Feeds:
Articoli
Commenti

Archive for novembre 2012

Qualcuno dirà che è stata saggezza: ferme ai crocicchi dei palazzi del potere, dove s’è messa a morte la giustizia sociale, le forze dell’ordine non si sono viste. Mentre la stampa padronale esalta l’araba piazza Tamir, l’Italia dei diritti negati non poteva concedere spazio a nuovi pestaggi della polizia “democratica”. Sembra un ragionamento che non fa una piega, ma la saggezza non c’entra e non c’entra nemmeno la volontà consapevole di chi comanda, deciso a ridurre l’isolamento morale rispetto a un’opinione pubblica disgustata. E’ stata la necessità di far fronte al crescente dissenso interno verso una politica dai tratti autoritari, che da tempo scatena in piazza la parte peggiore degli uomini in divisa; una politica che il 14 novembre è sfociata nelle aggressioni selvagge a ragazzi inermi, documentate da foto e filmati inaccettabili, che nemmeno la stampa addomesticata ha potuto ignorare. Tra le forze dell’ordine sempre più divise, molti sono ormai gli indecisi e i riottosi. Questo governo non piace a tanti poliziotti e mentre l’ala dura da sola non basta per ora a tenere la piazza, i più moderati, stanchi di far scudo a un governo voluto dai banchieri e tenuto in piedi da un Parlamento del tutto privo di credibilità, recalcitrano e non danno affidamento.
Professore, ma davvero lei crede di avere di fronte un muro compatto e senza crepe? mi ha detto in piazza senza giri di parole una funzionaria della Digos, che ormai mi conosce bene. Se è così, si sbaglia. Quando si fa lavoro diventa sporco, si scelgono uomini e reparti. Non siamo tutti uguali e non son rose e fiori nemmeno tra gli agenti entrati in polizia secondo i criteri d’un tempo e i bestioni arruolati oggi grazie a “corsie preferenziali”; a molti non piace il vantaggio incolmabile assicurato ai militari tornati da esperienze di guerra sui fronti in cui da tempo sono impegnate le nostre forze armate con la scusa di inesistenti interventi umanitari. Non piace, perché ci riempie di fanatici e spostati che in piazza esibiscono in petto le strisce minacciose e multicolori delle campagne militari. C’è guerra ai vertici. Un disaccordo forte che non si lascia trasparire. A molti, peraltro, De Gennaro non piace, è il volto peggiore delle forze dell’ordine, quello mostrato a Genova. E Genova è una ferita aperta non solo per la cosiddetta società civile. Molti tra gli uomini in divisa ritengono che lì le forze dell’ordine si sono davvero giocata la reputazione. E questo non fa piacere a nessuno. In ultimo, c’è un motivo solo apparentemente secondario, una ragione di dissenso e di scoramento molto più banale, ma capace di unire: la crisi colpisce anche noi.
Chi ha avuto agenti a lezione di storia, ai corsi triennali universitari, al tempo delle convenzioni firmate tra accademia e enti pubblici, sa bene che dietro l’apparente muro di violenza e omertà che ci troviamo di fronte ogni giorno in piazza, c’è una nebulosa complessa e multiforme. Sa che c’è un terreno inesplorato che si può aprire alla propaganda e alla lezione della democrazia e non è un caso che sulla scuola si picchi con particolare accanimento. La scuola diventa assai spesso la buccia d banana su cui scivola il potere. ieri in piazza essa ha avuto meriti davvero significativi. Ha dimostrato anzitutto in maniera inequivocabile che non bastano squadristi in divisa per costringerla a tacere e che, anzi, l’inattaccabile governo tecnico, in tema di scuola, versa in stato confusionale: orari, precari, concorso, ha fallito ogni mossa. Non bastasse, in piazza, ed è un punto a favore di grande significato politico, il governo stavolta ha dovuto rinunciare all’unica arma che ancora possiede: la violenza.
Facciamo tesoro di questa esperienza e andiamo avanti decisi. Ci attendono mesi decisivi. Secondo Affari Italiani, il più accreditato dei giornali on line, a tre italiani su quattro il “Monti bis” procura l’orticaria e Montezemolo non raggiunge il 2 %. Tutto è in movimento, tutto è ancora possibile e la “scorta” ai palazzi del potere è molto meno solida di quanto appaia. Affianchiamo i ragazzi in lotta, stiamo con loro in piazza e nelle scuole occupate e intanto le organizzazioni dei lavoratori, quelle che non hanno rinunciato al conflitto, trovino la via per far esplodere le contraddizioni che dall’altra parte si stenta a gestire. C’è nella nostra storia antica, nella cultura di una sinistra schierata nella trincea dei diritti, una tradizione di propaganda tra gli uomini in divisa. Qui non si tratta di assaltare il palazzo d’inverno: E’ il palazzo che pare muovere in armi contro di noi, mentre occupa la via elettorale con oscure manovre di partiti e inaccettabili intromissioni del Capo dello Stato. “La democrazia sta sparendo sotto i nostri occhi”, ha sostenuto con amaro coraggio una studentessa che s’è conquistata la parola a Parma, rivolgendosi a Clini che inaugurava l’anno accademico in una università blindata. Aveva perfettamente ragione. Non è tempo di dubbi: occorre modificare gli equilibri sul terreno dello scontro che ci vogliono imporre e non sarà certo male se, alla resa dei conti, in piazza, tra gli uomini in armi, qualcuno decida di passare dalla parte dei manifestanti. Non si tratta di inseguire miti rivoluzionari. E’ solo che Piazza Tamir non è lontana come pare.

