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Archive for agosto 2012

In testa il vuoto, quasi nulla in tasca – pochi rubli, consigliavano tutti – e gli appunti sul foglio ormai confusi, Carlo strinse indice e pollice della sinistra attorno alla radice del naso, sull’angolo interno degli occhi serrati con forza e sospirò. Un rifiuto del mondo, una sorta di repulsione che si faceva malessere. Aveva imparato a conoscere così bene la strana sensazione, che non si agitava più, pensando a chissà quale pericoloso malessere.
Nelle prime ombre che si allungavano sulla riva del Canale Gribaedova, il via via di turisti e i lampi di cellulari e macchine fotografiche gli parevano insopportabili e facevano il paio coi nugoli di ragazzi, l’incredibile folla di giovani che non lo convincevano da quando aveva messo piede in città. Non avrebbe saputo dire il perché, ma gli riusciva incomprensibile e un po’ lo irritava quel loro veloce andirivieni tra il Museo Russo, il parco Michailovksij e la grande Prospettiva Nevskyi, che in fondo alla via incrociava il canale a perpendicolo e mandava fin lì il rombo di auto potenti lanciate a tutta velocità tra un semaforo e l’altro.
Ci sono giovani ovunque, s’era detto compiaciuto, al primo vederli, ma era stato davvero un istante. Qualcosa gli aveva poi dato fastidio. Giovani ovunque, certo, ma ovunque troppo uguali a se stessi e troppo simili a tutti i giovani delle grandi metropoli occidentali, infilati in larghe t-shirt e fasciati da jeans attillati e affusolati verso il basso, fin dove la griffe italiana delle scarpe costose dichiarava una ricchezza impersonale, acritica e del tutto incurante dell’eleganza.
Carlo era lì a ripetersi la cantilena: Smettila di essere così critico, dai. Non sei invecchiato tanto da non capire che non si tratta della città e nemmeno della sua gente. E’ qualcosa che ti sta dentro.
Se lo diceva e ripeteva, ma non bastava. Continuava a non convincerlo – e addirittura si rifiutava di vederlo – il contrasto feroce tra i passi veloci e indifferenti di ragazzi e ragazze che filavano via spediti come trottole e quelli lenti, forse circospetti, di vecchi che russi non erano, perché non avevano alcuna fretta, mentre gli passavano accanto con lo sguardo opaco, presi nei loro strani colloqui – parevano trattative a un mercato bovino – fatti di mani aperte a indicare cifre, più che di parole; ognuno con una ragazza in minigonna scelta a casaccio, bionda come le altre, alta e slanciata come le altre, tutte più o meno uguali, poggiate a parapetti e ringhiere, spalle al Canale, che ripetevano una cantilena musicale, anche quella uguale alle cento cantilene delle altre, come uguali erano il suono della risata falsa che, chissà, forse salutava un accordo raggiunto, pensava Carlo, e il gridolino venato di sdegno che sembrava rifiutare un’offerta scandalosamente bassa o una qualche irricevibile richiesta.
I compagni di viaggio entusiasti di quella ammaliante serata a San Pietroburgo, erano presi da altro, in fondo la città era un incanto, ma Carlo, la fronte segnata dalla linea profonda delle rughe, gli occhi aggrottati per un fastidio dell’animo che il viso non sapeva nascondere, non capiva quale meccanismo, per lui misterioso, agisse nelle loro teste decise a non pensare, selezionando da un insieme complicato ciò che piaceva e non disturbava. Erano giorni ormai che la sera gliele indicava, mentre da invisibili pertugi degli edifici settecenteschi le vecchine serali sbucavano coi mazzolini di fiori di campo, s’appostavano davanti ai locali più noti e frequentati, ai crocicchi più affollati, o prendevano a camminare passo passo, provando a vender fiori a coppiette infastidite, a giovani indifferenti e a turisti noncuranti, instancabili fino alla fermata Majakovskaya della metro sempre gremita. Lì si fermavano stanche, le vecchie signore, sotto gli occhi stupiti di Vladimir Majakovskij, e col sorriso gentile che chiedeva solidarietà offrivano fiori in cambio di qualche rublo.

La Russia, terra di rivoluzioni, pensava Carlo, non ascolta più il cantore d’un sogno, che s’è fatto incubo. E chissà di dove affioravano i versi lontani: “Siamo uguali compagni…, proletari di corpo e di spirito. Soltanto uniti abbelliremo l’universo”. Parlava tra sé Carlo, o forse no, forse pensava di farlo, ma in realtà declamava, perché subito una voce irritata lo rimproverava. Una voce di dentro, credeva, e si meravigliava che due Carlo stessero lì a litigare davanti agli smalti e alle piastrelle di vetro e ceramica variopinta della chiesa del Salvatore sul Sangue Versato, ma anche in questo sbagliava e si capiva: era confuso. Frutto di quella confusione era forse la sensazione che a parlare fosse lui, mentre probabilmente gli parlava un compagno di viaggio o, a pensarci bene, una donna. La sorella, un’amica, la moglie? Chi fosse contava poco. Aveva i toni sfuggenti che usavano con lui per dirgli, scherzando, che non lo sopportavano più con le sue malinconie, col cenno petulante alla rivoluzione, con i versi immancabili d’una vecchia poesia e la politica, “la maledetta politica che Carlo non lascia mai a casa e – ci si può giurare – prima o poi diventerà memoria di un suo ignoto sovversivo, passato di qua senza lasciare altra traccia di sé, se non quella traumatica che a lui tormenta i sonni e a noi rovina i viaggi”.
Da anni ormai, ogni occasione era buona per ricordare con tono inizialmente solenne, “lo storico percorso turistico targato Carlo, con affannosa galoppata parigina alla ricerca della celebre Rue de Clignancourt” e giungere poi, con crescendo ironico, al “chilometro e mezzo di edifici insignificanti nel diciottesimo arrondissement, tra Rue Championnet e Boulevard de Rochechouart, che – per chi non lo sapesse – ai primi del Novecento accoglieva una banda di italiani fuggiaschi che Crispi e Giolitti intendevano spedire al fresco”. A questo punto, la “voce narrante” poteva commuoversi per gli “sventurati turisti costretti a sorbirsi strampalate considerazioni sull’epopea sovversiva, di cui, a perenne ricordo, la via conservava la vecchia e quasi illeggibile tabella d’un teatro alternativo, dio sa perché sopravvissuta, sull’ingresso di un edificio trasformato in supermercato, e la folla d’arabi malfidati, sfuggiti – perché no? – a un Crispi di casa loro: dimostrazione vivente che luoghi e cose conservano il filo della continuità tra storia e vita, passato e presente”.
Carlo sentiva di non avere più nulla da opporre all’angoscia, ma l’incantevole chiesa del Salvatore sul Sangue Versato lo rincuorò. Benché fosse molto tardi, c’era ancora luce e lo sguardo si fermò sul punto in cui si conserva un tratto di ringhiera divelta, sul lato che guarda al canale Gribaedova, dove una bomba aveva ucciso Alessandro II. Saprei raccontarvi la storia di quel 13 marzo del 1881 come nessuna guida può fare – pensò, guardando i compagni di viaggio chiusi a cerchio attorno a sua moglie che leggeva da un libriccino la terribile fine dello zar. Quanto più oscuro, ambiguo e affascinante sarebbe stato il racconto, se avesse chiamato in causa il suo nichilista, si disse Carlo, ma preferì tacere. Dopo la faccenda di Rue di Clignancourt, non aveva alcuna voglia di aggiungere un capitolo nuovo al percorso  turistico targato Carlo. Quale che fosse, non aveva dubbi: la verità che nascondeva il suo nichilista non interessava nessuno e, d’altra parte, il gruppo già s’era disperso attorno a figuranti che nascondevano la fatica di vivere sotto gli abiti sfarzosi dell’antica nobiltà russa. La disfatta di chi aveva creduto di uccidere l’ingiustizia sociale, uccidendo lo zar, non poteva essere più evidente. Forse di lì nascevano la tristezza di Carlo e il suo invincibile malessere; dalla percezione di quella disfatta. Basta smettere di guardarla con gli occhi del turista – si consolò Carlo – e San Pietroburgo, ostaggio del libero mercato, città d’imperi finiti nel sangue e rivoluzioni soffocate dalle loro stesse contraddizioni, diventa un tragico simbolo dell’inutile ferocia della storia.
Ma a che serve farlo? – si chiese Carlo, quasi per legittima difesa. Perché non seguire la via dei suoi compagni di viaggio? Per loro, San Pietroburgo era lì dove li portava la guida e non era detto che avessero torto; San Pietroburgo era ora nelle stupende maioliche variopinte della chiesa, come era stata prima nell’eleganza dei vestiboli in pietra delle stazioni della metro, qui con l’azzurro del mare, lì col rosso dedicato a Puskin, tra falci incrociate a martelli e il bassorilievo in bronzo dell’Aurora, l’incrociatore che esplose il primo colpo della rivoluzione. Occorreva fermarsi lì, senza porsi domande su quella sorta di minuscola galera che imprigionava le ferroviere immobili giù, in fondo alle scale mobili, per tutto il tempo del loro lungo turno. Fermarsi sempre un attimo prima di interrogarsi. Sentire, sì, il fascino della stupenda Università Statale sull’isola Vasil’ievskij, coi suoi muri di mattoni rossi e gli innumerevoli balconi incorniciati di legno dipinto in bianco, ma difendersi dalle osservazioni acute di Natascia e dalle mille tentazioni che nascevano dai suoi occhi azzurri, limpidi e profondi, dai suoi riccioli biondi, dalla sua camicia colorata e civettuola che involontariamente, ma ostinatamente si sbottonava sul seno florido. Fermarsi lì e non darle ascolto, mentre ti diceva, in un italiano ricco e musicale, che lei faceva la guida per arrotondare il magro stipendio di docente universitaria e procurare tutto quel che serve alla “bimba mia”. Fermarsi lì, senza provare a capire chi la spuntasse in lei tra rimpianto e disprezzo, quando ti parlava di una condizione generalizzata d’ingiustizia e di cancellazione di diritti. Sbarrare la via alla sua devastante osservazione: ho vissuto a lungo in Italia per ragioni di studio e mi dispiace dirlo, ma credo sia così, stanno sperimentando su di noi quello che poi faranno anche a voi.

