Feeds:
Articoli
Commenti

Archive for settembre 2016

n12rpd1Ai ragazzi occorrono lavoro e valori; bisogna perciò restituire alle giovani generazioni le vite e la lezione dei partigiani delle Quattro Giornate, che non furono scugnizzi senza storia. E’ il caso, ad esempio, del sottotenente Armando Donadio, che nel 1940 combatte nella Libia di «Faccetta nera», delle prime leggi razziali e della guerra chimica. Da lì, dall’Impero fascista affogato nel Mar di Sicilia con soldati a migliaia uccisi da navi e caccia nemici, torna e finisce all’Aquila, mentre su Napoli piovono bombe e volantini che invitano alla rivolta: «Donne di Napoli! Dove sono i vostri uomini mandati in Africa? Vi dicono che metà delle navi è affondata? Madri e spose di Napoli, nascondete gli zaini dei vostri amati soldati. Il mare significa la morte».
Il 13 settembre 1943, con l’esercito allo sbando, Donadio, inizia un terribile viaggio tra paesi distrutti e l’Italia in rovina gli parla: fuggire non serve, bisogna combattere i nazifascisti. Con questa certezza giunge a Napoli il 28 settembre e si unisce ai partigiani, quando vede donne malmenate e uomini e ragazzi sanguinanti, portati via a colpi di calci di fucile. Donadio combatte finché la città è libera, ma a nord c’è l’inferno e lo sa, perciò si arruola nei «sabotatori» dei «Gruppi Combattenti Italia» e il 19 ottobre passa le linee. In testa un’idea: libertà e giustizia sociale. Tra sabotaggi e scontri, le sue «Quattro Giornate» terminano ai primi del ’44, quando è preso e portato ad Auschwitz; poiché non parla, è massacrato e subisce tre finte fucilazioni. E’ come morire tre volte e tre volte tornare a un infinito orrore. Tenta la fuga, è scoperto, ferito a una gamba e mai seriamente curato. Alla fine del ‘44, quando infine lo mandano a Spittal Drau, in Carinzia, in un ospedale da campo, la ferita trascurata e le sevizie fisiche e morali hanno compromesso una gamba e causato deperimento organico, depressione e crisi di panico. Potrà curarsi solo a partire dal maggio 1945, quando, strappato agli aguzzini, è ricoverato a Udine.
Il dopoguerra inizia però con un licenziamento e l’affannosa ricerca di un lavoro. Invalido e segnato nella psiche, Donadio infatti è decorato e poi congedato. L’esercito, che non ama gli ex partigiani, gli assegna il diritto a una magra pensione di guerra e solo nel 1987 giunge, «a titolo onorifico», il grado di colonnello. Gli anni se ne vanno così, uno dopo l’altro, tra sofferenze e precarietà. L’Italia nuova non è quella che merita un vincitore. I fascisti sono tutti dov’erano e Donadio non sa più chi ha vinto davvero la guerra partigiana. Trova lavoro in un’azienda zootecnica e come contabile nel ramo della distribuzione ma, comunista com’è e delegato nazionale sindacale, nonostante il disagio fisico e mentale, fa la sua parte con tale coraggio, da guadagnarsi la rappresaglia e un nuovo licenziamento. Tira avanti come può, fino al 1993, tra stenti, amarezze e fatica di vivere, finché, non perde anche anche la casa in cui vive e finisce a Castelvolturno, in condizioni di forte degrado.
Quando muore, il 3 febbraio 1995, il Pci si è sciolto, le associazioni dei partigiani e gli uomini delle Istituzioni sono assenti, come l’Italia per cui ha lottato e per il suo ultimo viaggio non ci sono compagni o bandiere. Anni dopo, nel 2010, la Commissione Toponomastica rifiuta di intitolargli una via, perché ai partigiani il Comune ha «già tributato onori collettivi con i numerosi monumenti nelle diverse aree cittadine».
Qualcuno si stupirà che la sorte di Armando Donadio annunci la crisi che viviamo, ma spesso nella piccola storia c’è quella «grande». Non a caso perciò con il suo mesto tramonto le Quattro Giornate perdono il loro volto politico, i repubblichini, sempre più innocenti, diventano i «ragazzi di Salò» e solo la morte evita a Donadio l’ultimo oltraggio. Egli non saprà mai che gli ex comunisti in cerca di identità hanno cancellato dalla loro sede, in via Salvator Rosa, il nome di Maddalena Cerasuolo, popolare combattente delle Quattro Giornate. La sua vita però ci invita a dire no alla rassegnazione e ci ricorda che se non trova discepoli pronti a capire, la storia non insegna nulla a nessuno.

