alla vicenda storica della città, non si chiuse con il coraggioso intervento nella rivolta. Testimone oculare di una pagina importante della storia della città e del Paese, divenne “partigiano della pace”. Sangue ne aveva visto versare troppo, per non fare quella scelta. Attivo militante dell’ANPI, di cui divenne infine Presidente provinciale, portò in mille aule scolastiche il suo messaggio di antifascista, i suoi valori di democrazia, libertà e giustizia sociale e fu un autentico apostolo del pacifismo.
Lascia un vuoto che non sarà facile colmare, ma occorrerà pensarci e provare a riempirlo. Non avrebbe chiesto altro a noi compagni e amici che l’abbiamo amato e rispettato.

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Mentre siamo parte attiva in una guerra e in piazza si chiede la pace, è a dir poco singolare: dopo un secolo, la nostra repubblica parlamentare, che ha tra i suoi principi fondamentali il ripudio della guerra, celebra ancora un conflitto nel quale ci trascinò a tradimento un re criminale con un patto segreto ignorato dal Parlamento. Un conflitto feroce e insensato, un’infamia, universalmente nota come «inutile strage». Se è vero che le parole non sono mai neutre e pesano come sassi, forse non c’è segnale più raccapricciante dello stato di coma profondo in cui versano le Istituzioni, che la parola utilizzata in netto contrasto col dettato costituzionale: celebrare vuol dire esaltare, glorificare, ricordare festosamente; una parola, quindi, che fa riferimento a un vanto, a un moto di orgoglio, a una lezione positiva da impartire ai giovani del nostro tempo.
Ma che c’è da celebrare un secolo dopo la «Grande Guerra»? L’indecente voltafaccia nei confronti di antichi alleati, aggrediti oltre i loro confini, benché ci avessero offerto Trieste e Trento per le quali dicevamo di voler fare la guerra? La lezione di tradimento e di violenza? Il Parlamento posto di fronte al fatto compiuto e subito messo in mora? Che degno ricordo celebriamo? La democrazia sospesa e le decimazioni? I giovani mandati al macello coi berretti di feltro in attesa degli elmetti, o la stoltezza feroce di Cadorna e dei suoi generali? Come facciamo a dimenticare i socialisti e gli anarchici mandati nelle missioni dove più certa era la morte? E i soldati uccisi dai carabinieri pronti a sparare a chi fuggiva terrorizzato? Perché si tace dei centomila nostri prigionieri considerati disertori e abbandonati a se stessi, in mano a un nemico che stentava ad alimentare i suoi uomini al fronte e uccisi dalla fame e dal freddo nei campi di prigionia? Perché non raccontiamo ai giovani l’inaudita ferocia delle nostre classi dirigenti?
Sarebbe giusto farlo, ma è un ricordo incompatibile con la parola «celebrare». Se a uno studente fai oggi i nomi di Mauthaushen e Theresienstandt, nel migliore dei casi ti parlerà degli eccidi nazisti. Nessuno ti dirà che trent’anni fa, in un libro ignorato, che meriterebbe di essere indispensabile sussidio nello studio dell’Italia nel primo conflitto mondiale, Giovanna Procacci ci rivelò, senza temere smentite, che in quei luoghi finirono ammassati 600.000 nostri soldati che si erano arresi al nemico e furono tutti considerati traditori. Una inconfutabile documentazione d’archivio e le lettere dei militari sequestrate dalla censura narrano – evidentemente invano – l’eccidio voluto dal nostro Paese in nome dell’amor patrio: centomila uomini morti di fame e di freddo perché i Governi sapevano ma non vollero aiutarli *.

«È un affare molto serio», scriveva un ufficiale da Berna; «bisogna, anzitutto premettere che i tedeschi, non avendo ormai più niente da mangiare, non possono dare maggiormente ai prigionieri. Questi disgraziati, se non sono ufficiali, sono costretti ad un lavoro di 12-14 ore al giorno, sono condannati ad una morte molto più certa che quando erano sul fronte. Creda che questa non è esagerazione. Ne ho visto e ne ho interrogato. So di un sergente il quale ha dato le sue scarpe nuovissime per qualche biscotto. Quello lì aveva potuto conservarsi le scarpe. Quasi tutti gli italiani sono stati spogliati ed hanno dovuto passare l’inverno senza scarpe e talvolta senza cappotto. Il numero dei disgraziati, i quali non vedranno mai più il sole di Italia sarà enorme. Bisogna dunque che la Patria assista i suoi prigionieri, […] che l’Italia faccia in ogni campo dove saranno internati sudditi italiani degli invii collettivi di biscotti e altri viveri, che vengono poi distribuiti dal Comitato scelto nei prigionieri, il quale deve essere costituito in ogni campo. Questo è l’unico rimedio perché: 1°) non si otterrà mai che la Germania dia da mangiare ai prigionieri poiché i tedeschi stessi crepano di fame. 2°) le autorità quando non favoriscono il furto, chiuderanno sempre gli occhi sulla disparizione dei pacchi postali individuali».

Generali e politici non ascoltarono e si sa bene il perché: più affamati e disperati erano i prigionieri, più se ne condannavano a morte, più si scoraggiava la diserzione dei combattenti. Un nome di questa scelta disumana, fu fermata la Croce Rossa e tutto fu coperto da una propaganda nazionalista così ben orchestrata, da rendere ciechi persino i genitori dei nostri infelici soldati.
Prigioniero a Theresienstadt in Boemia, così il 5 agosto 1916 un soldato scriveva al padre:

«Non mi degno più chiamarvi caro padre avendo ricevuto la vostra lettera oggi dove lessi che era meglio fossi morto in guerra, e che ho disonorato voi e tutta la famiglia. Tutti parlano male di me. Perché capisco che non sentite più l’amor filiale, non sentite altro che l’amor patrio e pel vostro Re. Perciò d’ora in poi sarò il vostro più grande nemico, e non più il vostro Domenico. Vi ringrazio di tutto cuore, ma non mandatemi più nulla. Addio. Sapete che a scrivere non so tanto; ma sono mie parole lo stesso».
Pochi mesi dopo, da Mauthausen, un altro prigioniero scriveva alla mamma:

«Mia cara madre, ho ricevuto la vostra […]. Il contenuto di essa, riguardante la mia disgrazia mi ha recato dolore ed anche pianto. Mamma, io sono innocente, ve lo confesso con ampia sicurezza, perché la mia coscienza me lo dice e me lo rafferma. Sono libero da ogni rimorso […], ho gran fede in Iddio perché lui riconoscerà la mia innocenza e mi aiuterà nella lotta che sosterrò al mio ritorno. Si, al mio ritorno, dico, perché io verrò, verrò a giustificare la mia ingiusta accusa.
Anziché rinunciare la mia patria desidero anche ingiustamente soffrire la condanna. […] State tranquilla mamma perché vostro figlio non vi ha disonorato».

Per gli infelici proletari prigionieri, non si trattava solo di difendere la dignità e la vita, ma di fare i conti con terribili sensi di colpa: essi sapevano infatti, che la resa al nemico, benché inevitabile, era ricaduta sulle famiglie, già private delle loro braccia. «ti hanno levato il sussidio», scriveva al padre un contadino pugliese il 16 febbraio del 1918, ma

«sono grandi vigliacchi perché io quando fui fatto prigioniero fu colpa del mio tenente e non è colpa mia, e poi noi fummo fatti prigionieri in 32 soldati e caporali e 2 sottotenenti come fanno a dire che io sono disertore?».

Lettere mai giunte ai familiari e per fortuna conservate in archivio. Lo sanno in molti: celebrare la guerra non è una scelta nobile. Celebrare questa guerra, con 100.000 omicidi di Stato su 600.000 caduti, è un’autentica vergogna.

* Giovanna Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella grande guerra, Editori Riuniti, Roma, 1993.

Officina dei Saperi, 7 novembre 2022; FreeSkipperItalia e Zazoom, 8 novenbre 2022