Davanti al Salvatore del sangue versato, ciò che contava davvero era l’anomalo e affascinante profilo architettonico della cattedrale, l’unica in città a conservare il disegno delle chiese del medio evo russo, armonicamente unito alle linee tipiche delle basiliche del Seicento. Perché, tra uomini e cose, giunse a chiedersi Carlo, pur di convincere se stesso, non dovrebbe essere legittimo fermarsi sull’incanto delle cose, quando esse sono arte? Anche così ci si occupa degli uomini, convenne, ma la tentazione improvvisa di stringere l’indice e il pollice della sinistra attorno alla radice del naso per aiutare gli occhi a stare chiusi, gli ripropose un rifiuto doloroso. Freddo e deciso non si lasciò tentare. Appallottolò il foglio dei suoi appunti, lo mise in tasca, poi si poggiò alla fredda ringhiera del canale. A Barcellona, ricordò, nulla gli aveva parlato di Catalogna, più che le tracce d’una radio repubblicana e d’una famiglia d’italiani che aveva lottato e vissuto tra l’Avinguda Diagonal e Carrer de Còrsega durante la guerra civile. A Parigi, oltre il velo dei monumenti e l’industria del turismo, la Rue de Clignancourt che tutti avevano disprezzato, l’aveva aiutato a rompere il velo dell’ipocrisia occidentale, gli aveva insegnato quanto precaria sia l’integrazione e gli era parso evidente: ci sono strade che ereditano drammi e in quella via, dopo gli italiani, non a caso c’erano venuti gli arabi. Lì, ancora e forse sempre lì.
Basta, si disse, anche se sapeva bene di essere venuto a Pietroburgo per parlare ancora una volta ai suoi fantasmi. L’ultima volta forse, s’era detto, se è vero com’è vero che l’età e la salute non hanno certo rispetto delle stupide leggi di chi ci governa e se si vive di più, spesso si vive male. Non avrebbe chiesto al Salvatore del sangue versato di parlargli dell’attentato. Ci credeva ancora ai miracoli di quel dialogo, era certo che lì avrebbe potuto sapere com’era andata, ma per queste cose si viaggia da soli, come da soli, in fondo, si vive. Solo lui aveva quel dubbio e molto probabilmente solo a lui interessava sapere se Giovanni Bergamasco era lì il giorno dell’attentato, Giovanni, figlio di Carlo, il napoletano fotografo di corte che tante volte aveva fissato sulle sue geniali lastre lo zar che lì era poi caduto, su quella riva ormai muta. C’entrava davvero, Giovanni, il presunto nichilista che la vita aveva poi portato in Italia? Era lì il giornalista brillante e poliglotta, lo studioso di botanica, l’amico poi nemico di Mussolini, il rivoluzionario che, per uno dei misteriosi paradossi della storia, i rivoluzionari bolscevichi avevano espropriato e i reazionari fascisti perseguitato per tanta parte della sua lunga vita? No. Non avrebbe cercato i due palazzi che Carlo, il giramondo e ricchissimo napoletano, aveva invano acquistato in quella che, con incerta grafia le polizie di mezzo mondo definivano “la centralissima via Moskovskaya”. A Carlo non interessavano più i due palazzi ereditati da Giovanni dopo la fuga a Napoli. In quei giorni faticosi, San Pietroburgo gli aveva narrato già molto e ora sapeva: vi si erano spenti i grandi e terribili sogni del Novecento e il secolo nuovo vi sperimentava un incubo. Che poteva aggiungere, se mai sopravvissuto alla fine degli zar, alla rivoluzione, all’assedio nazista e al crollo dell’Unione Sovietica, lo splendore dei palazzi di Bergamasco? Di splendore ne aveva visto abbastanza nel palazzo del principe Jusupovskij; ciò che non aveva ancora trovato era chi sapesse dirgli dove abitavano i poveri, in una città che pareva tutta palazzi nobiliari. Che città era mai quella, si domandava, fatta di sfruttatori senza sfruttati?
Carlo pensò che in fondo questo è la storia: parla dei vincitori e tace dei vinti. Forse un altro Carlo, l’intraprendente fotografo di corte, una risposta l’avrebbe avuta. Lui che a San Pietroburgo c’era venuto da emigrante; lui che si era poi arricchito con le sue foto, tutte sparite con la rivoluzione, che aveva visto fuggire per sempre un figlio rivoluzionario e un altro l’aveva perso quando s’era messo coi bolscevichi per la rivoluzione, una risposta, lui, poteva averla. E chissà, un’altra non l’avrebbe avuta Giovanni, ricondotto lì, davanti a quella ringhiera divelta di cui conosceva il segreto nascosto. Giovanni avrebbe forse potuto spiegargli ciò che nessuno tranne lui sapeva. Ma contava davvero saperlo? E Carlo, poi, aveva davvero ancora voglia di capire?

Quali che fossero le risposte, di una cosa ormai s’era convinto, lo strano viaggiatore: a guardare le cose dal punto di vista della povera gente, che negli itinerari turistici non aveva casa in città, benché ci vivesse, San Pietroburgo era un enigma e i conti non tornavano. Certo, coi bolscevichi contadini, metalmeccanici, professori non avevano diritto di parola, ma casa, lavoro, scuola e medicine ce l’avevano tutti. Ora che, invece, a dar retta a giornali e televisioni, era arrivata la democrazia, non avevano certezza d’un salario, d’una medicina, d’un posto a scuola o d’una laurea, se avevano testa per studiare. Ecco, un metalmeccanico forse avrebbe saputo sciogliere questo rebus e l’avrebbe data una risposta alla domanda che si portava dentro: è possibile che dove c’è libertà ci debbano essere per forza le vecchiette che vendono fiori per fame la sera e invece, se la fame non c’è, se c’è uno Stato che pensa a curarla, la povera gente, e fa studiare tutti, anche chi non ha un centesimo, non c’è libertà di parola e d’opinione? Bergamasco, rivoluzionario, sognatore, combattente, perseguitato politico cancellato dalla storia dopo aver sognato di cancellare i padroni, di queste cose capiva. Lui, ch’era nato a Pietroburgo e sapeva di zar e di bolscevichi, di democrazia liberale e di fascisti, lui che s’era trovato sempre a dover scappare e mille volte era finito in galera, in tutte le stagioni della storia, lui che aveva attraversato per decenni la tragedia della vita e s’era spento sulle montagne dell’Irpinia confinato politico a ottant’anni, lui sì che poteva trovare risposte convincenti, pensò Carlo, ostinato e convinto. Lui avrebbe sciolto quel dannato rebus che era in fondo San Pietroburgo. Certo che le avrebbe trovate, le risposte, si disse, ma non c’era più tempo.
Il gruppo premeva per la cena. Anche questa è cultura, pensò Carlo; bisognerebbe saper mettere insieme la cultura d’una cena a base di pietanze russe e i miei fantasmi parlanti. Assieme, forse, troverebbero la via di mezzo tra il Palazzo d’inverno e la catapecchia d’un contadino, la via di mezzo tra la strage dei Romanov e i gulag, tra il realismo socialista, che dietro la giustizia sociale celava la repressione, e l’agile, immediata, anonima e feroce ingiustizia, che pesa sulla libertà del mercato di cui si nutrono Gucci, Armani, Intimissimi e Calzedonia, ai quali di certo molti tra i suoi amici e le sue amiche avrebbero dedicato le rituali ore di shopping, nel giorno della partenza, sulla Nevsky Prospekt, nell’inferno rombante di Lamborghini, Mercedes e Ferrari.
Dopo essersi costretto a non stringere di nuovo tra pollice e indice la radice del naso, Carlo si avviò. S’era appena mosso, che sentì qualcuno parlargli. Non capì di dove venisse la voce, ma le parole gli giunsero chiare: non puoi pensare di cancellare i prepotenti dal tritacarne della storia, ma puoi fare di tutto per non essere dalla loro parte, per giungere a spezzarti, piuttosto che a piegarti…
Per la prima volta in quella terribile serata Carlo sorrise. Quelle parole le conosceva: le aveva scritte Giovanni Bergamasco alle figlie il giorno in cui aveva deciso di tagliarsi le vene. Non era la risposta alle sue mille domande, ma non c’era dubbio: il suo sovversivo non era mancato all’appuntamento.

