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Posts Tagged ‘Saviano’

Quando si parla di Napoli, lo stereotipo della città di plebe, tutta camorra e degrado, è ormai inevitabile. E’ stata la narrazione, stavolta prudente ma comunque mistificante, che ha segnato per giorni anche il ricordo di Diego Armando Maradona dopo la sua scomparsa. Il gioco, d’altra parte è facile. Lo sa bene Saviano, che parla di Gomorra e dimentica Siani, che Gomorra l’ha combattuta e s’è fatto ammazzare. Basta guardare con un occhio aperto e l’altro chiuso, ricordare istituti di pena pieni di minorenni e tacere su Eduardo che porta al Senato le ragioni di quegli sventurati e chiede di tutelarli; straparlare di Cutolo e ignorare la condanna senz’appello delle «madri coraggio» e degli studenti riuniti a migliaia negli interminabili cortei che attraversavano le vie della città.
Parlare seriamente di quegli anni, significherebbe ricordare la camorra, ma anche i suoi legami con la politica e l’imprenditoria locale e nazionale, le lotte per la casa, che giungono fino all’occupazione della «Piazzetta» di Capri e i Comitati che nella «città pericolosa» – «alla «Siberia», per esempio – uniscono docenti e genitori, mogli di camorristi comprese, nella difesa di una scuola che rappresenta ancora la possibile alternativa al reclutamento malavitoso.
I camorristi non sono mai stati padroni della città, nella quale hanno agito, lottato e fatto cultura Gerardo Marotta e il suo Istituto di livello internazionale, Mario Martone e il suo «Falso Movimento», Pino Daniele e la sua musica, Mirella Barracco e la «Fondazione ‘99», Massimo Troisi, suo figlio geniale e il suo cinema. Di Troisi fu in quegli anni la «Smorfia»  che, con Enzo De Caro e Lello Arena, costituì un trio spettacolare, capace di partire dai mali di Napoli, per puntare poi il dito sulla miseria morale della politica nazionale, sulla superficialità di sociologi da tre soldi e di pseudo intellettuali sempre più complici di un potere malato.
Negli anni in cui Maradona giunge a Napoli, malavita e degrado morale non sono la cifra di Napoli, ma quella di un Paese in cui la politica, prigioniera di se stessa, è sostanzialmente malaffare. Al Nord, quanto e più del Sud, a Milano certamente più che a Napoli, come diranno di lì a poco le inchieste della Magistratura.
Di questa realtà complessa, volutamente ignorata e probabilmente unica nel Paese, Maradona, un calciatore a sua volta unico, per le impareggiabili qualità tecniche e per l’animo, anticonformista, ribelle e apertamente schierato dalla parte dei deboli e degli emarginati, diventa un riferimento naturale e c’è poco da fare i moralisti giocando sulla vita privata, che comunque non fu solo droga.
Personalmente ricordo Diego fuori dal campo, in una mattina di sole, quando portò al parroco della «Siberia», assediata dalla malavita, magliette, scarpe, un assegno per la povera squadra dei ragazzi del posto e accettò di palleggiare nella palestra della scuola con gli scugnizzi incantati che non si sapeva come tenere a bada. Fu un lampo. Venne e sparì, ma bisognava sentirlo parlare a quei piccoli sventurati e incoraggiare i docenti, per capire perché Napoli non piange semplicemente il campione impareggiabile, ma l’uomo che riconosce come figlio. Un figlio che ebbe nemici giurati nel Nord dell’Italia e del mondo soprattutto. Ricordarlo da morto, come si fosse trattato di un Platini più dotato, ma un poco scombinato e «capa pazza», un personaggio tutto sommato accettato universalmente e riconosciuto per quello che fu è stato vergognoso.
Si è insistito molto –  e non a torto – sul valore morale di quel «gol da mariuolo» segnato agli immorali colonialisti inglesi, ma Diego io voglio ricordarlo oggi, a mente fredda, ai tempi di «Italia ‘90» e della ritorsione, quando genio e pazzia non bastarono e la banda dei sedicenti «onesti» lo derubò. Quel giorno non perse Diego; vinsero la prepotenza e l’arroganza dei ricchi e uscirono sconfitti soprattutto il calcio e Napoli. Fummo in tanti a leggere in quella vergogna un avvertimento camorristico, che puntualmente si trasformò poi un una incredibile squalifica. Tutto iniziò a Milano, coi fischi all’inno argentino e Diego che rispondeva a modo suo: «Hijos de puta!», figli di puttana. Fu un potere senza vergogna a regalare la vittoria a una Germania mediocre e ladra. Maradona, l’Argentina e Napoli, che aveva accolto l’Italia come meritava, non dovevano vincere.
A Maradona quelli che nel calcio contano hanno fatto una guerra feroce. Nel calcio della Juve, degli Agnelli e dei Platini, autentico simbolo dello stile Juve, un argentino povero e geniale, diventato scugnizzo napoletano, un amico di Castro, Chavez, Morales e Maduro, imbattibile sul campo e sempre schierato dalla parte della povera gente, era una provocazione intollerabile, che ha pagato caro. Tanti tra quelli che oggi applaudono l’hanno odiato profondamente.
Per ricordare Maradona, sarebbe stato necessario riportare alla luce le dichiarazioni rilasciate, quando fu stroncato da una squalifica eterna, di chi era inserito nel sistema a cominciare da Baresi. Careca è stato chiaro e lo si vede in campo e fuori campo ogni giorno: il Napoli giocava e gioca contro tutti, altro che sport e «vinca il migliore»! E quando fu evidente che in campo non c’era speranza, si andò a cercare la cocaina nelle urine. Non lo si faceva mai, perché non è una sostanza che aiuta a giocare meglio. Serviva per farlo fuori. Oggi applaudono tutti, ma io ricordo il primo articolo scritto per il suo esordio da Brera, maestro di arroganza e incompetenza. A marcare Diego c’era un tedescone – Briegel credo si chiamasse – e per il giornalista settentrionale si trattava dello scontro tra un gigante e un clown. Un’infamia idiota, peggiore di quella dell’«abatino» appioppato a Rivera, che trovò mille consensi. Il pagliaccio però oggi è la storia del calcio. Del gigante non si ricorda nessuno e l’anima di Brera non trova requie. Invisibile, quando gioca il Napoli, dirige puntualmente i cori di veronesi, bergamaschi e juventini.
A proposito di juventini, un amico mi dice che oltre al Covid, in questi giorni hanno un nuovo problema: un’epidemia di travasi di bile. Pare che Agnelli sia diventato più giallo di un cinese. E si capisce, un protocollo di vergogne non si è potuto improvvisare e – chi per convenienza, chi per amore o senso di giustizia – tutti hanno dovuto ammettere: Maradona poteva «nascere» solo a Napoli. La Juve può truccare campionati, ma il grande figlio della povera gente, quello che ha scritto la storia, poteva vivere, ha vissuto e vivrà sempre con la maglia azzurra.  E Diego, che lo sa, se la ride: chi pensava di averlo ucciso, l’ha reso praticamente immortale.

