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Archive for dicembre 2020


Non è – non è mai stato – un numero che cambia sul foglio di un calendario a modificare la direzione del treno della vita e della storia. A me pare anzi che da qualche tempo salutiamo anni che nascono e muoiono solo apparentemente, mentre tutto è come fermo al terribile 1984 immaginato da Orwell.
Anch’io come tanti sono disperato, ma mi pare di ricordare che negli anni della mia giovinezza, Marcuse ci spingeva a riflettere su un dato essenziale: non abbiamo a che fare con barbari che premono ai confini dell’impero, ma con una crisi di civiltà in un tempo feroce, che produce disperati e disperazione ben dentro i suoi confini, nel cuore pulsante delle metropoli marce e riottose, tra quelli che un tempo orgogliosamente dichiaravano «civis romanus sum» e oggi sono un corpo disgregato e putrescente. È la civiltà che interrompe se stessa e il suo corso. In questo degrado viene in mente ciò che Walter Benjamin ebbe a scrivere all’alba del fascismo: la sola, possibile speranza di futuro viene dai disperati.
Forse ha ragione chi dice che «farsi gli auguri», come l’anno scorso, non avrebbe senso. È vero anche però che, per sperare almeno nei disperati, occorre conservare una qualche fede nelle risorse di una umanità disperata. Ecco perché a me pare giusto e persino doveroso augurare almeno questo a tutti noi: che riusciamo a difendere la speranza. Che, come antiche Vestali, nei giorni che verranno noi sapremo far si che, sotto le ceneri della barbarie, il sacro fuoco della civiltà non si spenga.

Agoravox, 4 gennaio 2021

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Viaggio


Con lo stupore dolente
d’un viaggio senza fine
lascerò poche carte
e intrichi mai più sciolti.
Ritroverò il mio spazio
in un atomo d’energia infinita
da cui fui tratto a forza
con violenza inaudita
e rimasi lontano non so quanto:
a misurare il tempo non ho appreso.
Poi straziato vedrò
sogni e affetti dissolti.

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La crisi non abita in Costa Smeralda. Proprietà privata più che Repubblica nata dalla Resistenza, Porto Cervo è un groviglio di ville e prepotenti divieti; è cemento con velleità di architetti in un mondo di «case fotocopia». Non c’è storia, non ci sono radici, si vive secondo logiche da «usa e getta», come insegna la filosofia del mercato, ma nel suo genere è un capolavoro: un nulla riempito di milioni.
Porto Rotondo, per sfida, tiene all’ancora uno squalo nero, un lungo siluro dalla bocca vorace e gli occhi sottili che promettono pazzie; in Piazza Quadra persino le ottantenni platinate si «rifanno» labbra e seni. Una ce n’è, visibilmente crucciata perché «Fabrizio, poverino, stasera non sarà dei nostri, ma che vuoi che ti dica? Una volta i giovani sfidavano la vita e la lotta era bella». E’ un rimpianto risentito, da vita sprecata, questo della vecchia, da vita per se stessa vissuta, vita per cui non conta un altro tempo, conta il suo. Il tempo degli altri non esiste.

Questo è l’inizio di un breve racconto. Se ti incuriosisce e vuoi continuare a leggere, clicca su “Canto libre