Uscito su “Fuoriregistro” il 23 agosto 2012

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L’esaltazione dei “giovani docenti” da assumere come rimedio all’inefficienza biologica dei vecchi ha le tinte fosche di un occulto razzismo. Forse per questo ho ascoltato con rabbia impotente le parole che desidero condividere con chi avrà voglia di leggere e ascoltare. E’ un messaggio che non giungerà certo ai “tecnici scienziati politici” cui sono rivolte, ma questo è il male minore. Monti, Profumo e compagni sono figli di una sorta di impalpabile sospensione della democrazia, realizata grazie a un ex comunista, ormai sacerdote del neoliberismo, e ad un patto scellerato tra maggioranza e opposizione, apertamente fuse in maggiominoranza nel tradimento del mandato elettorale. Condividendole, dirò fino in fondo ciò che penso: credo che un paese – e scrivo apposta con la minuscola – un paese che non sente la gravità dei colpi inferti alla scuola, estremo baluardo di civiltà contro la barbarie che incombe, meriti il peggio. Sì, credo proprio che meriti il peggio e lo scrivo a futura memoria. Credo anche che l’assenza dei mille movimenti che rappresentano poco più di se stessi dal terreno su cui i precari della scuola lottano da anni assuma, a questo punto, la dimensione sciagurata della diserzione o peggio ancora, della complicità. Attorno agli insegnanti cacciati dalla scuola con motivazioni che assumono toni da propaganda totalitaria, si sarebbe dovuto far quadrato subito. E’ accaduto il contrario, i docenti precari, come del resto gli studenti, hanno portato in ogni lotta la loro bandiera, ma sono stati sempre lasciati soli. Troppo borghesi, forse, per i rivoluzionarissimi che attendono le barricate per mostrare chi sono. Vorrei sbagliarmi, ma temo che quella dei docenti sia una solitudine che pagheremo tutti. Battuta la scuola, ogni partita sarà persa. Un popolo di ignoranti non solo si lascia ridurre in servitù, ma ringrazia i padroni.
Il messaggio di Marcella Raiola merita una rispettosa lettura e un attento ascolto. Chi è interessato, clicchi e leggerà:

Fuoriregistro” 29 agosto 2012

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Chi può lo avverta, il dottor Clini: le notizie che riguardano il clima sono da choc: “Addio al Polo”, titola oggi “Affari Italiani”. “Entro dieci anni scomparirà il ghiaccio”. Secondo le ultime stime l’Artico potrebbe essere definitivamente sgombero dai ghiacci nel periodo estivo alla fine del XXI secolo, ma estati senza ghiaccio potrebbero verificarsi già entro i prossimi dieci anni”. Non sono chiacchiere da bar. Si tratta di scienziati, quelli veri, non di economisti alla Monti, che si sono inciuchiti, correndo appresso alle pazzie neoliberiste di Friedrich August von Hayek.

Dei poli, del clima, del disastro incombente Clini non sa, o finge di non sapere, com’è accaduto con Taranto, finché un magistrato non l’ha scosso dal suo lungo sonno; non muove un dito, non dice una parola, non prende iniziative politiche, non coinvolge il sedicente governo di cui fa parte. Nulla. A fine mese prende lo stipendio che gli pagano i lavoratori italiani che sta massacrando insieme a Fornero e soci, e se ne sta in panciolle, felice e contento, come se nulla fosse. Chi può, lo avverta: la questione ambientale non c’entra nulla con le bande di speculatori che mettono mano alla tasca e investono per far profitti senza che nessuno gli rompa le scatole con l’inquinamento. E’ precisamente l’opposto.

Chi può, chieda a Clini se lui e il governo di cui fa parte si sono dati una politica ambientale o aspettano che gliela detti l’Ilva. Chi può, per carità, si complimenti con Clini e Monti. In dieci mesi, grazie a Bersani, Casini, Alfano e Napolitano, sono riusciti là dove Berlusconi aveva fallito: hanno finalmente creato il governo dell’azienda Italia che sta sfasciando la Repubblica: aria, acqua, terra e vita umana.

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Così titola stamattina “Fuoriregistro” e mi fa piacere provare a diffondere la sua nota sullo “Spazio aperto”. C’è un mondo che lotta, del quale i galantuomini dell’informazione che conta, o ben pagati, o ideologicamente schierati, non danno conto. Facciamolo noi, come possiamo, seguendo liberi percorsi sul web:

“A dar retta agli organi ufficiali e ufficiosi del Minculpop, il mondo della scuola registra assunzioni, innovazioni e un’attiva modernizzazione. Nessuno, per ministeriale che sia, parla di investimenti. L’economia prima dell’uomo, come vuole la filosofia della storia che guida l’azione politica dei tecnocrati. La parola d’ordine è una, categorica e imperativa: riforme a costo zero. Una formula ambigua che celebra il trionfo d’un delirio e mette un’enorme foglia di fico sui costi umani di una equazione impossibile e non verificata per cui uomo equivale a zero.
Noi, che siamo “fuoriregistro” per definizione e fuori del coro per vocazione, lasciamo volentieri ad altri il ruolo di grancassa del Ministero e registriamo le rare, ma significative voci del dissenso…”

Vi interessa leggere il seguito? Ok. Cliccate su puntini

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 Il prestigioso Istituto Italiano per gli Studi Filosofici chiede i battenti perché non ci sono soldi per aiutarlo. Non a caso, il Capo dello Stato, sempre pronto a invitare la gente alla moderazione, si batte la mano sul petto per ricordarci che  “tutti dobbiamo fare sacrifici”. Non ho dubbi. La Lega farebbe bene a star zitta: critica Roma e poi ci mangia, ma se i calcoli sono esatti, è difficile dare torto all’eurodeputato Salvini, quando sostiene che è giunta l’ora di chiudere il Quirinale: A quanto pare, Napolitano e la sua pletorica troupe di sfasciacostituzione ci costerebbero qualcosa come 624 mila € al giorno. O, se preferite 29 mila euro all’ora!

Non ci sono parole, anche perché il conto è davvero largamente incompleto. Napolitano è parlamentare dal 1953! Sessant’anni. C’è qualcuno in grado di calcolare quanto diavolo l’abbiamo pagato questo nobiluomo per vederlo giungere all’opulenta vecchiaia e non farsi scrupolo di imbavagliare – a nostre spese, s’intende – la Procura di Palermo, rea, udite, udite, di avere intercettato un imputato di falsa testimonianza, che aveva libero accesso al suo telefono?

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In archivio, chi scava per capire qualcosa della storia della Repubblica, trova chiare tracce del “Gruppo Gramsci”. Scopre che il comunista Guido Piegari, era un’intelligenza politica fine che puntò il dito su Giorgio Amendola accusando: hai fatto del partito comunista qui da noi una macchina che raccoglie voti. Non aveva torto e meglio sarebbe stato ascoltarlo, ma Amendola brigò a Roma e Piegari fu cancellato dalla storia. Al giovanissimo socialista Gaetano Arfè, forse perché era stato un partigiano combattente, si riservava una cura particolare e non a caso dall’Archivio di Stato di Napoli fu trasferito d’ufficio a quello di Firenze e poi finì schedato dalla CIA in quanto direttore del sovversivo “Avanti!”. Di Gerardo Marotta si sente che sin da quei tempi era spirito profondamente libero e si capisce anche bene che, alla resa dei conti, il caso meno preoccupante era quello di Giorgio Napolitano, aò quale invano zelanti wikipediani inventano un passato da cuor di leone, che “durante l’occupazione tedesca con il gruppo formatosi all’interno del GUF prende parte alle azioni della Resistenza in Campania”. La verità è che l’antifascismo di Napolitano non è mai uscito dalla porta di casa e, in quanto alla CIA, l’ha sempre ritenuto un amico cui concedere visti e passaporti. Napolitano ben si guardò dal muovere un dito contro i tedeschi, così come non aprì bocca quando Amendola pose fine all’esperienza del “Gruppo Gramsci” e gli ingiunse di separare la sua via da quella di Piegari. Era in gioco la carriera.