Agoravox, 30 novembre 2020

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Lettera 43

Da Lettera 43

Alla “Siberia”, ma un po’ in tutte le scuole dei quartieri a rischio di Napoli, nei primi anni Ottanta era prassi normale: la stampa regalava la prima pagina a una canaglia, infiocchettava gli articoli con la solita retorica deteriore, fatta di “boss” e “capo dei capi”, il delinquente pareva un generale e un eroe sul campo di battaglia  e ci potevi giurare: i ragazzi venivano a scuola col giornale, si passavano l’articolo, si esaltavano e nasceva l’emulazione. Se si trattava di morti ammazzati, capitava anche che si presentassero a scuola senza libri e quaderni; pretendevano così una “giornata di lutto”. Qualcuno, che aveva imparato dai comitati presenti sui territori il linguaggio della politica, diceva convinto: “oggi facimme sciopero”.
Era chiaro sin da allora che, a trattare certi argomenti in modo sbagliato, si faceva un piacere ai delinquenti. In quegli anni, però, le scuole erano spesso presidi e i docenti politicizzati potevano ancora fare un eccezionale lavoro di contrasto. Acqua n’è passata sotto i ponti. La politica è ormai in stato comatoso, la scuola è stata distrutta, la disgregazione sociale e la precarietà hanno fatto il loro feroce lavoro e siamo arrivati a Saviano. Oggi, quella che era solo una pessima abitudine è diventata progetto; non importa se il mediocre scrittore ne sia consapevole – a lui interessano i soldi – sta di fatto che Gomorra lavora per le destre, strettamente collegate alla malavita. Il compito del suo prodotto non è quello di combattere la camorra, come si vuole far credere. E’ il contrario: deve renderla più forte. Con un’aggravante: oggi i quartieri sono tutti più o meno a richio e il contrasto non c’è.