Read Full Post »

Dopo le prodezze balistiche di via Arenula e i giochi pirotecnici al Ministero di Grazia e Giustizia, le forze dell’ordine sono davvero stremate e hanno un enorme bisogno di riposare.
Sabato ci metteremo in ferie, hanno dichiarato infatti i nostri galantuomini in divisa. Un inglese di passaggio per Roma ha domandato però con aria stupita:
Perché oggi erano in servizio? E come dargli torto? A Roma i fascistelli tifosi hanno fatto cose da pazzi, organizzando la caccia all’uomo e massacrando di coltellate e botte i tifosi del Totthenam e non s’è trovato un uomo in divisa nemmeno a pagarlo a peso d’oro.
Gli inglesi non possono saperlo, ma lo stanno imparando: qui da noi i poliziotti sono in servizio solo quando in piazza scendono quei delinquenti matricolati che si fanno passare per operai e studenti…

Read Full Post »

Dopo un anno perso dietro i numeri di un governo di contabili e ragionieri, i conti non tornano. E’ allucinante. Non ci avessero pensato Milena Gabanelli e quella banda di guastafeste raccolta all’ombra del “Fatto Quotidiano”, nessuno dei ben pasciuti e titolati tecnici ingaggiati da Monti e Napolitano ci avrebbe raccontato l’incredibile storia di Ilaria Sbressa. Molto probabilmente, non avremmo mai saputo che ai tempi della Gelmini un’azienda privata ha ottenuto il via libera dal Miur per realizzare una ventina di spot da “Carosello” e utilizzarli come prezioso materiale didattico, con un rapporto guadagno spese che sta nei termini osceni di ventimila euro alla voce costi contro i settecentotrentamila messi in tasca. Una barca di soldi pagati, a quanto pare, dopo l’uscita di scena della Gelmini, cui sommare cinque milioni entrati grazie a sconti, favori e acquisizioni di fondi europei. Tanto spreco, mentre l’intero governo fa il coro greco per i “costi” sociali degli studenti fuoricorso e un’appetitosa valanga elettronica, tutta tablet, lavagne multimediali e pagelle digitali, precipita sulla scuola terremotata dalla religione del profitto!
Onore al merito: mentre la Ragioneria dello Stato accampa i suoi agenti in viale Trastevere e scava a destra e a manca nei ripostigli, Il Miur, con invidiabile faccia tosta, diserta il campo minato delle ore d’insegnamento e discetta vezzosamente di concorsi, precari e rivoluzione copernicana della formazione. Non ci sono dubbi: nell’anno del miracolo Monti c’è mancato tutto, tranne gli scandali soffocati e le dichiarazioni sibilline. Dall’Ilva, difesa a spada tratta contro regole, magistrati e cittadini, a Passera ci ha fatto la lezione morale sulle tasse, portando sulle spalle il peso di un’inchiesta per frode fiscale, il confine tra realtà e rappresentazione s’è fatto così sottile, che persino l’evidenza d’un filmato è stata revocata impunemente in dubbio, senza temere ridicolo e vergogna. Il 14 novembre, mentre il ministro Cancellieri elogiava le forze dell’ordine