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Compaiono d’incanto e non c’è verso di farli sparire; più i questurini ne strappano dai muri, più qualcuno di notte ne incolla di nuovi:
«Operai degli opifici regi, figli del popolo, voi vi troverete nelle vie il 1° Maggio! Nelle officine dove mal retribuiti vi logorate il corpo e l’anima non c’è posto, non ci deve essere posto per il 1° Maggio! Soldati, strappati ai campi, all’affetto della madre, del povero padre forse cadente, voi sareste tra i dimostranti il 1° Maggio, se non indossaste la divisa, perché nessuno di voi è felice e nelle povere case è freddo il focolare, soldati, e chi vi ama molti giorni digiuna».
E’ l’uno maggio 1890: festa del lavoro per la prima volta. Quel giorno è più o meno così ovunque il mondo ha fabbriche e operai: manifesti, comizi, cortei e la prova di uno sciopero generale. Gli operai lavorano quattordici ore al giorno, donne e bambini compresi e chiedono di farne otto. Quando però il profitto è in discussione e ci sono di mezzo salari, orari e regole del gioco, gli imprenditori tornano padroni. 
Come temesse la rivoluzione, la Questura, s’è schierata in forze e i carabinieri a cavallo sono nascosti nei cortili dei palazzi; i sovversivi, sorti dal nulla come i loro manifesti, passano però furtivi per l’antica Sant’Eligio e, va a capire come, giungono uno dopo l’altro nella piazza presidiata. Sotto gli occhi delle guardie allibite appare un palco improvvisato, un tavolo fra le bandiere rosse, e un oratore grida: lavoratori, unitevi! Scatta la repressione, violenta ma tardiva: la folla arretra, ondeggia, poi reagisce e la cavalleria non passa.
Attorno al palco c’è chi fa quadrato e il comizio continua, ma la piazza è un inferno: fuoco di moschetti, cavalli a briglia sciolta, feriti, arresti e gli operai in manette, trascinati verso il carcere di peso. Accuse pesanti: disobbedienza alle leggi, associazione sovversiva, istigazione all’odio di classe. E’ un progetto preciso: seppellire la protesta operaia sotto secoli di galera.
Finirono in carcere gli operai del primo maggio 1890. Due anni dopo, in tribunale, Giovanni Bovio, che li difendeva, fu lucidissimo:
«non vi neghiamo i tributi e la difesa e neppure il lavoro vi neghiamo, ma solo che rimuoviate gli ostacoli che fanno il lavoro impossibile o sterile per noi: […] questo vi chiediamo e voi ci rispondete coi fucili nelle mani dei nostri figli e con aspre sentenze di giudici. I chierici ci fecero dubitare di Dio; i signori feudali ci fecero dubitare di noi stessi, se uomini fossimo o animali; la borghesia ci fa dubitare della patria, da che ci fa stranieri sulle terre nostre. Voi, giudici, badate: non fateci dubitare della giustizia. Che ci resterebbe? Temiamo di domandarlo a noi stessi: di noi temiamo, non della sentenza».
Un’invocazione e un monito inascoltati, ma più che mai attuali. Vennero altre feste del lavoro. Crispi, sciolto il Partito Socialista, segregò nelle isole migliaia di lavoratori e a maggio del 1898 Bava Beccaris sparò a mitraglia sulla folla disarmata. Corse il sangue, ma per ricondurre l’ordine nel paese non bastarono stati d’assedio, tribunali di guerra e secoli di galera e domicilio coatto. Finì che la pistola di Bresci uccise Umberto I; aveva in mente i morti di Bava Beccaris.
Il 1890 potrebbe essere oggi. Sarebbe stato facile capirlo, ma ancora si finge d’ignorarlo: finché esisteranno ingiustizia, sfruttamento e disperazione, non ci sarà pace sociale.

Da Fuoriregistro, 1 maggio 2003

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Mentre celebrava il 25 aprile, un governo di traditori confermava la sua amicizia e il suo sostegno al governo dell’Ucraina che ha messo fuorilegge il comunismo.
Draghi e i suoi camerati evidentemente hanno finto così di ignorare di aver giurato su una Costituzione firmata dal partigiano Umberto Terracini, comunista e presidente dell’Assemblea Costituente.
Grazie a questi traditori, oggi, in alcune città d’Italia, gruppi di neofascisti hanno attaccato i pacifici cortei per il 25 aprile.

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Ci vorranno pazienza e curiosità, ma l’articolo non è banale e ci ho trovato alla fine mio nonno. Chi era? Io lo so, voi no…


L a Provincia Pavese

Giovanni Peroni l’industriale della birra da Vigevano a Roma

I cultori della tv in bianco e nero, ricorderanno il fortunato slogan pubblicitario, “Chiamami Peroni e sarò la tua birra”, affidato al fascino della berlinese Solvi Stubing. Ma la storia della famosa azienda italiana iniziò molto prima, a metà Ottocento, tra Galliate, nel Novarese, e Vigevano, città d’adozione di Francesco Peroni che vi trasferì la famiglia nel 1846. Nella città ducale, due anni più tardi, nacque il figlio Giovanni, continuatore, con il fratello Cesare, dell’opera del padre e di cui ricorre in questi giorni il centenario della morte, avvenuta a Roma. Fu proprio nella Città Eterna, non ancora capitale d’Italia, che Peroni impiantò una seconda fabbrica di birra, oltre a quella già esistente a Vigevano (il primo documento che attesta la presenza dei Peroni in Lomellina è una “Tabella generale degli abitanti del Comune di Vigevano”, del 1846, che definisce Francesco “fabbricante di birra”, con residenza in contrada Rocca Nuova).
Gente di umili origini, i Peroni: il padre di Francesco, Giovanni Battista, era un pastaio (o anche “pastaro” e “pasticiaro”, annota Daniela Brignone nel suo libro sui 150 anni della Birra Peroni: vedi articolo a fianco), che ebbe otto figli dalla prima moglie e sette dalla seconda, Giuseppa Bignoli, sposata dopo la morte della prima: di questi, Francesco era il quinto. Umili, ma il trasferimento a Vigevano – e una minore propensione a mettere al mondo figli – garantì alla famiglia una certa agiatezza e larghezza di mezzi, se a Francesco fu possibile aprire una fabbrica e far studiare gli eredi: con la laurea in ingegneria conseguita da Giovanni. Forse fu proprio il successo negli studi – o anche quello – a far emergere Giovanni come la figura più adatta per ampliare l’attività a Roma: salto non di poco conto, anzi una vera e propria sfida nella quale il giovane Peroni riuscì benissimo. Il primo stabilimento fu avviato nel 1864; quindi, dopo la fusione con la Società romana per la fabbricazione del ghiaccio e della neve artificiale, la sede venne trasferita nei pressi di Porta Pia (teatro della famosa breccia aperta dai bersaglieri di La Marmora nel settembre 1870), dove ancora oggi ne sono visibili i resti. Fino al 1907 la produzione era concentrata nel sito compreso tra piazza Alessandria, via Mantova e via Bergamo, con annesso chalet-birreria di legno in stile liberty, per il consumo in loco della bionda bevanda (poi demolito nel 1912).
Intanto, il successo negli affari garantiva a Giovanni Peroni anche il gradimento della borghesia capitolina, consacrato dalle nozze con Giulia Aragno, figlia di uno dei proprietari del famoso e lussuoso Caffè Aragno di via del Corso, frequentato da deputati e ministri, ma anche da letterati e pittori, a lungo punto di riferimento della mondanità e della vita culturale romana (vivacizzata, ovviamente, dalla proclamazione a capitale nel 1870; il locale ha chiuso definitivamente nel 2014); Giulia era figlia di Giacomo Aragno; Giuseppe Aragno, socialista, già amico di Mussolini, dopo il delitto Matteotti manifestò apertamente la sua opposizione al fascismo, espatriando negli Stati Uniti. Nel gennaio 1922, la morte di Giovanni Peroni, che alle attività imprenditoriali condotte con indubbie capacità, aggiunse dall’ultimo decennio dell’Ottocento, alcune cariche pubbliche (divenne consigliere della Camera di commercio romana) e la presidenza di enti e istituzioni benefiche.

ROBERTO LODIGIANI1 Febbraio 2022

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Elettoralismo? Astensionismo? Autonomia del sindacato o cinghia di trasmissione del partito? Riformisti? Rivoluzionari? Teorie o bibbie? Ricordare chi siamo e da dove veniamo ci aiuta a capire che fare, senza tornare a problemi che sembrano attuali e sono invece il nostro lontano passato…
Una biografia lunga, ma anche una storia che farà bene leggere.

Nato a Scafati il 25 aprile 1895, Cecchi trascorre l’infanzia in una casa confinante con la Camera del Lavoro, luogo di comizi domenicali e lavoratori che parlano di salari da fame e disoccupazione e si sente socialista sin da bambino. Nel 1911 fa parte dei giovani del PSI e diventa corrispondente del giornale socialista napoletano «La Propaganda». Nel 1912 si sposta con la famiglia a Castellammare di Stabia, dove conosce Ruggiero Grieco e Oreste Lizzadri e frequenta il Circolo «Carlo Marx», fondato a Portici da Bordiga, di cui sarà amico per tutta la vita.
Tra novembre del 1915 e ottobre del 1916 è eletto prima Segretario regionale e poi nazionale dei giovani socialisti, ma si dimette inspiegabilmente pochi giorni dopo. Chiamato alle armi nel 1917 e tornato a Castellammare il 21 marzo 1919, contribuisce alla nascita di una Camera del lavoro, di cui diventa segretario e ne fa un’organizzazione così temibile che, per umiliarla, gli industriali rendono lavorativo il I maggio. La risposta operaia spaventa i moderati. In una piazza gremita, infatti, la Camera del lavoro espone la bandiera rossa, chiama alla lotta lavoratori, donne e studenti e diventa una sorta di «Soviet», che impone un prezzo politico ai negozi di alimenti esposti al saccheggio. Mentre il PSI è fermo e la CGL non coinvolge i contadini, la paura della rivoluzione unisce le forze della reazione e a settembre la cavalleria, caricando un corteo e ferendo lavoratori inermi, mostra quali sono i rapporti di forza.
Tra il 1919 e il 1920 Cecchi entra nel Comitato Centrale della frazione astensionista di Bordiga ed è eletto Segretario della Camera del lavoro di Napoli in un momento di dure lotte. Poiché PSI e CGL non sostengono le fabbriche occupate e i padroni reagiscono, spalleggiati dai fascisti, per uscire dall’isolamento, Cecchi si oppone all’astensionismo elettorale ed è sospeso dalla Frazione Comunista. Il 1921 nasce all’insegna di scontri e licenziamenti, con padroni e fascisti scatenati. Quando a Castellammare un carabiniere muore in un conflitto, Cecchi, accusato di aver causato gli scontri, sente la bufera vicina e minaccia: «Per una istituzione operaia violata, cento palazzi borghesi grideranno il nostro odio e la nostra ferma vendetta». In realtà il sindacato è debole e diviso.