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emergenza-freddo-opgIn un mondo che costruisce muri, recinti e campi di concentramento, c’è chi apre porte, abbatte cancelli e cancella recinti. Saviano dice che a Napoli non cambia nulla, ma lui vive lontano e non sa di che parla.
Da quando è cominciata l’emergenza freddo, i giovani dell’Ex OPG di Napoli, in collaborazione con la ormai benemerita associazione Napolinsieme, hanno provato a dare una risposta dal basso ai problemi pressanti di chi, purtroppo, è costretto a vivere per strada. E’ per questo che le porte del’ex manicomio criminale sono aperte ai senza tetto della città.
Se li ascolti, quelli dell’EX OPG ti dicono che hanno imparato tanto, che hanno «scoperto un mondo invisibile, lontano dai riflettori mediatici, che però ci restituisce chiaramente l’immagine della società in cui viviamo, fondata sull’individualismo e l’egoismo, una società che lascia indietro chi, spesso non per sua causa, non riesce a stare al passo con gli altri». Forse non lo sanno, ma questi giovani, che i loro problemi li hanno e non vivono certo una vita facile, stanno insegnando più cose di quante ne stiano imparando; stanno dimostrando soprattutto, con la concretezza dei fatti, che la solidarietà e l’attenzione verso l’Altro non sono parole scritte nei testi sacri della sinistra, ma fanno parte del suo Dna. Un tempo era chiaro a tutti noi: il mondo lo cambi ogni giorno, a poco a poco, vivendo in armonia con le cose che dici. Val la pena di segnalare, perciò, una videotestimonianza di questi giorni e di concludere questa brevissima nota con una considerazione che non è banale: in un mondo come quello di oggi aprire porte significa avere mente aperta e capacità di amare. Ecco perché le porte dell’Ex OPG sono aperte per tutti, tutte le sere dalle 18 in poi!

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Due parole, da cittadino del mondo, che oltre le Alpi è talora “italiano mafioso”, o meridionale in senso leghista e nelle capitali d’Europa si sente dire: “da quelle parti, professore, meglio evitare”. Ho letto l’intervista a Saviano sulla criminalità a Napoli: è sconcertante. Voglio poter credere che Roma senza turisti, o Venezia priva di ospiti stranieri, per lui e per me, vorrebbero dire che a Roma e Venezia è cambiato qualcosa. Che ci chiederemmo perché e magari ci divideremmo, ma non negheremmo il dato di fatto: se non hai più turisti un cambiamento c’è. Di conseguenza c’è anche se i turisti aumentano in modo significativo e sistematico. Per Saviano non è così e mi pare strano.
Si può discutere sul rapporto turismo-legalità ed è vero: illudersi di battere il crimine organizzato con la crescita del turismo è da ingenui. Tirare in ballo la connivenza, però, è gratuita violenza verbale, anche perché, a Napoli, nessuno ha mai detto o pensato che l’incremento del turismo combatte la camorra. E’ il contrario. Chi vive la città con passione civile sa che, per tutelare il segnale di cambiamento che Saviano misteriosamente nega, occorre intensificare la lotta alla camorra. A partire dallo sfruttamento del lavoro che il turismo produce e Saviano ignora. Una lotta che, col rispetto dovuto ai vigili, è ridicolo chiedere alla polizia municipale.
Saviano converrà: la sinistra in città non è formata da un branco di idioti che sogna di liberarsi della malavita a colpi di feste di piazza e pullman di turisti. I napoletani e il loro sindaco sanno bene che ci vuole altro e che, se Alfano e soci, come afferma lui stesso, inviano da queste parti l’esercito “per ragioni di facciata politica” e lasciano tutto com’è, la camorra fa festa. Lo sanno – e lo sa pure Saviano ma non lo dice – che la repressione, ammesso che la fai per davvero, non porta lontano e occorre prevenire, piantarla di far parti uguali fra disuguali, creare opportunità, difendere le scuole dello Stato e via così, con le mille ricette che il meridionalismo invano prescrive dai tempi di Cavuor. Saviano conosce le leggi dello sviluppo duale, perciò sarò chiaro: non ha diritto di violentare la storia.
E’ vero, la pistola che torna a sparare non è un incidente di percorso. “Arrestato un affiliato ce n’è sempre un altro pronto a prendere il suo posto. L’affiliazione è un meccanismo […] economico […] parte del disagio che va oltre Napoli, attraversa tutto il Mezzogiorno e l’Europa del Sud, di cui si tende a parlare poco e male”.
E parliamone allora, invece di sparare nel mucchio. Occorrono lavoro e reddito, forse? Ci vuole politica e formazione? Serve giustizia sociale? E’ questo che dice Saviano? Non so. Non è chiaro. Sono questioni gravi e non capisco se lo scrittore creda davvero che un’amministrazione comunale debba affrontare con i vigili pistolettate, pistoleri, protettori politici e produttori di disperazione, annidati nei laboratori di un aborto della storia che chiamiamo Unione Europea e colpevolmente associamo al nome di Spinelli.
Saviano ricorderà, l’avrà letto: molti decenni fa, con ben altra autorevolezza, Eduardo mutò il finale di un suo celebre lavoro: “’a nuttata nun passa chiù”, scrisse. In tanti come me, giovani di quel tempo, non lo seguimmo. Rispettammo le sue ragioni, ma non lo seguimmo. Stemmo dove Saviano ci ha trovati. Lottammo e lottiamo. Abbiamo perciò diritto di fargli una domanda: davvero crede che sia un caso se le pistole sparino tutte nei vari Sud che elenca nella sua intervista, e siano prodotte nei molti Nord di un tragico “spazio comune”? Quei nord che, nella sua visione del mondo, sembrano il regno dell’innocenza. Se è così, il disaccordo è totale: per me sono parte integrante dei mali dei Sud. Io non dico, però, che Saviano delira. Dico che Napoli non delira e a Saviano chiedo di chiederle scusa.