La Repubblica, Napoli, 28 settembre 2016

Read Full Post »

bloccatiIl Governo Renzi-Napolitano al lavoro, ma non c’è da stupirsi: autobus fermati a Sud di Roma, perquisizioni umilianti, identificazioni…
Un anticipo dell’Italia cilena.
L’avete capito perché dobbiamo votare no? Perché l’Italia di Renzi è già una infinita vergogna. Ecco il breve ma incredibile video.

Read Full Post »

presentazione-standard1
Da: Gaetano Colantuono
Data: Domenica 18 settembre 2016
A: Giuseppe Aragno
Oggetto: I no

Professò a te dedicato:

SONO I NO CHE CI FANNO CRESCERE, MATURARE, IMPARARE, MANTENERE LA DIGNITÀ  – ULTIMA SPERANZA ANCHE PER CHI È SCONFITTO.

SONO I NO CHE ASSUMONO IL VALORE DI TANTI SÌ IMPLICITI.

SONO I NO CHE ABBIAMO DETTO E AGITO A COSTRUIRE LA NOSTRA PERSONALITÀ.

Gaetano Colantuono

Read Full Post »

resistenzaCi avviamo al referendum sulla Costituzione in una sorta di eclisse totale della democrazia. Renzi non difende il diritto al lavoro, non crea condizioni che lo rendano concreto, non allenta i freni che limitano la libertà e l’eguaglianza effettiva tra cittadini, non aiuta lo sviluppo della persona umana e la partecipazione dei lavoratori alla vita politica, economica e sociale del Paese. Si muove nel senso opposto: vara il Jobs Act per colpire il lavoro, la legge 107 per distruggere la scuola e difende il pareggio di bilancio, cancellando lo stato sociale. E’ perciò che non pensa a cambiare il codice fascista, vitale contro la tempesta che semina, ma vuole cambiare la Costituzione antifascista. Pensa di legittimare un Governo autoritario ed eseguire il compito che Napolitano e Draghi gli hanno assegnato: «fare le riforme», come «chiede l’Europa».
Dai tempi della Costituente sono trascorsi settant’anni. La Repubblica ripudia la guerra, ma i nostri aerei bombardano città inermi; garantisce la libertà di pensiero, ma gli scrittori sono trascinati davanti ai giudici per reati di opinione e i giornalisti, sgraditi a chi comanda, rimossi; la Repubblica si fonda sul lavoro, ma il lavoratore è messo alla porta quando piace al padrone. Come ignorare che, votando contro l’inserimento del diritto di resistenza nella Costituzione, Mortati osserva che quel diritto

«trae titolo di legittimazione dal principio della sovranità popolare perché questa, basata com’è sull’adesione attiva dei cittadini ai valori consacrati nella Costituzione, non può non abilitare quanti siano più sensibili a essi ad assumere la funzione di una loro difesa […] quando ciò si palesi necessario per l’insufficienza e la carenza degli organi ad essa preposti».

Dimenticare tutto questo, fingere che un referendum possa trasformare un abuso in diritto e legittimare un Parlamento compromesso è avventato e la disobbedienza va messa nel conto. Il diritto di resistenza ha radici lontane. Dall’assassinio di Ipparco deriva il mito fondante della democrazia, nata come antitesi della tirannide; resistendo all’Impero che impone la guerra, mentre la legge di Dio ordina di non uccidere, i cristiani vanno a morte ma trionfano; San Tommaso giustifica la resistenza se il Principe viola l’ordine divino; in nome del diritto di resistenza, Bruto pugnala Cesare e la disobbedienza di Gandhi è resistenza.
Giuliano Amato, giudice costituzionale, dopo i moti del 1960 contro il Governo Tambroni, spiega che i poteri dello Stato-governo «non fanno capo originariamente ad esso, ma gli sono trasferiti […] dal popolo», sicché essi vanno esercitati in «permanente conformità dell’azione governativa agli interessi in senso lato della collettività popolare». Qualora, invece, lo Stato, «partecipe dell’azione eversiva», compia «atti difformi dai valori e dalle finalità fatti propri dalla coscienza collettiva ed indicati nella Costituzione», è «legittimo, il comportamento del popolo sovrano che ponga fine alla situazione costituzionalmente abnorme». Sia storicamente, quindi, come dimostra la Resistenza, sia giuridicamente, come afferma persino un moderato come Amato, la questione della legittimità è centrale per la vita politica del Paese.
Sulla Costituzione, Gaetano Arfè, scrisse parole che sono il testamento morale di un vecchio partigiano e di un grande storico. Renzi farebbe a sforzarsi di capirle.