reduci dai pestaggi capitolini, la collega Severino dichiarava di aver aperto un’inchiesta interna sul comportamento della polizia, sospettata di essersi appostata alle finestre del suo ufficio per sparare candelotti lacrimogeni sulla testa di ignari manifestanti. A risolvere brillantemente la tragicomica situazione, hanno pensato, competenti e professionali, i carabinieri, spiegandoci che l’asino vola e subito la stampa si è affettata a raccontarci che sì, è vero, l’asino vola perché ce lo dicono i carabinieri.
Chi pensava che la neolingua fosse l’invenzione di un fortunato romanziere, farà bene a ricredersi. Se da tempo abbiamo imparato che «la guerra è pace», ora sappiamo che per il Ministero dell’Interno e quello della Giustizia non sono veri i fatti, ma ciò che ne pensano i Carabinieri, sicché presto dovremo adeguarci: «la libertà è schiavitù». In quanto al Miur, se la Gabanelli ha ragione e le notizie del “Fatto Quotidiano” sulla gestione degli appalti interni al Ministero saranno verificate, il programma sarà infine chiaro: «l’ignoranza è forza».
Quando gli storici porranno mano alla ricostruzione, balzerà in luce meridiana: il capolavoro l’ha firmato Bondi, incaricato di esaminare appalti e spese per garantire risparmi mirati in nome dell’efficienza e della lotta agli sprechi. Come un abile pifferaio magico, il supertecnico ha regalato il fascino della musica inglese alla tragedia dei tagli, sicché il popolo incantato, quasi danzando al ritmo sincopato della spending-revew, l’ha seguito fiducioso fino al fatale epilogo e quando s’è annegato, quasi felice del disastro, ha perdonato l’epilogo tragico della favola antica. L’incanto della musica ha avuto questo di veramente nuovo: in un mondo che affonda nel fango, ha diffuso la convinzione ferma che di tutto si possa accusare il suonatore, tranne che di malafede. Il fatto è però che spesso di buona fede si muore e mai come oggi il monito del pifferaio di Hamelin è apparso così chiaro: non esistono miracoli onesti, ci sono solo stregoni pericolosi.

Uscito su “Fuoriregistro” il 22 novembre” 2012

Read Full Post »

Ecco qua:

E per piacere, non comiciamo a sparare cacchiate che saranno subito smentite, com’è successo con quel sant’uomo del questore di Roma per il fatto dei lacrimogeni tirati… contro il ministero! Qua il Partito “Democratico” è proprio innocente. Si vede benissimo, potete anche esaminare la foto col microscopio e non c’è bisogno della perizia giurata di qualche esperto carabiniere; questo non è certamente un calcio appioppato da una “democratica” guardia del corpo a uno studente che contesta! Non la vedete? C’è una mosca che sta facendo la cacca sulla bella maglietta del giovanotto e la guardia del corpo si è gentilmente preoccupata di fare sciòllà!
Piuttosto, è stato lo studente a fare lo screanzato. Non l’ha nemmeno ringraziato! Che schifo di mondo…

Read Full Post »

