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Archive for luglio 2020

Aruìianna organoTutta la mia solidarietà ad Arianna Organo, candidata sindaco di Potere al Popolo a Giugliano, denunciata – guarda caso – in piena campagna elettorale.

Il reato? Diffamazione. Chi avrebbe diffamato? L’uomo delle “fritture di pesce”, Vincenzo De Luca, presidente della Regione Campania!

Vuoi vedere che qualcuno comincia ad aver paura?

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carabinieri_piacenza-625x350-1595488376Diciamolo subito e poi lasciamoci dietro le discussioni inutili di chi si arrampica sugli specchi per giustificare i «bravi ragazzi che rischiano la vita»: è vero, ci sono carabinieri perbene che perdono la vita in servizio. Diciamolo una volta per tutte, na ricordiamo i lavoratori muoiono ogni anno “in servizio”, uccisi da imprenditori che non rispettano le norme di sicurezza. Qui da noi si muore di lavoro e la vita la rischiano in tanti, a cominciare dai pompieri, ma non risulta a nessuno che il pompiere-mela-marcia pesti di botte chi gli ha chiesto soccorso.
Vorrei che su questo argomento noi di «Potere al Popolo!» portassimo un contributo originale, in grado di evitare il battibeccare fazioso dei favorevoli e dei contrari. Non sono molti a saperlo, ma comiciamo col ricordarlo: la proposta di sciogliere l’Arma non è nata in questi ultimi anni in seguito ai casi clamorosi di Cucchi e di altri sventurati come lui. Quando si parla di scioglimento dell’Arma occorre risalire direttamente agli anni in cui fu ricostruito il Paese dopo la tragedia del fascismo.
La proposta, infatti, partì da Guido Dorso, “azionista” e grande meridionalista che conosceva bene la nostra storia e non usò mezze parole: se vogliamo costruire davvero una democrazia, sostenne Dorso nel 1945, occorre sciogliere l’Arma dei carabinieri. Aveva ragioni da vendere e le spiegò con lucida chiarezza. Come tante questioni serie poste in quegli anni da chi guardò lontano, non solo la proposta fu ignorata dai grandi Partiti, ma chi va a cercare in archivio scopre che non solo i carabinieri rimasero tranquillamente al loro postom ma schedarono Dorso, che finì segnalato come se il fascismo non fosse caduto, la libertà di pensiero costituisse ancora un reato e il grande meridionalista non fosse altro che un «sovversivo pericoloso».
Diciamolo chiaro perciò e non abbocchiamo all’amo dei ciarlatani frequentatori di salotti televisivi: non si tratta solo di Stefano Cucchi, che di per sé sarebbe già un caso inaccettabile. E’ che noi non sappiamo a quanti Cucchi è stata spezzata la vita con una scarica di botte, con un rapporto che ti mandava e ti manda in carcere, o al manicomio, finché i manicomi sono stati aperti. Non sappiamo quante siano state dall’unità d’Italia a oggi le vittime di una violenza che non ha un nome, un cognome o un indirizzo. Quante siano e quante purtroppo saranno. Sappiamo che quando è accaduto non è mancato il servo sciocco di un potere capace di stritolare, il quale se n’è venuto fuori con i bravi ragazzi che rischiano la vita. L’intellettuale del «particulare», per dirla con Guicciardini, è nel DNA della nostra storia: ci siamo abituati e la memoria è corta.
Qualcuno si è accorto che tempo fa sotto un appello a marciare contro il razzismo, c’era la firma di Marco Rossi Doria, ex paladino del dialogo  con Casapound? No. Non se n’è accorto nessuno, perciò diciamolo chiaro, Guido Dorso, messo d’un tratto sotto controllo, non è impazzito. Lo studioso antifascista sa bene quanta miseria umana ha prodotto il fascismo. Sa che i carabinieri, folgorati sulla via di Damasco e convertiti all’idea repubblicana, hanno cominciato a incarcerare partigiani e «dissidenti» di sinistra. Glielo consentono il Codice Rocco – che nessuno provvederà mai a bandire – e di lì a poco l’amnistia, di cui si parla da tempo e che Togliatti firma, dopo averne affidato il testo a un vero campione di democrazia: Gaetano Azzariti, compromesso con la Magistratura fascista fin dal 1928, zelante collaboratore del ministro Dino Grandi nell’elaborazione del codice civile e di procedura civile, Presidente del Tribunale della razza, ministro con Badoglio  e – perché no? – giudice della Corte costituzionale nel 1955. Giudice e poi presidente.
Dorso sa. Per questo a novembre del 1945, mentre la repubblica è in gestazione, esamina in maniera critica l’essenza dello Stato italiano; vengono fuori così due figure chiave: il «Prefetto che costituisce l’architrave dello stato storico» e il «Maresciallo dei RR. CC.», l’equivalente di «quello che gli architetti chiamano la voltina». Nonostante la guerra partigiana e il sommovimento tellurico che l’ha lesionata «la piccola ma robusta voltina è emersa tra i calcinacci pericolosi, mostrando la sua intima connessione con l’architrave prefettizio e con le altre principali strutture dell’edificio», prima di tutte quella Magistratura per la quale il maresciallo è come il Papa.
Cucchi non è morto per le botte. L’ha ucciso questa struttura rimasta intatta. Oggi come allora, la quasi totalità dei Magistrati, proprio come scriveva Dorso nel 1945, giura «in verba Marescialli con assoluta convinzione. Ipse dixit, come Aristotele». Per questo elementare motivo, che ha radici profonde nella nostra storia, Dorso riteneva che occorresse sciogliere l’Arma. Dopo decenni, il suo  ironico ricorso ad Anatole France e al caso Crainquebille e un capolavoro di giornalismo.
Crainquebille, ricorda Dorso, è un venditore ambulante protagonista di un caso giudiziario tipico di una giustizia sciocca, feroce e vendicativa. Un caso apparentemente banale: un vigile intima all’ambulante di circolare per non intralciare il traffico, il venditore non ubbidisce subito, ne nasce un battibecco e la guardia, che non ammette di essere contraddetta, denuncia, imprigiona e trascina davanti al giudice l’ambulante. Crainquebille non ha scampo: è condannato, malgrado un medico testimoni a suo favore in maniera più che convincente. Scontata la pena e tuttavia isolato, perde i clienti, il lavoro e presto anche la testa. Era un brav’uomo, diventa cattivo, non ha di che vivere – né un tetto né un tozzo di pane – e quando pensa che è meglio farsi arrestare ancora, per cercare scampo a spese dello Stato che l’ha distrutto, scopre che nemmeno la galera è disponibile ad accettarlo.
Sono «di moda nelle nostre Corti di giustizia», le considerazioni «che concludono il malinconico racconto del caso Crainquebille». Così scrive Dorso e potrebbe essere oggi. La parola del maresciallo dei Carabinieri è verità di fede per il giudice e se il maresciallo ti vuole rovinare, lo fa. Il giudice, i benpensanti, la società perbenista optano sempre per «il potere costituito». E’ stata questa la morte che ha ucciso Cucchi, la stessa che uccide i «dissidenti», i «diversi», i Rom, gli immigrati e chiunque si metta di traverso. L’Arma è la migliore garanzia di questa feroce continuità dello Stato. Credo che Potere al Popolo!, nato per «fare tutto al contrario», non possa contentarsi della pietà per Cucchi, della solidarietà per la sorella Ilaria e della repulsione per quento emerge in questi giorni. Come Dorso, deve chiedere lo scioglimento dell’Arma, il miglior alleato di un potere costituito, rappresentato alla perfezione da ministri dell’Interno come Minniti, che ha consentito la partecipazione di Casapond alle elezioni, e come Salvini, amico dichiarato dei fascisti del terzo millennio.