«Non intendiamo dire: […] la Costituzione non si tocca! Ma possiamo e dobbiamo essere noi a ricordare che una Costituzione, un patto solenne nel quale tutto un popolo si riconosce, non può aver vita se non come espressione di un movimento che abbia radici nella storia: tale fu […] la nostra Costituzione. E possiamo e dobbiamo essere noi a dire che sarebbe inaccettabile una revisione della Costituzione che fosse l’espressione dell’Italia dei politici d’avventura e delle istituzioni impazzite […], su uno sfondo di […] delinquenza comune assurta al ruolo di antagonista dello Stato. La battaglia per la riforma dovrà essere al tempo stesso battaglia per un ordine di principi morali nel quale la stragrande maggioranza del paese possa riconoscersi: o sarà un disastro per tutti».

Tutti noi, poi, parlando di Costituzione, dovremmo leggere attentamente queste bellissime parole:

«Tutti i tedeschi hanno diritto di resistere a chiunque tenti di rovesciare questo ordinamento, qualora non vi sia altro rimedio possibile».

Così recita il comma 4 dell’articolo 20 dell’attuale Costituzione di quei tedeschi che citiamo ad esempio solo se ci torna comodo. Mi piace credere che siano nate sui nostri monti, negli anni della Resistenza. I tedeschi, a cui i partigiani furono d’esempio, appresero forse da loro la lezione che noi abbiamo colpevolmente dimenticato.

Read Full Post »

downloadLe parole grondano storia e perciò sangue, dolore e ingiustizia sociale. Quando dici filisteo, per esempio, non pensi più semplicemente al figlio di un antico popolo indoeuropeo che viveva lungo la linea del mare nella terra di Canaan, là dov’è oggi più o meno la sventurata striscia di Gaza. Quella gente, che ormai non c’è più, vive ancora in una parola che la condanna a un’infamia per ciò che è stata nell’immaginario collettivo. Filisteo fu Golia, il guerriero gigante che aveva dalla sua le ragioni della forza e le metteva in campo con ferocia per schiacciare la forza della ragione e la rive indicazione dei diritti. Filisteo fu Golia, il gigante senza pietà, che sfidava gli oppressi:

  • – La libertà che volete è sulla punta della mia spada, diceva, e la ragione non c’entra. Se davvero desiderate di essere liberi, venite a provare la mia lama.

Una sfida infernale che pareva perduta in partenza. Golia aveva armi, forza, potere, leggi scritte e non scritte e gli era complice un mondo. Due metri di muscoli addestrati alla guerra e tutto intero un sistema di potere schierato a suo favore. Quante volte vinse? Quante volte morsero la polvere le ragioni del diritto e l’umanità coraggiosa e dolente degli sfidanti? La storia non lo dice, ma oggi, quando dici Golia, dici filisteo e vuoi dire “gretto, reazionario e vigliacco. Borghese, nel senso peggiore della parola.
Marchionne è il filisteo del secolo nuovo. Vecchio come la storia, tragico come il mito, eterno nella vergogna. Quello d’un tempo fini nella polvere con una sassata ben assestata. Lo uccise Davide con una fionda e lo condannò alla sconfitta.
Se Mimmo Mignano e i suoi compagni sono destinati a perdere o a trovare la fionda e il colpo per mettere in ginocchio l’ultimo filisteo, non dipende solo dal loro coraggio e dalla pietra aguzza che tireranno.  Quando Davide giunse al campo per sfidare il gigante ottuso e arrogante, ci trovò un esercito di fratelli armati che gli fece coraggio. Mignano ha bisogno di compagni che smettano di sentirsi piccini perché sono in ginocchio. Compagni che si alzino in piedi e facciano quadrato, mettendo mano alla loro storia e alle loro risorse. Mignano è di Napoli e la città sarà davvero «ribelle» solo quando metterà in campo per loro tutto quanto la nostra storia ci ha insegnato: la solidarietà, il mutuo soccorso e la disobbedienza. Da troppo tempo diciamo che le regole imposte con la forza di un potere illegittimo vanno disattese. Bene. Un sasso alla fionda allora lo possiamo mettere ancora: portiamo in piazza ogni giorno la protesta per la difesa della Costituzione e ignoriamo le leggi filistee: basta con i patti di stabilità, basta con i pareggi di bilancio, basta con i divieti di assunzione. E se dovessimo perdere il referendum, basta con tutto, anche con le tasse pagate a Roma. Nessun soldo, nessun sì, nessuna regola che non sia la nostra. Abbiamo ancora un sasso: tiriamolo forte e tiriamo diritto.

 

Read Full Post »

referendum-640x413Ieri a Napoli Renzi si è presentato come la controfigura del duce, circondato dai ras e protetto da teppisti in divisa, che hanno scambiato l’Italia per una repubblica delle banane. Ancora una volta gli è andata male, ma è troppo ignorante per sapere che al suo penoso modello non andò meglio quando giunse alle Cotoniere Meridionali, a Poggioreale, e fu accolto dal silenzio ostile dei lavoratori.