Di tutto ciò si conservano ingiallite carte d’archivio, ostinati silenzi di rari sopravvissuti e l’amicizia che, nonostante tutto, ha legato per una vita Napolitano a Marotta, che nessuno, però, ha nominato senatore a vita, benché abbia illustrato la patria ben più che Monti e Napolitano.
Oggi il prestigioso “Istituto Italiano per gli Studi Filosofici”, che Marotta ha il merito incancellabile di aver creato, e con l’Istituto Napoli e i napoletani, sventurati e colpevoli, che se stanno a guardare, perdono i 300.000, preziosi volumi della biblioteca. Napolitano, Presidente della Repubblica, non muove un dito per salvarli. Alla collana dei silenzi del mancato partigiano, che non fiatò su Piegari, che silenziosamente si acconciò all’invasione dell’Ungheria e, di silenzio in silenzio, oggi prova a silenziare la Procura di Palermo, si unisce anche questa perla.
Di che meravigliarsi? Politica e cultura hanno divorziato da ormai molto tempo e, quel ch’è peggio,  politicanti zotici impazzano nell’accademia, che esprime un governo come quello Monti, sicché il silenzio s’è fatto ormai assordante.
Ho vissuto di persona la vicenda sconcia dei dodicimila preziosi volumi donati da Gaetano Arfè all’Università Federico II. Ricordo bene la sua amarezza, quando fu costretto a  recuperarli e smistarli a Firenze perché il “tempio della cultura” partenopea non intendeva tirar fuori un centesimo per pagare un bibliotecario che catalogasse i volumi. Sin da allora sospettai che dietro il motivo economico ci fosse altro. Incuria, forse, disinteresse probabilmente, ignoranza soprattutto, ma un’ignoranza cosciente di sé e perciò paurosa, intimorita da ogni strumento di crescita popolare. Marotta me ne dà conferma: l’Istituto in questo nostro sventurato Paese incute timore. I libri suoi perciò vanno impacchettati e tolti rapidamente dalla circolazione. Un Paese che legge non si rassegna. Scende in piazza.

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Quando, in nome della libertà, il giovane Jan Palach si consegnò alla storia dei martiri, dandosi alle fiamme in Piazza San Venceslao, nella Praga insofferente al giogo sovietico, come una sola voce  la stampa dell’Occidente democratico e libero si scatenò in un’apologia dell’eroico suicida. Nel silenzio della stampa del mondo sovietico, ovunque strade, città e paesi presero nome da lui e tra i cattolici non mancarono i teologi che opportunamente lessero nel pensiero di dio la favorevole disposizione al suicidio, quando un uomo vi giunge in nome di un bene supremo quanto la vita. Mai morte atroce, in realtà, sembrò più utile ai cantori dell’eden capitalista e persino nei petti critici dei giovani che, qui da noi, prendevano le distanze dall’Unione Sovietica, senza lasciarsi incantare dalle sirene del libero mercato, un terremoto d’emozioni offuscò per un istante la consapevolezza dell’inganno. Me ne ricordo tanti vacillare e quanta strada avrebbe poi fatto la menzogna delle patrie del diritto e della superiorità dell’antico continente, l’ho poi visto negli anni a venire, di fronte alle facili conversioni, ai repentini mutamenti, alle carriere abbracciate con i proventi e gli onori che avevamo profondamente disprezzato. Oggi, tra le file della nostra stampa di regime, nei corridoi ovattati dei potenti network televisioni, che ogni giorno ingannano lettori e ascoltatori, i nomi di comunisti d’accatto, rivoluzionari da burletta ed estremisti sdegnosi di agi borghesi, fanno bella mostra di sé nell’organigramma che conta.

In questi giorni, in nome del diritto al lavoro e alla dignità, che sono alla radice di ogni libertà, s’è dato alle fiamme davanti al Parlamento Angelo Di Carlo. Rispondendo al comando di un macellaio di gran lunga più feroce dei peggiori  dittatori, quel capitalismo che non firma le sue stragi, ma ha perso il conto di eccidi, genocidi ed etnocidi, gli opulenti libertari del ‘69, hanno saputo tacere. S’è rovesciato il quadro: ha praticamente taciuto la nostra stampa. Detto e non detto. Non era facile, davvero, ma non mi meraviglia. Stupirei me stesso, invece, questo sì, se me ne stessi zitto anch’io, ma non accadrà. No, io ve lo dirò chiaramente: voi, compagni d’un tempo, mi fate veramente schifo.

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 E’ cominciata così, con gli auguri di buone vacanze indirizzati dal Prof. Profumo al personale docente, a studenti, genitori, ricercatori, impiegati del personale amministrativo, tecnico e ausiliario e infine ai dirigenti. Al prof. Profumo è sfuggita evidentemente in questi mesi la portata, la qualità e lo spessore del dissenso che l’ha accompagnato passo dopo passo, errore dopo errore, imposizione dopo imposizione, in un’esperienza che si è segnalata soprattutto per i limiti culturali e l’autoritarismo.
Profumo stranamente non ha sentito il disagio insopportabile e l’inimicizia profonda di buona parte del mondo a cui ha rivolto gli auguri. Non così avventata è stata, andando in vacanza, la sua collega Fornero, che non si è azzardata a inviare i suoi auguri a pensionati e lavoratori massacrati. Profumo, invece sì. Dopo aver abbandonato al loro destino studenti, genitori e docenti, smantellando quel tanto che ancora si teneva in piedi della scuola e dell’università, il ministro ha avuto la malaccorta arroganza di firmare i suoi auguri di buone vacanze.
Val la pena leggere la sua lettera e poi dare dare uno sguardo alle reazioni che ha scatenato.

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Cari studenti, cari insegnanti e professori, cari ricercatori, cari genitori, cari impiegati del personale amministrativo, tecnico e ausiliario, cari dirigenti.

Prima della breve pausa estiva desidero condividere con voi alcune riflessioni su questi mesi passati, così densi di impegno e di duro lavoro quotidiano per la salute e l’ammodernamento del nostro sistema formativo e della ricerca, così come su quelli che ci aspettano alla ripresa autunnale, che saranno senz’altro intensi ma che possono nondimeno, se tutto il nostro sforzo sarà collettivo, rivelarsi perfino entusiasmanti.
In questi mesi ho infatti potuto toccare con mano la forza di questa grande comunità, il suo grande giacimento di risorse interiori fatte di generose disponibilità e di grandi slanci, la sua capacità di contribuire in modo determinante alla formazione dell’identità nazionale. Ricordo in particolare due momenti tra i tanti importanti: il centocinquantenario dell’unità nazionale, dove la scuola italiana ha mostrato la sua centralità anche nelle celebrazioni, e i tragici fatti dell’attentato alla scuola Falcone-Morvillo di Brindisi, dove la giovane vita di Melissa è stata innaturalmente stroncata e altre fra le sue compagne hanno sofferto e stanno ancora soffrendo. L’unità che il Paese ha potuto sperimentare in quei momenti costituisce al contempo un monito per i suoi detrattori e una ricchezza per tutti noi, anche se il mio pensiero non cessa di andare a chi ha visto la sua vita sconvolta in un luogo che dovrebbe essere di serenità e di impegno verso il futuro.
Ed è al futuro che voglio dunque invitarvi a guardare, oggi nel momento del riposo come domani in quello della ripresa. Tutto il ministero, a cominciare dai direttori e dai dirigenti impegnati negli uffici centrali e periferici, così come con eguale convinzione e sforzo tutti i funzionari e i lavoratori che collaborano con la nostra azione, è infatti dentro questo sforzo da molti mesi. Lo dimostra il successo avuto per esempio dalla modernizzazione delle procedure per la maturità, che per un momento hanno unito nell’orgoglio di essere italiani e parte del mondo della scuola centinaia di migliaia di persone. A tutti voi va la mia personale gratitudine ed un augurio di serene festività, oltre che il ringraziamento dell’Italia.
La ripresa autunnale non sarà del resto priva di sfide. Il nostro programma di azione nei prossimi mesi è quasi temerario, se si pensa alle fragilità del nostro Paese. Eppure sono certo che esso è alla nostra portata. Troppo spesso infatti le fragilità italiane sono invocate come alibi e non, invece, usate come stimolo a fare di più e con maggior impegno. E’ nella storia del nostro Paese sia la prima sia la seconda possibilità. Noi scegliamo la seconda!
Del resto, non partiamo da zero. Alcune azioni sono state già impostate. Per esempio, il nuovo sito Universitaly, che mette a disposizione le informazioni sempre aggiornate su tutti i percorsi di studio in Italia. Così come il sito Scuola in chiaro arricchito di nuove informazioni. Saranno anche disponibili dati sul mercato del lavoro ed in particolare sulla domanda delle aziende in modo da collegare meglio formazione e lavoro. Una accelerazione importante avrà anche il piano di innovazione digitale nella scuola, che vedrà anche un primo passo verso la costruzione di un ambiente assai ambizioso e innovativo: una “nuvola della scuola”. Un ambiente non solo di contenuti digitali ma anche di spazi personali e sociali.
Il processo di innovazione vedrà poi un deciso impulso alla “dematerializzazione” dei processi, eliminando progressivamente la carta e facilitando in questo modo le iscrizioni, che dal prossimo anno si faranno solo online, così come tutti i processi amministrativi, l’archiviazione e la gestione documentale delle scuole e di tutto il Ministero.
Lo possiamo progettare e fare perché i lavoratori pubblici sono una risorsa preziosa del paese e non certo un ramo secco da tagliare, capace – spesso in condizioni di lavoro assai difficili – di grande spirito di servizio e perfino di sacrificio. Per questo ho deciso di programmare molto presto un nuovo concorso per insegnanti: perché è giusto ed anzi necessario per la salute di tutto il sistema formativo che anche le generazioni più giovani possano dare il loro insostituibile ed originale apporto alla formazione dei futuri italiani. Una scelta che ha molto pesato nella mia decisione di sbloccare il sistema di reclutamento anche nel sistema universitario, con il varo qualche settimana fa dell’abilitazione nazionale. Insomma, stiamo lavorando ad una scuola e ad un sistema di formazione e di ricerca al passo con i tempi e capace di primeggiare in Europa e nel mondo, non solo come già accade per casi individuali ma anche per la complessiva forza stessa del sistema.
Si tratta di una sfida ardua ma alla nostra portata. Perché quando siamo capaci di unirci siamo davvero un grande paese. E allora nulla ci è precluso.
Buone ferie
Francesco Profumo”

Troppo, per non provocare risentite risposte. La prima, bella e pienamente condivisibile, è venuta dal precari della scuola. E non poteva mancare.