Ancora un palazzo del potere, ancora qualcosa che vola dalle sue finestre, ancora una “morte” che rimarrà impunita. Stavolta tocca direttamente alla democrazia. Qui da noi va così. Qui da noi dalla finestra della Questura a Milano volò a terra l’anarchico Pino Pinelli e Vincenzo Guida, il questore, spudoratamente ne infangò la memoria. S’era ucciso, sostenne, schiacciato dal peso delle prove che lo inchiodavano alla sua responsabilità per la strage di Piazza Fontana. Pinelli era stato partigiano e il questore fascista come fasciste erano le bombe di Milano. Sembra strano, ma è così: passato senza colpo ferire da Mussolini a Einaudi, aveva diretto la colonia penale di Ventotene dov’erano reclusi Pertini e Terracini. Sono storie di questori che andrebbero insegnate. Ma forse è proprio quello che non si vuole.
Qui da noi va così: fanno testo i questori, salvo smentita postuma degli storici tra cinquant’anni, quando probabilmente “scopriremo” e non servirà a nulla che gli ignobili lacrimogeni sparati dalle finestre di via Arenula, proprio sotto il naso dell’inconsapevole!? ministro Severino, sono l’esito previsto di un progetto studiato a tavolino dai teorici della “postdemocrazia”, accorsi al capezzale dell’agonizzante Repubblica democratica. Oggi no: oggi, contro l’evidenza, ha ragione l’ineffabile questore Della Rocca: «sono stati sparati “a parabola” non diretti sui manifestanti. La traiettoria è stata deviata perché hanno urtato sull’edificio». E c’è da giuraci: il ministro Cancellieri non pagherà col licenziamento la tragicomica tesi della “legittima difesa” tirata fuori per giustificare i soliti “servitori dello Stato” che ormai ammazzano di botte chiunque si azzardi a manifestare dissenso.
Qui da noi va così. Questo è un Paese in cui, in nome della legalità, Farini, presidente del Senato, cogliendo al volo l’occasione dell’attentato Acciarito, non esitò a scrivere al Presidente del Consiglio Rudinì che «l’Agenzia Stefani va diffondendo non esservi complotto: è male dico. Ottima cosa sarebbe la convinzione d’un complotto, per indurre questa società molle a difendersi». E poiché di queste cose non si vuole che si parli, ecco i colpi alla scuola e all’università. Ai Rudinì di ogni tempo occorre anzitutto un rassegnato “bestiame votante”. L’insegnamento della storia in libere istituzioni formative potrebbe di fatto complicare la via alla “postdemocrazia” di cui questo governo s’è fatto il portabandiera. E, guarda caso, è proprio su studenti e professori che i lacrimogeni volano clandestini dai palazzi del potere. Docenti e studenti per ragioni di forza maggiore, perché piegando la scuola e l’università si vuole spezzare il filo forte e decisivo della trasmissione della memoria storica.
Qui da noi va così. Qui da noi lo Statuto albertino escludeva lo stato d’assedio perché non riconosceva a un Esecutivo il diritto di sospendere la Costituzione, ma contro gli “scrupoli garantisti“, Crispi non esitò a proclamarlo per colpire il “reato politico” o, se si vuole, il dissenso e a chi, in nome della legge, si opponeva rispose che, «di fronte allo Statuto, c’è una legge eterna, la legge che impone di garantire l’esistenza delle nazioni». Di lì a poco, un potere che non riconosceva freni alla sua azione decorava di medaglia al valor militare un mascalzone in divisa che aveva sparato a raffica sulla folla inerme e condannava alla galera il mite Turati e Anna Kuliscioff, colpevoli di socialismo.
Qui da noi va così. Da noi qui c’è sempre un ’98 in agguato, da quando Mazzini s’è spento clandestino in patria sotto falso nome, inseguito da una condanna a morte in contumacia che nessuno mai cancellò, e Garibaldi morente non s’è liberato della  polizia che lo teneva d’occhio come un volgare malfattore. Qui da noi per gli ideali “rossi”, i lavoratori si son fatti secoli di galera prima e dopo la Resistenza e il reato politico è stato ed è terreno privilegiato di tutte le polizie, passate attraverso le varie epoche della nostra storia senza mai dar conto di sé al “popolo sovrano”. Dietro i questori che parlano a ruota libera e gestiscono la piazza fuori dalla regole, c’è una malintesa e deformata idea liberale che ha sempre partorito governi reazionari e non a caso in buona parte i liberali confluirono nel listone fascista. Quest’idea, che è tornata di moda assieme a un liberismo che pare articolo di fede, ce l’ha a morte con la formazione di massa. L’attacco che oggi si porta alla formazione con l’alibi dell’ordine pubblico risponde perfettamente alla filosofia del bastone e della carota enunciata impunemente dal ministro Profumo ed è anzi la spia più evidente e inquietante d’una idea liberale che non solo vive di paure irrazionali e falsi miti, ma periodicamente lascia emergere dal suo seno un elemento occulto di continuità con una vocazione autoritaria che da Crispi alla DC di Scelba, giù fino ai giorni di Genova e ai tecnici alla Monti è un dato ineliminabile della nostra storia.
Occorre dirselo e trovare al più presto una via d’uscita: qui l’ordine pubblico non c’entra veramente nulla. In discussione è ancora una volta la democrazia.