Ieri il sindaco non gli ha voluto parlare e oggi la stampa dei padroni, la sola che c’è da noi, e i papalini più papalini del Papa, tirano fuori dall’armamentario delle scemenze le solite chiacchiere sull’isolamento e sugli interessi della città traditi. Lo sanno tutti, ma fingono di non saperlo: a Renzi di Napoli non importa nulla e se De Magistris gli parlasse, non cambierebbe niente. Renzi vuole assicurare affari sporchi agli amici e tenterà di far fuori De Magistris comunque. Se parleranno o se staranno zitti.

Renzi è un analfabeta di valori, ambizioso e avido di potere. Non è legittimamente Presidente del Consiglio. Non può esserlo. La sua maggioranza, come tutti gli attuali parlamentari, ha sulle spalle il peso di una sentenza della Consulta: la legge elettorale che li ha condotti in Parlamento è incostituzionale. De Magistris non sbaglia se rifiuta il dialogo,. L’errore, se un errore c’è, è che non glielo dice chiaro. Questo sarebbe rovesciare il tavolo: dirgli chiaro, che non lo riconosci, perché non ha alcuna legittimità. Non si tratta di accettare il dialogo. Qui è in discussione la legalità Repubblicana. Bisognerebbe che questo fosse chiarissimo. Napoli non riconosce abusivi e portoghesi. E bisognerebbe andare al referendum su questa linea: no a un imbroglione e ai suoi servi nominati. In quanto ai numeri dell’opposizione, non decidono ragioni e torti. Anche gli antifascisti erano minoranze sparute, ma avevano ragione. Chi ha a cuore la democrazia, non consigli al sindaco un inutile realismo e non tiri fuori gli interessi della città e di noi napoletani, che non abbiamo bisogno di dialogare con cialtroni e proconsoli della troika. Dovesse cedere, De Magistris farebbe male a se stesso, alla città e al Paese. Aiutiamolo a tenere duro, convinciamolo a fare una campagna per il No e vinciamo il referendum. È l’ultima spiaggia. Avanti così allora, e basta divisioni tra gruppi, perché indietro non si torna. Abbiamo un appuntamento: il referendum. Andiamoci uniti e mandiamo a casa questi banditi.

Read Full Post »

copsanzioniDal 1890 al 1930, grazie al Codice Zanardelli, le norme per oltraggio, violenza e minaccia a pubblico ufficiale non si applicano, se il pubblico ufficiale ha causato la reazione abusando del suo potere. La prassi delude le attese, ma il problema storico del diritto di resistenza trova un riconoscimento legale, che il codice Rocco cancella e la Costituente ripropone. Il secondo comma dell’articolo 50, oggi 54, firmato da Dossetti, afferma, infatti, che «quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere dei cittadini».

Dopo le violenze di Crispi, la reazione del 1898, la «dittatura parlamentare» di Giolitti e il fascismo, il problema è così sentito, che i conservatori battono l’antifascismo «rosso» solo perché la DC vota con repubblicani e liberali, ma il dibattito è ancora attuale. Si prendano per esempio le parole lontane da un’assemblea nata dalla Resistenza con cui Orazio Condorelli mette agli atti il suo no:

«questo diritto di resistenza, che si manifesta attraverso insurrezioni, colpi di Stato, rivoluzioni, non è un diritto, ma la stessa realtà storica […]. Sono fatti logicamente anteriori al diritto».

Grazie alla «continuità dello Stato», uomini come Condorelli, internato dagli Alleati per la sua vicinanza al partito fascista, sono inseriti nel cuore della repubblica antifascista. Invano il democristiano Umberto Merlin ricorda che anche per San Tommaso

«il regime tirannico non è giusto, perché non è ordinato al bene comune ma al bene privato di colui che governa. Per tale ragione, il sovvertimento di questo regime non ha carattere di sedizione».

Benché il Vaticano, con i Patti del Laterano, abbia accolto il codice Zanardelli, i cattolici ripudiano Tommaso e i liberali tradiscono se stessi. Spiegando il suo voto contrario, infatti, Colitto assolve inconsapevolmente i carcerieri di Pertini e Gramsci affermando che

«qualunque sia il motivo da cui un cittadino possa essere indotto a disobbedire alla legge, legittimamente emanata, quel cittadino deve sempre essere considerato un ribelle e trattato come tale».

E’ Mortati a chiarire il senso del no: il dissenso non è sul merito del problema, ma sul metodo. Infatti, afferma il giurista,

«non è al principio che ci opponiamo, ma all’inserzione nella Costituzione di esso, e ciò perché a nostro avviso […] mancano nel congegno costituzionale i mezzi e le possibilità di accertare quando il cittadino eserciti una legittima ribellione al diritto e quando invece questa sia da ritenere illegittima».