Agoravox, 7 gennaio 2017; Fuoriregistro, 14 gennaio 2017

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images-1Arrangiandosi con il vocabolario povero di cui dispone, Saviano scrive, liquidatorio e sprezzante, che è «Morto Fidel Castro, dittatore».
Alle Idi di Marzo del 44 a.C. si sarebbe ripetuto – «Morto Giulio Cesare, dittatore» – ma avrebbe lasciato nell’ombra il problema storico costituito da Bruto e Cassio, le domande senza risposta, i dubbi e la complessità del tempo di cui erano figli. Le differenze profonde, i contesti, il segno lasciato nella storia, non contano nulla.
Saviano è il prodotto più riuscito di un imbroglio che il capitale non a caso ha chiamato «morte della storia». Lui non ragiona e non vuole far ragionare. E’ nato in provetta, da un esperimento che l’ha voluto così com’è nelle parole che scrive: olio che scivola sull’acqua.

Fuoriregistro, 26 novembre 2016; Agoravox, 29 novembre 2016

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bfb358425def969ff8eb825fe440b79c_L«Nelle ultime settimane a Napoli si respira, di nuovo, un clima pesante.
Sparatorie in vari quartieri della città stanno facendo da tragica cornice ad una serie di piccoli e grandi episodi di intimidazione e ad insensati atti di vandalismo contro elementi dell’arredo urbano ed autobus. Intanto ricompaiono cumoli di rifiuti in molti angoli della città…. insomma sembrano i prodromi di un clima che pensavamo relegato ad una passata stagione politica.
Inoltre i locali dell’Asilo Filangieri vengono ripetutamente devastati dopo che il cosiddetto capo dell’opposizione in Consiglio Comunale, l’industriale Lettieri, ha più volte vomitato il suo livore contro gli occupanti dell’Asilo e contro l’Amministrazione Comunale che, a suo dire, proteggerebbe l’occupazione e l’autogestione degli spazi dell’Asilo.
Su questi temi la redazione napoletana di Contropiano ha chiesto allo storico Giuseppe Aragno un suo punto di vista che, con molto piacere, pubblichiamo
».
La Redazione napoletana di Contropiano.org

Sia lode al dubbio

Dice Saviano che «Renzi s’è disinteressato delle Amministrative». E’ come usar violenza alla ragione, ma se lo dice Saviano un motivo l’avrà, perché Saviano è uomo d’onore.

Dice Saviano che De Magistris è «a corto di parole e di progetti», che è «imbarazzante ascoltarlo», perché «sembra vivere su un altro pianeta». Se lo dice Saviano, tanto di cappello, ma non puoi fare a meno di domandarti su quale pianeta viva questo ragazzo che di parole, invece, ne ha sempre tante, talora troppe e un progetto magari ce l’ha, ma non lo confessa.

Io, che sono cresciuto alla scuola di Socrate e non mi fido mai delle apparenze, ho cara la lezione di Brecht: «sia lode al dubbio». Bisogna essere davvero estremamente superficiali, o particolarmente faziosi, per credere che l’incubo di Napoli sia oggi la messa in scena della centomillesima guerra di camorra che colpisce a morte un giovane sventurato. Bisogna avere un occhio aperto e uno chiuso, per non vedere che in sette giorni, mentre moriva il povero Gennaro, a Napoli si sono ammazzati per la disperazione due ragazzi come lui: disoccupati. Bisogna avere un interesse misterioso per scegliere di non parlarne e battere ossessivi sul solito chiodo: il problema di Napoli è De Magistris, che ha rotto con Renzi, rappresenta solo se stesso e consente alla camorra di scatenarsi.