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EddiQuando leggo che una Corte d’Appello inglese ha ordinato alle Autorità competenti di restiuire la cittadinanza negata a Shamima Begum, che aveva scelto di aderìre all’Isis, non posso fare a meno di pensare al caso di Maria Edgardca Marcucci, la giovane ragazza romana che ha fatto una scelta uguale e contraria: è andata a combattere contro l’Isis per la libertà dei Curdi e quella di genere, garantita con forza dalle loro istituzioni autonome femminili.
Con una felice definizione – “l’internazionale della montagna” – Gaetano Arfè, partigiano e storico di indiscusso valore, descrisse la presenza di combattenti stranieri che nella sua formazione partigiana, sui monti della Valtellina, onorò la causa della democrazia, opponendosi armi in pugno alla barbarie nazifascista.  Era il suo modo di dire che la libertà non ha patria, religione o colore della pelle e che la Repubblica antifascista nacque poi anche dal sangue versato da quei suoi coraggiosi compagni stranieri: disertori tedeschi, passati da Hitler ai partigiani, slavi e americani di ogni colore, che si unirono volontariamente agli italiani per amore di libertà.
Fa male dirlo, Presidente, ma quella Repubblica rischia di cambiare la sua natura e morire; potrebbero ucciderla magistrati e funzionari che, dopo avere giurato federtà alla Cotituzione, la stanno pugnalando alle spalle, come avrebbero fatto i repubblichini con i partigiani dell’Internazionale della montagna.
Fascisti sono infatti nello spirito e nella sostanza i provvedimenti adottati a danno di Maria Edgarda Marcucci, che per le autorità della Repubblica è “socialmente pericolosa”. Sequendo il filo logico che ispirò il codice fascista, ancora vigente purtroppo nella Repubblica antifascista, un Tribunale italiano ha decretato per lei misure che costituirono un fiore all’occhiello dell’Italia mussoliniana; misure perfezionate purtroppo e confermate due volte nel 1956 e nel 2011 da un Paese di “senza storia”; Maria Edgarda Marcucci è stata condannata alla “sorveglianza speciale” che si applica in genere ai mafiosi e che i giudici non dovrebbero studiare sui codici, ma sui fascicoli dei perseguitati politici dell’Italia fascista, custoditi a Roma, nell’Archivio Centrale dello Stato.
In conseguenza di questo provvedimento, oggi Eddi vive come fossimo tornati ai tempi in cui si arrestavano Gramsci, Pertini e Rosselli: privata della libertà e di buona parte dei diritti civili: non può partecipare a riunioni, non può esprimere opinioni, non può spiegare le ragioni della sua scelta  e sarà praticamente agli arresti domiciliari dalle 21 alle 7 per i prossimi due anni,.
Tutto questo dovrebbe suscitare indignazione, ripulsa e protesta, ma accade invece purtroppo nel silenzio complice della quasi totalità dei giornalisti, degli intellettuali e dei politici. Spiace dirlo, ma chiuso nel silenzio è stato sinora anche lei, Presidente, garante della legalità repubblicana.
Per scuotere coscienze, per tirare un sass nell’acqua putrida in cui rischiamo di affondare, è necessario allora che qualcuno, anche uno sconosciuto come me, trovi il coraggio di dirglielo chiaramente: quello che sta accadendo è una vergogna; è qualcosa da cui dovremmo prendere tutti le distanze. Tutti nessuno escluso.
Glielo dico con rispetto, ma glielo dico, perché me lo inpone la coscienza con la quale non è possibile scendere a patti vergognosi: dopo la sentenza della Corte d’Appello inglese, il silenzio del Quirinale mi sconcerta.