Il comma non passa, ma la Costituente, che senza la Resistenza non sarebbe nata, non ritiene inammissibile il diritto alla resistenza contro l’oppressione, manifestazione del principio di quella sovranità popolare, che il divieto di ricorrere alla resistenza quale ultimo mezzo per ristabilire la legalità violata svuoterebbe di contenuti reali.
Mancano studi seri sul prezzo che la repubblica paga al principio della «continuità dello Stato», ma sappiamo che le conseguenze furono devastanti. Persino gli scienziati firmatari del Manifesto sulla razza conservano, infatti, cattedre e peso sociale. Gaetano Azzariti, presidente del Tribunale della razza, diventa Presidente della Corte Costituzionale, dove c’è il camerata Luigi Oggioni, Procuratore Generale della Repubblica di Salò. Non va peggio a Carlo Aliney, autore della legislazione razziale e capogabinetto all’Ispettorato della razza, promosso Consigliere di Corte d’Appello, Procuratore della Repubblica e giudice di quella Cassazione, di cui è Procuratore Generale Vincenzo Eula, che ha condannato Pertini, Parri e Rosselli per l’espatrio di Turati. In quanto alle forze dell’ordine, il capo dell’Ovra, Guido Leto, diventa direttore tecnico delle scuole di quella polizia che conferma tutti i funzionari fascisti, anche Marcello Guida, carceriere di Pertini e Terracini a Ventotene. A Milano, nel 1969, è lui il Questore, quando la pista fascista per la strage di Piazza Fontana è ignorata e Pino Pinelli «suicidato». Perché stupirsi se, dopo la vergogna di Genova nel 2001, De Gennaro, capo della polizia ai tempi della Diaz, è nominato sottosegretario di Stato con delega alla sicurezza e Spartaco Mortola, che a Genova guida la Digos, diventa Questore e comanda le cariche in Val di Susa?
In quanto alla Magistratura, mai epurata, si copre di vergogna, avviando una persecuzione feroce contro i partigiani; il 30 giugno 1946, sette giorni dopo la sua emanazione, ha applicato l’amnistia Togliatti a 7106 fascisti e 153 partigiani. Secondo dati approssimati per difetto, si giunge a 2474 fermati, 2189 arrestati e 1007 condannati, ma è certo che, tra il 1948 e il 1950, 15.000 oppositori politici sono condannati a 7.598 anni di carcere. La media supera quella del ventennio fascista. Nel 1966, quando gli effetti del Codice Rocco, sopravvissuto al regime, si trasformano in 12.981 lavoratori e 2.078 lavoratrici «perseguitati politici» in età repubblicana, diventa chiaro che l’Italia non ha mai fatto i conti con il fascismo.
Da un po’, negli archivi degli ospedali psichiatrici giudiziari spuntano fascicoli di partigiani che vi furono sepolti per la loro «pericolosità sociale», una formula indefinita, utilizzata da Rocco per colpire gli esponenti del dissenso e i comportamenti incompatibili con il modello fascista. Sciaguratamente lasciato in vita, il codice Rocco inchioda il controllo sociale al concetto di pericolosità e la giustizia penale è così securitaria e repressiva, che mentre la vita di una persona uccisa per omicidio colposo «vale» da 6 mesi a 5 anni di carcere, – quante morti bianche impunite! – il vetro di un bancomat, sfondato a calci in una manifestazione, diventa «devastazione e saccheggio», vale ben più di una vita e dal 2012 un ragazzo lo paga con 14 anni di galera. L’obiettivo è chiaro, ma calpesta i principi della Costituzione: difendere le classi dominanti. Costi quel che costi, anche una mostruosa sproporzione tra pena e reato. La pena è sempre abnorme quando si tratta di una «persona socialmente pericolosa», anche se il reato non c’è e l’imputato non è tecnicamente colpevole: paga, perché è un intralcio per il potere, perché un sistema giuridico che utilizza basi pseudo-scientifiche, consente ogni discriminazione sociale, politica, etnica, culturale o religiosa e colpisce individui e gruppi incompatibili con il pensiero dominante. Il fascismo lo utilizzò come arma per colpire il dissenso, i governi neoliberisti, osserva Giuliano Balbi, puntano contro disoccupati, lavoratori ridotti a servi, emigranti, emarginati, homeless, prostitute di strada, autori di graffiti, lavavetri ai semafori, vagabondi, tossici e adolescenti delle periferie, prove viventi degli esiti disastrosi delle politiche di governi come quello di Renzi, che producono solitudine, povertà, esclusione e disperazione.