Dobbiamo parlare di camorra? Così comanda Il Ministero della Cultura e della Propaganda? Facciamolo allora, parliamone, però diciamola tutta e fuori dai denti: da quando il mondo è mondo, i camorristi non hanno mai fatto qualcosa senza tornaconto, né hanno colpito un alleato politico o un politico che fosse un comodo cretino. La camorra fa del male ai suoi nemici e ai nemici degli amici. Oggettivamente, perciò, se la pretesa «incapacità» di De Magistris tornasse utile ai camorristi, qui, cari signori, in vista delle elezioni, lo scenario sarebbe ben diverso.

Rosi Bindi, sostiene che se parli di Napoli, devi parlare di camorra, ma questa è una mezza verità. L’altra mezza è che se parli di Napoli e di camorra, non puoi fare ameno di parlare del resto d’Italia e del potere centrale. Quando giunse a Napoli Garibaldi e cambiammo padrone, i caporioni dell’«onorata» società indossarono la divisa. Liborio Romano, passato dal Borbone ai Savoia, li arruolò nella Guardia Nazionale e quelli garantirono la transizione. Se Garibaldi si trovò le retrovie tranquille e sotto controllo, fu solo perché lo scambio era stato vantaggioso per entrambi: il cannone «unificatore» bombardò tranquillamente Gaeta, la camorra trovò nuovi riferimenti politici e l’ordine regnò a Napoli come a Torino. Poi la capitale divenne Roma e a poco a poco siamo giunti a «mafia-capitale», solo che a Roma De Magistris non c’è. Rosi Bindi non se n’è accorta, ma a Roma ci sono Renzi e gli uomini del PD. Il suo partito!

Saviano ci insegna: con gli anni la camorra è cambiata, s’è «evoluta», è passata dal coltello alla pistola, è diventata «sciammeria» e poi «sistema», ma ai primi del Novecento, quando a Napoli i socialisti impararono a fare il loro mestiere e denunciarono lo stretto intreccio tra politica e malavita, aprendo la via a una speranza di rinnovamento, non si trovò un camorrista che desse una mano. Stettero tutti con il potere corrotto e fu il processo Cuocolo a rivelare che i socialisti avevano ragioni da vendere. Sono in molti a fingere di non saperlo, ma De Magistris ha avuto predecessori illustri.

Non la faccio lunga. La storia è maestra solo a buoni studenti e non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, però parliamoci chiaro: se qualcuno semina la città di rifiuti subito dopo le pulizie, se inafferrabili vandali devastano a date alterne l’Asilo Filangieri, covo di quei centri sociali che – udite udite! – proprio lì vanno seriamente riflettendo su se stessi, e quindi anche sui loro rapporti col «sindaco sovversivo», se la notte c’è chi si diverte a dare l’assalto ai pullman e fa a pezzi i vetri delle pensiline, mentre «misteriosamente» la luce si spegne nei “quartieri pericolosi”, beh, ma allora è chiaro: la camorra s’è svegliata.

Perché meravigliarsi? In vista delle elezioni, la camorra drizza sempre le antenne e a suo modo si schiera. Nessuno che abbia un minimo di onestà intellettuale, potrebbe negarlo: muovendosi come si muove, però, essa dimostra oggi di avere già scelto con chi stare e chi danneggiare.
I patti si sono già fatti? E con chi? Rispondere a queste domande, significherebbe rischiare querele, ma è risaputo: i camorristi non si muovono a caso. Stavolta hanno nel mirino l’Amministrazione di De Magistris, che ha risanato il disastroso bilancio ereditato, ha salvato la città dal dissesto e ha messo ai margini la malavita.

Lo so. Può sembrare tutto illogico: devastazioni, pistolettate, morti ammazzati in prima pagina e suicidi dei lavoratori disperati che non fanno notizia. Eppure, basta fermarsi e riflettere, per capire e d’un tratto, mentre si parla di elezioni, tutto diventa chiaro. Non s’è mai vista tanta logica in una illogica serie di fatti: è così che la camorra sposta voti. Così che vende consensi.

Contropiano, 16 settembre 2015

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Vnews-680x452[1]Lo sanno tutti, ma nessuno lo dice. L’Unione Europea è un’arma micidiale in mano al capitale. La stampa che conta esprime solo il punto di vista dei padroni e non ci sono giornali a lanciare l’allarme: i Parlamenti dei singoli Paesi sono espropriati e non possono  adoperarsi per i bilanci degli Stati. L’inganno del debito pubblico da risanare e il Fiscal Compact che impone il pareggio di bilancio in un ventennio, spostano l’asse del potere in mano a tre organismi non elettivi e cancellano la divisione dei poteri che si controllano a vicenda. Nessuno, infatti, ha il potere di controllare l’operato di quell’associazione a delinquere a fini di usura che politologi e carrozzone mediatico amano definire Troika: BCE, Commissione e Consiglio europeo.

