«Ras»di Ferrara fu Italo Balbo, un vero modello dell’«uomo nuovo fascista». S’era fatto d’un fiato il cursus honorum del gerarca sanguinolento: scampoli di gloria feroce tra i volontari della carneficina nella «grande guerra», capo riconosciuto delle «squadracce» al soldo degli agrari quando bastonature e omicidi d’inermi avversari politici mostravano il «senso dello Stato» del primo fascismo, comandante generale della Milizia nel 1923. Implicato nell’assassinio di Don Minzoni, passò poi dalla Milizia al Parlamento e presto giunse al governo.
A Ferrara il 26 sono ritornati gli squadristi. Balbo mancava, è vero, ma s’è trovato un sostituto degno. Rivendicavano il diritto d’ammazzare impunemente e non a caso il colpo vibrato in piazza era assassino: mirato al cuore d’un madre – l’immensa Patrizia Aldovrandi – per fermarne il palpito di dignità, la passione e l’indomito coraggio. Chi ha voluto vederla, l’ha vista bene l’Italia di questi tempi bui: un Paese nel quale l’umanità spesso è donna, ma molto più spesso si perde in una divisa che mostra i distintivi della guerra. La guerra, sì, che la Costituzione ripudia ma offre la leva per la polizia della repubblica antifascista: Medio Oriente, Balcani e Afghanistan. Un’Italia in cui la Caporetto dei valori della Resistenza – di questo ormai si tratta, non di altro – non si spiega semplicemente col berlusconismo, ma chiama alla mente – ed è un morire di dolore – Piero Gobetti e la sua terribile sentenza: il fascismo malattia congenita della nostra storia, la natura elitaria del Risorgimento, un potere mai saldo in mano al «popolo sovrano» e sempre molto lontano dai cittadini. Chiama alla mente lontani maestri, appena tornati in armi dai monti partigiani e subito impegnati a scrivere una Carta Costituzionale tesa a colmare lo storico deficit di partecipazione. Quella Costituzione che ormai non conta più..
A Ferrara s’è potuto vedere con plastica evidenza: la crisi economica procede di pari passo con lo smantellamento della democrazia. Si sono visti chiari i segnali d’asfissia d’una politica priva di respiro ideale e s’è misurato l’abisso che ci attende, se non sapremo restituire al dibattito sullo stato dell’economia, il contributo decisivo di storici e filosofi. In un Paese che dopo la Liberazione non mandò a casa sciarpe littorie, sansepolcristi, scienziati della razza, questori, prefetti e magistrati mussoliniani e chiamò a presiedere la Corte Costituzionale quell’Azzariti già capo del «tribunale della razza», sono vent’anni ormai che, a parlare d’antifascismo, si disturba il manovratore. Vent’anni che si batte la grancassa su una inesistente ferocia partigiana e si trova la sinistra consenziente. Mentre Veltroni e i suoi cancellavano dalle rare sedi del «partito liquido» persino il ricordo dei partigiani – si fa un gran parlare di donne, ma a Napoli il PD ha eliminato dalla sua sede la partigiana Maddalena Cerasuolo – l’accademia s’è adeguata e c’è chi è giunto all’anatema: i partigiani padri della patria, tutti per vie diverse compromessi col gulag, non hanno la statura morale per parlare ai nostri giovani.
In questo clima, dopo le acrobazie dei lacrimogeni sui tetti del Ministero di Grazia e Giustizia, le violenze di Napoli e Genova e gli indiscriminati attestati di stima agli immancabili servitori dello Stato, più che la resurrezione di Balbo a Ferrara, stupisce lo stupore sbigottito di chi solo oggi intuisce l’esito fatale di un vergognoso revisionismo. Perché meravigliarsi della polizia, dopo che s’è voluto ridurre l’antifascismo a una questione privata tra veterocomunisti e neosquadristi, dopo l’armadio della vergogna e l’inascoltato allarme di Mimmo Franzinelli, che ci ha ammonito sul significato profondo d’una amnistia che fu colpo si spugna e sancì la continuità con lo Stato fascista? Rinnegata la propria storia, attestata a difesa di un’Europa che Spinelli ripudierebbe, collocato in soffitta Marx per far le fusa al liberismo targato Monti, era fatale che la polizia tornasse alla tradizione dell’Italia liberalfascista e si facessero nuovamente i conti con Frezzi massacrato di botte, Acciarito torturato e Bresci suicidato.
Qui non si tratta di solidarietà di corpo e nemmeno di forme estreme di «nonnismo» da caserma. Emilio Gentile l’ha spiegato chiaramente: la mistica fascista del cameratismo fu il fulcro di una identità nuova che, nel cuore d’una crisi, fuse in anima collettiva l’individualismo solitario dell’eroe, sicché i «rigenerati della guerra» pretesero di essere «rigeneratori della politica». Quand’è che il Parlamento pretenderà che si accenda la luce sui meccanismi di reclutamento delle forze dell’ordine e sulla loro formazione culturale e politica?
Uscito sul “Manifesto” il 29 marzo 2013