Signor Ministro,

I Precari della Scuola, docenti, amministrativi, ausiliari e anche studenti, visto che il loro iter educativo è stato vieppiù precarizzato dall'”epocale” controriforma basata sulla falcidie di posti di lavoro e materie portanti che è stata attuata dall’arrogante e incompetente Gelmini, da Ella molto ammirata, sono spiazzati e si sentono francamente insultati dal Suo impudente e incredibile “augurio” di buone vacanze, ulteriore contrassegno della siderale distanza esistente tra la percezione ministeriale, deamicisianamente stucchevole ed irenistica, della vita scolastica attuale e prefigurabile, e la percezione drammaticamente sofferta e conflittuale che della Scuola hanno i precari, che da anni ci lavorano con passione in condizioni estreme, e che stanno profondendo tutte le loro energie nello sforzo di scongiurare la deriva privatistica e la rifunzionalizzazione antidemocratica di una Istituzione cruciale per i destini del paese, che gli ultimi governi, del tutto indifferenti ai valori della cultura e incapaci di riconoscerne la peculiare “produttività”, hanno avuto l’ardire di degradare a “servizio”.
Controbattere alle Sue affermazioni allegramente parenetiche e alle Sue rosee prospettazioni significherebbe costringerLa ad uno sforzo troppo prolungato e articolato di analisi e di meditazione, se non altro in ragione del fatto che parlare di futuro come se il passato non concorresse a ispirarne e condizionarne la costruzione è già di per sé un assurdo storico e teoretico.
Ci limitiamo, perciò, alla sola intestazione della sua surreale letterina, che a noi suona già come una provocazione. Vorremmo infatti sapere a quali studenti Ella si rivolga quando dice “Cari studenti “: forse a quelli che l’hanno contestata in diverse sedi e che sono scesi in piazza cento volte, sfidando i Suoi manganelli, per protestare contro l’azzeramento del diritto allo studio? O a quelli che quest’anno si sono visti aumentare le tasse regionali del 120% e che Ella ha insultato e ferito, in Sicilia, pochi giorni fa, attribuendo esclusivamente a loro, in quanto “fuoricorso”, il tracollo di un’Università piagata dal baronato, vergognosamente depauperata, ridotta ad un laureificio seriale e vanificata, nella sua azione, da una società sempre meno disposta ad accogliere personale altamente qualificato, trovando più comodo e funzionale brutalizzare i lavoratori e farli morire precari?
E a quali insegnanti e professori si rivolge quando dice “Cari insegnanti e professori”, di grazia? A quelli di ruolo, che rischiano di tornare, a settembre, in una scuola violentata e balcanizzata dalla Legge “ex Aprea”, il cui passaggio proditorio abbiamo scongiurato con le nostre recentissime proteste, che si configura come strumento-cardine della dissoluzione di quell’unità d’Italia tanto celebrata a chiacchiere e che esautora i docenti, riducendoli a burattini ricattabili da presidi-padroni e da privati finanziatori abilitati anche ad espropriarli della dignità professionale, stabilendo quali argomenti trattare e quali no, allo scopo di creare non più cittadini consapevoli, ma perfette macchine da sfruttamento aziendale?
Oppure si rivolge a noi precari, decrepiti quarantenni da spazzar via per far posto a quei “giovani” tenuti tuttavia con tracotanza e per prudenza fuori da tutti i palazzi del potere; a noi, che siamo inseriti in Graduatorie faticosamente scalate che Ella vuole capricciosamente e irresponsabilmente “sparigliare” con un concorso che violerebbe qualunque norma giuridica sui diritti acquisiti e che cozza contro il più elementare buon senso?
Noi siamo sgomenti e restiamo davvero basiti, non solo nel constatare l’illegittimità, la pericolosità e l’inconsistenza delle motivazioni che La inducono ad annunciare, nelle condizioni in cui i governi dal ’97 ad oggi ci hanno messo, un nuovo concorso (troviamo sia permeato di pericolosissimo razzismo eugenetico l’assioma assurdo che un “giovane” sia necessariamente portatore di valori e metodi “innovativi”!), ma anche nel rilevare l’assoluta strafottenza che Ella ostenta rispetto alle tremende falle e ai feroci limiti che hanno caratterizzato i sistemi di reclutamento fin qui posti in essere per “fare cassa” sulla precarietà, di cui non dobbiamo essere e non saremo certo noi (questo glielo promettiamo senz’altro!), a pagare definitivamente lo scotto, facendoci da parte in silenzio dopo anni e anni di attesa, di esperienza maturata, di dolore patito nel lasciare in sospeso, per violenza istituzionale, il dialogo appena instaurato con i nostri studenti e di furto legalizzato delle nostre spettanze.
A chi dice “Cari genitori “, poi? Alle madri-maestre licenziate e rispedite a fare le casalinghe perché surroghino quel welfare che il permanere dei privilegi di pochi speculatori rendono “insostenibile”? Ai genitori che si sono visti tagliare il tempo pieno e che sempre più sono costretti a iscrivere i loro figli nelle costose scuole private del pensiero unico? Alle madri e ai padri degli alunni disabili buttati fuori dall’aula-Taigeto quando vengono “somministrati” alle classi i velenosi e stolidi quiz dell’odioso e odiato Invalsi, rigettati dai loro stessi creatori per la loro inefficacia e da voi adottati a dispetto dell’opposizione strenua di docenti e famiglie?
E a chi si rivolge, ancora, quando dice “Cari impiegati del personale amministrativo, tecnico e ausiliario”? Ha forse dimenticato che la spending review, da Ella certamente approvata con quell’alto senso di responsabilità che vi impegna moralmente a scaricare i costi della crisi sui più deboli e a massacrare il settore pubblico, obbliga i docenti inidonei e i tecnici a svolgere le mansioni degli amministrativi, che restano, così, senza lavoro?
L’avete chiamata “riconversione”… ricorda? E’ quell’infamia con cui si equipara il lavoro di operatori scolastici specializzati a quello di fungibili lavapiatti! 10.000 docenti, “in esubero” per i tagli pregressi, andranno ad insegnare materie che non conoscono e 4000 docenti circa, gravamente ammalati, saranno costretti a improvvisarsi segretari!
E tutto questo mentre si parla, con retorica melensa ed “efficientista”, di merito e di competitività! Quindicimila lavoratori tutelati dalla legge e dalla Costituzione verranno barbaramente umiliati e defunzionalizzati per raggranellare 200 milioni di euro, cioè poco più del costo di un solo maledetto bombardiere F-135!
Non staremo a rimarcare, per noia e per stanchezza, la fallacia e vacuità della Sua puerile fede nella biunivoca corrispondenza tra informatizzazione e “ammodernamento”: Le ricordiamo che anche le immagini pedopornografiche viaggiano, oggi, attraverso i “dematerializzanti” canali telematici, e La sfidiamo a sostenere che anche in questo caso siamo di fronte ad una “modernizzazione”!
Anche noi Le auguriamo buone vacanze, Signor Ministro, senz’ombra di ironia, dal fondo della nostra angoscia crescente. Le auguriamo un periodo di riflessione profonda sulla devastazione e sui molteplici guasti che l’estensione indebita, alla Scuola, del modello produttivo mercantilistico sta generando, compromettendo l’organicità strutturale del sistema scuola e rinnegando la finalizzazione disinteressata, umanistica e civica dei processi educativi, cioè mettendo fortemente a rischio l’unità del paese, l’uguaglianza costituzionalmente sancita tra cittadini e, in prospettiva, la pace nazionale.
Le suggeriamo di fare letture proficue, magari di rileggere i passi in cui Quintiliano, primo professore di “Stato”, elogia la scuola pubblica e ne illustra i vantaggi rispetto alla privata, o di rileggere quel passo del Siddharta di Herman Hesse in cui il protagonista dimostra concretamente, a un imprenditore, quanto una superiore cultura filosofica e umanistica “implementi” anche il guadagno materiale, consentendo di anticipare intuitivamente le reazioni dei partner d’affari,
oppure ancora di leggere qualche libro-testimonianza di Erri de Luca, scugnizzo assurto al rango di osservatore acuto e geniale delle dinamiche del vivere e dell’essere grazie alla Scuola della Repubblica, a quella Scuola statale che, tra le sue mura, come egli ha scritto, ha fatto “il pari ” dal dopoguerra a oggi, emancipando chi altrimenti sarebbe rimasto eterna vittima del fattuale e brutale “dispari ” economico-sociale.
Noi precari in vacanza non ci andiamo, in massima parte: molti di noi non possono permetterselo; altri non hanno il coraggio né l’animo predisposto ad andarci, pensando che, dopo anni di abnegazione e di insegnamento nonostante tutto gratificante, di aggiornamento a proprie spese e di sacrifici personali e familiari, non riusciranno ad entrare in classe, forse mai più; altri ancora sono alle prese con la pianificazione laboriosa ed estenuante delle necessarie azioni di contrasto al progetto governativo di smantellamento totale della Pubblica Istruzione, surrogando la quasi inesistente opposizione parlamentare.
Auspichiamo che Ella, Signor Ministro, che può godersele senza ansie né timori, torni dalle Sue serene vacanze con un minimo di pudore e con un massimo di dovuta resipiscenza.