Uscito su “Fuoriregistro” il 16 novembre 2012 

Read Full Post »

Guardatevi il filmato di Repubblica e poi ditemi che ne pensate. Il manganello usato per un pestaggio da gangster, una scena disgustosa che fa tornare alla mente gli squadristi di Mussolini. Non si tratta di un caso eccezionale. E’ una regola ormai. Quelli che vedete all’opera si chiamano “tutori dell’ordine“, ma sono soltanto dei cialtroni in divisa, dei vigliacchi protetti da una vergognosa omertà e dall’impossibilità di indentificarli. Vanno in piazza e sembrano drogati, vengono da esperienze di guerra nei Paesi aggrediti con la scusa dell’intervento “umanitario” e sono completamente fuori controllo candelotti lacrimogeni tossici sparati ad altezza d’uomo, pestaggi, caccia all’uomo, totale disprezzo per la democrazia e le sue regole, braccio armato di un governo che non abbiamo votato e di un Parlamento che non risponde al popolo,  ma ai segretari dei partiti che li hanno nominati deputati. Li paghiamo per tutalarci dai criminali, ma sono diventati un pericolo costante per noi e per i nostri figli. Se esistono davvero poliziotti perbene, protestino e smettano di tacere. Fuori i nomi: chi sono questi delinquenti?

Read Full Post »

Era cominciata così e non c’era nulla di particolarmente pericoloso: una meritata caricatura della Fornero, una donna che in anno s’è dimostrata la caricatura vivente di ciò che di norma s’intende per ministro del lavoro.

Un solo messaggio, forte sì, ma semplice, ironico e musicale come una pernacchia: “jatevenne. Qualcosa di artistico, per chi se ne intende, anche se definitivo, irrimemdiabile e inconcilibile com’è giusto che sia, perché è vero e non ha certo torto il sindaco De Magistris: Napoli è stata lasciata sola da questo governo. Jatenenne, quindi, che non è una minaccia e nemmeno una bestemmia.

Ci si si è avviati con una sola normalissima intenzione: protestare e farsi ascoltare. Nulla di bellicoso o di scandaloso. Protestare come consente la Costituzione e non eravamo bande armate, ma studenti, operai, disoccupati, gente che lavora al nero, non ha mai lavorato o è stata licenziata.

Sarà stata la parola sociale, che pare ormai il passo rosso agitato davanti al toro, sarà che ormai la barbarie in divisa dilaga, il fatto è che ci aspettavano armati, in nome di una legge che si sono inventata: la città è dei ministri e non li puoi contestare. I manifestanti hanno provato a passare e in un attimo gli uomini in divisa si sono scatenati. lacrimogeni, cariche, manganellate, caccia all’uomo:

Qualcuno intanto s’è messo a fotografare i passanti spaventati – un casting per la galera – e attorno l’inferno:

 Alla fine la sensazione è una: questa gente irriconoscibile e per questo impunita dietro caschi e visiere, questa gente che ha scambiato l’Europa per il Cile di Pinochet e non conosce licenziamento o cassa integrazione perché puntuale ogni mese riceve lo stipendio dai lavoratori affamati, questa gente che non ha nome è la vera protagonista della crisi.

Read Full Post »

“Non ho fatto nulla per peggiorare la situazione dei precari nella scuola” ha dichiarato Profumo, respingendo l’accusa di aver cancellato le loro speranze, .che gli ha rivolto il prof. Carmine Cerbera prima di togliersi la vita. I casi sono due: o il ministro soffre di amnesia e non ricorda la disperata rabbia dei precari che a settembre, accampati davanti al Ministero, invano gli chiesero udienza, per convincerlo a non cancellare le graduatorie permanenti, o il concorso l’ha voluto a sua insaputa il Direttore Generale Luciano Chiappetta.

Aveva ragione Don Milani: “La politica è orribile quando chi la fa crede d’essere dispensato dal sentir bruciare i bisogni immediati di quelli cui l’effetto della politica non è arrivato” e non c’è dubbio: il dramma di Cerbera è figlio di un clima di arroganza, persecuzioni e disprezzo per il corpo docente che non ha precedenti nella nostra storia. Per un anno, incurante dei costi umani delle sue scelte, il ministro ha fatto della pretesa “necessità dei tagli” l’alibi per un vero e proprio massacro della scuola poi, d’un tratto, s’è messo a sperperare i soldi dei contribuenti con un concorso inutile, iniquo e fuorilegge. Senza godere del voto di un solo elettore, scialbo, incompetente e autoritario, Profumo ha sbandierato il mussoliniano binomio “carota – bastone” ed è diventato ad un tempo il peggior ministro dell’Istruzione e il carnefice delle giuste speranze dei lavoratori della scuola. E’ un primato cinicamente voluto e ampiamente meritato: passeranno alla storia la farsa del “referendum” sul valore legale del titolo di studio, il crescente sovraffollamento delle classi, l’inaudito attacco al diritto allo studio, ai disabili, al tempo pieno, il polverone delle “24 ore” levato ad arte per coprire la privatizzazione ormai quasi approvata e il progetto di annientamento degli insegnanti precari.