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Alessandro Barbero ha scoperto la fatica misconosciuta degli insegnanti («l’insegnamento è il più frustrante dei mestieri moderni») e si è accorto che la religione del mercato ha prodotto una classe dirigente che ritiene «la cultura, la scuola, lo spirito critico […] pericoli da neutralizzare».  Scoperta l’acqua calda, ha consigliato ai docenti di «cominciare a combattere apertamente tutto ciò che in cuor loro riconoscono come offensivo, inutile, frustrante, senza avere il coraggio di dirlo. Non compilare le scartoffie superflue, non andare alle riunioni che fanno perdere tempo, togliere il saluto a chi parla di meritocrazia, isolare nel disprezzo i dirigenti scolastici che si prestano alla distruzione della scuola e all’umiliazione degli insegnanti».
Che Barbero si sia svegliato fa piacere. Spiace che l’abbia fatto quando la scuola è moribonda e viene da chiedersi dov’era quando si lottava per tenerla in vita, a quanti colleghi accademici ha tolto il saluto e quanti presidi di facoltà e rettori ha isolato nel disprezzo. Dovrebbe averlo fatto, perché,  tra noi vive ormai almeno una generazione di giovani – studenti e docenti – educata nelle scuole e nelle università di un Paese soffocato nei confini che vanno da Bassanini a Renzi. Una generazione, ma forse qualcosa in più, cui non solo la scuola, ma anche l’università hanno abilmente sottratto gli strumenti che formano il pensiero critico, la capacità di pensare con la propria testa e valutare liberamente, che in fondo è anche capacità di opporsi, di non rassegnarsi, non cedere all’egoismo, all’indifferenza e al qualunquismo.
Le università sono un irrinunciabile bene comune. Dovrebbero rendere possibile ciò che il giovane Gramsci chiese ai suoi coetanei, quando scrisse: «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza». Le cose però non stanno così; Barbero dovrebbe saperlo e stare sulle barricate. Sfiducia degli studenti, immatricolazioni che calano e livelli di precarietà elevatissimi nell’area docente, sono gli effetti macroscopici delle politiche neoliberiste. L’Italia è l’ultimo paese europeo per percentuale di laureati, ma impone restrizioni al passaggio scuola superiore-Università; da noi le difficoltà economiche causano la rinunzia all’iscrizione e i numerosi abbandoni, ma la tassazione universitaria pubblica è più alta che altrove e abbiamo creato figure paradossali, quali gli «idonei non beneficiari», giovani ai quali, cioè, si riconosce il bisogno di un sostegno che però non avranno. Il diritto allo studio è un’astrazione. L’università, indebolita dalla penuria dei finanziamenti, isolata dal contesto sociale è inaccessibile ai meno abbienti. La sua decadenza è tra le cause principali del decadimento culturale, etico e politico della Repubblica.
I docenti delle scuole statali lottano contro l’Invalsi. Cosa fanno i docenti universitari contro l’Anvur e un sistema di valutazione che è controllo sulla cultura e galera per i ricercatori? Non è un tema da tre soldi e se non lo affrontiamo, non avremo mai una formazione critica generalizzata e di alto livello, sottratta agli interessi delle imprese e alle loro logiche di corto respiro.
La formazione non è un corpo a sé. Il suo principio-guida è nella Costituzione, quando, mettendo ordine e armonia tra uomo, lavoro e società, essa dice che quest’ultima è fondata sul lavoro, ma la sovranità non appartiene al mercato, bensì al popolo. Solo seguendo questa bussola, l’Università, per fare un esempio, può insegnare che le risorse della natura non costituiscono un patrimonio a disposizione delle ragioni del profitto, ma fanno parte di un ecosistema che ha inviolabili equilibri e che dal loro rispetto dipendono la nostra vita e quella di chi abiterà la terra dopo di noi. Ma l’Università questo non può più farlo, perché, gli equilibri ambientali sono subordinati agli interessi economici. Se le cose stanno così, si spiega il ruolo centrale svolto dall’Anvur: creare sacerdoti del pensiero unico e spegnere nella maggior parte degli studenti la capacità di organizzare resistenza.
L’Anvur è un’agenzia che fa della quantità della produzione scientifica la misura della qualità di testi che le commissioni non leggono. Per l’Anvur, un lavoro vale se l’editore conta molto – meglio se straniero – se c’è chi lo cita –  gli anglosassoni sono i più quotati – se l’autore «produce» molto e partecipa a convegni internazionali. Grazie al criterio della «misurazione quantitativa», una commissione ha regalato una cattedra a una sorta di «speedy gonzales» che dalla laurea al concorso, in tredici anni, ha firmato otto saggi e «curato» nove libri; in quei tredici anni, moltiplicando il valore del tempo, come Cristo i pani e pesci, il giovane ha firmato due voci enciclopediche e trenta tra contributi in volume e articoli in rivista. A conti fatti, rigo più rigo meno, 200 pagine all’anno per tredici anni. Un impegno che non gli ha impedito di organizzare undici convegni, dire la sua in ventinove simposi e festival nazionali, dodici seminari e workshop internazionali, svolgere il ruolo di revisore per valutare «prodotti di ricerca» su riviste italiane ed estere, presentare quattro progetti di rilevanza nazionale e internazionale e, dulcis in fundo, trovare modo di partecipare alle attività di otto comitati scientifici. La commissione che non ha letto alcun libro dell’enfant prodige, non s’è posta la domanda cruciale: quanto tempo il candidato ha potuto dedicare alla ricerca?
A che serve questo meccanismo e quali effetti produce sull’insegnamento? Perché l’Anvur con la sua logica produttivistica impone alla ricerca vincoli temporali, se i progetti di qualità richiedono spesso anni di lavoro e tutti sanno che il valore reale della ricerca è la qualità, che si misura in base alla metodologia, all’originalità, alla capacità innovativa e alla ricchezza creativa? La risposta è semplice: l’Anvur sa che il legame forte tra «grandi editori» e «baroni» che ne dirigono le collane e scelgono i testi da pubblicare, impedisce ai ricercatori di occuparsi di alcuni indirizzi di ricerca. Se studio gli anarchici, per esempio, non pubblico i risultati delle mie ricerche e non vinco concorsi. Di conseguenza studierò altro e nessuno insegnerà più il significato e il valore storico dell’anarchia. Se voglio occuparmi di salute mentale e seguire la scuola di Basaglia e Piro, non otterrò cattedre con le mie ricerche, perché non troverò editori. O rinuncio, o batto la via farmacologica. La conseguenza è una salute mentale che torna a soluzioni repressive, narcotici e letti di  contenzione e una università dai cui insegnamenti sparisce l’esperienza di psichiatria democratica e del disagio come male sociale.
Potremmo continuare, ma dovrebbe esser chiaro. Valutare per controllare significa imporre dall’esterno «obiettivi di valore» che ispirano periodiche verifiche della qualità dell’insegnamento; significa creare docenti che tutelano potere e mercato. Significa decidere cosa diranno i libri di testo. E’ questo meccanismo che rende apatico lo studente, impreparato e subordinato il docente, formato al pensiero dominante. E’ da qui che occorre partire, per capire e cambiare davvero. Se il pensiero è sotto stretto controllo, se i giovani che si danno alla carriera universitaria devono rinunciare a fare ricerca su argomenti sgraditi al potere, la minaccia non grava sugli studenti è direttamente rivolta contro la libertà della Repubblica
Che Barbero si sia svegliato fa piacere. Spiace che l’abbia fatto quando la scuola è moribonda e non si sia accorto che per l’università sono ormai pronti i funerali.