Tornato nei ranghi, il 29 gennaio Cecchi diventa dirigente della neonata sezione del PCdI e ad aprile è rieletto segretario della Camera del Lavoro, ma è ben presto isolato. I socialisti infatti non tollerano l’egemonia comunista e per i comunisti Cecchi non segue la linea del partito. Il 3 febbraio 1922, nonostante la debolezza del sindacato e le minacce fasciste, è costretto a uno sciopero generale che si rivela un fallimento. Quando chiede una discussione collettiva sull’autonomia del sindacato, giunge l’attacco personale: Cecchi, opportunista a caccia di stipendi, ama il lusso e bada anzitutto ai propri interessi. Di lì a poco, un’inchiesta sul tenore di vita del sindacalista, voluta da Ugo Girone, dirigente e futura spia, termina con l’esonero da ogni incarico.

Cecchi va via senza difendersi. Riprende gli studi e nel 1924 si laurea in legge. Nel 1925, però, una iniziativa per i martiri del fascismo, la presenza a un incontro tra Bordiga e Gramsci e l’assalto fascista alla sua abitazione, mostrano un militante attivo e spiegano la condanna al confino del 2 dicembre 1926 e l’accusa di sovversione che un anno dopo lo conduce al carcere di Siracusa, da dove, assolto dal Tribunale Speciale, torna al confino ad agosto del 1928.
Liberato il 7 dicembre 1929 e sottoposto a una stretta vigilanza e a mille angherie, sposa l’ostetrica Tullia Tommasi, si stabilisce a Napoli con la moglie e si laurea in lettere e filosofia. Dopo una breve esperienza da procuratore legale, la scelta di insegnare, avversata dal regime, lo condanna a una vita precaria, vissuta con quanto ricava da lezioni private e segnata da arresti e perquisizioni. Nel 1935, per evadere dalla sua invisibile prigione, scrive al Duce, che – afferma – sente vicino come nel 1914, quando colpì i massoni. Da anni vive di rinunzie e miserie. Se si fosse piegato, scrive, diploma e lauree gli avrebbero garantito una vita tranquilla, ma non l’ha fatto e ha voluto capire. Ritorna al duce perché esprime «il diritto, l’onore e la forza rinnovatrice dell’Italia». Troppo repentinamente «fascista», l’ex sindacalista non convince l’Alto Commissario Pietro Baratono, che gli allenta però la vigilanza.
Nel 1938, in vista di un concorso magistrale, Cecchi firma con uno pseudonimo un libro di lezioni per i futuri maestri «della nuova Italia» e a marzo del 1940 chiede la tessera al partito fascista, che il 25 gennaio 1941 gliela rifiuta per indegnità politica. Il 18 marzo, benché il partito si opponga, è radiato dall’elenco dei sovversivi. In realtà, Cecchi non si è mai convertito. Nei ricordi di autorevoli compagni di lotta, confermati da studi di vari studiosi, dal 1932 l’ex sindacalista e gli uomini della frazione intransigente vicina a Bordiga sono anzi tra i militanti che collegano tra loro gli antifascisti dispersi dalla reazione. Entrato poi in un gruppo clandestino, Cecchi scrive e diffonde con Antonio Baldaro, i fratelli Ennio e Libero Villone ed Eugenio Mancini, due opuscoli sulla situazione politica mondiale. Nel 1937, a conferma di ideali mai negati, l’Ovra segnala alcuni militanti «organizzati attorno a Cecchi come sezione della Quarta Internazionale».

Caduto Mussolini, firma un appello per la pace e la democrazia contro le misure di ordine pubblico volute da Badoglio e giunge alle Quattro Giornate col gruppo «Spartaco» e con legami clandestini che vanno dagli uomini vicini a Bordiga, al prof. Giacomo Cicconardi, primario degli Incurabili, legato a Federico Zvab. La sera del 30 settembre 1943, alla fine delle Quattro Giornate, Cecchi assiste interdetto all’incontro tra i partiti e Leopoldo Piccardi, redivivo ministro di Badoglio e quando giunge Giuseppe Cenzato, Presidente dell’Unione Fascista degli Industriali fino alla caduta del regime, indignato, lo mette alla porta. Si scontra così con Eugenio Reale, segretario del PCI, che difende Cenzato ed è pronto a ricevere il prefetto Soprano, che ha consegnato la città ai tedeschi. Il dissenso sull’epurazione, sui rapporti con Badoglio, gli Alleati e la Democrazia Cristiana e sul ruolo del sindacato, causa una breve ma indicativa scissione. Per i futuri togliattiani, Cecchi e i suoi, «notoriamente bordighisti», seguono una via «diametralmente opposta a quella del Partito Comunista». Per Cecchi, invece, il PCI scende a patti con le forze borghesi, impone dirigenti calati «dall’alto», ignora la democrazia interna e il valore della rappresentanza degli iscritti. Lascia perciò il partito, che sente lontano e si dedica al sindacato.
A novembre del 1943 azionisti, comunisti e socialisti dissidenti, riunite varie categorie di lavoratori, riaprono la Confederazione Generale del Lavoro, che rifiuta di salvare fascisti, ha dirigenti eletti dalla base, Camere del Lavoro e strutture sindacali che non sono cinghia di trasmissione dei partiti; un sindacato che afferma il valore costruttivo del lavoro e chiede di partecipare alle scelte di politica economica, per impedire che il governo regali alla borghesia industriale cifre incontrollabili, che peseranno di certo sul proletariato. Cecchi torna alla Camera del Lavoro di Castellammare di Stabia, ma lo scontro si riapre nel sindacato. Si giunge al punto che, nella primavera del 1944, quando Norman Lewis, agente dei servizi segreti inglesi e sincero antifascista, irritato da un insolito interesse del PCI per l’epurazione, chiede i nomi di fascisti clandestini, Eugenio Reale gli consegna un foglio con «i nomi dei quattro uomini più pericolosi di Napoli e quello di un giornale sovversivo che andava soppresso». Purtroppo, scopre poi contrariato l’ufficiale, il giornale è «Il Proletario», pubblicato dai comunisti di sinistra e i nomi sono quelli «di Enrico Russo, capo dei trozckisti e dei suoi luogotenenti, Antonio Cecchi, Libero Villone e Luigi Balzano».
L’ultimo intervento di Cecchi quale dirigente sindacale risale all’agosto del 1944, quando presenta due ordini del giorno in cui chiede invano un’organizzazione apertamente classista, garante di una reale unità dei lavoratori, che affermi il principio dell’autonomia delle Camere del Lavoro. La sua «CGL rossa», confluisce però nella CGIL. Per non perdere un autorevole dirigente del movimento operaio, Di Vittorio tenta di trattenerlo, ma il vecchio militante lascia il sindacato.
Nell’autunno del 1944, per unire i gruppi di opposizione, Cecchi fonda con Enrico Russo la Frazione di Sinistra dei Comunisti e dei Socialisti Italiani, che raccoglie circa mille iscritti. Ostile alla politica d’unità nazionale, dopo la liberazione del Nord entra in contatto col Partito Comunista Internazionalista, poi lentamente scivola ai margini della vita politica. Con la consueta coerenza, però, a marzo del 1945 rifiuta l’incarico di Commissario prefettizio dell’Azienda Autonoma di Cura e Soggiorno, che gli offrono il Prefetto e il Comitato di Liberazione, Istituzioni che ha combattuto.

La vita di Cecchi nella «Repubblica nata dalla Resistenza» è fatta di stenti e dignità: lezioni private, l’aiuto economico della moglie e finché non si scinde, la militanza nel gruppo bordighiano di sinistra, nato a Napoli nel Partito Comunista Internazionalista l’1 settembre 1951. Docente precario fino al 1956, insegna da incaricato materie letterarie e giuridiche in varie scuole di Napoli e della Provincia. Nel 1962, per giungere al minimo della pensione, ottiene di insegnare fino al 1965, quando compirà 70 anni. Frequenta «gruppi d’irriducibili in un bar di Piazzetta Matilde Serao, trasformato in un covo di rivoluzionari», fino alla morte, giunta l’1 ottobre 1969.
Sull’immaginetta stampata dalla famiglia per ricordarlo, si legge: «grande idealista, studioso di problemi politici e sociali, fu combattente per la libertà, per l’emancipazione delle classi lavoratrici e per il progresso sociale. Subì persecuzioni e sofferenze che […] affrontò con forza e serenità […]. Professore di Lettere, di Filosofia e di Diritto, […] fu amato e venerato dai discepoli che ne esaltarono l’ingegno e la cultura».

Fonti e bibliografia
Archivio Centrale dello Stato, Confino Politico, b. 229, ad nomen e Casellario Politico Centrale, b. 1219, ad nomen. Archivio di Stato di Napoli, Schedario Politico, Sovversivi deceduti, b. 16, ad nomen. Ivi, Gabinetto di  Prefettura, II Versamento, b. 588, f. «IV-7-2-198- 1944-45», sf. «Torre Annunziata. Camera del Lavoro»; Anteo Roccia, (pseudonimo di Antonio Cecchi), L’attività del gruppo Spartaco contro il fascismo e la guerra durante il periodo mussoliniano e fino all’armistizio, «Il Pensiero Marxista», Bari, 2-7-1944; Rocco D’Ambra, dattiloscritto senza titolo conservato in ANPI Napoli, b. 2, f. «D’Ambra Rocco»; Raffaele Colapietra, Napoli tra dopoguerra e fascismo, Feltrinelli, Milano, 1962; Pasquale Schiano, La Resistenza nel Napoletano, C.E.S.P., Napoli, Foggia-Bari, 1965;  Nicola De Janni, Operai e industriali a Napoli tra Grande guerra e crisi mondiale: 1915-1929, Librairie Droz, Ginevra, 1984, passim; Norman Lewis,Napoli ’44, Adelphi, Milano, 1998; Rosa Spadafora, Il Popolo al confino. La persecuzione fascista in Campania, I, Athena, Napoli, 1989, p. 130; Alexander Höbel, L’antifascismo operaio e popolare napoletano negli anni Trenta. Dissenso diffuso e strutture organizzate, in Gloria Chianese, Fascismo e lavoro a Napoli. Sindacato Corporativo e Antifascismo popolare, Ediesse, Roma, 2006, Francesco Giliani, Fedeli alla classe. La CGL tra occupazione alleata del Sud e “svolta di Salerno” (1943-45), produzione propria, 2013; Giuseppe Aragno, Le Quattro Giornate di Napoli. Storie di antifascisti, Intra Moenia, Napoli, 2017; Raffaele Scala, Antonio Cecchi, Storia di un rivoluzionario.