Lo sanno tutti. La democrazia parlamentare è stata cancellata: l’Unione europea è in mano a ceti oligarchici e non possiede legittimazione democratica. Ha provato a chiederla, la Francia e l’Olanda gliel’hanno negata, ma non s’è preso atto della condizione di aperta illegalità in cui essa opera e non si è provato nemmeno a dare risposta alla domanda chiave posta da quel rifiuto: se nessuno ha mai autorizzato il trasferimento dei poteri e non c’è un organo decisionale legalmente riconosciuto dai popoli dell’Unione, chi rappresenta la Troika che pretende di governarla e qual è la sua legittimità?

Lo sanno tutti. L’Unione Europea non chiama i cittadini degli Stati membri a decidere sui suoi Trattati, sull’accentramento dei poteri e sulle politiche di austerità che impone, perché ne ricaverebbe una inappellabile sconfessione. Così stando le cose, l’Unione Europea è una dittatura di classe imposta dall’alto con la violenza.

Lo sanno tutti. Qui da noi, però, Saviano, Travaglio e una pletora di predicatori ci riempiono di notizie sui manovali della mafia, su “Ruby rubacuori” e sui processi di Berlusconi, ma non si parla mai dello scandalo Europa! In Italia, per zittire chi si avventura sulle mine, si sostiene che non si può indire un referendum popolare. C’è di mezzo l’art. 75 di quella Costituzione che si può stracciare ogni giorno facendo guerre e finanziando le scuole cattoliche, ma diventa intoccabile, se si tratta di questa Europa nata antifascista e diventata nazifascista. L’Europa di Monti, che assegna all’Esecutivo il compito di educare i Parlamenti, l’Europa delle banche, liberiste coi profitti e socialiste con le perdite, l’Europa delle élite e dei poteri forti, che soffoca i popoli cancellandone i diritti.

Lo sanno tutti. L’articolo 75, per ragioni storiche oltre che logiche e cronologiche – l’Unione Europea non era all’ordine del giorno dell’Assemblea Costituente – non riguarda e non poteva riguardare la nascita di una realtà politica sovranazionale che implica cessioni parziali o totali di sovranità. Per la nostra Costituzione, infatti, la sovranità appartiene in maniera inalienabile al popolo e non c’è trattato internazionale che possa limitarla. Perché ciò accada, il popolo italiano deve essere evidentemente chiamato a pronunciarsi. D’altra parte, è proprio certo – e se è certo, dov’è scritto? – che l’Unione Europea, intesa come nuova entità politica, abbia una sua legittimità, priva com’è di una Costituzione scritta da un’Assemblea Costituente eletta dai cittadini degli Stati che la compongono?

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Uno urla: “fanno la legge bavaglio!” E via, cortei e sigle colorate. Scende in piazza l’intellettuale à la page, quello che legge Feltri, Libero e Belpietro, ma è la democrazia fatta persona; un popolo eccitato si veste di viola, attempate signore chic propongono “rivolte ciclamino” in stile tunisino e, scandalizzati, tornano a girare girotondini riciclati; qualcuno, se se li ha, si strappa i capelli, i giovani portano i vecchi in piazza e i vecchi ci vanno felici di questa ritrovata stagione rivoluzionaria. Qualcuno, irresoluto, aspetta l’oracolo e s’inchina la suo altare: chi ci ha messo Travaglio, chi Santoro, chi Saviano; buona parte dell’ex fascismo, ormai moderno e liberalizzato, guarda a “Futuro e Libetà” e pende dalle labbra di Bocchino in attesa di Fini. Un casino di fermento. E la legge? La legge non si fa! E’ divertente la democrazia, quando “qualcuno che conta” ci convince ad agire! La legge non si fa. Contava poco eera semplicemente un diversivo.

Viene il giorno che un’autorevole autorità, autorizzata da un autoritario potere più o meno occulto, P2, P3, P4 nessuno lo sa, mette mano alla rete e chiude la bocca al web. Tu t’aspetti la guerra civile, la lotta armata, una sorta di Quarantotto coi moti di piazza e la Giovine Italia e invece no. Non un corteo, nemmeno uno vecchio, finto, fotografato nella vecchia Piazza Esedra per salvare l’onore. Non una sigla colorata scende in piazza, non annuncia battaglia la stinta, ma gloriosa bandiera della pace… Niente, nemmeno un movimento vestito delle più varie gradazioni del grigio di questo tempo nostro bigio. Nulla. Chi legge il liberalissimo Feltri tace perché, si sa, è snob e non si mischia col popolo plebeo; il ciclamino ribelle s’è d’un tratto appassito nei tumulti nordafricani, come le attempate signore chic che non muovono un dito se l’intellettuale non c’è; Saviano non parla, i giovani sono stanchi dei vecchi, i vecchi non sopportano i giovani, nessuno fa conto su “Futuro e Libertà”, Bocchino chiama Fini, che chiama Bocchino, ma è sempre occupato. Il futuro s’è perso e la libertà non va più di moda. Non fermenta il casino, non gira il girotondino, s’incasina il fermento, non si muove una foglia che Travaglio non voglia… E la legge? Beh la legge si fa. La legge si fa, si fa, se non si sveglia la rete, la legge si fa…