Agoravox 30 dicembre 2010

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Attraversiamo una notte nera nel cuore d’una burrasca. Una notte che non è piovuta dal cielo per caso. Si sapeva che sarebbe giunta, che speculatori, corrotti e corruttori l’avevano creata con opere e omissioni e che bisognava preparasi ad affrontarla. C’è stato invece chi, dopo averla creata, ha lasciato che si scatenasse, avido di nuovi profitti. Speculatori, corrotti e corruttori meritano il nostro disprezzo più aperto, profondo e irrevocabile.
Chi ha fede in un qualche suo dio affidi al suo castigo i responsabili della tragedia. Io credo che esista – e vada percorsa fino in fondo – una via diversa e tutta umana. In queste festività mi accorgo che gli auguri in fondo altro non sono che speranza. A tutti gli altri, quindi, a quelli che stanno pagando la ferocia di carnefici impuniti, auguro perciò di difendere la speranza, di vivere un buon Natale e andare incontro a un anno che regali salute e serenità. Auguro soprattutto che, quando l’alba tornerà, sappiano punire in maniera esemplare chi ha distrutto ponti, chiuso ospedali, ferito a morte il pianeta e aperto la via ai virus, sfruttando le catastrofi per accumulare fortune. E’ una speranza legittime e non si tratta di vendetta. E’ questione di sopravvivenza.