Si chiude oggi un cerchio aperto molti anni fa e basta percorrere a volo radente le tappe del calvario di studenti e lavoratori della scuola, per capire che il “ministro tecnico” è giunto al capezzale della scuola agonizzante dopo provvedimenti inqualificabili. E’ del 15 marzo 1997 la legge 59 che trattò la scuola come una qualunque attività produttiva e decretò la fine di numerose istituzioni scolastiche in base a indecenti parametri numerici. Da quel momento, serva o no al territorio in cui opera, una scuola muore se non ha “una popolazione, consolidata e prevedibilmente stabile almeno per un quinquennio, compresa tra 500 e 900 alunni“. Per gli istituti “sottodimensionati” è stata “pena capitale” e di lì sono nate feroci unificazioni orizzontali tra scuole dello stesso grado esistenti in ambito territoriale e accorpamenti verticali in istituti “comprensivi” che, fu promesso, avrebbero rispettato esigenze educative e progettualità del territorio. Mentre un’autonomia pezzente apriva la via alla fuga verso il “privato” e iniziava lo stillicidio dei posti perduti, nelle zone “a rischio” la criminalità organizzata ringraziava per l’inatteso regalo: la scuola sbaraccava là dove più necessaria appariva la sua presenza. Per usare il linguaggio aziendale caro a Profumo e soci, tra miseri risparmi e crollo della qualità, il rosso in bilancio sul piano etico ebbe così un’irresistibile impennata.

In una sorta di “cupio dissolvi“, tra giugno e luglio del 1998 seguirono a ruota il regolamento che perfezionò il dimensionamento e il Decreto 331 che sconvolse la già disastrata rete scolastica e le regole per la formazione delle classi e degli organici. In nome del dio del risparmio e in base ai soliti parametri quantitativi, si unificarono istituti di diverso ordine o tipo, si cancellarono sezioni staccate e plessi, si proibì di costituire una classe quando le iscrizioni previste erano meno di 30. Il numero degli alunni per classe, anche in presenza di portatori di handicap, violò così ogni norma di sicurezza in scuole da sempre malconce. Cancellate senza ritegno classi su classi e lasciati i docenti senza lavoro, gli studenti, ridotti a carne da macello, furono sparpagliati nelle “scuole viciniori” e in quanto alle “eventuali iscrizioni in eccedenza“, si pensò bene di dividerle tra “le sezioni della stessa scuola“. A parole si mise l’alt sul limite estremo di “28 unità per sezione“, ma il confine fu poi violato e saltò persino l’impegno di escludere dalla spartizione le sezioni con alunni in situazione di handicap, che subito giunsero a 25 ragazzi stipati in classi per lo più inadeguate e fatiscenti.

Bisogna far quadrare i conti, non ci sono soldi“, fu il ritornello, ma per le private di quattini ce ne furono sempre. Agli studenti ormai non badava nessuno e nelle scuole cominciarono a “sparire” i docenti. Sulla via dell’aziendalizzazione, l’8 marzo 1999 il DPR 275 inserì nel linguaggio comune la “domanda delle famiglie“, cui la scuola finì col soggiacere, confezionando la sua “offerta” ai fini di un ambiguo “successo“. Il calcolo dei “crediti” giunse a coprire il rischio dell’analfabetismo e nacquero attività di ogni tipo, dalla concorrenza sul mercatino delle pulci, alla “giornata del cuore”. In un tripudio di scuole parificate, legalmente riconosciute e pareggiate, tutte a carico dello Stato alla faccia dei famosi “risparmi”, ai giovani docenti esclusi e in difficoltà si offrì lavoro sottopagato e spesso gratuito in cambio di “punti” per un’assunzione che non sarebbe mai venuta. In quanto alle famiglie, le più abbienti trovarono una vasta gamma di diplomifici pagati coi soldi dello Stato. Il valore legale dei titoli di studio non fu toccato, ma fece fortuna il mercato dei “crediti”. Era iniziata l’età dell’oro delle convenzioni con università private, enti e agenzie sorte come fossero funghi, per dare il loro “ineludibile apporto” alla realizzazione delle più stravaganti aspirazioni. La bandiera della “qualità” annunciò il mito del merito, a cui, nella pratica quotidiana, diede, in realtà il colpo di grazia la riduzione in servitù dei supplenti, persi nel gioco al massacro di assunzioni a cottimo e licenziamenti, e dei docenti appartenenti a classi di concorso che presentavano esuberi di personale, i “soprannumerari“, costretti a corsi di riconversione professionale, pena il licenziamento.
Aperta la breccia e trasformati i presidi in riluttanti o complici “dirigenti”, nel mirino entrò presto la dignità dei lavoratori.