Giuseppe Aragno

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Mentre corriamo a folle verso la rovina La Repubblica, senza chiamare alle armi, riferisce che i presidi ormai completamente fuori controllo, profittando della confusione che regna sovrana, chiedono di piantarla coi concorsi e di poter assumere per chiamata diretta i docenti di istituto. E poiché hanno fretta, pretendono una immediata risposta.

Dal momento che per concorso sono assunti i presidi, pazzia per pazzia, un accordo si può anche trovare. Aboliamo i concorsi a preside e facciamoli valutare e assumere dai docenti.

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Dopo ore di discussione “muro contro muro”, si era fermi al punto di partenza e nessuno avrebbe potuto dire su quale posizione si sarebbe formata una maggoranza nel turbolento Consiglio di Classe. Tuttavia era a loro, a quei docenti, che toccava decidere, ai componenti del disorientato “organo di democrazia  del basso”, come lo chiamava con impareggiabile ipocrisia  Enzina Delfino, la dirigente scolastica che aveva dipinto sul viso il suo disprezzo per gli organi collegiali della scuola.
L’atmosfera si era fatta così elettrica, che in un sussulto do orgoglio “Matematica e Fisica”, al secolo Maria Teresa Scacco, con la voce ferma dei momenti di passione, s”era rivolta alla preside guardandola negli occhi e più o meno volontariamente, con tono allusivo e breutale le aveva detto quello che pensava:
– Siamo qui da ore e diventa sempre più evidente: l’andamento dei lavori del Consiglio incarna alla perfezione il frutto malato d’un matrimonio incestuoso. Le lo sa bene, preside. Un nanerottolo deforme…