I Precari Uniti contro i tagli.

Se è probabile che il ministro dei quiz non abbia capito molto della colta, appassionata e politicamente articolata risposta dei precari, non ci sono dubbi che l’anonimo commento dedicato da Tuttoscuola all’intervento dei precari somigli molto alle infauste veline del Minculpop:

L’ottica è quella della corporazione che si difende
Quei contro-auguri dei precari al ministro
.

Una lunghissima lettera aperta, genericamente firmata ‘I precari uniti contro i tagli’, fa i contro-auguri di Ferragosto al ministro Francesco Profumo facendo la summa di tutte le critiche mosse all’attuale titolare del Miur dall’ala più militante e ideologizzata del mondo del precariato scolastico.
Il ministro è intanto accusato di aver implementato la “epocale controriforma” attuata dalla “arrogante e incompetente Gelmini, da Ella molto ammirata”, ragione per cui i precari “sono spiazzati e si sentono francamente insultati dal Suo impudente e incredibile augurio di buone vacanze, ulteriore contrassegno della siderale distanza esistente tra la percezione ministeriale, deamicisianamente stucchevole ed irenistica, della vita scolastica attuale e prefigurabile, e la percezione drammaticamente sofferta e conflittuale che della Scuola hanno i precari, che da anni ci lavorano con passione in condizioni estreme”.
Ma fin qui, se si prescinde dal carattere colto-ridondante del linguaggio (le affermazioni del ministro sono definite ‘parenetiche’, ‘surreali’, e compaiono citazioni di Erri De Luca e di Siddharta), non si è lontani dalle critiche che anche altre organizzazioni muovono alla linea del governo. In più i ‘precari uniti contro i tagli’ mettono una visione del ruolo della scuola pubblica totalizzante, ostile a ogni innovazione di carattere organizzativo-amministrativo (il ddl Aprea è definito “strumento-cardine della dissoluzione di quella ‘unità d’Italia’ tanto celebrata a chiacchiere e che esautora i docenti, riducendoli a burattini ricattabili da presidi-padroni e da privati finanziatori”), e frontalmente avversa alla valutazione di sistema che attraverso i “velenosi e stolidi quiz dell’odioso e odiato Invalsi” pretende di sostituirsi alla valutazione dei docenti.
Ma soprattutto i precari, o almeno quelli che si riconoscono nelle posizioni espresse in questa lettera di contro-auguri, sono assolutamente contrari ai concorsi aperti ai giovani aspiranti insegnanti: a chi si rivolge il ministro quando scrive ‘cari insegnanti’? Forse “a noi precari, decrepiti quarantenni da spazzar via” per far posto ai giovani? “A noi, che siamo inseriti in Graduatorie faticosamente scalate che Ella vuole capricciosamente e irresponsabilmente ‘sparigliare’ con un concorso che violerebbe qualunque norma giuridica sui diritti acquisiti e che cozza contro il più elementare buon senso?”
Per le argomentazioni addotte, come si vede, questo movimento non può che essere definito ‘corporativo’ in senso tecnico: ostile alle innovazioni, al mercato, all’ingresso di nuove leve (e nuove idee), come lo furono altre corporazioni nella storia. Ma per fortuna, vorremmo aggiungere, persero tutte.

Nemmeno il tempo di rimediare e due risposte, una diretta e l’altra indiretta sono giunte al ministro e ai suoi difensori d’ufficio:

Gent.mi Operatori del sito Tuttoscuola

Sono Marcella Ràiola, docente di Lettere classiche (classe di conc. A052, latino e greco al triennio di quel che resta del liceo classico e materie letterarie, latino e greco al ginnasio), precaria da dieci anni e in servizio come supplente dal 2002 nei licei della provincia di Napoli.
Sono l’autrice della risposta agli auguri del Ministro Profumo, firmata, per sintesi, “Precari Uniti contro i tagli” – che non è il nome di una “corporazione” ma di uno dei tanti gruppi facebook creato dai precari e dai docenti per dibattere di quelle riforme che ci cadono addosso di continuo e che stanno devastando la scuola – in quanto i colleghi in lotta e in piazza con me da cinque anni, condividendone tono e contenuti, hanno espresso la volontà di aderire al documento, corroborandone, così, le tesi e le posizioni.
Il Vs. commento alla mia lettera, astioso e accusatorio, palesa lo stesso fastidio per la cultura “alta” e per l’argomentazione retoricamente curata e logicamente serrata che si riscontra negli appartenenti a certe sétte i quali vedono (e giustamente) nella cultura e nell’emancipazione un pericolo mortale per la sussistenza e l’accettazione acritica dei propri dogmi, sicché direi che proprio il Vs. atteggiamento può essere a buon diritto definito, “tecnicamente”, come piace a Voi, “corporativo”!
Che reato si commette, poi, nel servirsi della cultura, della letteratura, della grande arte, insomma, come puntelli del proprio discorso? Non voglio credere, dato che svolgete una delicata funzione, sia pure in una posizione antitetica rispetto alla mia, che apparteniate a quella cerchia di persone semplicistiche, allergiche al dubbio e al confronto che considerano la cultura una dotazione da saccenti, un prodotto del temibile demone rosso dell’ideologizzazione oppure una frivola chiacchiera da salotto… Sarebbe assai triste, in verità!
I docenti precari non sono un partito né difendono interessi personali e privati, ma un bene comune e valori costituzionali quali la libertà d’insegnamento sancita dall’art. 33 della Cost., la laicità, il pluralismo delle posizioni e le pari opportunità, parimenti previste e difese da quella stessa Carta fondativa che i “modernizzatori” del sistema a Voi tanto graditi stanno trasformando in carta straccia, accanendosi in particolare sull’istituzione che ha garantito, appunto, quel po’ di mobilità sociale che l’Italia, malgrado tanti ostracismi corporativi veramente nocivi alla vita democratica, ha potuto e voluto sperimentare.
Quanto al misoneismo (Oh! Scusi: ho usato un altro parolone! E’ che quando andavo a scuola mi hanno persuaso che avere tante parole significa avere tante risorse in più e che le parole sono tutte uguali: basta usarle nei contesti giusti!) che ci imputate, con riferimento al concorso, Vi invito serenamente a considerare quanto vecchia e usurata sia la formula ministeriale del concorso, che apre la via a giochi clientelari, a nepotismi e ingiustizie di ogni genere, come dimostra la recente clamorosa vicenda del concorso a preside e, insieme, a valutare con obiettività la nostra posizione: siamo vincitori di più di un concorso e, nel 90% dei casi, detentori di titoli post-lauream (dottorati di ricerca, corsi di perfezionamento, masters); siamo nel pieno della maturità esistenziale e professionale; abbiamo garantito il funzionamento della scuola per più e più anni, in attesa della stabilizzazione; abbiamo consentito allo Stato di risparmiare, sulla nostra pelle e su quella degli alunni, privati della continuità didattica, migliaia di euro all’anno.
Vi pare decente costringere dei 40enni umiliati da anni e anni di precariato a “rigiocarsi” alla lotteria del concorso il posto che spetta loro di diritto e per legge, adducendo come giustificazione la sola, opinabile e assurda idea che bisogna “svecchiare” una scuola che intanto, paradossalmente, trattiene fino a 67 anni i docenti sulla cattedra, per non pagare loro la pensione?
Non hanno dunque alcun valore, per Voi, di fronte alle presunte “magnifiche sorti e progressive” additate da un ministero che ha tagliato 8 miliardi all’istruzione, i diritti acquisiti, la Giustizia, la coerenza logica e morale?
Qualcuno chiederebbe mai a un chirurgo con 10 anni di attività di rifare l’esame di anatomia e un test per stabilire quali siano le sue “attitudini” a stare in corsia? Come mai l’esperienza è un valore per tutte le categorie ed è un deterrente per i professori? Ve lo siete chiesti? Vi siete chiesti come mai solo per i prof. valga la “presunzione di ignoranza”? Vi siete chiesti come mai sugli scranni di questi signori politici che postulano lo “svecchiamento” della scuola non siede quasi nessuno che sia sotto i 55-60 anni?
Tra i “Precari uniti contro i tagli” ci sono moltissimi docenti “giovani”; Vi assicuro, che aborrono l’idea di salire in cattedra scavalcando colleghi illusi per anni e che, fortunatamente, sono tanto intelligenti da capire che la “giovinezza” non è affatto una garanzia di maggiore entusiasmo o preparazione a livello didattico, perché ci sono giovani retrivi e pigri e, viceversa, “anziani” dinamicissimi e sempre pronti ad aggiornare le proprie metodologie!
Quanto all’Invalsi e alla Legge Aprea, non ho bisogno di diffondermi, perché l’articolato della legge e il boicottaggio attuato da migliaia di docenti e studenti che quest’anno hanno rifiutato i quizzetti (pieni di errori) propinati loro, bastano a denunciarne la pericolosità e l’intento snaturante e destrutturante per la Scuola così come vogliamo continuare a percepirla e concepirla.
Nella “chiusa” del Vs. articolo avete auspicato che la nostra “corporazione” perda le sue battaglie. Non so come finirà la dura lotta che stiamo conducendo contro i mistificatori del senso dell’educazione, contro questi finti modernizzatori che fanno coincidere il progresso con uno sviluppo meramente economico e che chiamano “merito” la traduzione in modelli pedagogici asimmetrici e meccanizzanti dell’egoismo delle privilegiate èlites produttive; so per certo, però, che che la nostra eventuale sconfitta sarebbe una grave sconfitta per la vera “autonomia” e per la democrazia.
Grazie per l’attenzione riservata a me e ai Precari Uniti.