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D’accordo, perdere tempo col calcio è oggi a dir poco eccessivo. Tuttavia, se da piccole vicende è a volta possibile trarre un insegnamento che spiega quelle maggiori, due parole sul «gioco più bello del mondo» vale forse la pena di spenderle. C’è un modo di dire frequente nel linguaggio dei commentatori televisivi, soprattutto di quelli delle reti che fanno profitti milionari col calcio. Per indicare un’eccellenza tecnica e organizzativa o un esempio di moralità sportiva, basta dire «stile Juve» e si è detto tutto. Un po’ come quando, parlando di politica o di economia, si citano come esempio di qualità e moralità il «privato», l’imprenditore, Draghi, Monti e compagnia cantante. Tutti sanno che il meccanismo è omertoso, che dietro ci sono mille magagne, ma nessuno ne parla. Se dici Juve e il presidente Agnelli, o citi Draghi e la Fornero, tutti si tolgono il cappello.
Nel mondo del nostro calcio, che in fondo è un buon ritratto del nostro Paese, un giudice sportivo che stravolge i fatti, condanna il Napoli contro l’evidenza e giunge alla diffamazione, non corre rischi e trova l’unanime consenso dei soliti commentatori: il Napoli non si è presentato a Torino per giocare la sua partita non perché «si è trovato […] nella impossibilità oggettiva di disputare il predetto incontro», ma perché è una società di malfattori che ha invece, fatto carte false per non giocare la partita, «con palese violazione dei fondamentali principi sui quali si basa l’ordinamento sportivo, ovvero la lealtà, la correttezza e la probità».
I commentatori sanno che la sentenza è un’infamia e sarebbero stati pronti a gridare allo scandalo, se un giudice sportivo avesse osato dire una cosa simile della Juve. Lo sanno, ma stanno zitti, perché nel calcio italiano corrono milioni a palate e mettersi contro «lo stile Juve» e il sistema che gli gira attorno non è salutare. Quanta Italia di oggi ci sia dietro un meccanismo di questo genere è a dir poco evidente. D’altra parte, dopo che il CONI, costretto dall’evidenza, ha ribaltato il giudizio di due precedenti «processi», nessuno ha messo alla gogna il giudice diffamatore. Il Napoli non poteva effettivamente muoversi dai confini regionali per cause di forza maggiore (l’aveva fermato l’Asl per tutelare la salute pubblica), ma il mondo del calcio non ha stigmatizzato il giudice che l’aveva condannato e le sue parole sono lì e alimentano nell’immaginario collettivo l’infamante sospetto: la Società Calcio Napoli, ha violato i fondamentali principi sui quali si basa l’ordinamento sportivo, ovvero la lealtà, la correttezza e la probità.
Lo «stile» esemplare continuerà a essere quello Juve, che naturalmente aveva trovato giustissima l’ingiustizia e nessuno ricorderà che gli elementi costitutivi dell’osannato «stile Juve» sono nelle sentenza di tribunali sportivi e penali dal 2015, anno in cui tutti i giudici sportivi e ordinari, ritenuta provata l’esistenza di un’associazione per delinquere finalizzata alla frode sportiva, hanno condannato ad anni di carcere alcuni dei suoi dirigenti, revocando alla Juve il titolo di campione d’Italia 2004-2005 e non assegnandole quello del 2005-2006, perché la Juve e il suo stile erano stati retrocessi d’ufficio all’ultimo posto in classifica.
Questa è oggi l’Italia e di «stile Juve» sentiremo parlare ancora, così come ogni volta che si tratterà di tutelare l’interesse dei ricchi a danno dei poveri, nonostante la strage degli esodati, sentiremo invocare la Fornero o quel Mario Draghi, che tra il 2002 e il 2005, come vicepresidente della «Goldman Sachs» per l’Europa, fu incaricato di occuparsi delle «imprese e dei paesi sovrani». Nessuno lo dice, ma in questo ruolo Draghi poté vendere i prodotti finanziari «swap», una pericolosa scommessa che consentì di far sparire quella parte del debito sovrano e truccare i conti greci.

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Napoli, 18 dicembre 2020
Flashmob fuori le porte chiuse del Teatro Acacia, storico teatro del Vomero, a rischio chiusura! Salviamo il Teatro Acacia, difendiamo il nostro patrimonio e restituiamo la cultura alla nostra città:

https://www.facebook.com/PotereAlPopoloNapoli/videos/1767013676808891/

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Notizia: A Napoli non si è rinnovato il miracolo della liquefazione del sangue di San Gennaro. Quando l’ampolla con le reliquie del martire patrono della città è stata estratta dalla cassaforte, il sangue era solido. I miracoli di dicembre e maggio, spiegano gli esperti, a volte non si ripetono, ma secondo la tradizione popolare non è di favorevole auspicio. (TGCOM24)

Commento: Ha fatto bene. Troppi voti napoletani a gentaglia come De Luca. Senza contare quelli andati a Salvini. (Giuseppe Aragno)

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Sogni di conservare il potere
ho letto ieri
scritto su un muro con un gesso bianco
a rapidi caratteri nervosi.
Poco più in là, in corsivo,
uno ci aveva aggiunto:
e tu di conquistarlo.
Pensa passante. C’è qualcuno in giro
che vuol mutare tutto
e un altro nulla.
E tu, cosa vuoi tu?