Se il racconto ti piace o ti incuriosisce, ecco il link che ti porta a “Canto Libre“, che l’ha pubblicato:
https://www.cantolibre.it/cinque-in-condotta-come-cambiare-la-vita-di-un-ragazzo/

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downloadTanto di cappello – è il caso di dirlo e di farlo – a Pietro Senaldi, direttore di “Libero”, il giornale fondato da Vittorio Feltri, che, come certamente sapete, ritiene i meridionali “inferiori”.
Nato come giornalista con l’organo ufficiale della “Lega Nord per l’Indipendenza della Padania”, il movimento guidato da un nobiluomo della statura di Matteo Salvini, Senaldi è stato recentemente condannato perché il suo giornale ha diffamato i partigiani.
Quando si dice un caso disperato! Pur non essendo più un ragazzo, Senaldi, che qualche libro l’avrà pur letto, ancora non ha capito che, se uno come lui ha trovato un posto nella “libera stampa”, deve ringraziare proprio i partigiani che diffama.

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A-dispetto-della-dittatura-fascista_I-copCome tutti i bravi studiosi, Gian Luigi Bettoli non nasconde i suoi ideali, ma utilizza un rigoroso metodo di indagine, che accerta accuratamente l’esistenza e il valore degli eventi che registra, poi, per dirla con Carr, non si lascia condizionare «da un’insostenibile concezione della storia come […] assoluto primato dei fatti sul momento interpretativo». Nel suo lavoro perciò il centro di gravità non è mai nel passato o nel presente, ma trova il suo punto d’equilibrio nel sentito bisogno di rendere i fatti adeguati all’interpretazione e l’interpretazione ai fatti. E’ naturale perciò che compia le scelte suggerite dalla ricerca senza mai forzarne i termini.

Una prova di questa lodevole impostazione è fornita certamente dal denso volume intitolato A dispetto della dittatura fascista. La lunga resistenza di un movimento operaio di frontiera: il Friuli dal primo al secondo dopoguerra, edito da Olmis nel 2019. Il libro, che studia gli anni dal primo al secondo dopoguerra, chiude un lungo e attento lavoro di ricostruzione storica di ciò che è stato il movimento operaio friulano dagli anni ormai lontani dell’Ottocento al boom degli anni ‘60 del secolo scorso, avendo l’occhio particolarmente attento al Friuli, occidentale «antica roccaforte del socialismo»[1].

La mole dei documenti, la ricchezza del materiale iconografico, l’analisi approfondita dei fatti, molti dei quali sconosciuti o dimenticati, la capacità narrativa e il coraggio di ridurre all’essenziale i riferimenti archivistici e bibliografici, inconsueti in un panorama storiografico spesso appesantito da un uso eccessivo del «linguaggio specifico», adatto agli addetti ai lavori, ma del tutto inadeguato al lettore comune che prova ad avvicinarsi al saggio storico, costituiscono i caratteri di fondo di un lavoro che ha anzitutto un grande merito: in un momento storico in cui gli studi sul movimento operaio languono, Bettoli non solo li riprende, ma dimostra l’importanza che essi hanno per la conoscenza della storia generale del nostro Paese.

In questo senso il libro non è certamente un lavoro di storia locale e rappresenta, anzi, un esempio felice di storiografia marxista, che prende immediatamente le distanze dal dilagante revisionismo, riempie un vuoto di conoscenza e restituisce il posto che meritano nella nostra memoria storica fatti e soprattutto persone ingiustamente dimenticate. Il tema della resistenza al potere, diventa così immediatamente quello delle sofferenze subite dalle persone che hanno resistito «sottoposte a discriminazioni, persecuzioni, torture, ed alle relative conseguenze psichiche e fisiche fino alla morte proprio perché antifasciste»[2].

Di fatto, lo storico riporta alla luce ciò che si nasconde dietro il presunto «consenso» riscosso dal regime; un «consenso» apertamente e strumentalmente sopravvaluto da Renzo De Felice. Lo fa, per usare le parole stesse dell’autore, con la delicatezza necessaria alla dolente materia, scegliendo un modello espressivo che si pone la «questione della tutela della riservatezza della persona di cui […] ho appreso dati sensibili relativi a malattie ritenute stigmatizzanti, problemi di salute mentale, omosessualità, esercizio della prostituzione» e decidendo di «utilizzare un sistema misto, rendendo anonimi tutti quei casi dei quali non fossero già note, o in qualsiasi caso non apparissero significative ai fini della ricostruzione delle […] vicende personali dei protagonisti della ricerca»[3].