Read Full Post »

14199400_886831634756834_717767921063507902_nNoi siamo ancora piccoli e non abbiamo chissà quali mezzi – tutte le nostre attività si basano sulla cooperazione e l’autofinanziamento, le libere donazioni e nessuno scopo di lucro – perciò tv, radio, giornali, spesso c’ignorano! Se ognuno di noi contattasse amici, parenti, conoscenti, che lavorano nel settore e fargli conoscere questa tre giorni potremmo essere più efficaci! Vedete voi che si può fare…noi v’aspettiamo il 9! 🙂

Je So’ Pazzo Festival, 9-11 settembre. Costruiamo Il Potere Popolare!

Da venerdì 9 a domenica 11 settembre all’ Ex OPG “Je so’ pazzo” di Napoli si svolgerà una tre giorni di dibattiti, workshop, cene, mostre, stand, teatro e concerti.

Saranno circa 50 le realtà collettive che vi prenderanno parte, arrivando da tutta Italia e non solo: sindacati, associazioni, centri sociali, comitati, coordinamenti di lavoratori, collettivi politici e studenteschi, radio indipendenti…

Tra gli ospiti saranno presenti Nicoletta Dosio (movimento NO TAV), Alp Altinörs, vicepresidente dell’HDP (partito della sinistra turca), Luigi de Magistris (sindaco di Napoli), Anna Falcone (avvocato), Giuseppe Aragno (storico), con cui si affronteranno diversi temi: riforma costituzionale, lavoro, immigrazione, mutualismo, cultura e formazione, potere popolare in Europa e nel mondo.

Peppe Servillo & Solis String Quartet si esibiranno in concerto il venerdì sera dalle ore 22:00, preceduti da proiezioni su Napoli dagli anni ‘80 ai giorni nostri (a cura di Immaginaria – sentieri e visioni su Napoli)

Pietra Montecorvino e gli Slivovitz si esibiranno sabato dalle ore 22:00, preceduti dallo spettacolo l’ “ABC della guerra” di Brecht (a cura del Teatro Popolare dell’Ex OPG “Je so’ pazzo”)

L’obiettivo è quello di far conoscere una Napoli ricca di potenzialità: la città e le suo patrimonio artistico, il suo cibo, la sua musica, ma soprattutto i tentativi che si stanno facendo qui per uscire da questa crisi che ci sta massacrando.

Un festival adatto a persone di tutte le età, anche con percorsi e storie diversi, accomunate però dalla voglia di cambiare questo Paese e costruire, dal basso, qualcosa di serio, di incisivo, che possa da subito ottenere dei risultati tangibili!

Read Full Post »