PROTESTIAMO. FACCIAMOCI SENTIRE, RIBELLIAMOCI

 

 

 

 

 

Saremo l’esperimento più avanzato di censura del nuovo millennio
http://www.agoradigitale.org/nocensura

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Se n’è andato sicuro e contento, nell’applauso gelido dello studio televisivo, dopo il “colpo di teatro“, avvocato. Se n’è andato e nessuno le ha dato l’insufficienza piena per il profitto scarso di studi improvvisati. Nessuno, né la scuola piegata, né l’università ridotta allo stremo sull’ultima spiaggia, gliel’ha fatto notare: s’è comportato come lo studentello impreparato e presuntuoso che studia sul Bignami e poi gioca d’azzardo. Non so quale malaccorto leghista le scriva gli interventi che recita a memoria come un guitto e, però, chiunque sia, licenzi il pennivendolo e si raccomandi alla Gelmini per un “corso di recupero ministri culturalmente indigenti“. Faccia presto, avvocato: l’Italia si vergogna.
Pacatamente e però fermamente, come si conviene a un professore: le mafie non si combattono solo con la repressione e si favoriscono uccidendo la scuola e l’università come fa il suo governo. In quanto a Salvemni, i suoi articoli sul federalismo, che lei piega a fini separatisti, nacquero per unire. Un pensiero politico ha senso solo se s’inserisce nel contesto in cui si forma e il maestro delle vituperate scuole elementari gliel’ha certo insegnato: è l’abbiccì di chi spiega il presente ricorrendo al passato. Lei fa invece il contrario, avvocato: lei giustifica la vergogna presente con un passato nobile che di solito disprezza. Di federalismo, Salvemini scrisse su “Critica Sociale” di Filippo Turati e Anna Kuliscioff e fu parte integrante della militanza d’un socialista eretico, lontano anni luce dalla ferocia  leghista. La critica s’appuntava sul latifondo assenteista e parassitario del Sud, alleato da sempre – gliel’ha detto Saviano, ma lei non può capire – coi ceti mercantili o più o meno industriali del “mitico” suo Nord, vissuto d’incentivi di Stato fino ad oggi, col sedicente “libero mercato” alla Marchionne. La “Padania” di cui ciancia, avvocato, non esiste. Esistono ceti abbienti che hanno le mani sporche di un patto che pesa su quelli subalterni. E non basta recitare un versetto del Corano per dichiararsi musulmano. Lei non c’entra nulla con Salvemini e col meridionalismo. Salvemini sosteneva che il socialismo, di cui lei rifiuta storia, origini e cultura, non doveva “compromettersi” con le tendenze “economiche” delle oligarchie del Nord, comprese quelle operaie, ma lottare per riforme generali, utili ai settentrionali e vitali per l’affrancamento delle masse contadine meridionali. Salvemini, per capirci, accusava i ceti dirigenti settentrionali di aver sottoscritto un accordo criminale con quelli meridionali, espressione anche delle mafie: agli uni i privilegi della rendita, agli altri la crescita delle organizzazioni economiche padronali e proletarie. E’ andata com’è andata e i meccanismi, quelli sì, i meccanismi lei li conosce bene. Ha avuto per socio al governo Cosentino e, tra i suoi alleati, ci sono gli indagati, i processati e i condannati.
Lei, avvocato, non è solo imprudente. Lei è un ministro dell’interno che reprime con violenza cilena chi difende un diritto, non sa di che parla e le fa difetto l’onestà intellettuale. Dovrebbe saperlo, per gente come quella che forma il governo di cui lei fa parte, Gaetano Salvemini scrisse un celebre opuscolo, oggi più che mai attuale: Il ministro della malavita, si intitolava. Perché non l’ha citato? Non lo conosce? Studi avvocato, lo legga, lo impari a memoria. La finirà di raccontare frottole e dire spropositi.