E’ bene dirlo subito. In questo nostro tempo, letteralmente prigioniero di una realtà politica rozza e culturalmente indigente, che tende sempre più a separare i governati dai governanti, lo storico friulano ha certamente presente quanto ebbe a scrivere sul fascismo come regime politico del capitale finanziario Pietro Grifone, economista e antifascista confinato[4]. Non a caso perciò il suo lavoro, restituendo la parola a chi il potere la tolse, non è solo un ottimo esempio di ricerca storica, ma uno strumento di lotta – un tempo si diceva «battaglia delle idee» – contro il riemergere di pericolose nostalgie strettamente legate a una crisi mondiale della democrazia.

Come giunga a porre al centro della sua ricerca la gente che resiste, è l’autore stesso a raccontarlo, facendo riferimento ai due «estremi caratteristici» del periodo di cui si occupa: «la conservazione del consenso elettorale della sinistra nelle sue roccaforti, a dispetto di un ventennio di regime fascista; la successiva e repentina contrazione di quella forza e l’instaurarsi di una egemonia moderata, imperniata attorno al blocco politico-sociale cattolico»[5]. Estremi caratteristici che pongono domande ineludibili: per quali ragioni si ebbe questo andamento apparentemente contraddittorio? Non vi è un solo modo per rispondere a una domanda come questa, ma l’autore non ha dubbi e sceglie direttamente quello che gli indica più chiaramente il lavoro che va compiendo negli archivi: «volgermi a ritroso, alla ricerca del percorso di almeno tre generazioni di attivisti politici che si sono sovrapposte, per cercare di capire le ragioni di questa egemonia […]. La stessa necessità di comprensione mi hanno spinto ad alcune incursioni nel decennio successivo, in quegli interminabili anni ’50 nei quali maturano cambiamenti sociali epocali»[6].

Da questa necessità per così dire “tecnica”, nasce una delle caratteristiche storiografiche più affascinanti e valide del lavoro: la centralità delle biografie di militanti politici e gente qualunque, che sono, sia pure a livelli diversi di consapevolezza, il cuore pulsante della ricostruzione del fascismo e della lunga resistenza al fascismo. Figure di seconda linea, militanti più o meno anonimi e gente del popolo che Bettoli non a caso ricorda come «persone escluse dal culto degli eroi»[7].

In questo senso il libro coglie con estrema chiarezza il limite del lavoro di Renzo De Felice e degli storici usciti dalla sua scuola, per i quali la connotazione di «storico militante» assume un valore del tutto negativo. Bettoli non utilizza mezze parole: De Felice e i suoi allievi hanno volutamente ignorato o comunque sottovalutato la resistenza opposta al fascismo dai gruppi organizzati e da quell’antifascismo popolare, senza del quale la storia del regime e più in generale quella del Paese, risultano monche e non di rado stravolte. Un’operazione che non solo è diventata lo strumento per una rivalutazione del ventennio fascista – oggi c’è chi giunge a parlarne come di «regime inclusivo» –  ma ha costruito le basi scientifiche per cui quella sua lettura è poi diventata «autorevole corifeo di quel turbocapitalismo che ha globalizzato il pianeta» e di fenomeni più recenti, primi fra tutti i cosiddetti populismi, così apertamente di destra, razzisti e xenofobi, da essere non di rado dichiaratamente fascisti o fascistizzanti[8].

Ciò è potuto accadere, osserva acutamente lo storico friulano, perché il revisionismo non è semplicemente  una «tendenza a passare senza mediazioni dal terreno della ricerca a quello della lotta politica», ma punta a svalutare, quando non a leggere in chiave negativa la storia del proletariato, tra la fine dell’Ottocento e l’avvento del fascismo[9]. Qui, sia dal punto di vista del metodo, che degli argomenti utilizzati, il lavoro di Bettoli costituisce certamente un contributo pregevole offerto alla conoscenza della nostra storia. Un contributo che nasce anzitutto da una scelta: ricostruire la resistenza al regime non attraverso i «grandi fatti della storia», ma mediante i piccoli episodi della vita delle persone, mediante il dolore senza clamore di chi si oppone  e paga. In altre parole, attraverso il «carico di sofferenze patite per idealità superiori» da chi ha messo in campo personalmente, come ha potuto, le più diverse forme di resistenza[10]. Sofferenze e resistenze delle quali il revisionismo storico ha volutamente scelto di non occuparsi.