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Lo dico per la Storia: «scripta manent». Ed è una fortuna, perché la memoria è normalmente corta e c’è chi l’accorcia ulteriormente per inconfessabili scopi. Capita però che ad accorciare troppo, non resta nulla e la Storia diventa storiella.
Nella losca faccenda del mancato commissariamento del Comune di Napoli, chiesto da chi, eletto con Tizio è passato poi a Caio, ci sono, a mio avviso, fatti dimenticati che vanno ricordati. Cominciamo da De Luca: non è uscito allo scoperto, ma è stato il suo PD a dirigere il penoso attacco. Chi ha un briciolo di dignità se ne ricordi.
A proposito di memoria, nessuno lo dice, ma Napoli è l’unica Città italiana che paga un contributo sul trasporto pubblico pari a quello della Regione. Appena due anni fa – e teniamolo a mente – dopo che nel 2014 c’era stato un tentativo di far fuori il Sindaco, ricorrendo strumentalmente alla legge Severino, sui conti del nostro Comune, già bloccati da vincoli finanziari e gabbie normative e falcidiati da tagli per oltre 1.500 milioni di euro, precipitarono con effetti distruttivi debiti dello Stato a gestione commissariale. Uno ammontava a circa 100 milioni ed era legato al dopo terremoto del 1980. Ne chiedeva il pagamento un non meglio identificato e molto sospetto «Consorzio CR8». L’altro, di circa 50 milioni, era un debito legato all’emergenza rifiuti.
Il colmo dei colmi, se si pensa che era chiamato a pagarlo un’Amministrazione che quella emergenza ha provato a superarla e in parte ci è riuscita, affrontando coraggiosamente ciò che l’aveva determinata: gli osceni rapporti tra politica, affari e camorra. Un debito ingiusto e vergognoso caduto di fatto sulle spalle di una città che, per gli anni dell’emergenza, già pagava  una tassa sui rifiuti altissima.
Oggi nessuno se ne ricorda più, ma Napoli e la sua Amministrazione furono chiamate a pagare i lavori della ricostruzione, un debito che avrebbe dovuto pagare lo Stato, ma non l’aveva fatto. E poiché nel mondo capitalista il privato creditore si risarcisce mettendo le mani sui soldi della collettività, ci andarono per lo mezzo le casse del Comune prontamente pignorate.
Su questi binari e in queste condizioni si è andati avanti sin dall’inizio, ma non si sono viste aziende messe in liquidazione e non si sono ceduti i gioielli della Città. Si poteva far meglio? Si può sempre far meglio, ma non basta dirlo, occorre dimostrarlo, farsi eleggere e mettersi alla prova.  
Intanto che questo accada, per chi ha memoria corta, è bene ricordarlo: la vicenda dell’ultimo bilancio è l’ultimo atto di scelte scellerate, che sembrano economiche, ma sono politiche. Per carità, si può essere critici e duri nei confronti di De Magistris, ma non si può far finta d’ignorare che per anni la città e la sua Amministrazione, legalmente eletta per due volte, sono state attaccate strumentalmente da quei settori della politica che non hanno mai digerito le porte di Palazzo San Giacomo sbattute in faccia al malaffare.
De Magistris è un pessimo sindaco? Bene, le opposizioni avevano e hanno gli strumenti per conquistare il consenso degli elettori in una battaglia politica, ma non l’hanno mai fatto. Si sono affidate a mezzucci, armi moralmente proibite, cambi di casacca e veri e propri tradimenti. Sono state battute. C’è da meravigliarsi?
Per ora i fatti sono questi e c’è da temere per il futuro: se i candidati alla successione verranno dalle file di chi voleva il commissariamento, non ci sono dubbi: molti rimpiangeranno il sindaco che oggi criticano.   

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