«Nuovo Monitore Napoletano», 21-06-2019.

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E’ vero, la foto di Mussolini e dei gerarchi uccisi ed esposti a Piazzale Loreto suscita orrore e pietà, ma sarebbe un errore gravissimo separarla dal contesto in cui nacque e dalle ragioni di cui era figlia. Certo, tra chi inveisce e oltraggia i cadaveri non mancavano colore che erano stati fascisti. Non meno certo è però che da un punto di vista morale quei morti erano giunti in quella Piazza solo per loro esclusiva volontà.
Da quando scuola e università sono state praticamente distrutte, i giudizi moralistici, i commenti delle immancabili anime pie, e si è andata affermando una ricostruzione storica che ha stravolto la feroce realtà del fascismo e ha processato e condannato una inesistente e colpevole violenza partigiana, quei giudizi e quei commenti si sono moltiplicati. Ricordare perciò cosa avvenne proprio lì, a Piazzale Loreto, alcuni mesi prima, è diventato un dovere morale. Quanti sanno, infatti, che proprio lì in quella piazza, il 10 agosto 1944 quindici partigiani erano stati massacrati dai militi repubblichini, alleati delle SS, le feroci forze di sicurezza naziste?
Le guerre non sono mai balli di gala e sono sempre feroci, Una ferocia, tuttavia, la cui prima responsabilità va messa nel conto da pagare da chi la guerra l’ha voluta. In nome di quella ferocia, pochi giorni prima, l’8 agosto, in viale Abruzzi, due bombe avevano fatto saltare un autocarro tedesco. Incredibilmente, però, i tedeschi non avevano avuto vittime, i passanti sì. E’ noto che i partigiani rivendicavano le loro azioni, ma in quel caso non lo fecero. A Milano alla testa dei Gap c’era il comunista Giovanni Pesce, combattente di Spagna, reduce dal confino politico a Ventotene e medaglia d’oro al valor militare. Un comandante esperto e coraggioso, particolarmente abile nella guerriglia urbana, che non avrebbe fallito il colpo e che l’avrebbe rivendicato se fosse stato opera sua. Non a caso del resto, nel 1999, processando in contumacia Theodor Saevecke, capo dei servizi di sicurezza tedeschi e della Gestapo, il Tribunale Militare di Milano ritenne l’attacco al camion un colpo dei nazisti, che intendeva così mettere in cattiva luce gli uomini della Resisteza agli occhi della popolazione. Saevecke, un criminale che, terminata la guerra risultò uno sterminatore di ebrei e un torturatore e assassino di partigiani, fallito il colpo, nonostante non ci fossero vittime tedesche, organizzò la rappresaglia e fece fucilare quindici partigiani italiani prigionieri.
Screditare i partigiani e dare un esempio terrificante era ancora possibile e il criminale non esitò. Dopo la fucilazione eseguita il 14 agosto, il boia di Piazzale Loreto diede ordine che i moti, definiti «assassini» da un cartello messo lì apposta per ingannare la popolazione, rimanessero nella piazza senza essere ricomposti. Com’ere prevedibile, quei poveri corpi straziati si decomposero subito sotto il sole rovente davanti agli occhi della città atterrita. Rimasero lì per venti interminabili ore, avvolta dall’odore terribile del disfacimento e da nugoli d’insetti. Un disumano oltraggio alla pietà e alla dignità umana. La gente portò dei fiori, ma passata la sorpresa, per venti ore i militi fascisti vietarono a parenti e passanti impietositi di fermarsi a pregare e di porta un fiore.
Mussolini non ebbe il coraggio di intervenire e fece solo pervenire all’ambasciatore tedesco un protesta formale e inutile. Meritatamente, meno di un anno dopo prese il posto di quegli sventurati. A distanza di decenni lo si può ricordare solo per quello che fu: un criminale. Delle vittime, invece, vanno ricordati i nomi. Nomi che conservano l’onore dei partigiani, E ricordando, dal momento che i tempi sono sempre più bui, è giusto gridare con forza:
Ora e sempre, Resistenza!
Si chiamavano Gian Antonio Bravin, Giulio Casiraghi, Renzo del Riccio, Andrea Esposito, Domenico Fiorani, Umberto Fogagnolo, Tullio Galimberti, Vittorio Gasparini, Emidio Mastrodomenico, Angelo Poletti; Salvatore Principato, Andrea Ragni, Eraldo Soncini, Libero Temolo, Vitale Vertemati.
Tre erano meridionali e nessuno di loro sapeva di morire per la libertà di gente come Salvini.

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Giovanni Bergamasco nasce a Pietroburgo il 1° gennaio 1863 da Carlo e Maria Paulowna. Grazie al talento con cui usa la fotocamera, il padre è diventato vice Presidente della Società fra gl’italiani di Pietroburgo e fotografo dello zar. La nascita di Giovanni coincide con una riforma che apre la scuola ai poveri, agevola l’accesso delle donne alle superiori e garantisce libertà d’insegnamento. Prima di essere ucciso nel 1881, Alessandro II, temendo che la riforma allevi «sovversivi», l’abolisce. Bergamasco giunge all’università quando il nuovo zar, Alessandro III, cancella la rappresentanza studentesca e l’autonomia universitaria e vieta agli studenti di gestire le loro biblioteche e la stampa manoscritta, ma li spinge così a fornire i primi militanti alla rivoluzione. Nel clima di cospirazione che vive all’università, Bergamasco si avvicina alle frange estreme del movimento e nel 1884, segnalato come «ardente nichilista», fugge prima in Svizzera, poi a Napoli, dove vive una sorella sposata.
Giunto in città con la fama di nichilista «fanatico» e «violento», il giovane, che parla in russo, francese e tedesco, suscita mille sospetti. Ha una casa in fitto a Mergellina, ma non vi dorme e vive  con Barbara Walbery Tourenen, una donna incinta, considerata un’amante finché non si accerta, carte alla mano, che è davvero la moglie. Benché esca pochissimo e trascorra le serate a casa della sorella, gli si crea attorno un alone di mistero, alimentato dalla sua audacia – una sera giunge a fermare un agente per chiedere conto del pedinamento – e dalle difficoltà dei poliziotti, che affermano di non riuscire a stargli dietro perché è troppo veloce. Per mesi l’enigma Bergamasco agita i sonni del questore, finché non si scopre che alla fine del 1885, volontario in cavalleria, ha portato in caserma idee libertarie e dopo il congedo ha stretto rapporti con gli internazionalisti.
La sorveglianza si stringe – stavolta si bada anche alla moglie, la «druda socialista» – e a fine agosto 1887, in vista di una visita a Napoli di Guglielmo II, la polizia scopre che Bergamasco è tra i più attivi promotori della campagna antimilitarista. In effetti, l’anarchico vive giorni di intensa attività. A settembre, infatti, fonda «Il Demolitore», organo del circolo «Il Lavoratore», che incita a colpire «con odio implacabile […] l’attuale ordinamento». Nel mirino obiettivi precisi: lo sfruttamento, anzitutto, offesa alla dignità degli

«operai, i quali, costretti dalle dure esigenze della vita, piegano il collo ai voleri di chi comanda, senza speranza di poter sollevare la loro misera condizione».

Una condizione figlia della superstizione, dell’ignoranza e della rassegnazione, che spengono il pensiero libero, sicché, schiavo dello Stato, «avvincolato dalla religione» e «pieno di pregiudizi», il lavoratore 

«conformemente alla legge darviniana di selezione naturale, […] di generazione in generazione, si degrada, e, ciò ch’è peggio, diviene incapace, di­sadattato alla ribellione, abituato a piegar la testa ed a sottomettersi».

In queste condizioni, conclude il giornale, c’è una sola via: la ribellione. Se da Platone a Saint-Simon, i nuovi «sistemi di organizzazione […] sono riusciti vani», affermano Bergamasco e i suoi compagni, non «approderanno a nulla anche le nuove fantasticherie. Al contrario, 

«l’ordine anarchico, l’armonia nasceranno da sé, naturalmente, dalla spontanea volontà degli uomini affrancati. […] Come diceva Ba­kunin, tutti i ragionamenti sull’avvenire sono criminosi, poiché impedi­scono la distruzione pura ed impastoiano il cammino della rivoluzione».

L’invito a lottare diventa perciò perentorio e pressante: «all’opera, compagni, alla ribellione!». 

E’ con questo spirito che Bergamasco entra nel comitato per la liberazione di Emilio Covelli dal manicomio, ma nella lotta per salvare il compagno c’è l’inconsapevole presagio d’una minaccia: la psichiatria come strumento di annichilimento della personalità, che Bergamasco sperimenterà col fascismo. L’anno si chiude con l’apertura della «Lega delle arti meccaniche», una cooperativa di produzione che ha però vita breve.