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Non lo dice nessuno, ma si sa: Cota è notoriamente abortista. Non si tratta di sfatare un mito e non c’entra nemmeno il Garibaldi frà massone, pirata e faccendiere dei sussidiari sfascisti su cui si forma la gioventù leghista. In discussione, se ma, c’è il modello “culturale” – si fa per dire – che Cota, Maroni e Goisis rappresentano al meglio. Lo ha ripetuto a lettere chiare persino Napolitano, che di solito, ama collocarsi “fuori della mischia”: la criminalità organizzata “meridionale” fa affari d’oro con le complici regioni del Nord. La “questione settentrionale” del Nord leghista, perciò, non passa certamente, come piacerebbe a Cota, l’ineffabile ex secessionista, per la “pillola abortiva”, ma un problema di aborto in casa leghista esiste certamente e riguarda la scelta di interrompere lo sviluppo di un popolo civile. In questo senso, non c’è pillola più abortiva della legge elettorale di Calderoli e, da Pontida a Lampedusa, la tragedia che incombe non sono gli immigrati che ci “islamizzano“, ma le leggi sull’immigrazione che ci imbarbariscono, la scuola e la ricerca sfasciate che sopprimono la ragione critica e fanno dell’egoismo individualista italiota la base “culturale” del fanatismo scatenato dalla Lega padana.
Saviano, che il Sillabo leghista metterebbe volentieri all’indice assieme al Corano, l’ha dimostrato senza possibilità di dubbio: il sistema economico “legale”, che il Carroccio si vanta di rappresentare, non sta a galla senza quello illegale. E qui la geografia politica non c’entra; non ci sono un Sud “mafioso” e un Nord “virtuoso“. Esistono cittadini onesti – e sono italiani – e ci sono delinquenti che non hanno patria e cittadinanza, ma riferimenti politici in ogni parte del Paese. Dal mondo dell’alta moda alle sempre più malconce fabbriche del nord-est, sono in tanti a smaltire, in accordo con le ecomafie, rifiuti a basso costo in barba alle norme sull’inquinamento. In quanto alla buffonata del sedicente “federalismo fiscale”, nessuno si fa illusioni: Cota non ha mai letto gli studi di Nitti sul bilancio dello Stato. Gli farebbe bene, ma a lui basta Bossi. Dopo cinquant’anni di cieca “piemontesizzazione”, dopo vent’anni di fascismo nato e prosperato soprattutto in terre padane, dopo il craxismo che, spiace dirlo, ebbe la sua culla nella patria di Turati, “marca padana” hanno anche berlusconismo e leghismo e, non bastasse, lo spostamento di risorse dal Sud al Nord è stato tale che solo una banda di incoscienti si lascerebbe tentare dall’impresa. Si dice, mentendo, che il Sud pesi sul Nord. Basterebbe saper contare fino a dieci e usare almeno un pallottoliere per capire che non è così. Il reddito del Nord – il dato è del 2003 e oggi sarebbe ulteriormente sbilanciato – ammonta al 53 % del totale nazionale mentre al Sud è solo il 26.3 %, e non è tutto. Il 54.3 % del reddito da lavoro dipendente – vale a dire salari, stipendi, pensioni, ammortizzatori sociali e compagnia cantante – un settore in cui l’evasione è pari a zero in tutto il Paese – si colloca al Nord, mentre il sud non giunge al 25 %. La metà. Ciò significa, ad esempio, che per ogni pensione pagata al Sud, la previdenza ne paga due al Nord. In quanto ai redditi da capitale, le percentuali sono del 57,3 % al Nord e del 21,4 % al Sud. Anche qui, il doppio o la metà, a secondo dei punti di vista. Un dato per certi versi sconvolgente. Se fosse vero, ma è molto improbabile, che nel Piemonte di Cota l’evasione Irap supera di poco il 30,53 %, appare chiaro: anche se l’evasione calabrese fosse totale, il Piemonte di Cota sottrarrebbe molto più che la Calabria. Rimane il sommerso, la terra senza nome in cui miseria del Sud e ricchezza del Nord si incontrano fatalmente sul terreno degli affari sporchi. Bene, solo tre anni fa i dati relativi al lavoro nero o irregolare vedevano al primo posto assoluto con l’88,1 % la provincia di Bolzano. A livello regionale, il Piemonte di Cota col 64,4 % era di poco più virtuoso della Calabria, ma registrava dati negativi rispetto a tutte le altre aree del Mezzogiorno.
In questo quadro, non ci sono dubbi, Cota, Maroni e Calderoli sostengono il più pericoloso e immorale degli aborti: quello che nega la vita alla solidarietà. Mettano in campo, se li hanno, i minacciati 400.000 fucili, gli sfascisti in verde, ma ricordino: giocando coi numeri e le armi, Benito Mussolini mise in campo otto milioni di baionette. Non salvarono il Paese dalla disgregazione e non gli evitarono Piazzale Loreto.

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