Com’è naturale, la ricerca mette in evidenza il ruolo consapevole di militanti e dirigenti politici e sindacali, che hanno affrontato la lotta con la piena consapevolezza del rischio e hanno subito le manganellate e l’olio di ricino, la tortura, la prigione, il confino e persino la fucilazione, in nome dei loro ideali anarchici, azionisti, cattolici, comunisti e socialisti; è tuttavia un ulteriore merito di Bettoli quello di avere voluto dedicare pagine e pagine all’antifascismo che definisce «popolare spontaneo»[11].

Bettoli sa che fu costume anarchico quello di lavorare nelle carceri per politicizzare i delinquenti comuni; la sua formazione marxista gli dice che è necessario distinguere tra sottoproletario e proletario, tra comportamento individuale e scelta che nasce dall’esperienza e dall’organizzazione politica; questo però non gli impedisce di rendersi conto che il quadro dell’Italia resistente non sarebbe completo se la sua ricerca non avesse l’occhio attento ai gay, che non sono necessariamente sottoproletari, alle prostitute, ai vagabondi, ai piccolo borghesi delusi, insomma a quei «ceti marginali o sottoproletari» ai quali il regime non risparmia la repressione e che spesso passano per l’internamento e il manicomio, come i “politici”[12].

Di loro il regime farà quel che vuole con una ferocia che non distingue resistenza da resistenza. Siano o no politicamente irrilevanti o addirittura, come scrive con una formula felice, «veri e propri lapsus della psicologia sociale», conta davvero poco[13]. Per quanto il loro modo di resistere si possa ridurre alla bicchierata notturna che turba la quiete, possa manifestarsi con la canzone irridente e la barzelletta, o diventare canto anarchico, rivelando un sottofondo politico, si tratta comunque di una parte del volto di un Paese che a suo modo rifiuta un modello e mette in crisi l’immagine plebiscitaria del regime.

D’altra parte, perché ignorare i «marginali» e dare spazio solo a quei gruppi che in apparenza sembrano avere una più significativa collocazione sociale, se, tuttavia, sia prima che durante il fascismo, essi lottano nell’orizzonte ristretto della fabbrica, ma si tengono lontani dalla vita del sindacato e del partito?[14] Bettoli non si lascia chiudere nella gabbia di considerazioni ideologiche. Evitando di operare distinzioni forti e di alzare muri, coglie contraddizioni dietro le quali vivono anche momenti inattesi ma esaltanti. E’ il caso della capacità di lotta ripetutamente manifestata dalle donne operaie durante il fascismo[15]. Sono momenti e capacità che emergono soprattutto dai fascicoli personali degli antifascisti, dalla miniera in cui Bettoli ha saputo scavare con perizia e lucidità. Ne è venuto fuori non solo un libro da leggere, ma anche un esempio di metodo innovativo della ricerca storica in grado di mettere in crisi uno dei pilastri del revisionismo: il mito del «consenso».

NOTE

[1] Ultimo di una sorta di trilogia questo libro di Gian Luigi Bettoli è stato preceduto da altri due saggi: Una terra amara, (Ifsml, 2003) e Il volto nascosto dello sviluppo, (Olmis 2015).
[2] A dispetto della dittatura fascista. La lunga resistenza di un movimento operaio di frontiera: il Friuli dal primo al secondo dopoguerra, Olmis, 2019… p. 18.
[3] Ivi, p. 19.
[4] Pietro Grifone, Il capitale finanziario in Italia, Einaudi,Torino, 1975, pp. 22-31.
[5] Ivi, p. 25.
[6] Ivi
[7] Ivi, p. 18.
[8] Ivi, p. 23
[9] Ivi, p. 24.
[10] Ivi, p. 18.
[11] Ivi, pp. 196-293.
[12] Ivi, p. 197.
[13] Ivi, pp. 197-98.
[14] Ivi p. 243.
[15] Ivi, p. 196.