A ottobre del 1888 l’anarchico è tra i fondatori del circolo «Miseria», di cui scrive il programma, inserendo accanto ai temi classici dell’operaismo e dell’anticlericalismo un elemento di modernità: la necessità che la donna,

«emancipata dalla tirannia dell’uomo, rivendichi la sua libertà, sicché nessuna legge […] torturi il suo povero cuore, violenti la sua libertà e calpesti la dignità sua con l’assurdo comando d’imporre l’amore verso un uomo anche quando egli la disprezzi, l’insulta e brutalmente la calpesta».

E’ un segnale di cambiamento profondo. Sia pure confusamente, Bergamasco tenta di allargare gli orizzonti, superare i confini «eroici dell’anarchismo più spinto» predicato dalla vecchia guardia internazionalista e far crescere la coscienza di classe. Non c’è foglio anarchico o circolo sovversivo in cui non ci sia traccia dello slancio innovativo che egli dà al movimento dei lavoratori. Punto di riferimento per la stampa clandestina che giunge da Londra, per la natura libertaria della sua formazione, il profugo evita rigide scelte ideologiche, sicché attorno a lui prende a muoversi un mondo: Ferdinando Colagrande, tipografo e uomo di punta della «Società Generale dei Lavoratori», Cetteo De Falco e la sua attiva «Unione Emancipatrice» dei calzolai, Gaetano Balsamo, raffinatore di guanti, col «Fascio delle Associazioni Indipendenti», il calzolaio Giacomo Reginella, punto di riferimento di un’associazione che ha in programma lo sciopero, e Giuseppe Serena, un sarto che guida una lega di resistenza. Sono operai anarchici e socialisti che intendono rifiutare la divisione in «caste separate, le quali rendono impossibile lo sciogli­mento dei problemi d’interesse generale» e si rendono conto della necessità di dar vita a un sindacato di classe. E’ un processo lento, che però guarda avanti.
Non a caso, quindi, ai primi del 1889, Bergamasco firma un telegramma di solidarietà con le lotte dei disoccupati romani assieme al calzolaio Giacomo Reginella che, intanto, invita a liberare le società operaie dall’influenza di quanti approfittano per prendere i loro voti:

«operai e operaie […], affratelliamoci in una causa comune. Non si dica più han fatto sciopero i cocchieri, han fatto sciopero le sigaraie. Dovrà dirsi han fatto sciopero gli operai e le operaie. Allora sì che saremo invincibili».

Nel 1889 Bergamasco è socio del circolo «L’Operaio Emancipato» e a giugno si fa espellere dal congresso delle mazziniane «Società Affratellate». Di lì a poco, ai primi del 1890, è redattore del «Combattiamo!» di Genova e si fa due mesi di carcere per violazione del­le leggi sulla stampa. Tornato a Napoli ed eletto segretario del Circolo «L’Emancipazione So­ciale», il 30 aprile 1890 è arrestato con i membri di un Comitato accusato di voler dare carattere violento alla manifestazione del I Maggio. A gennaio del 1891 è in Svizzera, al con­gresso di Capolago; di lì a poco pubblica il «I Maggio» e il 15 aprile 1891 partecipa a una riunione che, secondo la polizia, intende organizzare «un primo maggio rivoluzionario», in linea con le scelte del congresso di Capolago. Da quelle scelte nasce un appello alla disobbedienza rivolto ai soldati, per il quale Bergamasco è arrestato. Tornato libero, il 22 aprile 1892 subisce un’altra condan­na, stavolta a 14 mesi di carcere. Secondo l’accusa, dal novembre 1890 all’aprile 1891 non solo ha ripetutamente incitato all’odio tra le classi sociali, ma ha preso parte

«attivissima anche al movimento del 1° maggio 1892, promuovendo riunioni di suoi confratelli, nei quali portava sempre i consigli più disperati, tanto che aveva stabilito col noto Gino Alfani, di organizzare delle bande armate che nei punti eccentrici della città, […] si sarebbero precipitati all’interno per far insorgere la popolazione e devastare e saccheggiare la città».

Uscito in libertà provvisoria, ad agosto del 1892, a Genova, al congresso di fondazione del PSI, si schiera con gli anarchici. Arrestato ancora dopo i tumulti che sconvolgono la città nell’agosto del 1893, esce quasi subito, ma il 9 dicembre torna in carcere e ci resta. Con Crispi al governo, in Africa si spara e la «guerra dei commerci» con la Francia accresce la povertà, scatenando proteste cui  Crispi risponde con leggi speciali e tribunali di guerra. Nulla di strano, perciò, se le condanne sospese consentono infine di spedire Bergamasco a domicilio coatto per quattro anni. Il 21 febbraio 1895 l’anarchico giunge in catene a Porto Ercole. Lo zar sarebbe stato meno duro, ma il detenuto non cede. Lacero, scalzo, brulicante d’insetti, senza assistenza medica, asciugamani, lenzuola e materassi, il 18 marzo 1895,

 «per l’anniversario della Comune, issa coi compagni la bandiera rosso-nera sul castello di Monte San Filippo, mentre in cielo volteggiano palloni di carta con i colori dell’anarchia».

Bergamasco si rivela così «il vero capo» dei coatti politici ed è Crispi in persona ad inviare una torpediniera che lo prelevi con ottanta tra i più pericolosi coatti, per disperderli nelle colonie di pena. Finito a Lipari e poi di nuovo a Porto Ercole, il 18 aprile 1896 torna a Favignana. Pochi giorni e il 24 maggio, con alcuni compagni, beffa la vigilanza ed evade, «prendendo imbarco in qualche navicella per ignota direzione». Benché inseguiti da navi da guerra, i fuggitivi sbarcano a Tunisi, ma la ragion di Stato piega il diritto d’asilo e la Francia li consegna all’Italia. Spedito a Lampedusa, vi sta fino al 18 novembre 1896, quando è «prosciolto condizionalmente dai vincoli della coattiva dimora».
Il 1897 di Bergamasco, tornato a Napoli a pezzi dopo tre anni di feroce repressione, non ha colore politico. Timore e isolamento sono la nota dominante, perché, non più coatto, di fatto è ancora prigioniero. Gliel’ha ricordato la polizia appena tornato, fermandolo senza motivo, minacciando di ritirargli la «carta di permanenza» e intimandogli di «tener buona condotta, con avvertenza che in caso contrario sarebbe inviato alla coattiva dimora». Buona condotta, quindi. Ma quali garanzie offre una formula così vaga a chi passa per «rivoluzionario professionale», è obbligato a rispondere a ogni chiamata della polizia e a tenere «sempre indosso il libretto di permanenza» per «esibirlo ad ogni richiesta», servo dei capricci della squadra politica? Buona condotta o ricatto?
A ben vedere, un «sorvegliato di polizia» vive sul filo del ricatto, tenuto ad avere «stabile lavoro»e a «farlo constatare all’ufficio di PS», quando alla Questura basta poco per farlo licenziare; sul filo del ricatto vive evidentemente un ex coatto che non deve «dar luogo a sospetti», quando di sospetti vivono i rapporti dei confidenti ed è sempre a rischio: se un intoppo lo tiene fuori casa, perché non «può ritirarsi la sera più tardi di un’ora di notte», se incontra un amico, perché gli sono vietati i quasi inevitabili rapporti con «pregiudicati in materia politica» e persino se è solo e oppresso dai ricordi, perché non può «frequentare […] osterie ed altri esercizi pubblici, […] riunioni, spettacoli e  trattenimenti».
Poiché la vita sa essere feroce, in un momento così amaro giunge dalla Russia la notizia della morte del padre, che se n’è andato proprio mentre una violenta tempesta investe il figlio Giovanni. All’ansia per l’incerto futuro, si sommano così il lutto, il senso di colpa per le scelte estreme e gli anni di lontananza, i dubbi inesorabili e le domande amare: perché voler cambiare il mondo, se il prezzo è il dolore di chi ami? Quali assurdi sogni ha rincorso, se ne è nato un inferno? E la ricchezza improvvisa giunta con la morte del padre non finirà col separarlo dagli operai tra i quali vuol vivere? E’ l’uomo di sempre, ora che ha ereditato un patrimonio di oltre 400.000 lire italiane» e, calcolando la «parte dell’avere paterno che di diritto gli tocca, teme la malafede nella divisione fatta» ed è «preoccupato […] di far valere legalmente le proprie ragioni verso i parenti?». 
Un anno di silenzio è quanto resta della crisi. Un anno in cui l’ex coatto sistema la vistosa eredità ricevuta, «segregandosi dai compagni, ad alcuni dei quali ha anche rifiutato qualche soccorso». Se i rapporti con la Questura si chiudessero qui, l’esito della vicenda sarebbe quello «classico» di tante «militanze estreme» e di lui ricorderemmo ciò che si dice spesso dei giovani «disertori della borghesia»: come ogni buon conservatore, fu inizialmente un milite della rivoluzione. A febbraio del 1898, però, una nota di polizia riferisce che le cose non stanno così; pare, infatti, che «in un abboccamento […] abbia promesso di tornare a spiegare attività in favore del partito» e assicurato un forte sostegno economico all’«Avanti!» in difficoltà e agli operai socialisti che organizza­no a Napoli una nuova Camera del Lavoro. Benché non vi siano prove di una sua responsabilità nei moti di maggio del 1898, il Tribunale Militare ne ordina l’arresto, ma Bergamasco si rende latitante, poi si ammala, evita di tornare al domicilio coatto ed esce infine allo scoperto:

«Non ho preso parte a riunioni e a dimostrazioni, non mi sono ascritto ad alcun circolo o gruppo che sia, non sono uscito dalla stretta legalità. […] Mi si perseguita perché sono socialista? E sia […]. Viva il socialismo!».