pistola_fumanteUn filo rosso percorre la Costituzione: uno spirito sociale e antifascista. Come e perché si è giunti alla decisione di cambiare? Non è un’idea nuova, ma quest’ultimo tentativo si inserisce in uno specifico contesto internazionale e diventa progetto operativo dopo un evento anomalo, che ha una data precisa. Cominciamo dal contesto internazionale.
Ormai è storia: dal dicembre del 2001 al luglio del 2003, la Convenzione Europea cerca invano soluzioni ai problemi istituzionali dell’Europa unita. I suoi membri, però, non sono eletti direttamente dai popoli ed è paradossale: l’organismo, nato per dare una mano di vernice democratica al processo di unificazione, non è un modello di democrazia. La Convenzione scrive una Costituzione, ma prima i Federalisti, che non sono certo nazionalisti, poi buona parte dell’opinione pubblica, puntano il dito: non è una Costituzione, si dice, ma un insieme di norme su economia e mercato. L’unica Istituzione eletta dal popolo è il Parlamento europeo, privo però di un vero potere di iniziativa legislativa, che spetta a una Commissione composta di membri di nomina governativa. Presto diventa chiaro che il documento non rispetta le Costituzioni democratiche delle nazioni aderenti, spesso più avanzate, e vincola i cittadini e gli Stati, più che le Istituzioni europee. Tutto sommato, è una discutibile bibbia neoliberista, che dà preminenza assoluta ai temi economici e capitalistici, non fa riferimento al ripudio della guerra e scarse, quando non assenti, sono le garanzie per lavoratori, immigrati e welfare state.
Sottoposta a referendum, la Costituzione riceve uno dietro l’altro i no della Francia e dei Paesi Bassi. Ero a Parigi, al tempo del «Grand debat» sull’identità europea e sul referendum per la Costituzione. Nulla di più lontano dal nazionalismo. Francesi erano Schuman, Monnet, Delors e Mitterrand. Se ora in Francia c’è la Le Pen, è perché l’Unione, invece di mutare registro, ha ripudiato il progetto. Dal punto di vista storico, la Convenzione Europea è l’equivalente di Costituente e la prova del fallimento storico dei tentativi di garantire legittimità democratica all’Unione e renderne le Istituzioni realmente rappresentative dei cittadini degli Stati membri. Ma la storia pesa sul futuro e non a caso l’Europa ha perso il Regno Unito e non ha una Costituzione.
In questo contesto si colloca un evento cruciale. Il 5 agosto 2011 Berlusconi, Presidente del Consiglio in carica, riceve una lettera riservata dal banchiere Jean Claude Trichet, cittadino francese senza ruoli politici riconosciuti dalle nostre leggi; a Trichet fa da spalla Draghi, un italiano di cui si sa solo che ha le mani in pasta nel disastro greco e nessuno l’ha eletto in ruoli politici. Rispettivamente presidente e vice presidente della Banca Centrale Europea, i due si occupano di monete, cambi, regolarità dei sistemi di pagamento e vigilanza sugli enti creditizi negli Stati membri. Nessun titolo per «consigliare» scelte politiche ai capi di Governo.
La lettera contiene una terapia per malati da rianimare; i farmaci sono misure antispeculazione che l’Italia deve attuare «con urgenza», per «rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità del bilancio e alle riforme strutturali». Intrugli miracolosi da medico cerusico: liberalizzazioni; riforma del mercato del lavoro e della contrattazione collettiva, per adeguare salari e condizioni di lavoro alle pretese delle aziende; revisione delle norme sul licenziamento, tagli per sanità, giustizia e istruzione, riforma delle pensioni, e, se occorre, riduzione degli stipendi. Per ricette come queste è andato in malora ormai mezzo mondo e, ciò che più conta, i farmaci sono inconciliabili con le regole di casa nostra. I rischi d’incostituzionalità sono dietro l’angolo, perché da noi il lavoro è valore fondativo della Costituzione, che lo tutela, fissa principi di sufficienza e proporzionalità della retribuzione, riconosce pari diritti a lavoratori e lavoratrici e affida alla repubblica il compito di curarne la formazione e l’elevazione professionale. Né va meglio per le liberalizzazioni, che potrebbero fare i conti con la tutela della salute dell’individuo, dell’interesse collettivo e della salubrità dell’ambiente, minacciati dall’inquinamento che con il «libero mercato» ha molto da spartire. Senza contare la necessità di «stabilire equi rapporti sociali», il trasferimento «allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti di […] imprese che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energie» che «abbiano preminente interesse generale». Certo, la Costituzione non assegna ai lavoratori e alle loro associazioni le terre espropriate, come propone alla Costituente il socialista Jacometti, e non accoglie l’invito a «rompere il sistema» giunto da Di Vittorio; l’on. Taviani, anzi, rassicura l’Assemblea: non c’è un «intervento dello Stato per la socializzazione»; tuttavia, quando il liberale Epicarmo Corbino chiede di riferire l’imposizione di limiti alla proprietà in generale, abolendo la parola «privata», la risposta è rivelatrice: «il pericolo che si smarrisca il senso della funzione sociale riflette […] la proprietà privata».
Per quanto riguarda, poi, l’istruzione, complemento necessario del suffragio universale, essa ha un ruolo vitale e Calamandrei individua in un articolo che la riguarda, il n. 34, il più importante della nostra Costituzione. L’apparente semplicità del testo – «La scuola è aperta a tutti. I capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi» – è un baluardo contro ogni tentazione autoritaria; è la scuola, infatti, solo la scuola che «può aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali», sicché la classe dirigente non «sia una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine», ma risulti «aperta e sempre rinnovata dall’afflusso verso l’alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie». Prima di tutto, quindi, scuola di Stato, perché, recita l’art. 33, è la Repubblica che «detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi». La scuola di Stato, però, non è estranea al disegno di una società democratica ed è, anzi, lo strumento principale per la realizzazione di due articoli fondamentali, il n. 3 per il quale, «tutti i cittadini hanno parità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politica, di condizioni personali e sociali» e il n. 51, che così recita: «tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge». A scuola, nella scuola di Stato, si forma il sentimento di eguaglianza civica e si crea il rispetto di tutte le opinioni e di tutte le fedi. «Quando la scuola pubblica è così forte e sicura», scrive Calamandrei, allora, ma allora soltanto, la scuola privata non è pericolosa. Allora, […] può essere un bene».
Trichet e la sua lettera rientrano perfettamente nell’area privata che Calamandrei definisce «pericolosa»; è l’esponente di una scuola economica che abolisce la mediazione e sostiene una concezione classista e autoritaria della società. Per Trichet contano le leggi del mercato e la sua idea di società si fonda su principi che non si discutono e non prevedono conflitto. Per la nostra Costituzione il conflitto è un valore e la mediazione una legge di cambiamento; per Trichet la libertà si misura sul mercato, mentre la Costituzione della Repubblica regola il mercato e lo subordina ai diritti della società nel suo insieme. Trichet è l’equivalente di quello che Calamandrei definisce «partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura». Non a caso Renzi si è inventato la «buona scuola» e ha messo in ginocchio la scuola statale. Formando i giovani al senso critico e all’autonomia di pensiero, educa alla «resistenza» e produce «conflitto».
L’Europa di Trichet non ha una Costituzione, l’Italia ce l’ha, è antifascista ed è pensata per contrastare ogni forma di autoritarismo. Non potendo farne a meno, come si è potuto fare per l’Europa, bisogna se non altro cambiarla. E’ questo l’ultimo, velenoso intruglio che Trichet «consiglia» al nostro Governo. Un veleno che Renzi somministra volentieri al Paese con intenti eversivi: rompere gli equilibri e rafforzare il Governo.