Prof.ssa Marcella Ràiola (Napoli)

Poco da replicare per il malaccorto anonimo, tanto più che a rincarare la dose è giunta a Profumo una replica che, al di là delle difese d’ufficio di veline e velinari, va agli atti e servirà agli storici domani. Si tratta di una lettera aperta, firmata dal gruppo de “L’università che vogliamo”, autore di un documente intitolato “Carta di Roma”, in cui si delinea un sistema formativo del tutto alternativo a quello promosso da Profumo. La lettera, sottoscritta da un folto gruppo di universitari, rafforzati da una valida pattuglia di docenti delle scuole pubbliche, smantella letteralmente l’accusa di “corporazione” mossa ai precari da “Tuttoscuola” e mostra quanto culturalmente valida e politicamente fondata e condivisibile sia l’opposizione al ministro Profumo e alle politiche per la formazione del governo Monti.

Lettera aperta a Francesco Profumo da “L’Università che vogliamo”

14 agosto 2012

Caro Ministro,
all’inizio della pausa estiva (per chi se la può permettere, e tra noi non tutti possono), vorremmo anche noi condividere alcune riflessioni con Lei.
Prendiamo atto del fatto che Lei abbia “potuto toccare con mano la forza di questa grande comunità” che è il sistema dell’istruzione pubblica italiana. Questa, però, non mostra “la sua centralità” solo in occasione delle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’Unità nazionale, bensì lo fa tutti i giorni, nella sua dimensione ordinaria. Lo fa accogliendo i figli dei migranti che entrano nelle classi senza conoscere una parola di italiano; lo fa aiutando le persone diversamente abili; lo fa divulgando il sapere senza alcuna distinzione di classe, religione, sesso e lingua; lo fa all’interno di poche e sovente vetuste strutture, con poco personale, in condizioni di lavoro sempre più difficili, con stipendi inadeguati e tra l’indifferenza generale della politica.
Non è il caso, Ministro, di riempirsi la bocca con la retorica della patria. Una retorica ingannevole volta a rappresentare un’unità di intenti indotta la quale cozza con l’immagine che oggi l’Italia dà di se stessa: un paese iniquo che discrimina i suoi cittadini in base alla loro condizione di partenza; un paese che costringe quotidianamente chi fa parte del nostro mondo a una concorrenza deteriore cui riesce a fare fronte solo chi ha più le spalle coperte per adeguare le proprie speranze a un presente improbo.
Di fronte all’immagine di una pubblica istruzione vilipesa dalla chiusura degli istituti scolastici, offesa dalla perdita progressiva di importanza e di investimenti che il sistema del sapere pubblico subisce ciclicamente, noi non ci sentiamo in dovere di celebrare l’unità armonica della patria, quanto semmai di ripensarla. E non per quella che le potrebbe sembrare una malintesa volontà antinazionale, ma perché abbiamo la piena consapevolezza che non in questa armonia, bensì nella rivendicazione costante e puntuale dei nostri diritti – campo in cui Lei ci sembra debole – si cementano le migliori democrazie nazionali e le “patrie” più robuste. Gli intenti comuni, signor Ministro, non esistono per mera buona volontà, né per quella virtù taumaturgica della retorica cui Lei – con una punta di cattivo gusto – fa ricorso citando l’atroce delitto di una ragazzina per dipingere ai nostri occhi il mondo dell’istruzione pubblica come idilliaco ed entusiasta.
Il mondo dell’istruzione pubblica è quello delle scuole con organici insufficienti, con classi sovradimensionate, con i muri scrostati e i banchi spaccati. È il mondo degli studenti “meritevoli”, usando un vacuo termine di cui tanto si è usi riempirsi la bocca, e che però vivono il diritto allo studio come un miraggio, come l’ennesimo riflesso di una concorrenza che non sta allenando i corpi ma li sta uccidendo. Studenti costretti, signor Ministro, ad attacchinare manifesti sui muri delle città o a lavorare sera per sera non per desiderio di autonomia, ma per costrizione che toglie loro possibilità altrimenti concesse a chi, agiato, può concedersi il lusso dell’istruzione.
Sì, signor Ministro, nella patria dei cui destini noi dovremmo essere partecipi, l’istruzione è un lusso, come sanno bene i ricercatori precari, inquadrati dentro Università dagli enormi deficit. Donne e uomini spesso costretti a lavorare gratis, che riescono a sopravvivere solo grazie a introiti esterni a quelli ottenibili con la propria professione e che per questo o la vedono dequalificata oppure sono costretti ad abbandonarla.
Il mondo dell’istruzione pubblica è fatto di docenti oberati da pratiche amministrative e impossibilitati a svolgere le loro attività didattiche e di ricerca.
E quale futuro ci prospetta Lei? Un futuro in cui l’istruzione pubblica torni a essere il fulcro del progresso morale e materiale dell’Italia, spereremmo tutti.
Tuttavia si può garantire tale futuro se le notizie che riguardano questo settore ci riferiscono con dolorosa regolarità di tagli e di provvedimenti che devono tradursi in realtà “con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”?
Si può garantire tale futuro se alla parola “docenti” si associa sempre e comunque il concetto di “esubero”?
Si può garantire tale futuro se ai recenti test di ammissione al cosiddetto Tfa si è assistito a una pagina che definire vergognosa è dire poco, con le commissioni ministeriali che hanno mostrato la loro completa non-conoscenza delle materie sulle quali avrebbero dovuto essere specializzati? Come è possibile che nelle classi di concorso relative alle scienze naturali, all’elettronica e al francese oltre il 40% dei quesiti fosse errato? Come è possibile che nella classe di concorso relativa alla filosofia fossero errate le domande relative a Hume, Pascal, Feuerbach, Descartes e Leopardi (solo per dirne alcune)?
Non si può garantire un futuro all’istruzione se i meccanismi selettivi del futuro corpo insegnante sono modellati sul modello dei quiz a premi, svilendo anni di educazione critica alla complessità del sapere che è così ridotto a un offensivo e inutile nozionismo, figlio di una cultura, i cui risultati bene oggi stiamo vedendo, che annichilisce il pensiero critico, e con esso il fondamento del pensiero scientifico, ossia la continua revisione delle nozioni apprese.
Signor Ministro, prima ancora che ricercatori e studiosi, noi siamo uomini, non automi. Come tali vogliamo essere trattati e pretendiamo rispetto. Altrimenti la Sua patria è un dato a priori, una nozione come le tante, inutili e spesso anche sbagliate, su cui siete arrivati a richiedere anche un offensivo obolo, dopo anni di studio non garantito e sempre più costoso, ad alcune delle migliori generazioni di studiosi mai nate nel nostro Paese.
Non è possibile garantire un futuro in cui l’istruzione pubblica torni a essere il fulcro del progresso morale e materiale dell’Italia se ogni anno agli studenti universitari viene proposto un aumento delle tasse di iscrizione in una escalation che, di fatto, costituisce una lesione al diritto di studio universale così come viene riconosciuto e garantito alla Costituzione Repubblicana.
Non esiste futuro per l’istruzione se il mondo della docenza universitaria è precluso ai ricercatori trenta-quarantenni, se il nuovo concorso per le abilitazioni alle docenze universitarie si basa su bizantinismi astrusi (le cosiddette mediane) e non su una valutazione quantitativa e organica del percorso scientifico dei singoli candidati.
Non esiste futuro per la pubblica istruzione se non si procede a quella che oggi è la primaria esigenza della istruzione in Italia: un investimento decente, che inverta la consolidata e fallimentare tradizione dei tagli, per consentire un futuro non tanto ai tanti e preparati ricercatori giovani cresciuti grazie al sapere pubblico, ma per consentire che, attraverso la salvaguardia e la riproduzione di quel sapere l’Italia tutta possa quantomeno vivere una stagione di decenza che da anni le manca.
Questo cerchiamo e questo vediamo mancare, stupiti dal propagandismo con cui si eludono i problemi concreti del sapere per giocare con dei semplici palliativi quali il tentativo di imporre lezioni universitarie solo in lingua inglese, cancellando con singolare spirito provinciale e omologazionista non solo quell’identità nazionale che a parole tanto si dice di voler difendere, ma secoli e secoli di storia.
Il mondo dell’istruzione pubblica non è, come qualcuno vorrebbe far credere, un luogo improduttivo e parassitario. Dall’istruzione primaria all’università, esso concentra le migliori intelligenze di questo paese, donne e uomini su cui qualsiasi governo mediamente illuminato punterebbe per tentare di farci uscire da una crisi che non è solo economica, ma è anche morale e intellettuale. Un paese che volesse rilanciarsi fornirebbe a queste persone motivazioni e risorse, in assoluta discontinuità con gli esecutivi che hanno preceduto quello di cui Lei fa parte. Invece assistiamo a provvedimenti di facciata quali le pagelle elettroniche, i portali internet che non servono a nulla e a nessuno.
Non servono, caro Ministro, novità difficilmente definibili come la “nuvola della scuola” da Lei promessa, bensì elementi tangibili che servano a risollevare l’istruzione pubblica dalla polvere in cui è stata fatta precipitare.
Servono investimenti, serve considerazione, serve una ridefinizione dell’istruzione pubblica che svincoli quest’ultima dalla sudditanza al mercato.
Non serve un “programma di azione… temerario”, bensì certezze, se non vogliamo affondare definitivamente.
Senza una radicale inversione di tendenza rispetto al passato, il momento della ripresa si tradurrà nella più significativa opposizione del mondo della scuola e dell’università che si sia registrato in questi anni.
Buone ferie anche a Lei.