Nel 1899 lavora nell’ombra per riorganizzare la Camera del Lavoro di Napoli. Ad aprile fitta alcuni locali al giornale socialista «La Propaganda», che, grazie al suo sostegno economico, esce l’1 maggio 1899 e diventa in breve un riferimento per il movimento socialista meridionale. Acqua n’è passata sotto i ponti e all’animo ribelle fanno ora argine l’esperienza della repressione e la volontà di fermarla. Il Novecento di Bergamasco non è il secolo «breve» della storiografia; ha il respiro lungo delle vicende esemplari, parla agli uomini di ogni tempo e insegue un’utopia che muove la storia: la giustizia sociale.
Diventato figura di spicco del socialismo locale, ai primi del 1900 entra nella Commissione Esecutiva e nel Consiglio Direttivo della Sezione Napoletana del PSI. A ottobre è a Roma, al congresso nazionale del partito e nonostante le divergenze sull’uso dei fondi de «La Propaganda», parla ai lavoratori di solidarietà, narrando una metafora: la vittoria delle api laboriose unite contro la prepotenza dei calabroni. L’opuscolo circola per vie clandestine e piace ai lavoratori, che il 10 novembre 1901 eleggono l’autore consigliere comunale per i socialisti. Un successo personale, ma anche la risposta popolare alla stretta repressiva dei «liberali» che, però, profittando delle condanne da lui riportate, ottengono che Bergamasco sia dichiarato ineleggibile. L’ex coatto si presenta però in Comune ugualmente e cede solo quando il «caso» esplode e la folla invade le tribune del Consiglio municipale per ascoltare la discussione dell’interpellanza Bergamasco e salutare il consigliere che esce dall’aula. Bergamasco perde la partita ma pone la questione della repressione del dissenso alla coscienza del paese:

«ai condannati politici siano essi clericali, monarchici, repubblicani, socialisti, anarchici, spetti d’essere elettori ed eleggibili».

Nel 1902, in rotta con i  compagni sulla irrisolta questione della gestione economica del giornale e sulla distanza tra intellettuali del gruppo dirigente e base operaia, esce dal partito e raccoglie un gruppo di lavoratori nell’«Unione Socialista». Fa scalpore e termina in modo tragico l’attacco a Pietro Rosano, ministro di Giolitti, che Bergamasco accusa di avergli estorto 4.000 lire nel 1898 per evitargli il domi­cilio coatto. Travolto dallo scandalo, Rosano si uccide, lasciando una lettera in cui si dice innocente e scatenando così moralisti ed eroi da burletta, che di sé danno puntualmente il peggio ogni volta che occorre il meglio. I «liberali», ciechi e sordi quando un’infamia diventa ragion di Stato, sparano a zero sul «sovversivo ingrato», che compra la libertà e vende chi gliel’ha venduta. In quanto ai rivoluzionari «duri e puri», solitamente prudenti nel fuoco dello scontro, non hanno dubbi:

«Noi ammiriamo Bergamasco accusatore, ma non possiamo che deplorare Bergamasco compratore di libertà. Innanzi alla legge morale Rosano e Bergamasco si equivalgono».

Su moralisti, maramaldi borghesi e campioni d’ipocrisia rivoluzionaria, il «traditore» vola alto. «In politica, scrive, non c’è pietà», ma se solo avesse temuto il suicidio del ministro, gli avrebbe «scritto una lettera senza pubblicarla, perché il suo intento era di allontanare Rosano […] dal potere». Quanto alla gratitudine, «sopra di essa vi è il dovere. Ebbi la libertà e pagai. E tacqui, benché premuto da ogni parte, finché il tacere non era colpa».
Benché scosso, nel 1902 Bergamasco si laurea in scienze naturali e di lì a poco, nel 1903, anima la protesta contro la visita dello zar in Italia e pubblica l’opuscolo intitolato «Per l’arresto di alcuni socialisti russi in Napoli». Pur tornando nel Psi, ha col partito rapporti sempre difficili, perché gli riesce difficile conciliare la formazione sostanzialmente anarchica, con le regole e le scelte di un partito politico. Dopo la strage di Pietroburgo, nel 1905, quando Nicola II scatena la repressione, dalla Russia giungono numerosi profughi. Per Bergamasco sono anni irripetibili. Bandito dalla Russia e accolto a Napoli dai socialisti, Gorky fa scuola di partito a Sorrento e la «cerchia dei sovversivi» è in subbuglio. Tra scontri e arresti, Bergamasco dà vita a un «Comitato pro Russia», che apre una sottoscrizione per le vittime delle rivoluzione e riunisce i profughi e le loro compagne in una sezione dell’Unione del Lavoro. Giovani, spesso sopravvissute a feroci «pogrom», le rivoluzionarie sono accompagnate dall’aureola del martirio, dalla letteratura sovversiva russa e dalla loro musica appassionata, suonata dal «compagno Sormus», artista di «potenza meravigliosa» che ricorda col violino la rivoluzione sconfitta. «Noi vi vediamo serene muovere al vostro destino», recitano i giovani a memoria, ricordando versi di Pascoli alle Kursistky.
Nel 1906, Bergamasco lascia il partito e la redazione de «La Propa­ganda», ma vi torna a ottobre, in tempo per rappresentare al congresso di Roma la Sezione di S. Stefano di Aspromonte. Nel 1908 al congresso Nazionale di Firenze, rappresenta la sezione socialista di Londra. Quando lo zar sembra allentare la stretta e i profughi ripartono, molte ragazze hanno sposato socialisti e il 25 ottobre 1908, alla festa d’addio, quando Sormus intona le note della Marcia Funebre dei Rivoluzionari russi e le «piccole profughe scattano in piedi», nessuno sa trattenere le lacrime. L’agitazione contro la visita dello zar si riaccende però a giugno del 1909 e il 24 settembre Bergamasco lancia «una lettera istigatrice di agitazione» da «un palchetto del cinematografo Roma […] contro la venuta dello Czar» che, però, il 23 ottobre giunge in Italia nonostante le proteste.
Il 21 ottobre 1910, dopo aver partecipato al congresso di Milano, Bergamasco lascia di nuovo il partito. Vi torna nel 1914, quando, in contatto con Mussolini, ne condivide inizialmente il bisogno di «uomini nuovi pieni di carattere», per tornare «all’opera di propaganda e di organizzazione» e la polemica contro il parlamentarismo «che corrompe, uccide lo spirito rivoluzionario, […] e troppo spesso anche la dignità personale». L’attacco al Belgio neutrale e il mito della «guerra per la rivoluzione» inducono Bergamasco a chiedere l’intervento contro i tedeschi, «minaccia perenne alla pace mondiale». Presto però, la cruenta realtà del conflitto, «le decimazioni metodiche per domare i ribelli, i giovani socialisti inviati nelle trincee di prima linea, per essere più facilmente eliminati», tutto dimostra che la barbarie non è tedesca. Barbara è la guerra. Non a caso, perciò, il 26 novembre 1916, è con Bordiga, che al Teatro Tarsia tenta insistentemente di parlare contro la guerra.
L’adesione all’Unione Socialista Italiana, nell’agosto 1918 è l’ultimo atto politicamente rilevante d’una lunga militanza. L’avvento del fascismo segna il ritorno definitivo all’anarchia e la rovina economica. Per Bergamasco, la crisi del mondo liberale, il bolscevismo e il fascismo si profilano all’orizzonte rapidi e devastanti, con l’andamento delle svolte epocali che, come spesso  accade, si fanno tragedia personale: un fratello ucciso nella bufera dei Soviet, la sconfitta della rivoluzione libertaria, i beni di famiglia confiscati dai «compagni» bolscevichi, la miseria. Del patrimonio nato dall’intraprendenza di Carlo tutto è perso, i cospicui fondi liquidi e due fabbricati a Pietroburgo, nella centralissima via Marskaia. Scoppiata nella Russia da cui è fuggito da giovane, la rivoluzione non è quella sognata. Per una beffa della storia, Bergamasco non solo non l’ha fatta, ma ha dovuto subirla impotente, così come nulla ha potuto di fronte alla Caporetto di un socialismo che agitava lo spauracchio dei Soviet, mentre attraverso la breccia aperta dalla guerra dilagava il fascismo.
Tra i gerarchi, c’è chi, provenendo dalle file socialiste, come Ferdinando Giannini, ricorda che «è’ stato compagno e amico del Capo del Governo e ha […] sovvenuto l’Avanti! quando vi erano gli uomini che hanno fondato il fascismo». Poiché ha insegnato Scienze Naturali e pubblicato studi in materia, Giannini suggerisce di dargli «l’incarico al Gabinetto di Storia Naturale dell’Università». Il calvario sembra finito. La durezza dello scontro, il peso dell’isolamento, la disparità delle forze, tutto consiglia di non trascinare le figlie alla rovina, cercando inutili eroismi. L’eroe ha il coraggio estremo di un istante. Eroe è Niso, che si salva fuggendo, vede l’amico Eurialo circondato, torna e in un attimo brucia coraggio e vita. Quell’attimo lo consegna alla storia, non una scelta ripetuta più volte nella consapevolezza di una resistenza dall’esito fatalmente tragico. Se il rischio di esagerare non dettasse prudenza, penseresti a Giordano Bruno e al martirio, ma sarebbe retorica.
Né eroe, né martire, Bergamasco fa i conti con la vita, cerca un compromesso, medita la resa, ma si rivolta contro se stesso d’istinto e non cede, benché gli costi caro, perché la dimensione in cui si sente vivo è quella della dignità. «Non ho chiesto l’elemosina, risponde, ma di poter vivere lavorando», invece «ho perso la cattedra di professore medio governativo, ed ora, per […] continui ed arbitrari arresti, mi si fanno perdere le lezioni private».
Stessa sorte ha l’offerta di un sussidio di 2.000 lire. Qualcuno prova a trovargli una cattedra in una scuola, ma tutto si riduce a un incarico per «materie speciali nelle scuole serali di disegno applicato alle arti, purché egli sia fornito del titolo che lo abiliti». Un lavoro che non gli assicura nemmeno «il necessario sostentamento», sicché l’anarchico punta il dito sul regime «che in quanto alla tattica copia quella maledetta leninista» e rompe col funzionario che si occupa di lui:

«Perché fingere che mi si voglia aiutare […] quando si è fatto e si fa di tutto per rovinarmi? Le sarò grato se ella vorrà lasciarmi in pace e nella santa indigenza.
G. Bergamasco, prof. al R. Istituto Tecnico, oggi boicottato».