Fuoriregistro, 4 settembre 2016

Read Full Post »

Dal Blog di Carlo Mazzucchelli

Dal Blog di Carlo Mazzucchelli

«Non è ammessa la pena di morte». Così recita, lapidario, l’articolo 27 della Costituzione. E sai che ha dietro Beccaria, il secolo dei lumi e valori universali. L’articolo 37, che riconosce alle donne «gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore», non sarebbe nato senza Anna Kulisciov, Argentina Altobelli, Maria Montessori, Anna Maria Mozzoni, Lina Merlin, Teresa Mattei e tante altre donne. Tutto oro, quindi? No. Dietro c’è anche quella «essenziale funzione familiare», che fa della donna anzitutto la moglie e la madre, e ci sono i limiti del movimento operaio, con Di Vittorio che fino al ‘45 ritiene demagogica la parità salariale. Anche l’articolo 29, che fonda il matrimonio «sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi», reca i segni dei colpi di conservatori come Vittorio Emanuele Orlando, per il quale «finirà per prevalere l’anarchia», e persino di Togliatti, che, per motivi tattici, definisce il divorzio «innaturale e anzi dannoso». Molti hanno votato «sì» con una riserva mentale: per le leggi ordinarie, la donna è ancora soggetta al marito e l’articolo è indebolito da un comma che richiama «i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare». Limiti che il cattolico Camillo Corsanego fissa nella «naturale gerarchia della famiglia», in cui «ci vuole pure qualcuno […] che dia il cognome, che scelga il domicilio, che abbia diritto di rappresentanza, che amministri i beni dei minori». Divorzio, riforma del diritto di famiglia e aborto verranno negli anni Settanta.
L’articolo 51, che prevede l’accesso a tutte le carriere senza distinzione di sesso, è una vittoria storica che rimanda a Lidia Poët, Teresa Labriola e alla loro lotta per esercitare la professione di avvocato, ma la partita non è vinta se, nel ’69, Mortati, difendendo Rosa Oliva, otterrà che si cancelli la legge che esclude le donne dalla magistratura e dalla carriera militare.
La Costituzione non cambia il Paese nascendo, ma impegna al cambiamento la legge futura; è un «programma» da attuare, uno strumento da utilizzare. Tornare indietro, tenendosi il Codice Rocco, invocando il feticcio della «governabilità» e la foglia di fico dei «principi» che non si sono toccati, significa arretrare. Abbiamo visto quanto pesa sull’articolo 41 la cancellazione dell’articolo 99, ma è facile immaginare gli effetti devastanti che avrebbe sull’intero impianto l’abolizione della XII disposizione, che vieta la riorganizzazione del partito fascista. Non si tratta di un principio fondante, ma individua un disvalore in contrasto con ogni valore su cui fonda la Costituzione. Chi l’ha scritta conosceva la storia, sapeva che pochi anni prima il nazifascismo aveva utilizzato istituti democratici per cancellare la democrazia, perciò volle un corpo unico e organico di norme unite tra loro da un criterio di «socialità» che ispira ogni sua parte. Non c’è un articolo che ne parli, ma la cultura dell’antifascismo è la sua anima vera.
Se le cose stanno così, perché invece di attuarla pienamente, si vuole cambiarla? La risposta è semplice: per la sua natura «sociale», perché il lavoro è il cuore della Repubblica e l’utilità sociale prevale sull’utile aziendale. Perché disegna uno Stato interventista, garante di equilibri democratici e protagonista in campo economico e sociale. Un’idea antifascista, nemica di ogni assolutismo, dice il cattolico Tosato alla Costituente, parlando di bicameralismo: «come v’è stato un assolutismo monarchico, così si potrebbe avere un assolutismo democratico, se tutti i poteri fossero concentrati in un solo organismo. Di qui la necessità, una volta approvato il sistema bicamerale, di istituire una seconda Camera con i medesimi poteri della prima». E’ una scelta di fondo, un «principio», ma anche un elemento di riflessione: la Costituzione non è un corpo imbalsamato, si può cambiare. Mettere mano al Senato, però, nei modi e con le ragioni che accampa il Governo vuol dire mettere mano all’equilibrio del sistema.

Read Full Post »