Giuseppe Aragno, La Storia Le Storie, 9 luglio 2020

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2017Il Covid c’è, ma non fa più paura. Ti accorgi che vive tra noi per i numeri altalenanti, comunicati ormai frettolosamente e a mezza voce, per i contagi decisamente diminuiti però mai spariti e i morti che se ne vanno nell’indifferenza generale e il fastidio di chi in questa terribile vicenda si è sempre preoccupato anzitutto degli affari che vanno a rotoli.
A marzo l’Antartide ha toccato i 28 gradi e a fine giugno il termometro all’Artico ha segnato 38 gradi, noi però non ce ne siamo accorti. Affrontare urgentemente la battaglia contro il degrado ambientale sarebbe necessario, ma non vuole farlo nessuno, perché bisognerebbe mettere a rischio affari e profitti. E questo, per l’imperante religione neoliberista, è una gravissima bestemmia.
E’ giunta la stagione balneare. I motori delle barche e gli scarichi delle fabbriche hanno cancellato i delfini e il mare pulito, ma si finge di non saperlo perché le fabbriche sono veleno, ma anche lavoro e l’abbronzatura è sacra e produce quattrini in quantità.
A settembre in molte parti d’Italia ci saranno le elezioni regionali e non ci sono dubbi:  la maggior parte della gente che voterà, sceglierà i responsabili dello sfascio e bisogna riconoscerlo: chi ha lungamente lavorato per distruggere scuole e università e trasformare i cittadini in consumatori e figli della pubblicità è stato bravissimo.
Il covid c’è, ma non fa più paura, così come non fanno paura i ghiacciai disciolti, le stagioni cancellate, il clima impazzito e la miseria che cresce in maniera esponenziale. Questo impazzimento  oggi è ormai la mortale normalità e il sonno della ragione non è mai stato così profondo. I sacerdoti del capitale gongolano, eppure è evidente: in questo apparente trionfo della barbarie ci sono inevitabilmente i germi da cui nascerà un cambiamento radicale e profondo.
Un cambiamento che costerà purtroppo lacrime e sangue.

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Il Comitato Anticolonialista si riuniva a Vico Zuroli, a Forcella, cuore della città malavitosa, nel reticolo stretto e buio dei cardini e dei decumani, in un palazzo nuovissimo, figlio della guerra che cambia tutto per non cambiare nulla.
Da piccolo l’avevo odiato quel palazzo perché, in una città da affollamento arabo – e araba è assai spesso la mia gente – che non ha spazi per i bambini, nel reticolo stretto e buio dei cardini e dei decumani, era venuto a cancellare un mondo. Prima che nascesse coi suoi pilastri di cemento armato, i suoi balconcini affiancati e gli ascensori silenziosi all’ingresso delle due scale, c’erano cumuli di macerie – i monti fantastici dei miei giochi infantili – pareti pericolanti e brandelli di scale d’un vecchio palazzo seicentesco sventrato pochi anni prima da una bomba dei “liberatori” angloamericani.

Su quella disperazione dimenticata correvano i miei sogni nei lunghi pomeriggi della mia prima infanzia.
Corse, capriole, battaglie tra improvvisate trincee, gare spericolate e rischiose tra gradini incerti e muri pericolanti erano il palcoscenico sul quale io e i miei compagni ci sentivamo padroni del mondo.
Ci venivano talvolta disastrate compagnie di attori e per qualche sera regalavano sogni fatti di luci e colori. Portavamo le sedie da casa, le disponevamo come si poteva nel pianoro tra i monti prodotto dal capriccio del bombardamento e dal nostro lavorio di scavo e consolidamento e a bocca aperta, perdevamo la cognizione del tempo.
Là, tra le rovine lunari prodotte dalla guerra, ho conosciuto la magia del teatro e m’è rimasta dentro – era Natale e davano la popolare “Cantata dei Pastori” – l’emozione d’un duello coloratissimo: un arcangelo velato di blu, con la spada e lo scudo scintillanti, che una fune conduceva dall’alto sino a terra, contro un drappello satanico avvolto in mantelli rossi come il fuoco, e subito messo in fuga dal trionfo della luce celeste e dalla voce fuori campo d’un Dio onnipotente che ci conquistava ed atterriva…

Se non vi siete annoiati e volete proseguire, ecco il link  che vi porta a “Canto Libre”

https://www.cantolibre.it/come-si-guarda-un-ladro/

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