Per due anni fa vita ritirata ed è «aiutato dalle due figlie nubili, Maria, ricamatrice, ed Eleonora, insegnante privata». In occasione delle elezioni del 1929, però, scrive al «Mezzogiorno» una lettera coraggiosa e mai pubblicata, che induce a riflettere sul «consenso» al fascismo. Gli è stato impedito di votare, ma se avesse potuto, dichiara, avrebbe «gettato nell’urna la scheda no. E’ facile riportare vittorie usando i mezzi… che si sono usati».
Finché scrive ai giornali lettere censurate contro il regime che perseguita «i comunisti nostrani», però riconosce l’URSS e non difende i propri connazionali, l’anziano dissidente è «un grafomane che non sembra nel pieno possesso delle facoltà mentali». Il cenno alla pazzia si fa però manicomio, quando la critica diventa propaganda attiva. Se a gennaio del 1932, durante la cerimonia per il decennale della nascita della Milizia, Bergamasco, fermato mentre urla lo sdegno di quanti, «spogliati in Russia […] chiedono giustizia», se la cava con poco danno, il 7 febbraio, quando manifestini antifascisti scritti a mano riempiono mercatini rionali e cabine telefoniche, finisce all’ospedale psichiatrico provinciale. Due mesi di manicomio, però non lo piegano. Dimesso il 25 maggio, scriverà con orgoglio: «S’era voluto […] farci passare per morti, ma noi siamo vivi e gridiamo alto ai quattro venti le nostre giustissime ragioni e rivendicazioni». In realtà, è iniziato l’incubo degli arresti preventivi.
Il 10 dicembre 1933, nel porto c’è la flotta russa e nessuno bada a Bergamasco, mentre aspetta una motobarca che gli approda accanto. Chiamare i militari nella lingua che è stata sua e lanciare manifestini è un attimo; compagni, ha scritto,

«sotto la bandiera del partito Socialista Rivoluzionario, lottavate per la libertà e il benessere della patria ed oggi il popolo è schiacciato. Svegliatevi, finalmente, e cercate di rovesciare con tutti i mezzi i bolscevichi».

Il gesto gli costa un breve arresto, poi gli sfratti, la ricerca affannosa di un tetto per la notte, il trasferimento a Roma dalla figlia Elvira nel maggio 1935, tutto si perde in gelide note trimestrali: «non ha dato motivo a speciali rilievi». Il 27 luglio 1935, però, quando a denunciare un «individuo sedicente di Leningrado», che ha ingiuriato il governo sovietico e tirato sassi contro la sua sede è l’ambasciata russa, Bergamasco, «pericoloso a sé ed agli altri», finisce in manicomio. Uscito il 29 settembre, a marzo 1936 scrive «W la libertà» sulla saracinesca di un negozio sfitto ed è di nuovo ricoverato. Esce rapidamente, ma il regime infierisce: ora è uno «squilibrato» da «fermare in determinate circostanze». Bergamasco denuncia la persecuzione, ma la lettera inviata alla stampa è consegnata alla polizia:

«i fascisti mi tolsero il permesso d’armi, il voto politico ed amministrativo, mi cancellarono dall’elenco dei professori governativi, m’impedirono di continuare la mia carriera di giornalista […]. Tre volte mi mandarono al manicomio […] e tre volte uscii dopo pochi giorni sano di mente. Una ventina di volte venni arrestato […]. Dove sono stato rinchiuso or ora in occasione dell’anniversario della nascita di Roma […] mancano luce ed aria e fa freddo ed umido. In un angolo è posto un puzzolente recipiente di legno per i bisogni naturali. Non si esce all’aria, per cibo si ha un poco di pane con qualche microscopico companatico. Ma quel che è assai peggio, è che il tavolaccio e le coperte son pieni, zeppi di schifosi insetti».

Il 22 ottobre 1937, dopo l’ennesima irruzione notturna della polizia, Bergamasco  si rivolge direttamente a Mussolini:

«Sì, sono in disaccordo […] con la politica fascista, […]; ma non si può perseguitare la gente soltanto per le idee professa­te. Invece sono continuamente soggetto a noie che mi crea la polizia e ad arresti. […] Ebbene, quando Le dico di non aver alcuna intenzione – vecchio come sono di 75 anni – di fomentare agitazioni, Ella mi può perfettamen­te credere ed ordinare che la polizia mi lasci in pace. Ieri notte è venuto un agente a […] verificare se io non avessi cambiato alloggio. Ciò significa l’intenzione di arrestarmi nuova­mente in occasione delle prossime feste. Mi lascino finalmente tranquillo, che poco mi rimane ancora a vivere. Con ogni considerazione.
Dott. Giovanni Bergamasco». 

Poiché nulla cambia e la persecuzione continua, il 2 luglio 1938 si taglia le vene, ma assegna al suicidio il valore di estremo baluardo della dignità:

«sono stato fedele ai miei principi umanitari di libertà, di uguaglianza sociale, di solidarietà umana e di lotta alle superstizioni. […] I bolscevichi m’hanno depredato, i fascisti mi perseguitano. Sono due dittature egualmente nocive, nemiche della libertà. Non volendo entrare io nell’ovile, […] eccomi di bel nuovo sul lastrico all’età di 76 anni. E sia! Mi spezzerò, ma non mi piegherò».

Soccorso, si salva, ma il duce, che gli fu amico, lo ignora, benché la figlia Maria gli abbia ricordato l’amico di un tempo:

«Papà mio conosce l’italiano, il francese, il turco e il russo; è laureato in scienze naturali, ha collaborato con successo in parecchie riviste scientifiche; è giornalista, fondatore di parecchi giornali, sveglio di mente, intelligentissimo».

Per Mussolini, però, un uomo coerente è un’anomalia da correggere.
L’Italia è in guerra il 14 luglio 1940, quando a Roma, in Via Nazionale, una zelante fascista fa arrestare l’anarchico perché sputa su un manifesto del duce. Un medico compiacente attesta che a 77 anni può vivere da confinato e il 22 agosto, dopo mezzo secolo, torna a Tremiti. Nel 1896 vi ha scritto parole che sono un testamento:

«La notte di San Bartolomeo, le stragi spietate […] i filosofi ed i liberali pensatori – Bruno, Serveto, Vanini, Moro […] – condannati alle fiamme o altrimenti martirizzati, tutto ciò ci pare un’aberrazione mentale, un brutto sogno».

Trasferito a Lauro il 5 maggio 1942, «si accompagna ai confinati della stessa fede» fino al 29 giugno 1943, quando, ricoverato d’urgenza all’ospedale di Avellino, muore per arresto cardiaco. Fu, per dirla con Arfè, tra coloro che forse non trionfano mai, ma certamente non sono mai vinti *.

* Nota

Le notizie che mi hanno consentito di scrivere questa biografia sono ricavate dall’Archivio Centrale dello Stato di Roma, Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, Affari generali e riservati, 1909, b. 2; Ivi, Confino politico, Fascicoli personali, b. 94, f. Bergamasco Giovanni di Carlo; Ivi, Casellario Politico Centrale, b. 516, f. Bergamasco Giovanni di Carlo; Archivio di Stato di Napoli, Schedario Politico, Sovversivi deceduti, b. 7, f. Bergamasco Giovanni di Carlo; Angelo Tamborra, Esuli russi in Italia dal 1905 al 1917, Laterza, Roma-Bari, 1977: Nunzio Dell’Erba, Le origini del socialismo a Napoli. 1870-1892, Angeli, Milano, 1979; Pier Fausto Buccellato, Marina Iaccio, Gli anarchici nell’Italia meridionale, Bulzoni,  Roma, 1982; Giuseppe Aragno, Bergamasco Giovanni, in Dizionario biografico degli anarchici italiani, BFS, Pisa, Vol. I, 2003; Giuseppe Aragno, Antifascismo e potere. Storia di storie, Bastogi, Foggia,  2012, pp. 81-106.