Chi andasse a cercare oggi nomi e partiti, troverebbe schieramenti variopinti: Scalfaro, Berlinguer, Prodi, Flick. Centrosinistra per lo più. Gli ingenui stupiranno, ma è un dato storico: dove si ferma la destra, perché occorrerebbe la forza, ecco in soccorso l’inganno della sedicente “sinistra riformista”.
Profumo è ultimo dopo Moratti, Fioroni e Gelmini, ma molto ci ha messo del suo, ispirandosi al modello Marchionne e creando un clima di irresponsabile e crescente insicurezza. Nessuno come lui ha cancellato diritti acquisiti nel corso di una vita in nome di un becero giovanilismo ed è chiaro che non lo sa: chi ha ragione non invecchia. E’ stata la precarietà condotta alle estreme conseguenze la molla che ha indotto Carmine Cerbera al suicidio, questo è certo, ma non meno certo è che a togliere ogni certezza ai docenti precari è stato Profumo. Farfugli se vuole la sua impossibile difesa, il ministro. Uno più uno fa due e le conclusioni può tirarle chiunque. 

Uscito su “Fuoriregistro” l’8 novembre 2012

Read Full Post »

L’idea l’hanno avuto i ragazzi del ME*TI che sono veramente eccezionali. Non a caso la tessera number one ha l’onore di averla un vecchio come me. Già ne parla Radio Città del Capo e la pagina internet del “manifesto del cambiamento” di Ikea è ormai piena zeppa di commenti di protesta contro il comportamento della multinazionale dell’arredamento posta a Piacenza di fronte alle proteste dei lavoratori. Partita da ieri con il consiglio “non sfruttare i lavoratori”, l’idea si va diffondendo a macchia d’olio sui social network e monopolizza l’hashtag spazioalcambiamento su twitter. Signori che leggete, date una mano. Io ho scritto il mio messaggio: “Ikea torna a studiare, qui da noi gli operai l’hanno imparato, l’obbedienza non è una virtù, ma la più subdola delle tentazioni“. Mi piace particolarmente perché questo è Don Milani, un rivoluzionario con la tonaca! Per chiunque c’è libero un poligono che attende una frase di protesta. Tutto è iniziate col rifiuto del consorzio Cgs, che lavora per Ikea, di reintegrare 12 operai iscritti al SinCobas che avevano contestato le diversità di trattamento tra gli operai. Di fronte ai blocchi del magazzino, la polizia è intervenuta con inaccettabile violenza  e Ikea, non contenta, ha avviato la procedura di cassaintegrazione per 107 dei suoi lavoratori. Un’azione temporanea, racconta la multinazionale, che venerdì 9 novembre ha scelto di incontrare i sindacati. Quelli confederali, s’intende, perché coi sindacati di base non si tratta. Ecco un esempio della celebrata socialdemocrazia scandinava…

Read Full Post »