L’Università che vogliamo

Non basta. Ai malaccorti auguri del ministro hanno replicato il professor Luciano Canfora, un’autorità nel campo della Filologia Classica, che ha stroncato i test, defindoli «antieducativi» e la “rivolta” dei 27 decani della cultura umanistica, che hanno scritto a Napolitano, per chiedere l’abolizione dei quiz per l’abilitazione all’insegnamento, definiti senza mezzi termini avvilenti, “degradanti, buoni per i cretini” e ‘“nozionismo di bassa lega“.
Chissà se al ministro Profumo comincia a sorgere il dubbio che ad aver bisogno di auguri siano soprattutto lui e i suoi due ineffabili sottosegretari.

Uscito su “Fuoriregistro” il 20 agosto 2012

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Non c’è dubbio. Tra i riferimenti della nostra scuola, l’educazione alla legalità ha una sua chiara e forte collocazione. Sappiamo tutti di che si tratta ma ricordarlo non farà male a nessuno: si occupa delle norme che disciplinano i rapporti sociali e della loro funzione nella vita democratica del Paese. Una sorta di scienza della democrazia tesa a formare una cultura dei valori civili basata su principi di libertà, solidarietà, corretta pratica dei diritti di cittadinanza, e riconoscimento della reciproca pari dignità degli individui e dei gruppi sociali, che nessuno, per nessun motivo, può subordinare a interessi di parte. Visto dal punto di vista della scuola, quindi, il dilemma salute-lavoro non può avere cittadinanza nella vita del Paese: viola ad un tempo il diritto al lavoro e quello alla salute, garantito dalla Costituzione, e si pone fuori dai confini di quella legalità cui essa educa i giovani ogni giorno e che così faticosamente si difende in tante aree del nostro Paese, benché si legga ogni giorno e pare provata una trattativa tra lo Stato e la mafia e dopo Malinconico. Passera, l'”Espresso” riferisce che ora tocca al Sottosegretario Cardinale,  indagato per concorsi truccati in vari atenei italiani.
Di tutto ciò, a quanto pare, l’efficientissimo “governo tecnico” non ha alcuna cognizione e soprattutto nulla sembrano sapere il Ministro Profumo e i suoi sottosegretari, in tutt’altre faccende affaccendati.
In quanto a Clini, ministro dell’Ambiente, dal momento che l’Ordine dei medici non ha nulla da chiedergli, che potrà dire la scuola? E’ un medico, Clini. Wikipedia le sbaglia tutte, ma occorre crederci, anche se sembra davvero una barzelletta: medico del lavoro, specializzato in Igiene e salute pubblica. Con questi titoli nobiliari, rilasciati dalle nostre università perennemente distratte, il tecnico strapagato, Direttore Generale al Ministero dell’Ambiente dal 1991 al 2011, quando l’amico Monti l’ha accomodato sulla poltrona di Ministro, s’è svegliato dal coma profondo in cui ha vissuto per quasi un anno e ha dato il primo segno di vita a un Paese che non s’era ancora accorto della sua esistenza. Se i metalmeccanici tarantini non giocano alla roulette russa col cancro, ha dichiarato con arroganza senza precedenti, se tutti i cittadini di Taranto non rinunciano alla difesa della salute, gli investitori stranieri se l’avranno a male e terranno in tasca i loro sporchi quattrini. A questo punto, la scuola ha tutti i titoli per chiedere a Clini se non sia forse il caso di cambiare programmi e mettere all’ordine del giorno la cultura dell’illegalità. E, in subordine, chiedere di sapere con una qualche certezza quanti morti pensa si possano legalmente offrire per ogni euro di investimento estero.

Uscito su “Fuoriregistro” il 16 agosto 2012

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E’ un medico, Clini. Wikipedia le sbaglia tutte, ma occorre crederci, anche se sembra davvero una barzelletta: medico del lavoro, specializzato in Igiene e Salute pubblica. Sì, salute pubblica, avete letto bene. Con questi titoli nobiliari, rilasciati dalle nostre università perennemente distratte, il tecnico strapagato, Direttore Generale al Ministero dell’Ambiente dal 1991 al 2011, quando l’amico Monti l’ha accomodato sulla poltrona di Ministro, con questi titoli s’è svegliato dal coma profondo in cui ha vissuto per quasi un anno e ha dato il primo segno di vita a un Paese che non s’era ancora accorto della sua esistenza. Se i metalmeccanici tarantini non giocano alla roulette russa col cancro, ha dichiarato con arroganza senza precedenti, se tutti i cittadini di Taranto non rinunciano alla difesa della salute, gli investitori stranieri potrebbero aversela a male e tenere in tasca i loro sporchi quattrini.
Se ne son viste e sentite veramente tante. Abbiamo sopportato Andreotti e Valletta, ci siamo tenuti lo schiaffo di Portella della Ginestra, i licenziamenti politici, le bombe impunite e le stragi di Stato e pensavamo che di peggio non potesse accadere. Sbagliavamo., sbagliavamo di grosso. Siamo andati ben oltre i confini segnati da Andreotti e Cossiga. Ogni giorno è un nuovo orrore, ogni giorno questo governo commette un’ingiustizia così grande o presenta leggi così feroci da far impallidire la ferocia che c’era dietro i silenzi omertosi su Piazza Fontana e Piazza della Loggia, dietro la bomba esplosa alla stazione di Bologna, dietro tutto il male che c’è stato fatto in decenni di vergogne. Una vergogna come quella che abbiamo sotto gli occhi non s’era mai vista prima: se ne vanno liberi  e franchi in Parlamento i responsabili d’un disastro epocale, seggono davanti a inutili simulacri di Commissioni Parlamentari, e apertamente minacciano: o ci lasciate in pace o affamiamo il Paese. A noi della salute della gente non interessa niente. Firmano l’ultimatum e se ne vanno via tranquilli così come sono venuti: salute o lavoro, prendere o lasciare.
E il governo? Il  governo c’è. Oggi lo rappresenta Clini, che ha portato una sedia per far sedere l’Ilva in Parlamento e ha aperto bocca solo per fare cartastraccia della Costituzione, attaccare i giudici e metterli a tacere: di che s’impiccia il giudice, che vuole, perché non smette di annoiarci con i rischi che corre la città di Taranto? Un medico ministro, profumatamente pagato per curare la salute pubblica, non ha altro da dire che questo: crepate. Nelle fabbriche e nelle città. Morite di tutte le morti che volete, a noi non importa nulla. Noi siamo qui solo per proteggere finanzieri ladri e imprenditori assassini.
Non s’era mai visto prima. Nemmeno con Andreotti e Valletta. Non c’è paragone. Peggio perfino di Berlusconi.
Ci sono momenti della storia in cui i popoli hanno l’obbligo di capire che in gioco è la dignità. Sono momenti in cui non ci sono scelte. O la gente trova il coraggio di dire basta e scatena l’inferno, oppure non c’è speranza e nessuno poi si lamenti. Tutto ciò che cediamo oggi sul terreno dei diritti è sangue che i nostri nipoti dovranno versare per tornare liberi.

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