Fuoriregistro, 8 agosto 2021

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Consultare documenti della Pubblica Amministrazione è un diritto dei cittadini che abbiano un interesse giuridicamente rilevante, quale, per dirne uno, quello della ricostruzione storica. Gli Enti Pubblici, quindi, devono rendere consultabili i propri archivi. Questo non vuol dire, però, che il contatto cittadino-documento avvenga in tempi ragionevolmente brevi. In realtà, se tutto va bene – ed è raro che accada – la consultazione richiede decenni.  Un documento diventa «storico», infatti, quando riguarda affari esauriti da oltre trent’anni ed è sopravvissuto a una selezione che l’ha ritenuto «inutile», consentendone la distruzione. Se si pensa al cosiddetto «armadio della vergogna», si può continuare a dire che distruggere arbitrariamente un documento è un reato penale, ma è impossibile negare che sono esistiti documenti spariti o impunemente occultati.
Diventato «storico», occorre che un documento sia versato agli archivi assieme agli strumenti che lo rendono consultabile: registro di protocollo, che ricorda i documenti ricevuti e spediti e i dati identificativi; ordine logico nella conservazione, rispetto della sua integrità, assenza di danni e se necessario lavoro di restauro. Spesso gli oltre trent’anni diventano così quaranta. Per non dire dei documenti di politica estera o interna «riservati», per i quali la consultazione non può avvenire prima dei cinquant’anni.
Chi ha dimestichezza con le carte di polizia, sa che quanto vi si racconta va preso con le molle. Per una regola non scritta, infatti, i «sovversivi» si comportano quasi sempre male con la famiglia, le donne che non si allineano alla morale corrente sono quanto meno delle poche di buono e in tema di manifestazioni di piazza, il disordine e il male sono puntualmente dalla parte dei manifestanti, gli infiltrati non esistono e i comportamenti delle forze dell’ordine sono sempre giustificabili, legali e quindi ineccepibili.
Non so se i documenti istituzionali riguardanti la Rete no global e i fatti di Napoli del 2001 saranno considerati «riservati» e ammessi alla consultazione nel 2051, ma l’esperienza mi dice che ne verrà fuori comunque una storia di parte, in cui alla voce delle istituzioni e alle descrizioni di black blok, violenti e «sovversivi» non potranno fare da contraltare racconti, sensazioni e fatti narrati dai cittadini protagonisti di quel momento particolarmente importante della storia del nostro Paese. In questo senso il libro intitolato Da Seattle a Genova. Cronistoria della Rete no Global, curato da Daniele Maffione e pubblicato a giugno da Derive e Approdi, con una prefazione di Marco Bersani (pp. 320, euro 20), svolge una funzione importante, non perché intende stabilire le ragioni e i torti di chi fu in piazza, collocato in opposte trincee, ma perché «conserva» nell’archivio della memoria collettiva il senso di una lotta, visto da un punto di vista che rischia di perdersi per sempre: quello di chi, con singolare tempismo, seppe cogliere alcune caratteriste di una stagione che si apriva. Caratteristiche che i documenti ufficiali non ricorderanno, ma le testimonianze dei protagonisti richiamano, confortati da una conferma: i fatti che stiamo vivendo.
Ai primi del secolo si poteva essere d’accordo o trovare l’analisi sbagliata. Oggi no, oggi che il movimento no global di fatto non esiste più, solo chi è in mala fede può negare ciò che tutti i giorni abbiamo sotto gli occhi: le teste pensanti del capitalismo, in particolare nella sua più recente evoluzione – quella neoliberista fondata sulla globalizzazione – avevano in mente un progetto chiaro. Intendevano creare i presupposti per una feroce concentrazione della ricchezza nelle mani di una piccola e potentissima pattuglia di super ricchi e farlo senza tenere in nessun conto i diritti della stragrande massa di abitanti del pianeta, anche a costo di ridurre l’umanità alla disperazione e creare un rischio di estinzione per la vita dell’uomo sul pianeta. E’ quanto purtroppo sta accadendo.
Altri prima di Maffione si sono affaticati per far luce sugli ordini ricevuti dai reparti scelti delle nostre forze dell’ordine e sulla brutalità cui esse fecero ricorso per eseguirli. Far luce su quegli ordini da golpe cileno e quell’esecuzione da fascismo delle origini è un lavoro importante che andava fatto, anche perché ha mostrato la fragilità delle nostre istituzioni democratiche e ha indicato dove cercare le radici dell’attuale barbarie. Il merito del libro curato da Maffione è un altro e certo più notevole e necessario: per quanto riguarda il nostro Paese, infatti, il libro chiama a raccolta i protagonisti della grande battaglia che si è combattuta dal 1999 al 2002 e chiede a ognuno le ragioni per cui si mobilitò. Cosa spinse militanti e cittadini che di politica non si occupavano più, o non si erano mai occupati, a collegarsi a un movimento di dimensioni planetarie per urlare il proprio no alle ricette prescritte dai vertici del FMI, della Banca Mondiale, del Wto, dell’Ocse e dei tanti organismi di natura solo apparentemente economica, che abbiamo imparato a conoscere meglio nel corso di questi anni? Quale potere legittimo avevano tali organismi per sostituirsi di fatto alla politica?
Il libro di cui parliamo si sgancia intelligentemente da un dibattito che si è polarizzato sulla violenza delle Istituzioni e sulla risposta di una generazione che rifiuta quel modello di ordine costituito; cerca invece punti fermi che superino il momento feroce dello scontro e ci riporta a un dato di fatto decisivo per chi voglia capire ciò che accadde e perché accadde. L’ha scritto su «Left» lo stesso Maffione e val la pena di ricordarlo: «La contestazione al G8 non nacque per puro caso, ma venne preceduta da una lunga preparazione e da un’incubazione tanto delle strategie del dissenso, quanto della repressione». Di qui il vuoto riempito rispetto alla centralità vera o presunta dei fatti di Genova, che probabilmente non avremmo avuto senza quelli di Napoli nel marzo 2001, senza la contestazione al Global Forum dell’Ocse che vi si svolse. A ricordarci la centralità di quattro giornate che radunano decine di migliaia di persone giunte da ogni parte d’Italia e da numerosi Paesi d’Europa e consentono alle Istituzione di sperimentare forme di repressione inaudite ed evidentemente sperimentali rispetto al luglio genovese, sta il fatto che di quella violenza in sostanza sovrapponibile, sono responsabili centrodestra e centrosinistra – a Napoli opera il governo Amato, a Genova quello Berlusconi – mentre alla testa della polizia inferocita troviamo in entrambi i casi Gianni De Gennaro.
In questo senso il libro offre finalmente un bilancio politico dei fatti. Lo fa coinvolgendo un folto numero di intellettuali, lavoratori, rappresentati della società civile, attivisti e lavoratori, utilizzati intelligentemente per spiegare a chi non c’era, al di là di quanto ci racconteranno le Istituzioni, cosa accadde davvero al termine di una grande stagione di lotte, talvolta ingenua, ma ancora viva nei suoi contenuti. Il lavoro si divide in cinque sezioni. La prima, superando coraggiosamente il problema del rapporto tra il passato e gli strumenti linguistici per ricostruirlo, su cui molto si è soffermato Hayden White, sceglie la tradizione narrativa e diventa racconto scritto dallo studioso Francesco Festa, che, prendendo felicemente spunto da un’inchiesta giornalistica, descrive con puntualità l’origine e la complessa natura di classe della Rete No Global nell’Italia meridionale. Segue poi un lavoro sulla Cronistoria della Rete no Global e delle quattro giornate di Napoli contro la globalizzazione, con testimonianze tutte interessanti e spesso diversificate, tra cui voglio ricordare per ragioni personali, quella di Francesco Amodio, recentemente scomparso, quelle di compagni di lotte quali Alfonso De Vito e Mario Avoletto, e quella di Francesca Menna, che ripercorre il viaggio particolarmente significativo dai no global ai meetup. Indiscutibilmente notevole quella di Don Vitaliano Della Sala, il parroco no global, che ha arricchito il libro con alcune lettere inedite.
La parte che riguarda l’incubazione del G8 di Genova, si occupa con ineccepibile rigore delle violenze subite dai manifestanti. Chiudono il libro una sezione archivistica, che si deve soprattutto al contributo offerto dal ricercatore Fabrizio Greco, e una sezione visiva, formata dalle foto di Luciano Ferrara, dalle grafiche offerte da Massimo Di Dato/Karl Max e dai manifesti di Francesco Sollazzo.
Conclusa la lettura, ciò che colpisce è la capacità di sfuggire ai luoghi comuni e di proporre un racconto collettivo, una sorta di canto corale, ma anche di contro narrazione di un momento probabilmente cruciale della nostra storia recente. Il lettore sente di aver acquisito molteplici strumenti per raccogliere le idee e farsi un’opinione personale non solo, o quantomeno non esclusivamente, della rete no global, ma di poter guardare al presente avendo tra le mani una chiave di lettura fornita dal passato. Il capitalismo, così come l’abbiamo visto all’opera in questi terribili anni di pandemia, diventa d’un tratto un «re nudo», con le sue responsabilità nella devastazione dell’ambiente, con la sua avidità nella ricerca del profitto, con la sua connaturata tendenza all’autodistruzione. Da questa consapevolezza partì la Rete no global e ricostruirne oggi le ragioni, significa anzitutto riacquistare la consapevolezza che ricordare non vuol dire semplicemente conoscere il passato, ma ascoltarne l’invito, oggi più che mai pressante, a non essere spettatori, ma protagonisti della costruzione del futuro. I divari sempre più profondi, l’onda dei virus che ci assale, lo strumentale elogio del privato a danno del pubblico, la distruzione della formazione, non sono catastrofi naturali. Sono il prodotto della storia. E la storia è figlia del conflitto. E’ ancora vero: un mondo migliore è possibile. Perché nasca, però, è questo credo sia il messaggio più autentico del libro, occorre unirsi e lottare, imparando a valorizzare al massimo ciò che ci unisce profondamente. Qualora ce ne fosse bisogno, dal 2001 a oggi i fatti l’hanno dimostrato: il capitalismo è il più pericoloso nemico dell’umanità.

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