Stupisce che Marchionne stupisca ancora. Lo stupore si fa poi fastidio, se chi si stupisce si ferma all’indignazione e cancella così, per i corpi sociali e la dinamica della storia, il principio di reciproca influenza per cui ogni azione reale provoca una reazione uguale e contraria. “Siamo alla rappresaglia“, titola la stampa, e lì si ferma senza domandarsi com’è che non vedi cortei spontanei di protesta e non senti organizzazioni sindacali che denunciano per risposta l’autoregolamentazione dello sciopero e gli accordi sottoscritti in tempo di pace. Alle ripetute azioni d’una guerra di annientamento scatenata contro la classe lavoratrice, i lavoratori non rispondono con la guerra. E’ soprattutto questo che dovrebbe stupirci e, ancor più, interrogare le coscienze sul funzionamento effettivo dello Stato e sul rapporto reale che c’è tra legalità e giustizia sociale.
Si dice che la storia non si ripete e sarà vero, non si scrive, però, che essa si svolge su percorsi dati e schemi preesistenti in cui agiscono i suoi protagonisti. La lotta di classe è un dato fisso, è il contesto uguale nei secoli con cui fanno i conti i protagonisti; a mutare sono le scelte che decidono i risultati dello scontro, sicché, comunque vada, il dato costante è il conflitto. Chi conosce l’asprezza della lotta di classe e la storia del movimento operaio sa che Marchionne segue il solco d’una tradizione e non si meraviglia per le sue scelte. Sa che i diritti nascono storicamente da lotte condotte contro un quadro di “legalità” che ha sempre garantito i ceti dominanti con leggi repressive fatte apposta per colpire coloro che lottavano per la giustizia sociale.
La ritorsione è uno dei volti di una repressione unilaterale che è regola per uno Stato che non solo riconosce come prioritari i diritti del padronato rispetto a quelli del lavoro, ma è lì per favorire, approvare e se necessario imporre con la forza la barbarie del “libero” mercato. Qualora ce ne fosse ancora bisogno, Marchionne dimostra coi fatti che per i padroni non ci sono tribunali, giudici e sentenze. Sui lavoratori che non rispettano il verdetto del magistrato lo Stato esercita prontamente la forza che è suo esclusivo monopolio. Per i padroni questo non accade. La storia è piena zeppa di lavoratori incarcerati o uccisi nelle piazze. Nessuno ricorda scioperi terminati coi padroni arrestati o uccisi in piazza dalle cosiddette forze dell’ordine. Della ritorsione di Marchionne si stupisce solo chi fa il gioco delle tre carte e confonde le idee, perché non vuole che la gente sappia e capisca. In questo senso si spiega bene e assume, anzi, significati chiaramente classisti l’attacco contemporaneo che il padronato porta agli operai nelle fabbriche e ai loro figli nella scuola pubblica. Un attacco in cui la Fiat di Agnelli e di Marchionne, alla testa dello schieramento padronale, non solo è in prima linea ma parte da posizioni di forza, poiché ha collocato i suoi uomini, che nessun lavoratore ha eletto, direttamente nei banchi del governo. Sono i tecnici alla Profumo, che sottraggono soldi alla scuola pubblica per passarli a quella privata e togliere ai figli dei lavoratori ogni possibilità di capire ciò che accade attorno a loro.
Così stando le cose, è chiaro che nella “società della conoscenza”, scuola e università sono il terreno avanzato dello scontro di classe. I docenti vanno colpiti, la scuola disarticolata e la ricerca messa sotto controllo, perché nessuno deve spiegare ai giovani che sono stati rapinati del loro diritto alla vita, non devono sapere nulla di Crispi e della Banca Romana, degli stati d’assedio che non c’erano nello Statuto Albertino ma portarono in piazza la cavalleria contro la povera gente, di Mazzini, “padre della patria”, morto esule a Firenze sotto falso nome, ancora e sempre “condannato a morte in contumacia”, di Garibaldi, “eroe dei due mondi”, tenuto sotto stretta sorveglianza da nugoli di spie e confidenti, delle crisi del capitale pagate periodicamente con la disoccupazione e la fame dei lavoratori, delle leggi speciali che ignorano il dettato costituzionale, dei soldi dei lavoratori utilizzati per armare e pagare gli uomini in divisa che po li hanno sempre massacrati, da Milano nel 1898, a Reggio Emilia nel 1960, ad Avola nel 1968 e via così, anno dopo anno, fino a Genova nel 2001. Non devono sapere, per tornare alla Fiat, del gerarca Valletta che perseguitò i lavoratori prima coi fascisti e poi con la Repubblica. Non devono sapere, perché ai padroni come Marchionne non serve gente che pensa, ma servi che chinano la testa. La scuola, se funziona, produce intelligenze critiche, cittadini non servi. E il cittadino non subisce. Reagisce. E’ legge fisica.

Uscito su “Fuoriregistro” l’1 novembre del 2012

Read Full Post »